Forme processuali, giustizia costituzionale sostanziale e giusto processo nei conflitti sull’insindacabilità parlamentare (nota a Tribunale di Torino, Sez. VI penale, sentenza del 14-15 settembre 2021, n. 3369)

Ruggero Rudoni[1]

Sommario:

1. Introduzione. I profili di interesse costituzionale presentati dalla vicenda procedimentale di specie, tra ‘forme’, ‘processo’ e ‘giurisdizione’ nei conflitti in materia di insindacabilità parlamentare. – 2. L’intempestivo deposito delle prove di notifica del ricorso per conflitto e la conseguente (inevitabile?) dichiarazione di improcedibilità. – 3. Segue. La valorizzazione nel processo costituzionale dell’istituto della rimessione in termini per temperare taluni eccessivi applicativi dell’improcedibilità (in generale e in particolare nel caso in esame). – 4. L’irriproponibilità del conflitto costituzionale sull’insindacabilità parlamentare dichiarato improcedibile e la conseguente limitazione (allo svolgersi del potere giurisdizionale e) al diritto di accesso al giudice del terzo offeso. – 4.1. Profili critici della tesi dell’irriproponibilità assoluta. – 4.2. Profili critici della tesi dell’irriproponibilità relativa. – 5. Osservazioni conclusive. L’improcedibilità del conflitto mal coltivato e la sua irriproponibilità alla prova del giusto processo.

1. Introduzione. I profili di interesse costituzionale presentati dalla vicenda procedimentale di specie, tra ‘forme’, ‘processo’ e ‘giurisdizione’ nei conflitti in materia di insindacabilità parlamentare.

La complessiva vicenda, nel cui ambito il Tribunale di Torino è giunto, infine, ad assolvere il già senatore Esposito dalle imputazioni di diffamazione aggravata nascenti da dichiarazioni rese durante l’incarico parlamentare[2], offre l’occasione per ritornare su di una dibattuta problematica processuale, in tema di giudizi costituzionali per conflitto fra poteri, concernente le conseguenze dirette e indirette derivanti dall’accertamento di vizi formali che possano avere colpito attività della parte (i.e. del potere) ricorrente in tali giudizi[3]. L’esito, infatti, si deve a interpretazioni della disciplina processuale rigorose e non pienamente convincenti, nondimeno accolte da entrambe le giurisdizioni, costituzionale e comune, coinvolte nell’articolata dinamica procedimentale, nella quale il giudizio per conflitto avviato dall’autorità giudiziaria sulla delibera parlamentare di insindacabilità ha rappresentato una parentesi del giudizio penale di primo grado, secondo lo schema tracciato dalla Legge n. 140/2003. Dapprima, la Corte costituzionale, investita del conflitto[4], ha rilevato il tardivo deposito, da parte della giurisdizione ricorrente, delle prove di notifica dell’atto introduttivo e dell’ordinanza di ammissibilità[5] e ha rigettato l’istanza di rimessione in termini a tal fine formulata, in quanto le ragioni addotte avrebbero configurato meri inconvenienti organizzativi, dichiarando conseguentemente l’improcedibilità del ricorso, considerata la perentorietà del termine di deposito violato[6]. In seguito, il Tribunale di Torino, reputata preclusa la riproposizione di un nuovo conflitto identico a quello precedente, si è ritenuto vincolato dalla delibera parlamentare, concludendo nel senso dell’assoluzione dell’imputato[7].

L’epilogo potrebbe a prima vista apparire inevitabile, visto che il percorso motivazionale posto a fondamento delle due decisioni non mostra particolari elementi di novità rispetto agli orientamenti ermeneutici dominanti nella materia, risultando manifestazione del consolidato approdo per cui il mancato rispetto del termine di deposito delle prove di notifica sarebbe idoneo a impedire non solo la prosecuzione del giudizio sul conflitto, ma anche la riproposizione dello stesso, quanto meno, da parte del giudice che aveva inizialmente investito la Corte costituzionale. Eppure, la disamina delle concrete implicazioni delle soluzioni qui ulteriormente propugnate evidenzia irrisolti aspetti di criticità sotto più profili, alcuni dei quali già esaustivamente segnalati in dottrina, altri invece non ancora compiutamente istruiti in tutte le relative potenzialità. L’approfondimento di questi ultimi sembra restituire una rinnovata attualità al dibattito insorto sulla posizione espressa dalla giurisprudenza costituzionale, che in relazione al deposito in questione ha finora graniticamente difeso la rigidità delle forme processuali e gli insuperabili effetti della loro inosservanza.

Nella letteratura non si era mancato di osservare che l’improcedibilità del conflitto per vizi non sostanziali e la sua irriproponibilità fossero espressione di un’univoca logica formalistica di fondo[8], che se in generale non appare del tutto confacente ai conflitti costituzionali, risulta, nei casi sull’insindacabilità parlamentare, perdipiù produttiva di conseguenze pregiudizievoli nei confronti dei terzi che siano interessati dagli stessi conflitti, cioè il parlamentare autore delle dichiarazioni[9] e il soggetto da queste offeso[10]. Si era rilevato, in particolare, che i rigorosi sbarramenti processuali finiscono per stabilizzare la delibera parlamentare, dando luogo a limitazioni allo svolgersi della giurisdizione ordinaria, che sono suscettive di incidere in vario modo – a seconda dell’estensione che si ritenga di assegnare al divieto di riproposizione del conflitto – sul diritto della parte offesa a ottenere un’adeguata tutela giurisdizionale[11]. In tal senso, si era condivisibilmente posto l’accento sulla peculiare natura del conflitto sulla delibera parlamentare di insindacabilità, che configura un eventuale incidente nel processo, civile o penale, in corso di celebrazione dinanzi all’autorità giudiziaria ordinaria[12], e il cui esito, pertanto, è indirettamente produttivo di effetti sulle posizioni giuridiche sostanziali dei soggetti che siano parti di tale processo[13].

È chiaro, però, che quegli stessi argomenti, già prospettati in una fase antecedente all’affermarsi dell’attuale costruzione dei rapporti fra l’ordinamento nazionale e il sistema convenzionale di tutela dei diritti[14] – e, peraltro, anteriore anche a una piena valorizzazione del riconoscimento costituzionale del principio del giusto processo[15] –, meritano di essere istruiti in una più ampia prospettiva, che possa assicurare il rispetto delle pertinenti garanzie fondamentali nazionali e convenzionali e dare, quindi, soddisfazione alle differenti istanze di tutela connesse al giudizio costituzionale sull’insindacabilità parlamentare[16]. In questa direzione l’indagine sembra poter essere condotta soffermandosi anzitutto sui singoli aspetti problematici di ciascuna delle due conseguenze processuali, l’improcedibilità del conflitto mal coltivato e la sua non riproponibilità, per poi vagliare quelli, ancor più significativi, dovuti al loro combinarsi. Tali conseguenze, infatti, seppure siano connesse – e non solamente in quanto espressive, come si è detto, di un medesimo atteggiamento formalistico, ma anche perché l’una (la decisione in rito) apre all’eventualità di un secondo ricorso di identico contenuto, onde all’operatività dell’altra (il principio di non riproponibilità)[17] – restano comunque suscettive di essere esaminate nella loro autonomia, visto che differenti sono le ragioni che ne sorreggono l’adozione e l’operatività[18].

2. L’intempestivo deposito delle prove di notifica del ricorso per conflitto e la conseguente (inevitabile?) dichiarazione di improcedibilità.

Muovendo dall’improcedibilità del ricorso, quindi, si può osservare che la riconnessione di tale sanzione processuale al vizio dell’intempestivo deposito delle prove di notifica, in sede di avvio della seconda fase del giudizio sul conflitto, costituisce un esito interpretativo che ha radici profonde, tanto che la sua affermazione risale a un momento in cui le Norme integrative adottate dalla Corte costituzionale non qualificavano esplicitamente il termine come perentorio[19].

Allora la soluzione si era imposta, per la prima volta nella sentenza n. 87/1977[20], con il riconoscimento dell’applicabilità nei giudizi costituzionali sui conflitti – per il tramite del rinvio ex art. 22 Legge n. 87/1953 – dei princìpi regolanti il procedimento giurisdizionale dinanzi al Consiglio di Stato, secondo cui il mancato rispetto del termine previsto per il deposito del ricorso introduttivo notificato avrebbe dovuto costituire causa di improcedibilità[21]. La conclusione veniva confermata nella sentenza n. 449/1997[22], nella quale la Corte costituzionale, accogliendo l’eccezione della camera parlamentare basata sul citato, all’epoca unico, precedente e sul rinvio in chiave integrativa alle norme del regolamento di procedura del Supremo Giudice amministrativo, aveva chiarito che il deposito delle prove di notifica del ricorso e dell’ordinanza di ammissibilità rappresentasse un adempimento da compiersi necessariamente nel termine previsto, al fine di dare ulteriore corso alla dinamica procedimentale[23].

Con il successivo espresso riconoscimento della perentorietà del termine nella disposizione processuale si realizzava un recepimento sostanziale dell’indirizzo interpretativo formatosi sul punto[24], portando a un superamento per lo meno di quelle critiche poggianti sulla precedente formulazione testuale[25]. La qualificazione del mancato rispetto del temine come causa di improcedibilità diveniva, quindi, oggetto di un orientamento giurisprudenziale, di fatto, mai più in discussione, come dimostra la lunga serie di decisioni intervenute sul punto, alle quali si è aggiunta, fra le ultime, l’ordinanza emessa nella vicenda di specie[26]. Anche in questa occasione il Giudice costituzionale, riproducendo un apparato motivazionale frequente, si è limitato a prendere atto della tardività del deposito effettuato dal ricorrente Tribunale di Torino, avvenuto quattro mesi dopo il perfezionamento dell’ultima notifica, e a farne derivare indefettibilmente la conseguenza processuale[27].

La modifica delle Norme integrative, tuttavia, se certamente offre un ulteriore fondamento alla soluzione dell’improcedibilità, non più solo ed esclusivamente di matrice giurisprudenziale, non sembra capace di sopire quelle ulteriori perplessità – già ravvisate e tuttora persistenti – che prescindono dal mero dato letterale della disposizione, insistendo su aspetti più di carattere sistematico. La dichiarazione di improcedibilità per un vizio, come quello in esame, riconducibile ad attività processuali del solo ricorrente prive di riflessi sulla posizione della controparte processuale risulta, in effetti, difficilmente conciliabile con la previsione normativa che condiziona l’estinzione del giudizio per rinuncia di tale parte processuale all’accettazione delle altre parti. Si viene, cioè, ad assegnare al potere ricorrente una sostanziale facoltà di rinuncia unilaterale al giudizio per inattività, che impedisce al convenuto di far valere il proprio diritto all’accertamento dell’attribuzione[28].

Per giunta, sotto altro profilo, l’applicazione dell’istituto dell’improcedibilità non sembra dare luogo a conseguenze congruenti con la ratio della specifica formalità cui inerisce il vizio qui di interesse. Si deve, infatti, rilevare che, qualunque tesi si ritenga di accogliere intorno ai rapporti fra le due fasi processuali costituenti il giudizio sul conflitto, se rigidamente autonome o “comunicanti”[29], il deposito delle prove dell’avvenuta notifica del ricorso e dell’ordinanza di ammissibilità non sembra assolvere né la funzione di investire l’organo giudicante del conflitto – si intende, in un senso sostanziale – né quella di realizzare il contraddittorio processuale, essendo entrambe già soddisfatte dal compimento di formalità processuali antecedenti: l’una dal deposito del ricorso nella prima fase del giudizio[30] e l’altra dal perfezionamento delle notifiche del ricorso dichiarato ammissibile[31].

L’estraneità del deposito a queste funzioni è ancor più evidente se si considera il significato ricavabile dal suo intempestivo compimento. A ben vedere, l’accertamento di questo vizio, di per sé considerato, non potrebbe dimostrare il venir meno dell’interesse del ricorrente a ottenere una decisione nel merito, interesse che semmai è confermato dalla pur tardiva attività processuale[32]; non determinerebbe alcuna invalidità nel contraddittorio, la cui corretta instaurazione è invece comprovata proprio dalle prove di notifica comunque depositate; neppure comporterebbe menomazioni nel diritto di difesa dell’altra parte processuale, che è in condizione di partecipare al giudizio sin dal momento del perfezionamento nei suoi confronti della notifica stessa. D’altronde, l’assenza di qualunque connessione con il principio del contraddittorio è ulteriormente attestata, anche sul piano normativo, dalla scelta di far decorrere il termine per la costituzione in giudizio del potere resistente dal momento in cui il ricorrente dovrebbe procedere al deposito, e non dal momento di effettivo deposito. Con la conseguenza che, se il ricorso è ritualmente notificato, la controparte può in ogni caso costituirsi, indipendentemente dal rispetto, da parte del ricorrente, dei successivi tempi processuali[33].

Dunque, se il deposito delle prove di notifica costituisce niente più che un atto di impulso processuale tramite il quale la parte ricorrente dimostra di aver ritualmente instaurato il contraddittorio e, con ciò, conferma indirettamente il persistere dell’interesse al proseguimento del processo sul conflitto, non possono che sorgere dubbi sulla complessiva ragionevolezza e proporzionalità della scelta di far conseguire al suo tardivo compimento le gravi conseguenze derivanti dalla dichiarazione di improcedibilità del ricorso[34]. Il riconoscimento della concreta funzione svolta dovrebbe valere a escludere la formalità del deposito dal novero delle attività necessarie per l’instaurazione del giudizio e, quindi, a metterne in evidenza l’incompatibilità con una sanzione processuale, che è improntata a una severità tipicamente caratterizzante le irregolarità della fase introduttiva di un processo, solitamente conseguenti al mancato rispetto di termini decadenziali relativamente brevi[35].

Quindi, in una prospettiva di revisione delle Norme integrative non sembra essere fuori luogo ipotizzare un adeguamento della disciplina concernente il deposito delle prove di notifica alla sua effettiva natura propulsiva endoprocedimentale, collegando l’adempimento a una più congruente logica fondata sulla perenzione, quale particolare specie di estinzione del giudizio dovuta a un’inattività della parte interessata che persista in un ampio orizzonte temporale[36]. In questo modo, il deposito delle prove di notifica potrebbe venire associato a un termine più lungo di quello attualmente vigente, la cui inosservanza sia maggiormente sintomatica di un’eventuale carenza di interesse sopravvenuta alla tempestiva e rituale notifica del ricorso[37].

3. Segue. La valorizzazione nel processo costituzionale dell’istituto della rimessione in termini per temperare taluni eccessivi applicativi dell’improcedibilità (in generale e in particolare nel caso in esame).

A prescindere da questi spunti tesi a un’innovazione normativa delle regole processuali, gli effetti preclusivi derivanti dall’improcedibilità sembrano poter essere temperati – e, in particolare, si sarebbero potuti evitare nella vicenda procedimentale in commento – mediante l’utilizzo dell’istituto processuale della rimessione in termini, che è suscettibile di trovare applicazione anche nel processo costituzionale, in virtù del già menzionato rinvio ex art. 22 Legge n. 87/1953[38]. La relativa disciplina è da rinvenirsi ora nell’art. 37 D.Lgs. n. 104/2010 (cd. Codice del processo amministrativo), che assegna al Giudice amministrativo, onde anche alla Corte costituzionale, il potere ufficioso di rimettere in termini la parte che sia incorsa in decadenze per cause ad essa non imputabili, ossia per errore scusabile in presenza di oggettive ragioni di incertezza su questioni di diritto o di gravi impedimenti di fatto.

Seppure l’istituto abbia carattere eccezionale, in quanto comportante un effetto derogatorio alla regola generale della decadenza per mancato rispetto di un termine perentorio, e debba pertanto essere oggetto di stretta interpretazione[39], esso appare suscettivo di operare proprio rispetto a straordinarie, o anche solo singolari, difficoltà frappostesi a un tempestivo deposito delle prove di notifica in un conflitto fra poteri[40]. La valutazione in ordine alla gravità di tali impedimenti – richiesta dalla disposizione processuale – e la loro idoneità a determinare la rimessione in termini dovrebbe, infatti, svolgersi tenendo conto anche degli interessi complessivi coinvolti nei (e sottesi ai) giudizi costituzionali sui conflitti, sia dei poteri che ne sono necessarie parti processuali sia dei terzi sulla cui posizione l’esito decisorio possa incidere[41].

In quest’ottica, non appare particolarmente persuasivo il rigetto, nel caso di specie, dell’istanza di rimessione in termini presentata dal ricorrente Tribunale di Torino, il quale aveva giustificato l’intempestivo deposito delle prove di notifica con le peculiari difficoltà di organizzazione del lavoro del personale di cancelleria durante il periodo dell’emergenza epidemiologica da Covid-19, nel corso della quale la fase processuale in questione si è svolta[42]. È pur vero che generiche problematiche organizzative non possano ordinariamente essere considerate sufficienti ad ammettere la rimessione in termini, risultandone altrimenti un eccessivo ampliamento dei relativi presupposti applicativi, ma in questa ipotesi le ragioni addotte a sostegno della richiesta sembravano riferirsi a una situazione di gravità qualificata. Di tal che, quanto meno le singolari caratteristiche del caso avrebbero potuto giustificare l’accoglimento dell’istanza, consentendo l’ulteriore svolgersi della dinamica procedimentale.

Sembra, dunque, possibile osservare che la pronuncia costituzionale confermi emblematicamente un atteggiamento di particolare rigore nell’applicazione della disciplina processuale, alla cui stregua la dichiarazione di improcedibilità segue, pressoché automaticamente, all’intempestivo deposito delle prove di notifica. L’indefettibilità della conseguenza non convince in quanto risulta non appropriata rispetto alla descritta funzione, di impulso processuale, svolta dalla formalità processuale e altresì eccessiva, se posta a confronto con la ragione giustificatrice della sanzione processuale, rappresentata dall’ordinato svolgersi della dinamica processuale fra i poteri coinvolti nel conflitto. Ma l’irragionevolezza e la sproporzione della preclusione frapposta dall’improcedibilità si stagliano in tutta la loro gravità anche da un altro angolo prospettico, per le ripercussioni sulla posizione dei soggetti offesi dalle dichiarazioni del parlamentare, il cui diritto a un’effettiva tutela giurisdizionale viene a subire un significativo aggravio procedimentale. Nel complesso, quindi, la rigida interpretazione delle regole processuali, accolta e rinnovata anche nel caso in esame, sembra tendere a un’assolutistica protezione delle posizioni giuridiche processuali dei poteri partecipanti al giudizio costituzionale sul conflitto, in pregiudizio non solamente degli interessi delle parti del conflitto, ma anche delle posizioni giuridiche sostanziali dei soggetti che siano terzi rispetto allo stesso[43].

4. L’irriproponibilità del conflitto costituzionale sull’insindacabilità parlamentare dichiarato improcedibile e la conseguente limitazione (allo svolgersi del potere giurisdizionale e) al diritto di accesso al giudice del terzo offeso.

Tale aggravio procedimentale sarebbe comunque in sé superabile, se un orientamento giurisprudenziale, inaugurato nella sentenza n. 116/2003[44] e oramai vigorosamente affermatosi[45], non associasse alla declaratoria di improcedibilità, quale ulteriore effetto processuale, l’inammissibilità della riproposizione di un secondo ricorso per conflitto di contenuto identico al primo[46]. Il principio, che è stato condiviso anche nella pronuncia assolutoria resa dal Tribunale di Torino nella vicenda in commento, si fonda sull’assunto che l’emissione dell’ordinanza di ammissibilità del ricorso per conflitto segnerebbe una cesura nel complessivo giudizio costituzionale[47], determinando l’ingresso in una fase in cui, secondo un’icastica ricostruzione dottrinale, le parti processuali sarebbero tenute al rispetto delle ‘regole d’ingaggio’[48].

In sede di delibazione sull’ammissibilità, il Giudice costituzionale svolgerebbe un potere di conformazione del giudizio sul conflitto, consistente, fra l’altro, nella individuazione di soggetti e termini per lo svolgimento del processo e nella fissazione di regole che, proprio per la loro natura conformativa, non potrebbero essere eluse allorché il conflitto sia addivenuto al contesto processuale nel contradditorio fra le parti. In tale ottica, posteriormente al riconoscimento dell’ammissibilità del conflitto dovrebbero prevalere le esigenze di regolare svolgimento del processo e di certezza delle situazioni e dei rapporti fra poteri, esigenze che resterebbero insoddisfatte – come chiarito nell’ordinanza n. 153/2003 – se fosse consentita la riproponibilità ad libitum di ricorsi per conflitto già dichiarati improcedibili[49].

Nonostante il progressivo consolidamento giurisprudenziale, l’accoglimento del principio appare contestabile per le sue implicazioni di ordine sistematico e per le sue concrete ricadute, specialmente nelle ipotesi in cui il conflitto verta su delibere parlamentari di insindacabilità. L’irriproponibilità tende, infatti, ad assicurare in modo prevalente, se non assoluto, le ragioni di certezza delle attribuzioni costituzionali, pretermettendo altri beni e interessi che pure sono di rilievo costituzionale[50].

Su di un piano generale, la soluzione appare anzitutto incompatibile con l’assenza di qualunque termine decadenziale per l’instaurazione del conflitto fra poteri[51], visto che assegna effetti preclusivi a una pronuncia meramente processuale, là dove la proposizione del ricorso, come anche la sua riproposizione, dovrebbe ritenersi sempre ammissibile fintantoché persista l’interesse del potere coinvolto alla risoluzione giudiziale del conflitto[52]; e tale interesse in tanto può sussistere, in quanto non sia intervenuta una decisione di merito[53]. La dichiarazione di improcedibilità lascia impregiudicata la risposta in ordine alla legittimità del comportamento della camera parlamentare[54], ragion per cui essa – come, del resto, ogni decisione di rito – non sembra capace di spiegare effetti sui successivi processi, né di costituire un giudicato costituzionale sostanziale[55]. Sul punto si può, quindi, rilevare che la natura aperta del conflitto, da un lato, e i contenuti processuali della decisione costituzionale, dall’altro, appaiono argomenti in grado di intaccare il principio di non riproponibilità del ricorso improcedibile[56].

L’inconsistenza della soluzione si rivela, però, ancor più vistosa – come segnalato anche a proposito dell’improcedibilità – soprattutto per l’incidenza sulla posizione dei soggetti offesi dalle dichiarazioni del parlamentare[57], terzi rispetto al giudizio costituzionale sulla delibera di insindacabilità, i quali si vedono negata (se si dovesse accogliere il principio di irriproponibilità assoluta) o incisivamente ostacolata (nel caso dell’irriproponibilità relativa) la possibilità di ottenere un giudizio sul merito delle proprie domande risarcitorie, avanzate nel giudizio civile o in quello penale, in ragione di una pronuncia in rito connessa a un’irregolarità processuale cui neppure hanno concorso[58]. Gli effetti di un simile diniego di accesso alla tutela giurisdizionale appaiono in attrito con le pertinenti garanzie di rilievo costituzionale e convenzionale, qualunque sia l’estensione che si intenda attribuire al divieto di riproposizione del conflitto fra poteri.

4.1. Profili critici della tesi dell’irriproponibilità assoluta.

Se si interpretasse il divieto in termini assoluti, ritenendolo operante nei confronti di ogni giudice che possa venire chiamato a conoscere delle azioni giudiziarie vertenti sulle dichiarazioni del parlamentare, sarebbe impedita la verifica sulla delibera di insindacabilità spettante alla Corte costituzionale, unico organo giurisdizionale a ciò competente[59]. Gli effetti della delibera, così, si verrebbero a cristallizzare, determinando la completa paralisi delle domande risarcitorie delle parti offese, costrette a subire un’invalicabile limitazione del diritto di accesso al giudice, inteso quale pretesa a contestare in concreto l’atto idoneo a interferire con il pieno godimento dei propri diritti.

Secondo gli approdi della giurisprudenza convenzionale, una siffatta preclusione dovrebbe essere sottoposta a un rigido scrutinio di proporzionalità da condursi rispetto al fine perseguito dalla prerogativa dell’insindacabilità e alla luce delle precipue circostanze fattuali e normative della singola vicenda. In questo senso, già in precedenti occasioni la Corte europea dei diritti, proprio nell’ambito di procedimenti avviati da soggetti offesi da dichiarazioni di parlamentari italiani, ha ritenuto sproporzionata la limitazione della garanzia di cui art. 6, par. 1, CEDU conseguente all’avvenuta stabilizzazione degli effetti di una delibera di insindacabilità, adottata nonostante l’assenza di alcuna connessione fra le dichiarazioni e l’attività parlamentare[60]. La violazione è stata accertata, in particolare, sia quando il giudice comune non aveva ritenuto di sollevare conflitto fra poteri[61], sia allorché il giudizio costituzionale sul conflitto, pur avviato, si era concluso con una decisione solo processuale[62].

Parimenti, anche l’affermazione del divieto assoluto di riproporre il conflitto improcedibile, rendendo di fatto inattaccabile la delibera parlamentare, quale che ne sia il contenuto, concorrerebbe al realizzarsi di una limitazione del diritto fondamentale di accesso al giudice, rispetto alla cui proporzionalità assumerebbero rilievo non solo – come nelle richiamate precedenti pronunce – i contenuti concreti di detta delibera, cioè la pretesa affermazione della sussistenza del cd. nesso funzionale, ma anche le ragioni di ordine meramente processuale che ne abbiano determinato la stabilità degli effetti, rinvenibili in una semplice inosservanza formale delle regole del processo costituzionale posta in essere dal giudice procedente. Un vizio, questo, che sembra riconducibile alla categoria dei formalismi processuali, sulle cui conseguenze in ordine all’accesso a una decisione giudiziaria di merito il Giudice di Strasburgo è solito mostrarsi particolarmente sensibile[63].

Pertanto, un’interpretazione delle regole del processo costituzionale sui conflitti orientata alle garanzie convenzionali – o, meglio, finalizzata ad evitare risultati con esse contrastanti – pare offrire argomenti significativi per escludere l’irriproponibilità assoluta del ricorso improcedibile. L’adozione di siffatto canone ermeneutico, in questo caso, troverebbe giustificazione non già in ragione di una generalizzata applicabilità di tali garanzie a ogni giudizio costituzionale sui conflitti[64], ma per le ricadute spiegate dallo specifico giudizio riguardante la delibera parlamentare di insindacabilità sul processo pendente o da avviarsi davanti alla giurisdizione ordinaria[65].

4.2. Profili critici della tesi dell’irriproponibilità relativa.

Non meno problematico sarebbe limitare l’estensione del divieto di riproposizione del ricorso per conflitto al solo giudice che aveva avviato il primo giudizio[66], tesi che sembra avere trovato riscontro nella giurisprudenza costituzionale, precisamente nell’ordinanza n. 331/2007[67]. In tale occasione si è osservato che l’inammissibilità della riproposizione non si attaglierebbe all’ipotesi di nuovo conflitto sollevato, sulla medesima delibera parlamentare, in una differente controversia e da un’altra autorità giurisdizionale, giacché quest’ultima non potrebbe subire le conseguenze di vizi, sfociati nella declaratoria di improcedibilità, determinati da attività del primo giudice. La conclusione, espressa in sede di delibazione di ammissibilità, quindi in una decisione dal sintetico apparato motivazionale, sembra spiegarsi con la diversità del secondo conflitto, quanto al giudice ricorrente e all’oggetto del giudizio in corso di celebrazione[68].

Nondimeno, una simile perimetrazione del divieto di riproposizione alle ipotesi di identità soggettiva e oggettiva – anche senza approfondire i dubbi relativi alla sua incerta estensione[69] – non appare adeguatamente giustificabile. Non si potrebbe sostenere che il giudice ricorrente nel primo conflitto abbia esaurito il proprio potere di sollevare il giudizio costituzionale; difatti, generali princìpi processuali dovrebbero far ritenere che l’azione giudiziaria possa venire impedita non da un semplice vizio formale, ma solo dall’intervento di altri istituti legati al decorso del tempo, istituti che, tuttavia, non trovano operatività in vista dell’instaurazione dei conflitti fra poteri, sempre possibile senza limitazioni temporali. Neppure si potrebbe addurre che la limitazione del divieto di riproposizione derivi dal contenuto della decisione di improcedibilità, la quale spiegherebbe un’efficacia vincolante nei confronti delle parti del processo costituzionale, visto che la decisione processuale, come si è detto, non appare idonea a costituire un giudicato costituzionale sostanziale[70].

Per altro verso, il principio della irriproponibilità relativa si rivela altresì incongruente sul piano dell’economia processuale, intesa quale espressione dei più generali canoni di ragionevolezza e proporzionalità delle regole del processo. Se si esaminano gli esiti applicativi, si deve rilevare che l’impossibilità per lo stesso giudice di presentare un secondo, identico, ricorso per conflitto comporterebbe l’onere processuale per la parte privata offesa dalle dichiarazioni del parlamentare – e, nel caso del processo penale, anche per la parte pubblica – di mettere in discussione la decisione giudiziaria che abbia inevitabilmente recepito gli effetti della delibera di insindacabilità (avviando un giudizio di impugnazione ovvero, quando possibile, un altro procedimento) onde poter sollecitare l’avvio di un secondo conflitto nella nuova cornice processuale e rimuovere, quindi, l’ostacolo all’esercizio del potere giurisdizionale.

Tali conseguenze paiono effettivamente collidere con le ragioni a suo tempo esposte dalla Corte costituzionale a sostegno dell’accoglimento del principio di irriproponibilità, vale a dire le esigenze di stabilità e certezza delle attribuzioni costituzionali, dal momento che non sarebbe comunque esclusa la possibilità di sindacare i modi di esercizio del potere parlamentare in tema di insindacabilità[71]. Il principio di irriproponibilità relativa sarebbe capace solamente di posticipare il momento dell’instaurazione del secondo giudizio sul conflitto e di renderla in qualche modo più difficoltosa, non foss’altro che per gli snodi processuali che le parti, privata o pubblica, dovrebbero necessariamente affrontare, prestando il fianco a critiche sotto il profilo del rispetto del principio di ragionevole durata del processo. Proprio l’assenza di una preclusione assoluta all’avvio del nuovo giudizio per conflitto fra poteri solleva dubbi anche intorno alla proporzionalità della soluzione, in quanto l’entità delle attività processuali richieste alle parti interessate dalla delibera parlamentare sembra eccessiva se confrontata alla reale natura del vizio formale fondante l’improcedibilità, e di conseguenza l’irriproponibilità.

5. Osservazioni conclusive. L’improcedibilità del conflitto mal coltivato e la sua irriproponibilità alla prova del giusto processo.

Nel complesso, la valutazione del combinarsi delle due preclusioni processuali esaminate, l’improcedibilità del ricorso per conflitto sulla delibera di insindacabilità e il divieto della sua riproposizione, evidenziano esiti insoddisfacenti sotto più profili. Si è mostrato, infatti, come l’irrigidimento delle forme processuali appaia disarmonico rispetto ai tratti caratterizzanti la composizione dei conflitti fra poteri in via giurisdizionale[72] e risulti produttivo di effetti pregiudizievoli nei riguardi delle persone (presunte) offese dalle dichiarazioni del parlamentare, le quali sono concretamente interessate dalla conclusione del giudizio sul conflitto[73].

La serietà delle conseguenze è dimostrata in modo esemplare dalla vicenda procedimentale di specie, nella quale il semplice intempestivo deposito delle prove di notifica da parte del giudice penale, ricorrente nel giudizio costituzionale, è stato ritenuto preclusivo sia all’esame nel merito del ricorso per conflitto che alla riproposizione dello stesso nell’ambito del processo di primo grado allora in corso di celebrazione. Il risultato non appare convincente per la gravità delle ricadute assegnate a una violazione delle regole processuali priva di ripercussioni sostanziali sullo svolgimento del processo costituzionale, visto che – come si è cercato di ricostruire – il deposito costituisce un mero atto di impulso endoprocedimentale, atto a comprovare la precedente, già avvenuta, rituale instaurazione del contraddittorio, e che, quindi, anche un suo tardivo compimento sarebbe capace di raggiungere lo scopo processuale prefissato.

Invero, allargando il campo visivo, l’inestricabile connessione fra dichiarazione di improcedibilità e conseguente irriproponibilità sembra presentare profili problematici anche quando sia affermata in relazione agli ulteriori vizi meramente formali, diversi da quello realizzato e accertato nel caso in esame, ma egualmente idonei a determinare una decisione in rito ovvero comunque capaci di portare alla conclusione del giudizio. Senza poter estendere in questa sede il perimetro dell’indagine, ci si limita a segnalare incidentalmente che la verifica circa la congruità delle conseguenze di ciascuno di tali vizi non può che essere condotta separatamente, procedendo alle opportune, e anzi necessarie, distinzioni in base alla diversa finalità perseguita dalla formalità processuale implicata[74] e al diverso grado di intensità della violazione[75].

La formalistica interpretazione della disciplina del processo costituzionale sui giudizi per conflitto, attraverso cui – come è stato notato – la Corte costituzionale si è messa in condizione di non entrare nel merito di numerosi conflitti[76], sembra stridere, inoltre, con il diverso atteggiamento rinvenibile nei giudizi di costituzionalità vertenti su istituti processuali legislativi, sottoposti a una stretta verifica di proporzionalità nella misura in cui siano impositivi di oneri, o prescrittivi di modalità, tali da rendere impossibile o estremamente difficile l’esercizio del diritto di agire in giudizio di un soggetto, il pieno esplicarsi del diritto di difesa di una delle parti del processo o lo svolgimento dell’attività processuale. Ancora di recente, il Giudice costituzionale ha chiarito che il limite della manifesta irragionevolezza o arbitrarietà alla discrezionalità del Legislatore nella materia processuale è superato proprio quando emerga un’ingiustificabile compressione del diritto di agire in giudizio; e ha sottolineato come la forma degli atti processuali, lungi dall’essere fine a se stessa, sia funzionale a una migliore qualità della decisione di merito, essendo volta a conseguire un determinato scopo, coincidente con la funzione che il singolo atto è destinato ad assolvere nell’ambito del processo[77].

Questa stessa prospettiva sembra poter essere accolta anche per l’interpretazione e applicazione delle norme processuali sui conflitti in tema di delibere di insindacabilità, in ragione delle descritte possibili conseguenze sulla posizione giuridica di soggetti diversi dai poteri ricorrente e resistente nel relativo processo costituzionale. In effetti, le peculiarità di questo genere di conflitti – che già in passato hanno portato all’elaborazione giurisprudenziale di innovative regole processuali[78] – sembrano poter respingere la predicata congiunta applicazione degli istituti dell’improcedibilità del ricorso per meri vizi formali e dell’inammissibilità della sua riproposizione, considerate le difficoltà che vengono in questo modo frapposte al diritto della parte offesa dalle dichiarazioni del parlamentare di accedere a un’effettiva e adeguata tutela giurisdizionale[79]. In questo modo, agli argomenti ‘classici’ addotti per contestare la tenuta delle soluzioni processuali finora accolte sembrano potersene aggiungere di ulteriori, discendenti da una piena valorizzazione delle garanzie costituzionali e convenzionali riconducibili, in ultima analisi, alle esigenze del giusto processo, che potrebbero indurre le giurisdizioni comuni a mettere in discussione gli attuali approdi della giurisprudenza costituzionale, solo apparentemente inscalfibili[80].

  1. Dottore di ricerca in Diritto costituzionale presso l’Università degli Studi di Torino.
  2. Si cfr. Trib. Torino, Sez. VI penale, sent. 14 settembre 2021 (dep. 15 settembre 2021), n. 3369.
  3. Nello specifico, il processo penale verteva sul carattere diffamatorio delle dichiarazioni rilasciate dall’allora senatore in un’intervista trasmessa da un’emittente radiofonica, rilasciata a seguito di un atto intimidatorio di cui era stato vittima. Nell’intervista il parlamentare evocava una presunta notorietà dei mandanti dell’atto, non altrimenti qualificati, e in tale contesto faceva confusamente riferimento all’autore di un libro in cui venivano espresse posizioni critiche rispetto al completamento della linea ferroviaria ad alta velocità prevista per il collegamento delle città di Torino e Lione, che avrebbe a suo dire “attaccato” l’operato dei magistrati procedenti nei confronti degli autori di episodi di violenza volti a manifestare dissenso rispetto alla realizzazione dell’infrastruttura.
  4. A seguito dell’apertura del processo, il giudice penale aveva rigettato l’accoglimento dell’eccezione dell’imputato richiedente l’operatività dell’insindacabilità ex art. 68, comma primo, Cost. e aveva, pertanto, trasmesso gli atti alla camera parlamentare; una volta sopravvenuta l’adozione della delibera affermante l’operatività della prerogativa, lo stesso giudice aveva sollevato conflitto per attribuzioni nei confronti del Senato, ritenendo che detta delibera fosse stata assunta travalicando i limiti cui soggiace il potere parlamentare.
  5. Il ricorso aveva superato il primo vaglio di ammissibilità (si cfr. Corte cost., ord. 10 luglio 2020, n. 148) ed era stato ritualmente notificato unitamente alla relativa ordinanza, da parte dell’autorità giudiziaria procedente, entro il termine indicato dalla Corte costituzionale di sessanta giorni dal momento della comunicazione della decisione di inammissibilità. Senonché il deposito delle prove dell’avvenuta notifica interveniva dopo il termine perentorio di trenta giorni dall’ultima notificazione, previsto dall’allora vigente art. 24, comma 3, Norme integrative per i giudizi dinanzi alla Corte costituzionale (d’ora in poi anche solo “n.i.”), corrispondente all’art. 26, comma 3, n.i. della versione attuale, come da ultimo modificata.
  6. Si cfr. Corte cost., ord. 26 febbraio 2021, n. 27: come si avrà modo di approfondire la motivazione della pronuncia di improcedibilità è, invero, piuttosto concisa sia rispetto all’affermazione della perentorietà del termine violato che in relazione al rigetto dell’istanza di rimessione in termini.
  7. Nella sentenza assolutoria il giudice penale ha ritenuto operante l’insindacabilità ex art. 68, primo comma, Cost. – qualificata come causa personale di non punibilità – in quanto la pronuncia di improcedibilità del conflitto costituzionale sollevato avrebbe “consumato” il proprio potere di promuovere un nuovo conflitto e, quindi, esaurito ogni possibilità di contestare la delibera della camera parlamentare.
  8. Secondo Pesole L., La duplice lettura del principio di non riproponibilità dei conflitti, in Giur. cost., 2003, 919, l’improcedibilità per intempestivo deposito delle prove di notifica e l’inammissibilità della riproposizione del conflitto rispondono in qualche modo alla stessa logica. Anche ad avviso di Benelli F., Il giudice dei conflitti non concede il bis. (Davvero inammissibile e non riproponibile l’azione viziata in rito?), ivi, 926, la chiave di lettura è la medesima, sebbene si tratti di questioni apparentemente distinte. In senso analogo, Malfatti E., Il conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato, in Romboli R. (cur.), Aggiornamenti in tema di processo costituzionale (2002-2004), Torino, 2005, 347.
  9. In questa ipotesi, l’interesse del parlamentare, imputato nel procedimento penale ovvero convenuto nel procedimento civile, è quello di far valere l’intervenuta applicazione della prerogativa dell’insindacabilità, “difendendo” il modo in cui la camera parlamentare abbia esercitato la propria attribuzione costituzionale. In dottrina si è osservato che le conseguenze sulla posizione dei singoli membri della camera destinatari di una delibera di insindacabilità rappresenterebbero solo una tutela indiretta (si v. Grisolia M.C., Immunità parlamentari e Costituzione. La riforma del primo comma dell’art. 68 Cost., Padova, 2000, 212) se non addirittura semplici epifenomeni (si v. Zanon N., «Sfere relazionali» riservate a Parlamento e Magistratura e attribuzioni individuali del singolo parlamentare: una distinzione foriera di futuri sviluppi?, in Giur. cost., 1998, 1482).
  10. All’inverso, la parte offesa dalle dichiarazioni del parlamentare ha interesse a veder riconosciute fondate le proprie domande risarcitorie, il che presuppone la contestazione della delibera parlamentare, in tesi, applicata ingiustificatamente: si v. Grisolia M.C., Immunità parlamentari e Costituzione, cit., 214-220.
  11. In tal senso, si v. le riflessioni di Guazzarotti A., Ricorsi “mal coltivati” e tutela dei terzi nei conflitti ex art. 68.1 Cost. (Nota alla sent. n. 116 del 2003 della Corte costituzionale), in forumcostituzionale.it, 2003; Bin R., “Ultima fortezza” e “regole d’ingaggio” nei conflitti interorganici (nota a Corte costituzionale, sent. 116/2003), ivi, 2-3; Pesole L., La duplice lettura del principio di non riproponibilità dei conflitti, cit., 924-925; Malfatti E., Il conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato, cit., 343; Pignatelli N., Il terzo dinanzi all’autonomia parlamentare: debolezze e incertezze del “diritto ad un giudice”, in Tondi della Mura V., Carducci M., Rodio R.G. (cur.), Corte costituzionale e processi di decisione politica, Torino, 2005, 605; Grisolia M.C., Immunità parlamentari e Costituzione, cit., 215; Midiri M., I conflitti sull’insindacabilità parlamentare: condizioni di promovibilità e tutela della parte offesa, in Anzon A., Caretti P., Grassi S. (cur.), Prospettive di accesso alla Corte costituzionale. Atti del seminario di Firenze svoltosi il 28-29 maggio 1999, Torino, 2000, 571 ss., spec. 577-579; Pace A., Giurisdizione e insindacabilità parlamentare nei conflitti costituzionali, in AA.VV., Immunità e giurisdizione nei conflitti costituzionali. Atti del seminario svoltosi in Roma, Palazzo della Consulta, nei giorni 31 marzo e 1° aprile 2000, Milano, 2001, 37-39.
  12. In proposito Zanon N, La Corte e la «giurisprudenza» parlamentare in tema di immunità: affermazioni di principio o regola del caso concreto?, in Giur. cost., 1988, 5602, mette in luce che la tutela delle posizioni giuridiche riconducibili alla parte privata offesa è affidata alla sola, ed ipotetica, “volontà combattiva” del singolo magistrato, che ritenga di contrastare la delibera parlamentare di insindacabilità. In senso adesivo, si v. Grisolia M.C., Immunità parlamentari e Costituzione, cit., 216.
  13. Sempre Zanon N., La Corte e la «giurisprudenza» parlamentare in tema di immunità, cit., 1988, 5598, rileva che quando il conflitto è sollevato da un giudice, l’atto che ha invaso o menomato la sua competenza appare come eccezione o incidente nel corso di un processo, che viene sospeso proprio in quanto la decisione della Corte costituzionale è pregiudiziale rispetto al procedimento pendente; l’A. esclude, però, che queste caratteristiche possano portare a un’eccessiva enfatizzazione delle analogie con la questione incidentale di costituzionalità. Peraltro, a proposito del sistema antecedente all’entrata in vigore della Legge n. 140/2003, Romboli R., La «pregiudizialità parlamentare» per le opinioni espresse e i voti dati dai membri delle camere nell’esercizio delle loro funzioni: un istituto nuovo da ripensare (e da abolire), in Foro it., 1994, I, 999, evidenzia che la stessa decisione della camera parlamentare viene a inserirsi come fase del procedimento ordinario avente natura (solo impropriamente) pregiudiziale.
  14. Ad esempio, Purificati N., L’insindacabilità dei parlamentari tra Roma e Strasburgo, in Quad.cost., 2007, 331, osservava che la Corte costituzionale era nella condizione di valutare essa stessa se, e fino a che punto, adeguarsi alle affermazioni della Corte europea in tema di diritto di accesso al giudice, proprio in quanto all’epoca non era stata definita la posizione nell’ordinamento interno della CEDU e del relativo diritto giurisprudenziale.
  15. La direttrice era stata tratteggiata già da Cariola A., L’immunità dei parlamentari, il giusto processo ed il diritto comune costituzionale, in AA.VV., Immunità e giurisdizione nei conflitti costituzionali, cit., 272-280.
  16. Sulla necessità di valutare le ricadute dell’operare della prerogativa dell’insindacabilità anche alla luce delle pertinenti garanzie convenzionali, specialmente del diritto di accesso al giudice, si v. già Cioccarelli E., Immunità parlamentari e CEDU, in Riv. AIC, 2011, 1; e Repetto G., L’insindacabilità parlamentare (di nuovo) a Strasburgo tra modelli da ripensare e un dialogo da prendere sul serio, in Giur. cost., 2009, 1300 ss.. Accogliendo siffatta prospettiva, in questa sede si intende le soluzioni processuali implementate dalla Corte costituzionale nei giudizi sui conflitti fra poteri che possano determinare il consolidamento degli effetti della delibera parlamentare di insindacabilità, concorrendo a escludere o a ostacolare significativamente l’accesso alla tutela giurisdizione da parte dei soggetti destinatari delle dichiarazioni diffamatorie o ingiuriose.
  17. In questo senso, Silvestri G., Il conflitto di attribuzioni tra rigidità processuali ed esigenze sostanziali, in Giur. cost., 1997, 3888 ss..
  18. La prospettiva metodologica è condivisa da Benelli F., Il giudice dei conflitti non concede il bis, cit., 926, secondo cui l’inammissibilità dell’azione mal coltivata e l’irreiterabilità del conflitto rappresenterebbero due facce della stessa medaglia, che tuttavia sarebbe più utile mantenere distinte.
  19. Sino alle modifiche apportate nel 2008 (su cui si tornerà a breve) le Norme integrative erano mute rispetto alla natura del termine previsto per il deposito delle prove di notifica da parte del ricorrente. In letteratura l’assenza di indicazioni circa le conseguenze discendenti dalle inosservanze processuali e il generale principio di tassatività dei motivi di nullità e inammissibilità avevano portato a riconoscere la natura ordinatoria del termine: in tal senso, si v. Pizzorusso A., Conflitti fra poteri e irregolarità processuali, in Riv. dir. proc., 1977, 697.
  20. Si cfr. Corte cost., sent. 30 maggio 1977, n. 87, annotata da Nocilla D., Brevi note in margine ad un conflitto fra poteri, in Giur. cost., 1978, 744 ss.; e da Pizzorusso A., Conflitti fra poteri e irregolarità processuali, cit., 693 ss..
  21. In senso critico sulla conclusione, si cfr. Pizzorusso A., Conflitti fra poteri e irregolarità processuali, cit., 700-703. Sulle problematiche poste, in generale, dall’interpretazione del rinvio contenuto nell’art. 22 Legge n. 87/1953, si cfr. Id., sub Art. 137, Le fonti regolatrici del processo costituzionale, in Branca G. (cur.), Commentario della Costituzione, Bologna-Roma, 1981, 208-210.
  22. Si cfr. Corte cost., sent. 30 dicembre 1997, n. 449, annotata da Silvestri G., Il conflitto di attribuzioni tra rigidità processuali ed esigenze sostanziali, cit., 3888 ss..
  23. Si osservava, in tale prospettiva, che, secondo la versione allora vigente delle Norme integrative, lo stesso termine valeva, oltre che per il deposito delle prove di notifica, anche per la costituzione delle parti e che a partire dallo stesso decorreva la catena di ulteriori termini per la prosecuzione del giudizio: si cfr. Corte cost., sent. n. 449/1997, cit., n. 4 Cons. dir..
  24. Il riconoscimento avveniva con le modifiche apportate alle Norme integrative nel corso dell’anno 2008 (Deliberazione del 7 ottobre 2008, pubblicata in G.U. n. 261 del 7 novembre 2008), il cui art. 24, comma 3, prevedeva che “l ricorso dichiarato ammissibile, con la prova delle notificazioni eseguite a norma dell’art. 37, comma quarto, [della Legge n. 87/1953], è depositato nella cancelleria della Corte entro il termine perentorio di trenta giorni dall’ultima notificazione.”.
  25. Per una ricostruzione delle posizioni dottrinali antecedenti alla modifica, su questo punto, delle Norme integrative, si fa rinvio a Benelli F., Repetita iuvant. A proposito della riproponibilità di (due) conflitti già dichiarati improcedibili, in Giur. cost., 2000, 1110-1119.
  26. Sul punto, Malfatti E., Il conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato, in Romboli R. (cur.), Aggiornamenti in tema di processo costituzionale (1999-2001), Torino, 2002, 198, evidenzia che le diverse pronunce riconducibili al medesimo orientamento presentano motivazioni “fotocopia”.
  27. La motivazione della pronuncia, di fatto, si limita a rinviare al consolidato orientamento giurisprudenziale in merito alla perentorietà del termine e alla qualificazione di una sua violazione come causa di improcedibilità. Sul rigetto dell’istanza di rimessione in termini formulata dall’autorità giudiziaria ricorrente si tornerà infra, al § seguente.
  28. In quest’ottica, Pizzorusso A., Conflitti fra poteri e irregolarità processuali, cit., 702-703, rileva l’incoerenza tra l’affermazione del principio per cui l’estinzione per rinuncia può aversi solo con l’accettazione delle altre parti e l’eventualità che il ricorrente pervenga al medesimo risultato per mera inattività; Pesole L., La duplice lettura del principio di non riproponibilità dei conflitti, cit., 918 sottolinea come, però, in presenza di vizi meramente formali atti a dare luogo all’improcedibilità sia stato sovente lo stesso potere resistente a sollecitare l’emissione della pronuncia processuale conclusiva del giudizio; Benelli F., Il giudice dei conflitti non concede il bis, cit., 928.
  29. Sul punto, si cfr. Tarchi R., L’atto introduttivo nei conflitti, in AA.VV., Il processo costituzionale: l’iniziativa, in Foro it., 1997, V, 211 ss., Malfatti E., Il conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato, in Romboli R. (cur.), Aggiornamenti in tema di processo costituzionale (1996-1998) 1999, 422; Nocilla D., Brevi note in margine ad un conflitto fra poteri, cit., 745.
  30. In proposito Tarchi R., L’atto introduttivo nei conflitti, cit., 214, ritiene che, stante il carattere unitario di tutto il procedimento, seppure articolato in fasi distinte, l’atto introduttivo del conflitto fra poteri deve essere considerato il ricorso iniziale, giacché è da tale atto che dipende l’avvio dell’intera dinamica procedimentale.
  31. Si cfr. già Pizzorusso A., Conflitti fra poteri e irregolarità processuali, cit., 701 e Sorrentino F., sub Art. 137, La disciplina del procedimento nei conflitti tra poteri, in Branca G. (cur.), Commentario della Costituzione, cit., 486-487.
  32. In tal senso sembra esprimersi anche Pesole L., La duplice lettura del principio di non riproponibilità dei conflitti, cit., 916.
  33. Anche Sorrentino F., sub art. 137, La disciplina del procedimento nei conflitti tra poteri, cit., 486-487 valorizza questo profilo, evidenziando che, semmai, l’atto “introduttivo” della seconda fase del giudizio sul conflitto è da individuarsi nella notifica alla controparte, non nel deposito delle prove di notifica.
  34. In senso concorde, si cfr. Pizzorusso A., Conflitti fra poteri e irregolarità processuali, cit., 701, secondo il quale il deposito delle prove di notifica ha soltanto la funzione di precostituire la prova della valida costituzione del contraddittorio e non di investire il giudice della causa; quindi, l’intempestivo svolgimento della formalità non può essere interpretato come un atto di desistenza, essendo già intervenuta l’investitura del giudice.
  35. Ai medesimi risultati che si sono qui prospettati sembra pervenire, in sostanza, anche Benelli F., Una battaglia non decide la guerra (nota in dissenso con la sentenza n. 116 del 2003 della Corte costituzionale), in forumcostituzionale.it, 2003, 2, secondo cui il ricorso tardivamente notificato o depositato dovrebbe essere in ogni caso deciso nel merito.
  36. In questa eventualità dovrebbe conseguentemente mutare anche la formula decisoria, non più di improcedibilità, ma di estinzione per perenzione del giudizio sul conflitto.
  37. Anche a questa soluzione potrebbero sfuggire situazioni patologiche, in cui l’inazione processuale non sia rivelatrice dell’assenza di interesse del potere ricorrente alla prosecuzione del giudizio e alla decisione di merito, cionondimeno in tali fattispecie potrebbe ipotizzarsi la previsione di altri strumenti e istituti processuali.
  38. La circostanza che l’istituto non sia preso in considerazione né dalle norme processuali legislative né da quelle integrative adottate dalla Corte costituzionale rende sostanzialmente priva di rilievo, rispetto alla questione dell’applicabilità nel processo costituzionale dell’istituto della rimessione in termini, la risoluzione della problematica definizione dei rapporti intercorrenti fra le Norme integrative e la fonte “esterna” cui si riferisce il rinvio contenuto nell’art. 22 Legge n. 87/1953.
  39. In questi termini, si cfr. ex multis, da ultimo, Cons. Stato, Sez. V, sent. 20 maggio 2021 (dep. 3 giugno 2021), n. 4257.
  40. Se si vuole, una conferma indiretta dell’applicabilità dell’istituto processuale al processo costituzionale sui conflitti fra poteri si è avuta anche nell’ordinanza n. 27/2021 emessa nel caso di specie, visto che la Corte costituzionale non ha escluso sul piano processuale l’ammissibilità della richiesta di rimessione in termini, ma ha proceduto a esaminarla nel merito, salvo poi comunque rigettarla.
  41. Peraltro, una rivisitazione degli spazi operativi dell’istituto della rimessione in termini pare opportuna – lo si segnala solo incidentalmente – anche per evitare una rigida applicazione delle preclusioni processuali in relazione a quei prevedibili errori di carattere formale che si materializzeranno nelle primissime fasi di applicazione delle nuove regole processuali sulle notifiche e sui depositi telematici nel processo costituzionale, disciplina che è stata introdotta con la più recente modifica delle Norme integrative per i giudizi dinanzi alla Corte costituzionale, istitutiva di quello che può essere in qualche modo definito come “processo costituzionale telematico”.
  42. Le ragioni addotte dal Tribunale di Torino insistevano sulla riorganizzazione degli uffici conseguente alle particolari modalità di prestazione dell’attività lavorativa imposte dalle misure di contenimento dell’emergenza epidemiologica in atto; in particolare, come riportato nella decisione costituzionale, il ricorrente aveva spiegato che “il coordinamento tra il personale di cancelleria, posto in modalità di lavoro agile e quindi non presente in contemporanea in ufficio […] è divenuto particolarmente complesso e tale circostanza ha causato la discrasia temporale tra la ricezione della cartolina attestante l’avvenuta notificazione al Senato e l’abbinamento al fascicolo processuale nel quale era contenuta l’ordinanza della Corte ed erano indicati gli adempimenti successivi”.
  43. Sull’esigenza che i canoni di ragionevolezza e proporzionalità debbano conformare anche la disciplina del processo costituzionale sui conflitti fra poteri, si v. Silvestri G., Il conflitto di attribuzioni tra rigidità processuali ed esigenze sostanziali, cit., 3990.
  44. Si cfr. Corte cost., sent. 10 aprile 2003, n. 116 annotata da Pesole L., La duplice lettura del principio di non riproponibilità dei conflitti, 914 ss.; Benelli F., Il giudice dei conflitti non concede il bis., cit., 925 ss.; Guazzarotti A., Ricorsi “mal coltivati” e tutela dei terzi nei conflitti ex art. 68.1 Cost. cit.; la pronuncia si riferiva a un caso di completa omissione, da parte del ricorrente, nell’esecuzione delle notifiche.
  45. Si cfr. Corte cost., ord. 9 maggio 2003, n. 153, che ha esteso il principio di irriproponibilità anche all’ipotesi di tardivo deposito delle prove di notifica, peraltro con una decisione resa già in sede di delibazione sull’ammissibilità del secondo ricorso per conflitto. Sul punto, Pesole L., La duplice lettura del principio di non riproponibilità dei conflitti, cit., 916, evidenzia che il percorso motivazionale della pronuncia mostra talune imprecisioni, in quanto vi si è affermato che la sentenza n. 116/2003 aveva “ritenuto non consentita la riproposizione del conflitto dichiarato improcedibile”, là dove in tale precedente occasione la declaratoria di inammissibilità aveva riguardato la riproposizione di un ricorso per conflitto che non era stato notificato, e che, pertanto, era rimasto privo di decisione.
  46. La conferma del principio di irriproponibilità di ricorsi per conflitto già dichiarati improcedibili si è avuta con successive ordinanze, da cui è originato un indirizzo interpretativo ricorrente: in tal senso, fra le altre, si cfr. Corte cost., ord. 12 luglio 2012, n. 186; ord. 5 dicembre 2007, n. 419; ord. 5 dicembre 2007, n. 413; ord. 14 luglio 2006, n. 294; ord. 26 gennaio 2004, n. 40; ord. 4 giugno 2003, n. 188.
  47. In altri termini, secondo la Corte costituzionale, la sede naturale per la risoluzione dei conflitti è la mediazione politica, di qui l’assenza di termini decadenziali per la proposizione del ricorso per conflitto; tuttavia, allorché il giudizio costituzionale sia avviato e abbia superato la preliminare delibazione di ammissibilità emergerebbe l’esigenza di un rigoroso rispetto delle forme processuali previste. Secondo Pesole L., La duplice lettura del principio di non riproponibilità dei conflitti, cit., 917, la sottoposizione del conflitto alla Corte costituzionale si tradurrebbe, cioè, nel passaggio dalla fluidità che governa i rapporti tra i poteri in ambito politico alla rigidità che verrebbe, invece, a caratterizzare il processo costituzionale sui conflitti.
  48. L’autore dell’espressione è Bin R., “Ultima fortezza” e “regole d’ingaggio” nei conflitti interorganici, cit., che giudica in modo positivo la soluzione dell’irriproponibilità del ricorso, reputando persuasiva la netta distinzione che si è affermata tra la fase di “debole formalizzazione” del processo, anteriore all’ordinanza di ammissibilità, e la fase di maggior formalizzazione che la segue; l’A. ritiene condivisibile la scelta di far prevalere la stringente esigenza di veder rispettate quelle regole processuali che siano fissate, dal Giudice costituzionale nell’ordinanza di ammissibilità, nell’esercizio di un potere di conformazione del giudizio sul conflitto.
  49. Nell’ordinanza appena menzionata si è chiarito che “sussiste l’esigenza costituzionale, legata al regolare svolgimento ed alla certezza dei rapporti tra poteri dello Stato, che il procedimento, una volta instaurato, venga comunque definito, il che non accadrebbe se fosse consentita la riproponibilità ad libitum di ricorsi per conflitto già dichiarati improcedibili”.
  50. La soluzione accolta nella sentenza n. 116/2003 aveva incontrato commenti di diverso tenore: v’era chi, come già si è detto, si esprimeva in modo sostanzialmente favorevole, pur non mancando di rilevare taluni profili problematici (si cfr. Bin R., “Ultima fortezza” e “regole d’ingaggio” nei conflitti interorganici, cit.), chi si mostrava particolarmente dubbioso (si cfr. Benelli F., Il giudice dei conflitti non concede il bis, cit., 925 ss), chi ne evidenziava i concorrenti aspetti negativi e positivi (si cfr. Pesole L., La duplice lettura del principio di non riproponibilità dei conflitti, cit., 914 ss.). Anche anteriormente all’affermazione giurisprudenziale del principio di non riproponibilità la dottrina si era divisa sul punto: a favore della riproposizione del conflitto, si cfr. Silvestri G., Il conflitto di attribuzioni tra rigidità processuali ed esigenze sostanziali, cit., 3889; Romboli R., Sentenze di improcedibilità della Corte costituzionale ed effetto preclusivo alla riproposizione dello stesso ricorso per conflitto tra poteri: a proposito di una «memoria a futura memoria», in Foro it., 1999, I, 2427 ss.; Id. Sulla riproponibilità di un conflitto tra poteri dichiarato improcedibile, in AA.VV., Immunità e giurisdizione nei conflitti costituzionali, cit., 253 ss.; Benelli F., Repetita iuvant. A proposito della riproponibilità di (due) conflitti già dichiarati improcedibili, cit., 1116; in senso contrario, si v. Cecchetti M., Problemi dell’accesso al giudizio sui conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato, in Anzon A., Caretti P., Grassi S. (cur.), Prospettive di accesso alla Corte costituzionale, cit., 381-383; Midiri M., I conflitti sull’insindacabilità parlamentare, cit., 577-579.
  51. Come evidenzia Bin R., L’ultima fortezza. Teoria della Costituzione e conflitti di attribuzione, Milano, 1996, 158, l’assenza di termini decadenziali che caratterizza i conflitti fra poteri differenzia l’ordinamento italiano da quanto previsto in altri sistemi giuridici: in proposito l’A. rinvia alle osservazioni di Lüther J., Cenni di diritto comparato sui conflitti di attribuzioni fra i poteri dello Stato, in Anzon A., Caravita B., Luciani M., Volpi M. (cur.), La Corte costituzionale e gli altri poteri dello Stato, Torino, 1993, 99 ss.; nel senso dell’ammissibilità dell’introduzione di un termine decadenziale, si cfr. Zagrebelsky G., La giustizia costituzionale, Bologna, 1988, 386, e Sorrentino F., sub art. 137, La disciplina del procedimento nei conflitti tra poteri, cit., 482.
  52. Sul punto, si v. Romboli R., Sulla riproponibilità di un conflitto tra poteri dichiarato improcedibile, cit., 255, secondo cui il principio di non riproponibilità del ricorso contrasta con una delle principali caratteristiche del conflitto, ossia l’assenza di un qualsiasi termine per la proposizione dello stesso; Id. Sentenze di improcedibilità della Corte costituzionale ed effetto preclusivo alla riproposizione dello stesso ricorso per conflitto tra poteri, cit., 2434, individua l’interesse ad agire come unico limite per la proposizione del giudizio sul conflitto.
  53. Si cfr. Benelli F., Una battaglia non decide la guerra, cit., 2, il quale esclude che l’opzione ermeneutica accolta dalla Corte possa essere spiegata con la necessità di assicurare una tempestiva soluzione della controversia, poiché vi si oppone proprio la natura del conflitto di attribuzione, che è un giudizio senza limiti temporali per la sua instaurazione.
  54. In tal senso, Romboli R., Sulla riproponibilità di un conflitto tra poteri dichiarato improcedibile, cit., 255, che contesta la soluzione dell’irriproponibilità del conflitto la circostanza, rilevando, fra l’altro, che la pronuncia di improcedibilità non contiene un accertamento sulla conformità del comportamento delle Camere.
  55. In questo senso, si v. Pizzorusso A., voce Conflitto, in Novissimo Digesto italiano, Appendice, vol. II, Torino, 1981, 388, che nega alla pronuncia processuale di inammissibilità la possibilità di precludere l’esame nel merito in successivi giudizi, ma lo stesso potrebbe dirsi in relazione alla pronuncia processuale di improcedibilità; e Benelli F., Una battaglia non decide la guerra, cit., 2-3, che esclude una possibilità “ultrattività” della decisione di mero rito su successivi processi in ragione della sua intrinseca inidoneità ad assumere la veste di cosa giudicata: l’A. evidenzia, infatti, che tale decisione difetta di un elemento essenziale, cioè la statuizione sul merito dell’attribuzione, per determinare l’inammissibilità dell’azione riproposta e l’operatività del principio di inappellabilità delle sentenze della Corte costituzionale.
  56. In tal senso, si cfr. Zagrebelsky G., La giustizia costituzionale, cit., 386-387; Sorrentino F., sub art. 137, La disciplina del procedimento nei conflitti tra poteri, cit., 480.
  57. Il problematico indebolimento degli interessi della parte privata, che si rinviene anche nell’impossibilità di rimediare a errori processuali ad essa non imputabili, è segnalato anche dalla dottrina favorevole all’affermazione dell’irriproponibilità dei conflitti fra poteri: si v. Bin R., “Ultima fortezza” e “regole d’ingaggio” nei conflitti interorganici, cit., 2, il quale rileva che nella particolare struttura dei conflitti sull’insindacabilità parlamentare eventuali errori compiuti dalle autorità giudiziarie, parti processuali nel giudizio costituzionale, hanno riflessi decisivi sulla posizione della parte privata offesa dalle dichiarazioni del parlamentare.
  58. Sul punto, Benelli F., Una battaglia non decide la guerra, cit., 1, evidenzia l’opportunità di riflettere sui problemi “operativi” a cui vanno incontro gli uffici giudiziari nel momento in cui operano quali parti processuali nei giudizi sui conflitti fra poteri. Si tratta di problemi che – si aggiunge – saranno accresciuti, quanto meno in una prima fase, dalle nuove modalità telematiche di compimento delle formalità processuali, introdotte dall’ultima modifica delle Norme integrative.
  59. Come osservava Romboli R., La «pregiudizialità parlamentare», cit., 999, ancor prima dell’introduzione della Legge n. 140/2003.
  60. La giurisprudenza convenzionale considera la delibera parlamentare di insindacabilità alla stregua di una compressione del diritto di accesso al giudice custodito nell’art. 6 CEDU; la casistica è ricostruita dettagliatamente da Cioccarelli E., Immunità parlamentari e CEDU, cit., 6-10; più in generale, Purificati N., L’insindacabilità dei parlamentari tra Roma e Strasburgo, cit., 309 ss., spec. 312-313 e 325-327, approfondisce il sindacato di proporzionalità svolto dalla Corte europea dei diritti nei casi sull’insindacabilità parlamentare.
  61. Si cfr. Corte Edu, Cordova c. Italia (N° 1), ric. n. 40877/98, 30 gennaio 2003; Cordova c. Italia (N° 2), ric. n. 45649/99, 30 gennaio 2003; De Jorio c. Italia, ric. n. 73936/01, 3 giugno 2004; Patrono, Cascini e Stefanelli c. Italia, ric. n. 10180/04, 20 aprile 2006. Come evidenzia Cioccarelli E., Immunità parlamentari e CEDU, cit., 8, a seguito del diniego dei giudici nazionali di sollevare conflitto di attribuzioni tra poteri avverso le delibere di insindacabilità, i ricorrenti non disponevano di altri mezzi per tutelare efficacemente i loro diritti.
  62. Si cfr. Corte Edu, C.G.I.L. e Cofferati c. Italia (N° 1), ric. n. 46967/07, 24 febbraio 2009; C.G.I.L. e Cofferati c. Italia (N° 2), ric. n. 2/08, 6 aprile 2010; nell’ambito di tali procedimenti i ricorrenti lamentavano di non aver avuto accesso a una decisione sul merito della denuncia per diffamazione, in quanto la Corte costituzione, pur investita di due conflitti fra poteri in relazione alla delibera parlamentare di insindacabilità, si era pronunciata con due decisioni meramente processuali, dichiarando l’inammissibilità dei ricorsi per conflitto in ragione della mancata puntuale riproduzione delle dichiarazioni del parlamentare.
  63. Nella giurisprudenza convenzionale formatasi intorno alla garanzia del diritto di accesso al giudice si è riconosciuto che le giurisdizioni nazionali sono tenute a interpretare e applicare le regole processuali in modo tale da evitare eccessivi formalismi, che potrebbero incidere sulle esigenze di un giusto processo strumentale alla soddisfazione delle domande di giustizia: si v., ex multis, Corte Edu, Hasan Tunç e altri c. Turchia, ric. n. 19074/05, 31 gennaio 2017, §§ 32-33.
  64. Sembrano muoversi in tale prospettiva le riflessioni di Ibrido R., Intorno all’“equo processo costituzionale”: il problema dell’operatività dell’art. 6 CEDU nei giudizi dinanzi ai tribunali costituzionali, in Riv. AIC, 2016, 1; Ferracuti J., Il filtro di ammissibilità dei conflitti interorganici e l’assenza di contraddittorio. Riflessioni “a tutto tondo”, in Federalismi, 2021, 13, 162 ss..
  65. In altri termini, l’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata che qui si prospetta è giustificata dalla peculiare natura del giudizio costituzionale sul conflitto concernente la delibera parlamentare di insindacabilità, che si configura come un incidente del procedimento in corso di svolgimento dinanzi all’autorità giudiziaria ordinaria.
  66. In questa prospettiva non sarebbe, ad esempio, precluso al giudice penale dell’impugnazione l’avvio di quello stesso conflitto già precedentemente instaurato, senza successo, dal giudice di prime cure, né analogamente incorrerebbe in alcuna preclusione il giudice civile, investito delle domande risarcitorie a seguito di una pronuncia assolutoria in sede penale.
  67. Si cfr., Corte cost., ord. 27 luglio 2007, n. 331.
  68. La Corte costituzionale, quindi, ha ritenuto ammissibile il conflitto sollevato dalla Corte d’appello di Catanzaro nel giudizio penale di revisione – avviato, peraltro, da un’istanza fondata sull’intervento della delibera di insindacabilità in un momento successivo al formarsi del giudicato penale di condanna – nonostante la dichiarazione d’improcedibilità che aveva colpito il ricorso per conflitto presentato sulla medesima delibera dal Tribunale di Reggio Calabria, nell’ambito del giudizio civile per risarcimento dei danni promosso nei confronti del parlamentare. Anche il secondo conflitto, tuttavia, non è stato esaminato nel merito per la ritenuta violazione del principio di completezza e autosufficienza del ricorso, comportante la sua inammissibilità: si cfr. Corte cost., sent. 20 maggio 2008, n. 163.
  69. Sono, in effetti, molteplici i criteri attraverso cui sarebbe possibile individuare gli elementi comuni o differenziali delle controversie nel cui ambito possa essere avviato il conflitto costituzionale.
  70. Si cfr. Benelli F., Una battaglia non decide la guerra, cit., 3, il quale sottolinea come l’eventuale intempestivo deposito dell’atto introduttivo notificato non sia suscettibile, di per sé considerato, di dare luogo a preclusioni; in tale ottica l’A. evidenzia che la citazione civile non depositata entro il decimo giorno, può sempre essere rinnovata, se i termini per l’avvio dell’azione non sono ancora decorsi, e che il ricorso di fronte al giudice amministrativo può essere nuovamente notificato, a condizione che sia ancora tempestivo. Queste riflessioni, se per un verso sono condivisibili nella parte in cui escludono che il divieto di riproposizione dell’azione, civile o amministrativa, possa essere ricondotto all’accertamento del vizio formale, discendendo invece dall’operare degli istituti della prescrizione e della decadenza, per un altro verso dimostrano ulteriormente l’incongruità della irriproponibilità dei conflitti improcedibili per intempestivo deposito delle prove di notifica, in considerazione della concreta funzione svolta da questa formalità, che, a differenza del deposito nel processo civile dell’atto di citazione o nel processo amministrativo del ricorso introduttivo, non serve né a investire il Giudice costituzione del conflitto né a instaurare il contraddittorio processuale. Sul punto, Romboli R., Sentenze di improcedibilità della Corte costituzionale ed effetto preclusivo alla riproposizione dello stesso ricorso per conflitto tra poteri, cit., 2432-2433, evidenzia che l’unico effetto preclusivo prodotto da decisioni processuali è correlato all’operare del principio di consumazione dell’impugnazione, secondo cui l’atto di appello o il ricorso per cassazione dichiarati inammissibili o improcedibili non possono essere riproposti, anche quando non sia scaduto il termine di legge; ma tale principio trova il suo ambito applicativo in ipotesi di giudizi a carattere impugnatorio, di tal che pare da escludersi la sua applicabilità nel giudizio costituzionale sul conflitto fra poteri, il cui oggetto principale non è la legittimità dell’atto, ma l’interesse a un accertamento della spettanza delle attribuzione in contestazione.
  71. La letteratura è pressoché concorde nel ritenere che, almeno in origine, l’affermazione del principio di irriproponibilità del conflitto fra poteri era giustificata da ragioni di certezza nei rapporti fra poteri: si cfr. Pesole L., La duplice lettura del principio di non riproponibilità dei conflitti, cit., 917
  72. L’esclusione di regole processuali eccessivamente rigide, ispirate cioè a formalismi processuali, era sostenuta anche da Bin R., L’ultima fortezza, cit., 157-161, che sottolineava come l’intero impianto dei conflitti fra poteri, per le sue caratteristiche proprie (individuazione del thema decidendum e dei soggetti del giudizio da parte dello stesso giudice procedente; assenza di termini decadenziali per l’esperimento dell’azione; regole peculiari sulla rinuncia e sulla costituzione del ricorrente e delle parti) e per la sua natura (strumento processuale residuale nell’ordinamento), non sopportasse la formalità né concettuale, né a maggior ragione processuale. Lo stesso A. ha, però, in seguito accolto con favore – come si è detto – l’affermazione del principio di irriproponibilità dei ricorsi per conflitto, reputando convincente la distinzione tra ciò che precede e ciò che segue l’ordinanza di ammissibilità, atteso che in questa seconda fase, successiva all’“ufficializzazione” del conflitto, deve essere introdotto qualche elemento di certezza e di “durezza”: si v. Bin R., “Ultima fortezza” e “regole d’ingaggio” nei conflitti interorganici, cit., 2.
  73. Del resto, data la peculiare natura delle parti processuali, non sembrano addirsi ai giudizi sui conflitti interorganici quei rischi, pur paventati, di latente conflittualità o di comportamenti “in mala fede” del ricorrente, che potrebbero concretizzarsi, in tesi, qualora non venissero sanzionati quei vizi meramente formali riconducibili ad attività o comportamenti di tale parte processuale: contra, si v. Pesole L., La duplice lettura del principio di non riproponibilità dei conflitti, cit., 920; Bin R., “Ultima fortezza” e “regole d’ingaggio” nei conflitti interorganici, cit., 2, il quale ritiene sussistente il rischio che anche la pronuncia di ammissibilità divenga un passaggio o uno strumento della lunga trattativa tra le parti, attraverso cui il ricorrente potrebbe premere sul resistente.
  74. Da questo punto di vista, occorre distinguere la categoria dei vizi concernenti l’esecuzione delle notifiche del ricorso e dell’ordinanza di inammissibilità da quella dei vizi inerenti al deposito delle prove di avvenuta notifica, considerata la diversa funzione svolta dall’atto processuale: come si è chiarito, solo il procedimento notificatorio serve effettivamente a una corretta instaurazione del contraddittorio processuale.
  75. Sotto tale profilo, è poi possibile separare da un lato le ipotesi di omissione della notifica da quelle di irregolarità, invalidità o inesistenza della stessa e dall’altro la mancanza assoluta del deposito delle prove di notifica dal loro tardivo deposito.
  76. Così, Nocilla D., Brevi note in margine ad un conflitto fra poteri, cit., 753; in senso analogo, Pesole L., La duplice lettura del principio di non riproponibilità dei conflitti, cit., 919, suggerisce che le soluzioni processuali implementate siano volte a evitare di affrontare il merito di conflitti dall’alta valenza politica, quali sono quelli sulle delibere parlamentari di insindacabilità.
  77. Si cfr. Corte cost., sent. 9 luglio 2021, n. 148, che ha dichiarato l’incostituzionalità della norma (art. 44, comma 4, c.p.a.) che impediva al giudice amministrativo di disporre la rinnovazione delle notifiche allorché l’esito negativo del procedimento notificatorio fosse dovuto a causa imputabile al soggetto notificante.
  78. Proprio nell’ambito di un caso di insindacabilità (anche se si trattava dell’ipotesi ex art. 122 Cost.) si è avuto il riconoscimento dell’ammissibilità dell’intervento nel processo costituzionale di soggetti diversi da quelli legittimati a promuovere il conflitto o a resistervi: si cfr. Corte cost. sent. 23 marzo 2001, n. 76. Nella successiva sent. 26 maggio 2004, n. 154, la Corte costituzionale ha avuto modo di precisare che “negare ingresso alla difesa delle parti del giudizio comune, in cui si controverte sull’applicazione della immunità, significherebbe esporre tali soggetti all’eventualità di dover subire, senza possibilità di far valere le proprie ragioni, una pronuncia il cui effetto potrebbe essere quello di precludere definitivamente la proponibilità dell’azione promossa davanti alla giurisdizione: il che contrasterebbe con la garanzia costituzionale del diritto al giudice e ad un pieno contraddittorio, che discende dagli articoli 24 e 111 della Costituzione, ed è protetto altresì dall’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, come applicato dalla giurisprudenza della Corte europea di Strasburgo” (così, sent. cit., n. 2 Cons. dir.). In tal senso si era già espressa, del resto, anche parte della dottrina: si cfr. esemplificativamente Pizzorusso A., Immunità parlamentari e diritto di azione e difesa, in Foro it., 2000, V, 302 ss., secondo cui l’esclusione dal processo costituzionale del terzo danneggiato dal reato avrebbe frustrato sia un diritto sostanziale sia un diritto fondamentale processuale; e Zanon N., La Corte e la «giurisprudenza» parlamentare in tema di immunità, cit., 5602.
  79. Il superamento delle attuali soluzioni processuali sembra potersi giustificare con una lettura delle regole e dei princìpi operanti nei giudizi sui conflitti in tema di insindacabilità parlamentare orientata alle garanzie concernenti il diritto di azione e di accesso al giudice, che trovano riconoscimento in Costituzione (artt. 24, primo comma, 111 e 113) e nella CEDU (art. 6, par. 1).
  80. Per quanto si è illustrato, quindi, nel caso in esame il Tribunale di Torino aveva a sua disposizione molteplici argomenti per mettere in discussione il principio di irriproponibilità del conflitto, contestando la pretesa “consumazione” del proprio potere e sollevando un nuovo conflitto, identico per oggetto e ragioni addotte a quello già dichiarato improcedibile, anziché aderire – come invece ha ritenuto – alla pur consolidata posizione espressa dalla giurisprudenza costituzionale.