Quer pasticciaccio brutto del regionalismo italiano

Mario Dogliani[1]

1. La questione del regionalismo differenziato procede nel suo iter parlamentare, lontano dai riflettori del dibattito pubblico per la vigile attenzione dei giornalisti pettegoli delle TV e degli azzeccagarbugli del giornalismo scritto. Il Mezzogiorno, che sta per ricevere una fregatura epocale, è in altre faccende affaccendato, in attesa del reddito di cittadinanza. Per fortuna un Davide ha lanciato un sasso, ma Golia è troppo alto per essere colpito: Giancarlo Viesti ha pubblicato un – come usava dire – un aureo libretto: Verso la secessione dei ricchi? Autonomie regionali e unità nazionale, Laterza, Bari-Roma, 2019, che può essere scaricato gratuitamente dal sito www.laterza.it. Ne ha fatto una approfondita recensione Francesco Pallante, che pubblichiamo in questo numero della rivista. In 52 pagine Viesti spiega con chiarezza e ricchezza di dati quel che non molti hanno scritto (Anna Maria Poggi ed Enrico Grosso su questa rivista, Massimo Villone a più riprese su il manifesto): che l’autonomia differenziata non è una questione tecnico-amministrativa, ma un processo di grande – anzi, di “capitale” – significato politico perché potrebbe mettere in discussione il principio di uguaglianza tra gli italiani nella fruizione di alcuni grandi servizi pubblici nazionali: proprio di quei servizi che siamo soliti chiamare “le istituzioni dell’uguaglianza”, a partire dalla scuola. Le richieste di maggiore autonomia da parte di alcune regioni potrebbero colpire, cioè, le condizioni di vita dei cittadini italiani che vivono in altre regioni, fino a mettere in pericolo la stessa unità del paese. Non è dunque una frase ad effetto, uno slogan semplificante che mira a generare sconcerto, l’espressione che definisce questo fenomeno come “la secessione dei ricchi”.

 

2. Su “quer pasticciaccio brutto” che è la vigente normazione italiana (costituzionale, legislativa e giurisprudenziale) in materia di Regioni ed Enti locali sta dunque calando un ulteriore fattore di confusione e di disuguaglianza. L’Institut Montaigne, di Parigi, nel gennaio 2016, ha pubblicato un Rapporto dal titolo “Décentralisation: sortons de la confusion“. Se in Francia – dove la situazione è molto meno intricata che in Italia – si sente il bisogno di uscire dalla confusione, sarebbe forse necessario che anche nel nostro Paese qualcuno si proponesse questo obiettivo. Invece avviene il contrario: il principio di uguaglianza formale viene spappolato, e quello di uguaglianza sostanziale letteralmente rovesciato, e sostituito da quello: “a chi più ha, più sarà dato”. Il tutto sempre più ingarbugliato da leggine, sentenzine e noticine.

 

3. Nel 1952 giunsero nel mio paese, nell’astigiano, i primi veneti, che erano stati colpiti nel novembre dell’anno precedente dalla catastrofica alluvione del Polesine, e non avevano letteralmente più niente. Si integrarono presto, ma la miseria in cui vivevano, facendo i mezzadri di proprietari poveri quasi come loro, mi è rimasta negli occhi. Eravamo a sei anni dalla fine della guerra. È opportuno ricordarlo per valutare i cambiamenti intervenuti. La solidarietà nazionale c’era ancora. Nel giugno 2014 il Consiglio Regionale del Veneto ha approvato due leggi per indire referendum consultivi. La prima, l. 15/2014, sui seguenti 5 quesiti: 1) “Vuoi che alla Regione del Veneto siano attribuite ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia?”; 2) “Vuoi che una percentuale non inferiore all’ottanta per cento dei tributi pagati annualmente dai cittadini veneti all’amministrazione centrale venga utilizzata nel territorio regionale in termini di beni e servizi?”; 3) “Vuoi che la Regione mantenga almeno l’ottanta per cento dei tributi riscossi nel territorio regionale?”; 4) “Vuoi che il gettito derivante dalle fonti di finanziamento della Regione non sia soggetto a vincoli di destinazione?”; 5) “Vuoi che la Regione del Veneto diventi una regione a statuto speciale?”. La seconda, la 16/2014, indiceva un referendum sul quesito: “Vuoi che il Veneto diventi una Repubblica indipendente e sovrana?”. La Corte Costituzionale (sent. 118/2015) ha dichiarato illegittima la l. 16/2014 (referendum sull’indipendenza) e la l. 15/2014, relativamente ai quesiti da 2 a 5; consentendo lo svolgimento del referendum solo sul primo (“siano attribuite ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”). Il referendum si è tenuto il 22.10.2017; ha votato il 57,2% degli aventi diritto, il 98% dei quali (2.273.000 elettori) ha votato per il sì.

 

4. Il 17 febbraio 2015 il Consiglio Regionale della Lombardia ha avviato un referendum consultivo sul quesito: “Volete voi che la Regione Lombardia, in considerazione della sua specialità, nel quadro dell’unità nazionale, intraprenda le iniziative istituzionali necessarie per chiedere allo Stato l’attribuzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, con le relative risorse, ai sensi e per gli effetti di cui all’articolo 116, terzo comma, della Costituzione, e con riferimento a ogni materia legislativa per cui tale procedimento sia ammesso in base all’articolo richiamato?”. Il referendum si è svolto lo stesso giorno di quello veneto. Ha votato il 38,3% degli aventi diritto, il 95% dei quali (2.875.000 elettori) per il sì.

 

5. Anche le regioni Emilia-Romagna, Piemonte, Liguria, Toscana, Marche, Umbria, Lazio, Campania, Basilicata, Puglia hanno avviato, in forme varie, più o meno solenni o titubanti, richieste di ulteriori competenze. Solo in Abruzzo e Molise non è stata presa alcuna iniziativa.

 

6. Il quesito lombardo è molto più “elegante” di quello veneto, e molto più moderato nella sostanza, perché non fa cenno al mantenimento presso la Regione di almeno l’ottanta per cento dei tributi riscossi nel territorio regionale. Sembrerebbe che si presentino così, nettamente divaricate, le due possibili strade che si potrebbero percorrere. La prima, quella lombarda, concettualmente più semplice, sembrerebbe prevedere che: posto che la singola “ulteriore competenza x”, che si voglia attribuire alla regione, ha un costo per lo Stato di y, alla regione verrà trasferita, unitamente alla competenza x, la somma y. La regione si accolla una nuova funzione allo stesso costo che essa aveva per lo Stato: se riuscirà ad effettuare risparmi e/o a migliorarne l’esercizio, buon per lei e i suoi cittadini. Lo Stato non subisce alcun depauperamento, perché il costo di quella funzione (posto che non sia inutile e cervellotica e dunque opportunamente revocabile prima del trasferimento) avrebbe comunque gravato sul suo bilancio, e quindi la sua capacità redistributiva rimane intatta. Non viene dunque concettualmente toccato il residuo fiscale, perché il costo di quella funzione era già conteggiato nella spesa sostenuta dallo Stato in quella regione. La proposta veneta è invece proterva: prevede(va) che una quota fissa del gettito fiscale (l’80 %) riscosso nella regione restasse alla regione stessa. L’attribuzione di ulteriori competenze è un fronzolo per coprire questa verità. Il trasferimento di ulteriori competenze non è lo strumento per sostituire – a parità di costi – l’ente pagatore regione all’ente pagatore Stato (con le ovvie possibilità, per la regione, di effettuare incrementi di efficienza-efficacia-economicità), ma è lo strumento per incrementare la quota di tributi trattenuta dalla regione (senza vincolo di destinazione).

 

7. Il Veneto sembrerebbe dunque l’anima nera della secessione dei ricchi, ma non è così, perché la contrapposizione sopra delineata non è del tutto vera. Stando a quanto sostenuto dall’allora Presidente della Regione Lombardia, Roberto Maroni, nel corso di un’audizione parlamentare: «la campagna elettorale referendaria è stata segnata dal tema del residuo fiscale, ossia la differenza tra quanto i cittadini lombardi pagano di tasse e quanto ricevono complessivamente dallo Stato. Si tratta di un residuo fiscale molto rilevante, ossia 54 miliardi di euro l’anno, e si è pensato di conseguire almeno la metà di questo residuo fiscale, ovvero 27 miliardi, per finanziare le nuove competenze e le nuove materie»[2]. Che le proposte lombardo-venete, così impostate, esplicitamente o implicitamente, siano eversive è riconosciuto dal Presidente della Giunta regionale dell’Emilia Romagna, il quale ha affermato che non è opportuno: «minare i capisaldi dell’ordinamento costituzionale, in primis il principio perequativo – che regola i meccanismi di finanziamento delle funzioni pubbliche territoriali – e i valori solidaristici e cooperativi su cui è fondato»; e che quindi è necessario «che l’attribuzione di nuove competenze e delle correlate risorse non determini squilibri a discapito di altre Regioni»: principi, questi, che sono «alla base della scelta della Regione Emilia-Romagna in ordine all’estensione delle materie rispetto alle quali chiedere maggiori spazi di autonomia»[3]. Si rende conto, il Presidente della Giunta regionale dell’Emilia-Romagna, che cosa significa: «minare i capisaldi dell’ordinamento costituzionale»? Evidentemente no. Altrimenti, come potrebbe accodarsi a iniziative che egli stesso giudica mirare a quello scopo? E lo stesso vale per le altre regioni che si sono messe diligentemente in fila. Ma, in ogni caso, questa affermazione è indice di confusione perché il principio perequativo non è minato dall’estensione delle materie rispetto alle quali chiedere maggiori spazi di autonomia

 

8. Il 28.2.2018 il Governo Gentiloni ha concluso una pre-intesa con il Veneto, la Lombardia e l’Emilia-Romagna. Una per ciascuna di esse. Riguardano cinque materie: politiche del lavoro, istruzione, salute, tutela dell’ambiente, rapporti internazionali e con l’Unione Europea. I punti nodali sono due. Il primo è che – avendo le intese una durata decennale – possono essere modificate in qualunque momento di comune accordo tra lo Stato e la Regione. Il secondo è che le risorse andranno determinate da una Commissione paritetica Stato-Regione, sulla base «di fabbisogni standard […] che progressivamente, entro cinque anni, dovranno diventare, in un’ottica di superamento della spesa storica, il termine di riferimento, in relazione alla popolazione residente e al gettito dei tributi maturato nel territorio regionale in rapporto ai rispettivi valori nazionali, fatti salvi gli attuali livelli di erogazione dei servizi».

 

9. Dov’è, dunque, che il disegno denominato asetticamente “attuazione dell’art. 116 terzo comma” mina i capisaldi dell’ordinamento costituzionale? Non, in sé, nell’attribuzione di ulteriori competenze, giacché questo potrebbe esaurirsi nella sostituzione dell’ente organizzatore/pagatore (non più lo Stato, ma le regioni, a parità di risorse spese nei diversi territori) ma nel collegamento dell’ammontare finanziario da trasferire alle regioni richiedenti al gettito dei tributi maturato nel territorio regionale. Certo, la mera sostituzione dell’ente pagatore/organizzatore pone anch’essa molti e gravi problemi, inerenti alla opportunità di regionalizzare competenze che – nell’ottica di riaffermare quel che c’è di irrinunciabile nella funzione dello Stato-nazione – sarebbe meglio mantenere in capo allo Stato stesso, in quanto rappresentante “istituzionale” (e cioè plasmatore, facitore) della nazione rappresentata. Nazione intesa, a scanso di equivoci, nel suo significato artificialista, volontarista, elettivista, universalista, integrazionista – in cui l’identità nazionale è concepita come identità politica, e la cittadinanza è definita dallo ius soli – e non nella sua concezione naturalista, tradizionalista, nativista, particolarista e differenzialista – in cui l’identità nazionale è concepita come identità culturale e la cittadinanza è definita dallo ius sanguinis. L’ignoranza del nostro tempo fa credere che questo secondo – blut und boden – sia l’unico significato del termine nazione; ma non è affatto così. Tornando al nostro tema, al di là delle questioni di opportunità circa la centralizzazione o meno di determinate funzioni (in primis l’istruzione), la lesione del principio di uguaglianza – perseguita dolosamente perché non è per nulla necessitata dalla pur farraginosa lettera dell’art. 116 – sta, e va ribadito, in quell’insidiosocollegamento tra l’ammontare finanziario da trasferire alle regioni richiedenti e il gettito dei tributi maturato nel territorio regionale. In cauda venenum. Immaginiamo che vengano esattissimamente definiti i costi standard delle singole funzioni. La determinazione delle risorse destinate al loro finanziamento non dipenderà più solo dall’ammontare dei costi standard e dall’ammontare della popolazione (due dati oggettivi e universali), ma anche dell’ammontare del gettito dei tributi maturato nel territorio della regione richiedente. Appunto: a chi più ha, più sarà dato. Funzioni vitali per tutti i cittadini italiani verranno finanziate diversamente a seconda della maggiore ricchezza del territorio di residenza. A ciò si aggiunga che la determinazione di tali risorse avverrà ad opera non del Parlamento (in dispregio del principio quod omnes tangit, ab omnibus comprobetur), ma di una commissione paritetica, e – ciliegina finale, in omaggio all’antiparlamentarismo dominante – con l’impossibilità per il parlamento (e il governo) di legiferare in materia senza l’assenso della Regione per dieci anni.

 


 


[1] Professore emerito di diritto costituzionale dell’Università degli studi di Torino.

 

[2] Commissione parlamentare per le questioni regionali, “Documento conclusivo dell’indagine conoscitiva sull’attuazione dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione, con particolare riferimento alle recenti iniziative delle Regioni Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna”, 6.2.2018, pag. 32, cit. da G. Viesti, Verso la secessione dei ricchi? Autonomie regionali e unità nazionale, Laterza, Bari-Roma, Edizione digitale gennaio 2019, www.laterza.it, pag. 20.

 

[3] Ivi, pag. 26 e pag. 32.