Le prospettive di riforma del bicameralismo italiano

Lorenza Violini1

1. Bicameralismo: le ragioni del suo mantenimento

La riflessione circa la riforma dell’attuale sistema bicamerale italiano non può che ripartire dall’interrogativo, già presente in sede Costituente e ampiamente ripreso nei lavori della Commissione per le Riforme costituzionali, riguardante la necessità del mantenimento di un sistema bicamerale ovvero del suo superamento in favore di un sistema monocamerale.

Scelta questa per nulla ovvia sol che si pensi che il modello bicamerale (pur con tutte le varianti che presenta) è adottato a livello comparato da una minoranza di Paesi (sebbene tra questi vi siano i più2 popolosi e sviluppati), mentre la maggioranza dei Paesi è fondato su un sistema monocamerale. Non solo, ma a livello comparato si assiste ad un tendenziale abbandono dei sistemi bicamerali in favore di quelli monocamerali. Si pensi per esempio alla Danimarca (1953), alla Svezia (1975), alla Grecia (1975) e al Portogallo (1976). O addirittura all’adozione di formule monocamerali “larvate”3 come nel caso dell’Islanda e della Norvegia dove le due assemblee sono in realtà sezioni di una sola Camera.

Non solo ragioni puramente numeriche fanno riflettere sull’opzione monocamerale. Vi sono anche rilievi relativi ai ben noti limiti mostrati nel tempo dell’assetto bicamerale italiano, un bicameralismo, per usare le parole di Crisafulli, “assurdo e ingombrante”. Tra i limiti ben noti vi sono l’appesantimento del procedimento legislativo, determinato dalla natura paritaria del bicameralismo nostrano, l’instabilità insita nel sistema fiduciario bicamerale, che lega il Governo ad entrambi i rami del Parlamento, la natura pressoché identica della rappresentanza nelle due Camere con esclusione di una rappresentanza realmente territoriale e, non da ultimo, l’eccessivo numero di parlamentari e senatori con la relativa moltiplicazione dei costi.

Sembrano riecheggiare sullo sfondo degli attuali argomenti contro il bicameralismo le parole di Seyes: se la seconda camera concorda con la prima, è inutile. Se è in disaccordo è dannosa4.

Questi limiti del sistema bicamerale italiano potrebbero certamente ben essere superati dal passaggio a un modello monocamerale, come del resto prefigurato anche in sede di Commissione per le riforme da alcuni suoi autorevoli membri. Secondo tale opinione, l’opzione monocamerale “garantirebbe una maggiore semplificazione del sistema istituzionale e quindi una migliore stabilizzazione della forma di governo”, nonché renderebbe più agevole il processo di riforma. Si tratti di argomenti validi e fondati che, tuttavia, non paiono costituire argomenti decisivi a sostegno dell’abbandono del bicameralismo.

Tutti i limiti dell’attuale bicameralismo potrebbero invece essere superati dal passaggio da un bicameralismo paritario a uno differenziato, distinguendo, da un lato, nettamente le funzioni delle due Camere e dall’altro riconoscendo a solo una delle due Camere il legame fiduciario con il governo, come per esempio avviene in Germania. Inoltre, sempre sulla via della differenziazione, sarebbe non solo possibile, ma anche auspicabile, come da più parti sottolineato, operare un intervento strutturale dell’attuale assetto, assegnando alla seconda Camera una rappresentanza di natura territoriale, invece che di carattere nazionale. Del resto proprio la differenziazione della rappresentanza (inizialmente di ceti e classi sociali diverse), è alle origini del bicameralismo5.

A ciò si aggiunga che il monocameralismo non pare del tutto coerente con l’architettura del nostro modello costituzionale, sia quello delineato dai Costituenti, sia quello definito dalle riforme dei decenni passati (processi di decentramento amministrativo, riforma del titolo V, rivalutazione del sistema delle autonomie in senso ampio (territoriali, funzionali)…

Pur ovviamente non potendo essere annoverato tra le forme di stato federali, il modello italiano è, infatti, costruito, potremmo dire geneticamente, sulla dialettica tra centro e periferia, tra Stato e autonomie, tra uniformità e differenziazione e le riforme cui sopra si accennava non hanno fatto che rafforzare questo dato.

Una riforma del nostro sistema bicamerale non può dunque trascurare questo tratto del DNA del sistema italiano, ma anzi, partendo dai limiti dell’attuale bicameralismo, dovrebbe rafforzarlo e “istituzionalizzarlo” in una Camera rappresentativa proprio degli interessi locali, decentrati, differenziati.

Del resto la valorizzazione delle componenti periferiche dello stato è, secondo molti, la vera ragion d’essere di un sistema bicamerale: come nota Lippolis, infatti, “tutte le motivazioni che hanno portato in passato alla formazione di parlamenti bicamerali appaiono oggi superate o affievolite tranne quella che mosse i costituenti americani nel 1787, i quali per primi si trovarono di fronte al problema di dar forma all’istituzione parlamentare nel creare uno stato federale”6.

In altri termini “l’unico tipo di Stato nel quale il bicameralismo sembri essere attualmente necessario per definizione, è quello costituito dagli ordinamenti federali o che si autodenominano tali (o sono comunque contraddistinti da un forte grado di decentramento)”7.

Il bicameralismo è dunque un principio legato a filo doppio alla natura federale e regionale di uno Stato.

Non così evidente invece è il legame tra bicameralismo paritario e forma di governo parlamentare. Anzi il bicameralismo paritario si riscontra in forme di governo “diverse da quella parlamentare”8: si ritrova infatti negli Stati Uniti retti da un governo presidenziale, e in Svizzera, retta da un governo direttoriale. Sistemi, questi, in cui è assente il legame di fiducia tra parlamento e governo, avendo questo una durata fissa di quattro anni.

Un’altra funzione che rende altamente auspicabile il mantenimento della struttura bicamerale, era già stata efficacemente individuata dal c.d. Gruppo di Milano, negli anni ‘80. Si legge, infatti, in “Verso una nuova Costituzione” che “l’unica giustificazione razionale dell’esistenza del Senato della Repubblica (oltre a quella naturalistica, costituita dalla necessità di sistemare i componenti della classe politica), sta proprio nella garanzia della “doppia lettura”, contro il pericolo dei colpi di mano di un legislatore unico, solitario (e quindi onnipotente)”, p. 47.

Il vero nodo critico pare, dunque, quello di ripensare al ruolo del Senato, rendendolo coerente con gli aspetti ora messi in luce.

Ciò è possibile introducendo soluzioni sia funzionali che istituzionali che possano correggere le distorsioni e i limiti dell’attuale bicameralismo, muovendo in particolare verso l’introduzione di un modello di bicameralismo differenziato, tanto nelle funzioni delle due Camere, quanto nella loro composizione.

2. Le funzioni del Senato

Una prima linea di differenziazione dovrebbe riguardare le funzioni del Senato, sia quelle legislative sia quelle elettive.

Con riferimento alla funzione legislativa si potrebbe pensare ad una differenziazione non tanto in riferimento alle materie (che sarebbe foriera di incertezze e conflitti), quanto in riferimento alle diverse tipologie di leggi, secondo lo schema già prefigurato nella c.d. Bozza Violante9 e ripreso nella relazione finale della Commissione per le riforme.

Si potrebbero prospettare in questa direzione, da un lato leggi bicamerali, in cui il Senato partecipi al procedimento legislativo in maniera paritaria alla Camera; dall’altro vi sarebbero altri tipi di leggi sui quali il Senato potrebbe esercitare un potere di richiamo al fine di proporre emendamenti e richiedere un riesame da parte della Camera.

Tra le leggi “bicamerali” sarebbero da annoverare, in particolare, le leggi Costituzionali e di revisione costituzionale, le leggi che riguardano l’ordinamento e le funzioni di Regioni e autonomie locali e le leggi che dettano norme di procedura per l’attuazione degli atti normativi comunitari (art. 117, c. 5).

In caso di dissenso tra le due Camere dovrebbe, inoltre, vedersi l’istituzione di commissioni di conciliazione, sul modello tedesco.

Tra le leggi non bicamerali vi sarebbero, in via residuale, tutte le altre leggi che non rientrano nella prima categoria. In questo caso il Senato, tramite il potere di richiamo, dovrebbe avere la facoltà di proporre emendamenti e anche di respingere il testo approvato dalla Camera, salvo però la possibilità della Camera stessa di superare l’opposizione del Senato e comunque mantenendo in capo ad essa la deliberazione finale.

Per quanto riguarda le funzioni elettive, il Senato dovrebbe continuare a prendere parte alle all’elezione dei membri del CSM, dei giudici della Corte costituzionale e all’elezione e alla messa in stato di accusa del Presidente della Repubblica.

Infine, per quanto riguarda il circuito fiduciario che lega il Governo alla Camera politica, la Seconda Camera dovrebbe esserne esclusa, mentre, in un’ottica di checks and balances, le dovrebbero essere riconosciuti effettivi poteri di controllo. Tra questi, come ampiamente rilevato in sede di Commissione per le Riforme, devono annoverarsi il potere di inchiesta parlamentare e la funzione di controllo sull’attuazione delle leggi e sugli andamenti di finanza pubblica.

In riferimento al potere di gestione finanziaria, aspetto che si ritiene decisivo, si dovrebbe valorizzare, da un lato il vincolo di bilancio regionale e dall’altro la Commissione Permanente per il coordinamento della finanza pubblica, prevista dall’art. 5 della legge n. 42 del 2009 e istituita nell’ambito della Conferenza unificata dal d.lgs. n. 68/2011.

A questo proposito, si reputa auspicabile il mantenimento del sistema della Conferenze, anche a fronte dell’istituzione di una seconda Camera rappresentativa delle Regioni, in quanto esse costituiscono, a prescindere dalla configurazione del sistema bicamerale, sedi fondamentali di negoziazione politica e gestione degli accordi tra Stato e autonomie.

3. Le possibili soluzioni istituzionali: tra modelli “puri” e soluzioni “ibride”

La seconda linea di differenziazione del nostro sistema bicamerale dovrebbe riguardare il nodo delle soluzioni istituzionali e quindi in particolare i criteri di composizione e rappresentanza della seconda Camera.

A questo proposito si aprono diverse alternative, che vanno dai c.d. modelli “puri”, su tutti il Bundesrat e il Senato americano, ai modelli invece “ibridi”.

Partendo dai modelli “puri”, quello Bundesrat e quello americano a loro volta sono espressione di due diverse tipologie di composizione della seconda camera: il primo a designazione indiretta, da parte degli esecutivi dei Laender e con rappresentanza proporzionale delle entità federate, il secondo ad elezione diretta e con rappresentanza paritaria degli Stati (2 Senatori per ogni Stato)10.

Per quanto riguarda il modello americano, pur essendo uno degli archetipi di bicameralismo, esso non pare tuttavia costituire un riferimento cui guardare nell’operazione di ripensare al Senato Italiano, essendo incastonato in un sistema federale del tutto peculiare, di tipo duale e pertanto non riproducibile nel nostro sistema di rapporti Stato-autonomie.

Più suggestivo appare essere il modello Bundesrat, che è considerato da autorevole dottrina, “la seconda camera “federale” più federale del mondo11”.

Del resto non è nuova la proposta di adottare il modello Bundesrat, ed anzi è tra quelli che più spesso ricorrono quando si ragiona delle possibili riforme del Senato nostrano.

Se si adottasse tale modello i membri del Senato italiano dovrebbero essere espressione degli esecutivi regionali (sicuramente Presidenti di Regioni e altri membri appartenenti alle Giunte Regionali che li nominano e li revocano). In questo modello i membri rappresentanti di ogni Regione dovrebbero poter esprimere un voto unitario e i voti dovrebbero essere ponderati in base alla popolazione di ogni Regione.

A coloro che criticano la natura stessa di modello del sistema Bundesrat e la sua non riproducibilità in altri contesti ordinamentali, si può per altro obiettare che lo stesso modello, se è vero che trova la sua realizzazione emblematica nel Bundesrat, tuttavia non si esaurisce in esso. Possiamo vedere, infatti, che anche a livello europeo si sia progressivamente affermata l’esistenza di un organo legislativo che si è affiancato al Parlamento europeo (e quindi operante come una seconda camera), ovvero il Consiglio dei ministri dell’Unione, ex art. 16 TUE. Il Trattato di Lisbona dispone, infatti, che il Consiglio esercita, “congiuntamente al Parlamento europeo, la funzione legislativa e la funzione di bilancio”. Esso esercita inoltre “funzioni di definizione delle politiche e di coordinamento alle condizioni stabilite nei trattati”. Significativo il fatto che nel nuovo testo dell’articolo sia scomparso il riferimento alle “competenze di esecuzione delle norme” che secondo quanto dispone l’art. 202 TFUE il Consiglio conferisce alla Commissione. (Bin, Tiberi, Commento al tratta di Lisbona). Come è stato osservato (Ibidem), questo passaggio riflette la volontà di separare e riordinare i poteri tra le istituzioni dell’Unione, conferendo al “Consiglio una funzione legislativa generale in pendant perfetto con quelle del Parlamento europeo di cui all’art. 14 TUE”. Il lavoro del Consiglio dei ministri si sviluppa dunque intorno a due ruoli chiave: legislativo e politico/di coordinamento statale.

Per il profilo che rileva in questa sede, occorre sottolineare che, pur con i dovuti distinguo, il criterio sotteso alla sua composizione è il medesimo del modello Bundesrat: ovvero è costituito dai delegati dei governi degli Stati membri, a livello ministeriale (art. 16, c. 2 TUEL).

Prima di passare all’analisi delle soluzioni istituzionali che potremmo definire “ibride”, merita un cenno il modello austriaco. Tra gli studiosi del bicameralismo quello austriaco è considerato un modello sui generis, basato sulla designazione indiretta dei suoi membri da parte dei Lantage, ovvero dalle assemblee legislative dei Laender. Si tratta, secondo parte della dottrina di un modello camerale ad elezione indiretta, che più che un modello a sé stante costituirebbe una mera variante del modello senatoriale americano12.

Il Bundesrat austriaco rappresenta i 9 Laender in maniera proporzionale alla loro popolazione, per cui i Laender più popolosi esprimono un numero maggiore di rappresentanti rispetto a quelli meno popolosi.

Numerose sono le critiche al sistema austriaco di Camera alta. In particolare merita un cenno il fatto che “si tratterebbe di una rappresentanza territoriale scarsamente funzionale, in quanto imposta, sul piano istituzionale, nel contesto di una realtà socio-politica assai strutturata in cui la realtà partitica tende ad assorbire quella territoriale”13. Conseguenza di tale egemonia dei partiti nella rappresentanza del Bundesrat e dell’affermazione dei partiti di massa, è che gli interessi espressi in seno allo stesso sono sostanzialmente omogenei a quelli espressi nella Camera elettiva14.

I limiti mostrati dal sistema austriaco mettono in guardia dall’adottare una simile soluzione, in un sistema come quello italiano caratterizzato da un’elevata conflittualità a livello partitico, che forse finirebbe per neutralizzare la natura territoriale di un Senato in tal senso riformato.

Passati in rassegna i principali modelli di riferimento, occorre ora addentrarci nell’analisi dei modelli che abbiamo definito ibridi.

1) La prima può essere considerata una variante del modello Bundesrat, in quanto si tratta sempre di una seconda camera a composizione omogenea (i membri sono tutti rappresentanti dello stesso ente, ovvero della Regione), ma non appartenenti tutti ed esclusivamente agli esecutivi regionali.

In questo caso, infatti, il modello Bundesrat (Presidenti di Regione) sarebbe integrato da altri rappresentanti regionali (Presidenti dei consigli Regionali e membri eletti dai Consigli regionali, eletti fra i propri componenti o tra soggetti ad essi esterni).

Questa soluzione avrebbe il vantaggio di garantire la rappresentanza non solo degli esecutivi, ma anche dei consigli regionali. In ciò forse si collocherebbe meglio nel quadro istituzionale italiano rispetto alla soluzione Bundesrat pura. Come sostenuto da Mangiameli, infatti, “l’accettazione di una camera espressione degli esecutivi dei Laender appare collegata alla generale accettazione della forma di governo parlamentare, per di più rafforzata dall’istituto della sfiducia costruttiva, che consente ai Parlamenti dei Laender, pur nella continuità e nella garanzia della stabilità di governo, di decidere liberamente della vita degli esecutivi regionali. Diversamente, nell’ordinamento italiano, dopo la legge costituzionale n. 1/1999 e l’abrogazione del fondamento consiliare della Giunta regionale, una camera degli esecutivi regionali finirebbe con l’acuire lo stato di tensione che sussiste tra gli organi costituzionali della Regione e potrebbe condurre ad una disarticolazione della funzione legislativa con quella esecutiva”.

Le altre due soluzioni ibride che si possono individuare si discostano del modello Bundesrat sia per i criteri di composizione che per la natura della rappresentanza. Si tratta, come vedremo, in entrambi i casi di seconde camere a composizione mista, nelle quali le diverse componenti del sistema, nella tradizione costituzionale italiana, si integrano e si sintetizzano (rappresentanti delle Regioni e degli enti locali).

2) La prima vede i rappresentanti regionali integrati dai rappresentanti degli enti locali.

Per molti questa sarebbe la soluzione più coerente con il nostro sistema costituzionale.

A partire dalla formulazione dell’art. 114, che da rilievo all’autonomia degli enti locali, ed anzi li colloca a fondamento della struttura repubblicana.

Anche tradizionalmente, gli enti locali sono maggiormente radicati in termini di identità (Mangiameli) nel territorio ed esprimono un legame più profondo con le istanze territoriali, di quello che hanno saputo finora fare le Regioni.

3) la seconda invece prevede un Senato composto per metà da rappresentanti regionali e per metà da rappresentanti eletti in maniera diretta contestualmente all’elezione dei consigli regionali.

Tale soluzione potrebbe essere considerata la soluzione meno “traumatica” per il nostro sistema: essa porterebbe da un lato al superamento del bicameralismo perfetto, ma dall’altro renderebbe meno tenace la resistenza degli attuali membri del Senato, prospettando agli stessi almeno una speranza di rielezione. Per questa ragione essa potrebbe essere quella meglio accolta dall’attuale compagine senatoriale.

Infine, rileva un’ultima notazione rispetto ai criteri di composizione della seconda camera: nell’operazione di ripensamento della configurazione delle seconda camera non dovrebbe essere trascurato anche un elemento che definirei delle competenze o dell’expertise dei senatori. Come ha rilevato a proposito da Lippolis: “Nel mondo contemporaneo la legge si trova a disciplinare argomenti di sempre maggior complessità che richiedono conoscenze tecniche specialistiche. Secondo Dahrendorf (Dopo la democrazia, 2001) in Gran Bretagna la camera dei Lords svolge molto bene questo ruolo, composta com’è da persone nominate per meriti conseguiti nella loro vita e che rappresentano una vasta gamma di competenze. Essa funziona come un’agenzia di contro-esperti, di esperti indipendenti, liberi dai condizionamenti del processo elettorale perchè nominati a vita”.

Oltre i modelli: alla ricerca di una soluzione coerente con il sistema costituzionale e amministrativo italiano

La riflessione circa i modelli di bicameralismo può essere un utile strumento concettuale, ma nel ripensare il modello di bicameralismo italiano non possono trascurarsi le caratteristiche del sistema costituzionale e amministrativo italiano, entro il quale l’intero sistema di rapporti tra Stato e autonomie deve essere riscritto.

Per queste regioni sarebbe da escludere la trasposizione fedele del modello Bundesrat, che presuppone una forte amministrazione decentrata, come quella dei Laender e che porterebbe, nel sistema italiano, ad una eccessiva valorizzazione del ruolo delle Giunte a discapito dei Consigli regionali, accentuando uno squilibrio tra esecutivi e legislativi regionali già presente e problematico14.

Le soluzioni che invece, sembrerebbero meglio calzare per il senato italiano sarebbero quelle definite “ibride”, che vedono cioè la presenza al processo decisionale nazionale di diverse componenti istituzionali della Repubblica.

Del resto una simile soluzione era già stata prefigurata nel tentativo di modifica del Senato italiano proposto dalla c.d. Bozza Violante (XV Legislatura).

Essa, come noto, prevedeva innanzitutto una nuova ed emblematica denominazione del Senato, ovvero Senato Federale della Repubblica. Ma al di là delle questioni nominalistiche, ciò che rileva sottolineare riguarda la composizione della Seconda Camera in essa prefigurata.

L’art. 4 della Bozza in esame prevedeva l’adozione di un sistema misto: ovvero, nelle Regioni con più di quattro seggi, due senatori dovevano essere eletti dal Consiglio regionale e due Senatori dal Consiglio delle Autonomie locali, entro trenta giorni dall’insediamento del Consiglio regionale. Gli altri senatori venivano eletti a suffragio universale e diretto dai cittadini della Regione con sistema elettorale proporzionale, contestualmente all’elezione dei Consigli Regionali. I senatori eletti in ciascuna regione decadono allo scioglimento del Consiglio Regionale.

Si disponeva inoltre che nessuna regione potesse avere un numero inferiore di 5 Senatori, fatta eccezione per il Trentino Alto Adige che ne aveva 3 per ciascuna provincia autonoma, il Molise 2 e la Valle d’Aosta 1. Il riparto dei seggi tra le altre Regioni doveva avvenire in proporzione alla popolazione della Regione.

Come chiaramente emerge l’opzione presentata dalla Bozza Violante, corrisponde al terzo modello ibrido sopra presentato, che vede tanto una componente elettiva diretta, quanto una componente ad elezione indiretta rappresentante delle entità territoriali (sia regioni che enti locali). Potrebbe essere considerata un’opzione “mista al quadrato” dove tutte le componenti (territoriali e non) vengono sintetizzate.

Anche in seno alla Commissione sono state vagliate le diverse ipotesi relative alla composizione del Senato, tra le quali la più accreditata è risultata essere quella che vede l’elezione indiretta dei Senatori.

In particolare secondo tale ipotesi il Senato dovrebbe essere composto tanto dai rappresentanti delle Regioni, quanto dei Comuni, rispettivamente eletti dai Consigli regionali e dai CAL. Secondo l’opinione maggioritaria emersa in Commissione, inoltre i rappresentanti sia regionali che comunali dovrebbero essere eletti al di fuori dei Consigli regionali e comunali, configurandosi così come rappresentanti del territorio eletti dalle istituzioni in esso radicate. (relazione finale).

Pur riconoscendo la necessità di una valorizzazione degli enti locali e di tutte le componenti della Repubblica, per altro coerente con i nostro sistema della autonomie prefigurato dall’art. 114, si potrebbe prefigurare una soluzione che rimarrebbe nel solco della tradizione federale classica, incentrata su due soggetti istituzionali principali (Stato centrale e Stati regionali) e conseguentemente su una seconda Camera rappresentativa, almeno in via prevalente, delle Regioni16.

In questo senso si potrebbe pensare di realizzare quella che costituisce una variante del modello Bundesrat: ovvero una seconda Camera composta dai Presidenti di Regioni, da alcuni membri della Giunta (a rotazione, per materia) e da membri nominati dai Consigli Regionali.

Preferibilmente, inoltre, i membri di nomina consigliare dovrebbero essere eletti/designati tra i membri dei Consigli stessi. Si tratterebbe in questo caso di una rappresentanza istituzionale dell’ente regione, in cui forse i Senatori membri dei Consigli potrebbero costituire un elemento di raccordo tra i due legislatori. E forse la seconda camera potrebbe svolgere un effettivo ruolo di mediazione tra gli interessi del centro e quelli periferici (senato come luogo di mediazione)

L’elezione dei senatori in seno al Consiglio regionale tra i suoi membri porterebbe inoltre ad attenuare uno dei maggiori difetti del modello austriaco, “al quale si rimprovera di operare secondo una logica partitica e non territoriale. È, infatti, evidente che il collegamento strutturale con le assemblee rappresentative regionali dovrebbe propiziare l’immedesimazione dei senatori con le specifiche esigenze degli enti di appartenenza, con conseguente, almeno parziale, emancipazione degli stessi dalle rispettive estrazioni partitiche. Un risultato, che potrebbe essere, forse, favorito, se si prevedesse un’articolazione a base regionale e non politica dei gruppi parlamentari”17.

In alternativa si potrebbe lasciare alle Regioni la facoltà di disciplinare con legge regionale le modalità di elezione dei senatori di matrice consiliare, prevedendo per esempio che possano essere eletti membri dei CAL o amministratori locali, quindi membri esterni all’organo consigliare. In questa ipotesi verrebbe meno il legame istituzionale tra senatori ed ente regionale, risolvendosi così in una rappresentanza di tipo territoriale e non istituzionale.

Tuttavia, ricorrendo a tale opzione si potrebbe creare una disomogeneità all’interno del Senato (alcune Regioni verrebbero rappresentate solo da membri regionali, altre anche da membri degli enti locali). Per evitare tale discrasia, si ritiene dunque che, in definitiva, la soluzione che vede un senato composto da soli rappresentanti regionali sia la più auspicabile nel nostro contesto ordinamentale.

1. Professore ordinario di Diritto costituzionale, Università degli Studi di Milano

2. Lippolis V., Il bicameralismo e la singolarità del caso italiano, in Rassegna Parlamentare, 2012.

3. Paladin L. (1984), Tipologia e fondamenti giustificativi del bicameralismo, in Quaderni Costituzionali, p. 220.

4. Lippolis V., Il bicameralismo e la singolarità del caso italiano, op. cit.

5. Idem, p. 29.

6. Ibidem

7. Paladin L. (1984), Tipologia e fondamenti giustificativi del bicameralismo, op. cit., p. 220.

8. Lippolis V., op. cit.

9. L’art. 7 della Bozza Violante prevedeva, infatti, che la funzione legislativa dello Stato venisse esercitata collettivamente dalla Camera dei deputati e dal Senato federale della Repubblica solo in alcuni casi determinati ed in particolare: leggi di revisione della Costituzione e altre leggi costituzionali; leggi in materia elettorale; leggi in materia di organi di governo e di funzioni fondamentali dei Comuni, delle Province e delle Città metropolitane; leggi concernenti l’esercizio delle competenze legislative dello Stato indicate negli articoli 114, terzo comma; 116, terzo comma; 117, commi quinto e nono; 120, secondo comma; 122, primo comma; 123, quinto comma; 132, secondo comma, e 133, primo comma; leggi concernenti l’istituzione e la disciplina delle Autorità di garanzia e di vigilanza; leggi in materia di tutela delle minoranze linguistiche.

10. Nel modello americano emerge chiaramente il legame tra bicameralismo e forma di governo. Come ricorda Mangiameli “su questo punto appare significativa la storia originaria del Senato americano, dove, all’accoglimento generalizzato (a livello federale e a quello statale) del Presidenzialismo, seguì una elezione interamente affidata ai Parlamenti statali dei due Senatori rappresentanti dello Stato”, Mangiameli S. (2010), Il senato federale nella prospettiva italiana, in www.issirfa.it.

11. D’Atena A. (2008), Un senato “federale”. A proposito di una recente proposta parlamentare, in Rassegna Parlamentare, n. 1, p. 285.

12. Bifulco R. 2010, Ordinamenti federali comparati, Torino, Giappichelli, p. 122.

13. Ibidem.

14. Ibidem

15. Mangiameli S. (2010), Il senato federale nella prospettiva italiana, in www.issirfa.it.

16. Sul punto Garlisi L., Le ipotesi di riforma del bicameralismo “perfetto” alla luce alla luce di un’analisi comparata in Norma, Quotidiano di informazione giuridica, p. 26 e S. Bonfiglio S., Il dibattito sulla trasformazione del Senato in Italia, in www.associazionedeicostituzionalisti.it.

17. D’Atena A. (2008), Un senato federale, cit.., p. 245.