Al servizio dell’unità. Perché le Regioni possono disciplinare (con limiti) l’aiuto al suicido

Corrado Caruso[1]

(ABSTRACT) ITA

Al servizio dell’unità. Perché le regioni possono disciplinare (con limiti) l’aiuto al suicido

Il saggio sostiene che, a seguito della sentenza n. 242/2019, le regioni abbiano uno spazio per intervenire nella disciplina del suicidio medicalmente assistito, ponendo norme organizzative e procedimentali strettamente attuative dei principi enunciati dalla Corte costituzione. Le regioni agirebbero a favore dell’unità politica, garantendo un diritto già riconosciuto (ma non pienamente tutelato) dall’ordinamento a seguito della sentenza del Giudice delle leggi.

A conferma di tale conclusione si riporta il caso della Regione Emilia-Romagna che, in via amministrativa, ha dettato una regolazione coerente con le condizioni dettate dalla Corte costituzionale.

(ABSTRACT) EN

In the service of unity. Why Regions can regulate (with limits) assisted suicide

The essay argues that, following dec. no. 242/2019, the Regions have room to regulate medically assisted suicide, laying down organization and procedural rules enforcing the principles set out by the Constitutional Court. The Regions would thus promote political unity, guaranteeing a right already acknowledged (but not fully protected) by the legal system after the ruling of the Constitutional Court.

This conclusion is confirmed by the choices of Emilia-Romagna Region, which issued an administrative regulation fully consistent with the conditions dictated by the Constitutional Court.

Sommario:

1. Alcuni interrogativi preliminari – 2. La libertà fondamentale di scegliere il suicidio assistito – Le regioni tra i destinatari della sentenza della Corte costituzionale – 4. L’intervento regionale: possibile ma con limiti – 5. La soluzione amministrativa della Regione Emilia-Romagna entro il paradigma della legalità

1. Alcuni interrogativi preliminari

Dietro al quesito, consegnato dalla cronaca di questi giorni, intorno alla possibilità per le Regioni di disciplinare il suicidio medicalmente assistito, si celano problemi che incrociano temi centrali per la nostra disciplina. Il dilemma non può ridursi alla domanda, di stretto diritto regionale, se le Regioni abbiano un titolo di competenza in grado di consentire una eventuale disciplina legislativa.

Questa è anzi l’ultima delle questioni, che segue altri e più complessi interrogativi: con la sentenza sul caso Cappato[2] la Corte costituzionale ha riconosciuto in via pretoria un nuovo diritto fondamentale o ha introdotto una mera liceità e, con essa, una eccezione al delitto descritto dall’art. 580 c.p.? Le istituzioni chiamate a dare seguito alla pronuncia si esauriscono nel circuito dello Stato-persona o includono tutti i soggetti della Repubblica e, dunque, dello Stato-ordinamento? E, se così fosse, qual è il ruolo delle Regioni nell’esercizio dell’autonomia costituzionalmente garantita? Il regionalismo italiano è ormai malinconicamente destinato a confondersi con il decentramento amministrativo o è ancora capace di contribuire al processo di integrazione nei valori costituzionali, consentendo alle Regioni di offrire prestazioni di unità politica?

Senza anticipare quanto tra poco si andrà sostenendo, chi scrive ritiene che, dopo la sentenza del Giudice delle leggi, le Regioni abbiano uno spazio di intervento entro le coordinate poste dalla stessa Corte costituzionale. Simile conclusione richiede però di risolvere, in via preliminare, i dilemmi cui si è appena accennato.

2. La libertà fondamentale di scegliere il suicidio assistito

Nel dibattito successivo alla sentenza n. 242 del 2019 non sono mancate voci che hanno declassato il suicidio medicalmente assistito a una possibilità di fatto, una mera liceità cui corrisponderebbe la scriminante a favore del soggetto che agevola la morte prematura[3]. Non vi è dubbio che la (creativa)[4] sentenza della Corte non abbia riconosciuto un diritto al suicidio. Come già statuito nell’ord. n. 207/2018, il diritto alla vita impedisce di rinvenire, nella trama dell’ordinamento, un «diritto di rinunciare a vivere»[5].

Il Giudice delle leggi ha riconosciuto una più circoscritta «libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze»[6], da garantire al ricorrere di una serie di condizioni specificate dalla stessa Corte costituzionale. Attraverso un giudizio di analogia rispetto alla situazione del paziente che rifiuti i trattamenti sanitari per lasciarsi morire, la Corte ha allargato i confini della libera autodeterminazione terapeutica. Quest’ultima include, oltre all’interruzione dei trattamenti sanitari con contestuale somministrazione di cure palliative, anche l’assunzione del farmaco idoneo a portare alla morte prematura. Se, infatti, la libera autodeterminazione della persona richiede «di rispettare la decisione del malato di porre fine alla propria esistenza tramite l’interruzione dei trattamenti sanitari […] non vi è ragione» per escludere dalla tutela costituzionale la «richiesta del malato di un aiuto che valga a sottrarlo al decorso più lento conseguente all’anzidetta interruzione dei presidi di sostegno vitale»[7].

La libertà di scelta non sembra includere un diritto, immediatamente esigibile a prescindere da una specifica intermediazione normativa, a ottenere una procedura medicalizzata funzionale a soddisfare il bisogno individuale. Non implica cioè automaticamente un diritto sociale a ricevere, da parte del servizio sanitario nazionale, l’ausilio necessario a interrompere la vita. Non a caso la Corte si premura di riconoscere l’obiezione di coscienza del personale medico sanitario, con una ampiezza tale da rendere difficilmente configurabile in via immediata un diritto all’aiuto medicalizzato “pubblico”[8].

Mentre la libertà di autodeterminazione attraverso il suicidio è, alle condizioni previste dalla Corte, immediatamente esigibile (e, con essa, una serie di situazioni soggettive di cui tra poco si dirà), il diritto alla prestazione sanitaria è non solo condizionata dall’eventuale obiezione di coscienza, ma deve anche essere puntualmente disciplinata e inserita tra i livelli essenziali di assistenza. Questo non vuol dire che il legislatore nazionale (o le Regioni, come tra poco si vedrà) non possa scegliere di fornire simile prestazione. D’altronde, il riferimento all’obiezione di coscienza compiuto dalla pronuncia non avrebbe senso se non in riferimento alla possibile organizzazione pubblica del servizio. Sarebbe in fondo paradossale, come accennato dalla ord. n. 207/2018, quando ancora il Giudice delle leggi sperava in un intervento del legislatore, ammettere che «qualsiasi soggetto – anche non esercente una professione sanitaria – p[ossa] lecitamente offrire, a casa propria o a domicilio, per spirito filantropico o a pagamento» l’aiuto al suicidio e, allo stesso tempo, escludere in via assoluta simile prestazione dal Servizio sanitario nazionale. Liberalizzare la prestazione sanitaria senza consentire ai poteri pubblici di farsene carico creerebbe un possibile attrito con lo stesso art. 32 Cost. e gli imperativi dello Stato sociale. In questa direzione si è mosso, non a caso, il Ministro della salute quando, nel giugno 2022, con apposita nota ha invitato le Regioni a farsi carico delle spese delle procedure per suicidio assistito[9].

In ogni caso, la libertà di scegliere una terapia capace di interrompere una esistenza non più ritenuta dignitosa dal paziente non è una mera libertà di fatto, un agere licere rispetto al quale l’ordinamento può rimanere indifferente. Essa è, piuttosto, un agere posse, una vera e propria pretesa, giuridicamente assistita, a porre fine alla propria vita tramite l’ausilio di terzi. Questo riconoscimento implica, come tra poco si vedrà, un insieme di situazioni soggettive che l’ordinamento è tenuto immediatamente a soddisfare.

A favore di questa lettura milita una serie di argomenti. Anzitutto, il fondamento costituzionale della libertà di autodeterminazione terapeutica, radicata negli artt. 2, 13 e 32 Cost., distingue questo diritto di libertà – da declinare nei termini di una libertà di – dalle mere liceità collocate nella zona grigia del costituzionalmente indifferente. Vi sono infatti alcune attività che non possono essere declinate secondo l’impegnativo lessico dei diritti, come la libertà di assumere droghe o di disporre del proprio corpo previo pagamento di un corrispettivo economico. Proprio con riguardo alla prostituzione, la Corte costituzionale ha escluso che possa parlarsi di un diritto fondato nell’art. 2 Cost., magari desumibile dalla libertà sessuale. Prostituirsi consiste in un’attività che, pur attenendo alla sfera di autodeterminazione della persona, non viene elevata a diritto fondamentale perché indifferente, se non contraria, alla oggettiva dignità umana. La prostituzione è una mera liceità, non punita dall’ordinamento per evitare di colpire due volte un soggetto vulnerabile: la prima volta dalle pratiche di sfruttamento o dalle condizioni materiali di indigenza, che lo costringe a vendere il proprio corpo[10]; la seconda volta dalla sanzione penale che lo condannerebbe alla detenzione per una attività che è, in qualche misura, subita.

È il principio personalista, riconosciuto dall’art. 2 Cost, a conferire il rango di diritto fondamentale alle attività della persona, sottraendole alle facoltà costituzionalmente irrilevanti[11]. Solo allorché la situazione soggettiva sia strumentale allo sviluppo della persona nelle sue concrete proiezioni, alla sua emancipazione dai rapporti di subordinazione sociale, la rivendicazione individuale deve essere tutelata dall’ordinamento.

È questo il caso del suicidio assistito come enunciato dalla Corte costituzionale: la scelta di ricorrere al suicidio attraverso l’aiuto di terzi è una facoltà connessa all’autodeterminazione terapeutica di soggetti vulnerabili che, per oggettive circostanze, versano in condizioni tali da ritenere la vita indegna di essere vissuta.

Tali circostanze sussistono, ad avviso della Corte, quando vi siano patologie irreversibili, gravi sofferenze fisiche o psicologiche, dipendenza da trattamenti di sostegno vitale e capacità di prendere decisioni libere e consapevoli. Al ricorrere di tali condizioni, scatta la facoltà di avvalersi dell’aiuto al suicidio, una libertà che, pur non traducendosi in un compiuto diritto al suicidio, con immediata pretesa all’ottenimento del farmaco e alla prestazione medica dal SSN, genera una serie di situazioni soggettive immediatamente esigibili, come il diritto a inoltrare la richiesta alla struttura sanitaria pubblica affinché questa verifichi la sussistenza delle «condizioni che rendono legittimo l’aiuto al suicidio»[12]; il diritto al contradditorio e all’esame della richiesta da parte di un organo collegiale terzo, munito delle adeguate competenze, il quale possa «garantire la tutela delle situazioni di particolare vulnerabilità»[13]; il diritto a non aspettare il sopraggiungere della morte per rinuncia alle cure, con conseguente rifiuto delle cure palliative a favore dell’assunzione di un farmaco letale che renda la morte più rapida, indolore e dignitosa possibile[14]; il diritto ad acquistare il medicinale con contestuale aiuto da parte di soggetti terzi non obiettori.

Le menzionate situazioni soggettive, che pure possono essere fatte valere immediatamente, richiedono per un loro migliore esercizio talune scansioni procedimentali, di natura organizzativa, da porre con disciplina puntuale: ed è proprio questa puntuale regolamentazione che può essere offerta dalle Regioni in virtù della competenza concorrente «tutela della salute», espressa dall’art. 117, comma 3, Cost. Rimane invece in una zona grigia il diritto a ricevere gratuitamente la prestazione da parte della struttura sanitaria, che la Corte non riconosce esplicitamente: eppure, come si vedrà più avanti, alcune prassi amministrative seguite in passato, insieme alla già accennata lettura complessiva e non parcellizzata delle situazioni soggettive riconosciute dalla Corte, potrebbero indurre ad ammettere un intervento regionale anche su questo profilo.

3. Le Regioni tra i destinatari della sentenza della Corte costituzionale

Lo spazio per un intervento regionale si trae in fondo dalla stessa decisione della Corte costituzionale. La pronuncia è diretta anzitutto ai cittadini, che possono vantare nuove situazioni soggettive immediatamente azionabili, legate alla libertà di autodeterminazione terapeutica. Sotto il profilo istituzionale, la sentenza ai rivolge al legislatore nazionale, il quale, nella sua discrezionalità politica, può limitarsi ad eseguire i dicta della sentenza n. 242/2019 oppure integrarli e arricchirli, ad esempio rispetto all’obbligo generalizzato di predisposizione della prestazione da parte del servizio sanitario nazionale. Ed è altrettanto ovvio che nella platea dei destinatari vadano annoverati i giudici, chiamati ad applicare le regulae iuris enunciate nella sentenza additiva.

I destinatari della pronuncia non possono però esaurirsi entro il circuito dello Stato-persona: la Corte, come si è avuto modo di sostenere altrove, è garante dell’unità della Repubblica e organo dello Stato-ordinamento[15]. Diversamente dal monismo dei regimi passati, l’unità delineata dalla Costituzione non è la traduzione normativa della forza sovrana dello Stato, ma definisce l’identità di una comunità politica organizzata in senso pluralistico.

L’unità della Repubblica è concetto polisemantico, che rinvia alla dimensione giuridica e alle dinamiche politiche dell’ordinamento. L’unità è giuridica nel senso che i giudici costituzionali interpretano, sistematizzano e applicano le disposizioni contenute nella Costituzione, dando forma giuridica ai rapporti tra le parti del sistema. Nelle interazioni tra livelli di governo l’unità giuridica implica un principio di ordine che annovera, tra i suoi corollari, coerenza normativa e certezza delle relazioni territoriali. L’unità garantita dalla Corte è però anche politica, nel senso che il giudice delle leggi risponde agli stimoli che provengono dal sistema sociale e tenta di ordinarli secondo scelte interpretative coerenti con gli orientamenti culturali prevalenti nella società[16]. Le decisioni della Corte, soprattutto quando risolvono questioni fondamentali rispetto all’identità dell’ordinamento, rimandano ad un processo dinamico di unificazione nei valori costituzionali[17], cui partecipano, nei casi previsti dalla Costituzione, anche le autonomie regionali[18]. Certo, la funzione legislativa regionale è anzitutto espressione dell’autonomia costituzionalmente garantita. Eppure le funzioni regionali non vanno lette solo in termini di separazione o contrapposizione rispetto all’unità repubblicana: di fronte a una pronuncia della Corte costituzionale che definisce i titolari, i limiti, i nuovi contenuti e le modalità di esercizio di una libertà fondamentale, al cospetto di una sentenza che arricchisce il contenuto dell’unità politica, la Regione è ammessa a partecipare al processo di integrazione nei valori innescato dal Giudice delle leggi. L’intervento della Regione non avrebbe di mira, come pure è stato sostenuto, la regionalizzazione di un diritto fondamentale[19], ma delineerebbe, con una disciplina di dettaglio, esecutiva dei principi posti dalla Corte, una procedura organizzativa uniforme (quanto meno) sul territorio regionale. Si eviterebbe così il rischio di lasciare alle disomogenee prassi (queste sì, necessariamente frazionate) della giurisdizione e delle amministrazioni sanitarie locali l’enforcement di nuovi diritti formalmente vigenti ma non pienamente garantiti.

Chiamate ad agire per l’unità – per riprendere uno slogan che ha accompagnato il disgelo delle autonomie regionali, reputate necessarie ad un profondo processo di riforma e rinnovamento del Paese[20] – le Regioni colmerebbero una lacuna costituzionale, un vuoto normativo che rende parzialmente inoperante un imperativo della Costituzione.

Poiché, dunque, la Corte costituzionale assicura e promuove l’unità dell’ordinamento nel suo complesso, le sue pronunce annoverano necessariamente, tra i propri destinatari istituzionali, anche le Regioni (purché, come nel caso di specie, queste possano vantare competenze costituzionalmente garantite). Non si tratta di avallare, attraverso una sorta di legittimazione per valori, scelte regionali eccentriche rispetto al riparto di attribuzioni accolto dalla Costituzione[21]. Non siamo davanti a bagliori di sovranità, che deriverebbero dalla scelta autarchica di fondare nuovi diritti costituzionalmente rilevanti, dato che gli aspetti fondamentali della libertà sono stati già riconosciuti dal Giudice delle leggi. Si tratta piuttosto di prendere atto che la cornice normativa entro cui collocare l’azione regionale può essere composta anche dalle norme enunciate in via pretoria dalla Corte costituzionale. Nulla di rivoluzionario, peraltro: fin dalla modifica della legge n. 62/1953 volta a consentire l’entrata in funzione delle Regioni, e secondo una formulazione confermata dalla legislazione di attuazione della riforma Titolo V e dalla conseguente giurisprudenza costituzionale, i principi fondamentali delle leggi cornice possono essere tratti in via interpretativa dalla legislazione vigente[22].

La sentenza n. 242/2019 ha dunque delineato i principi fondamentali della disciplina, sciogliendo, in senso positivo, il dubbio circa l’an del riconoscimento dell’aiuto al suicido quale aspetto della libera autodeterminazione terapeutica. La stessa sentenza ha delineato le condizioni e gli aspetti procedimentali generali da apprestare per garantire l’esercizio della libertà in senso costituzionalmente conforme.

Non sono condivisibili quindi le argomentazioni dell’Avvocatura generale dello Stato, nel parere reso al Consiglio regionale del Veneto durante la discussione del progetto di legge di iniziativa popolare di attuazione della sent. n. 242/2019[23] e ribadite nel ricorso avverso le delibere amministrative della Regione Emilia-Romagna[24].

L’Avvocatura ha affermato come spetti allo Stato la disciplina relativa alla titolarità e all’esercizio dei diritti fondamentali, in virtù della competenza esclusiva in materia di ordinamento civile e determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni. A conferma di questo assunto, la difesa erariale ha riportato la sent. n. 262/2016, che dichiarò illegittima una legge friulana volta a introdurre, nell’ordinamento regionale, disposizioni anticipate di trattamento sanitario prima dell’entrata in vigore della legge n. 219/2017. Secondo l’Avvocatura, «i criteri dettati dalla Corte nella sentenza n. 242/2019 scontano un inevitabile tecnicismo (si pensi, ad esempio, alla nozione di “trattamenti di sostegno vitale”), che, inevitabilmente, si prestano ad interpretazioni non omogenee, le quali potrebbero determinare una ingiustificabile disparità di trattamento, per casi analoghi, sul territorio nazionale, ledendo anche la competenza esclusiva statale in tema di “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali” che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale». A tale proposito, la Corte costituzionale avrebbe «sempre individuato nel Parlamento l’organo competente a legiferare in materia». Nonostante la stessa Avvocatura ritenga implicate competenze regionali, queste soccomberebbero di fronte alla prevalenza delle attribuzioni statali.

Simili conclusioni non sono condivisibili. In primo luogo, l’Avvocatura ragiona etsi Consulta non daretur, come se la sent. n. 242/2019 non fosse mai stata adottata. L’individuazione delle condizioni che definiscono la titolarità e l’esercizio del diritto alla libera autodeterminazione terapeutica tramite suicidio assistito sono scolpite dalla pronuncia, dal dispositivo e dalle motivazioni che offrono il panorama regolatorio entro cui la Regione può innestarsi. Può discutersi se la Corte costituzionale abbia invaso la discrezionalità politica del Parlamento, se questa sentenza sia stata espressione di un suprematismo giudiziario[25] capace di esautorare le sedi della rappresentanza politica nazionale in tema di scelte eticamente sensibili. Ma il dado ormai è tratto: finché il Parlamento non si svegli dal torpore, il valore normativo delle coordinate poste dalla sentenza della Corte integrano la cornice normativa che legittima l’azione regionale nell’ambito di una competenza che la Costituzione affida anche alle Regioni. Non è in termini il precedente, evocato dalla Avvocatura, di cui alla sent. n. 262/2016, che ha fermato una fuga in avanti della Regione Friuli-Venezia Giulia la quale, in assenza di qualsiasi normativa nazionale, introduceva e disciplinava le dichiarazioni anticipate di trattamento sanitario. La normativa relativa alla libertà di autodeterminazione terapeutica tramite suicidio assistito può già trarsi dai principi posti dalla sent. n. 242/2019 e dalle norme della legge n. 219/2017 sul consenso informato e sulle dichiarazioni anticipate di trattamento, che integra la normativa generale su cui innestare le richieste di agevolazione al suicidio.

D’altro canto, una ipotesi simile si è verificata dopo la dichiarazione di illegittimità costituzionale del divieto di fecondazione eterologa[26]: anche in quell’occasione, a fronte del mancato, successivo intervento del legislatore nazionale, la Conferenza delle Regioni ha prima definito i criteri di donazione degli ovociti[27], per poi stabilire le quote di compartecipazione necessarie a garantire le prestazioni sanitarie[28]. A seguito di tale accordo, alcune Regioni si sono mosse in via amministrativa, individuando i criteri di accesso alle procedure di procreazione assistita di tipo eterologo e i requisiti autorizzativi dei centri che svolgono simili attività[29].

Anche l’argomento sulla frammentazione territoriale lesiva dell’eguaglianza è reversibile. La frammentazione è già nei fatti, dovuta alle diverse aziende sanitarie che, in assenza di un quadro regolatorio certo e uniforme, e nonostante l’esistenza giuridica di nuovi diritti, si muovono in ordine sparso. Tale discorso vale anche per il riferimento ai «trattamenti di sostegno vitale»: in assenza di una legge nazionale, questa categoria va interpretata in senso stretto, nel senso di ricomprendere quanto meno i trattamenti medicalizzati esemplificati dalla stessa Corte costituzionale nell’ord. n. 207/2018 (ventilazione e dipendenza da macchine, idratazione e alimentazione artificiali). Rimane invece dubbio che questi possano includere trattamenti farmacologici o l’assistenza di personale medico: ma questo dubbio rimane tale anche in assenza di un intervento regionale, come mostrano le prime pronunce della giurisdizione comune che tendono ad allargare i confini della categoria[30].

Il ragionamento della difesa statale suona in ogni caso paradossale. Per evitare un vulnus al principio di eguaglianza si realizza un vulnus ancora più grave: lasciare la persona, pure titolare sulla carta di un diritto fondamentale, priva di una normativa che le consenta di esercitarlo. A una (presunta) incostituzionalità, una (certa) incostituzionalità e mezza.

4. L’intervento regionale: possibile ma con limiti

Le Regioni hanno dunque uno spazio per legiferare, in ossequio alla competenza concorrente in materia di tutela della salute. In assenza del legislatore nazionale, inadempiente sia rispetto alla richiesta contenuta nell’ord. n. 207/2018, sia a quella compiuta dalla sent. n. 242/2019, l’intervento regionale non solo è possibile ma è forse costituzionalmente dovuto, per evitare un inadempimento nell’attuazione di una libertà fondamentale che l’ordinamento è tenuto a riconoscere. La doverosità dell’intervento risponde anzi alle perplessità dell’Avvocatura di Stato sull’eventuale mancanza di trattamento uniforme nelle diverse Regioni: per evitare disomogeneità nell’attuazione di un diritto fondamentale sarebbe anzi necessario che tutte le Regioni pongano una disciplina. L’Associazione Luca Coscioni si è mossa in questa direzione, presentando analoghe proposte di legge popolare ai diversi consigli regionali, in modo da creare uniformità regolatoria sulla materia. Tale strategia sposa una tipica tendenza del regionalismo italiano, che spesso muove verso l’uniformità e l’adozione di discipline-fotocopia[31], anche e specialmente nei settori di competenza concorrente.

Certo, l’intervento regionale non può dirsi libero, ma deve svolgersi entro i binari tracciati dalla stessa Corte costituzionale.

Alle Regioni spetta la disciplina degli aspetti organizzativi e procedimentali, entro le coordinate poste dalla Corte costituzionale che legittimano l’accesso al trattamento. I limiti inderogabili, sottratti alla disponibilità regionale, sono dati dalle condizioni che definiscono la titolarità della libertà di autodeterminazione in ordine al suicidio assistito: la sussistenza di una malattia irreversibile, le gravi sofferenze, la dipendenza da trattamenti di sostegno vitale, la capacità di prendere decisioni consapevoli.

In questo senso, sollevano dubbi di compatibilità costituzionale, sia rispetto al riparto di competenze sia con riferimento alle stesse condizioni posta dalla Corte, l’indeterminatezza di quelle proposte di legge regionale che individuano, tra i titolari, le «persone malate in stato cronico», una categoria piuttosto ampia che sembra andare oltre alla categoria di soggetti individuati dalla sent. n. 242/2019[32]. Allo stesso modo, non sarebbe possibile con legge regionale allargare il novero delle patologie legittimanti la scelta suicidaria, magari attraverso un ampliamento, decontestualizzato dall’intervento medico e dai relativi macchinari, del concetto di “terapie di sostegno vitale”.

Inoltre, non possono essere alterati dalla disciplina regionale i principi fondamentali, anche essi definiti dalla Corte, che orientano il procedimento di accertamento delle condizioni legittimanti e le modalità di esecuzione. Tra questi principi devono essere annoverati: l’esclusività dell’intervento delle strutture pubbliche del SSN nel procedimento di controllo circa la sussistenza delle condizioni e di verifica delle modalità di esecuzione, tali da evitare abusi in danno di persone vulnerabili, garantire la dignità del paziente ed evitare al medesimo sofferenze; il coinvolgimento dei comitati etici; l’obiezione di coscienza e dunque la piena libertà del singolo medico di partecipare o non partecipare alla prestazione sanitaria[33].

È invece dubbio che le Regioni possano prevedere un vero e proprio diritto a ricevere la prestazione da parte del Servizio sanitario regionale, attraverso l’erogazione gratuita del farmaco, del macchinario (se del caso) e dell’assistenza sanitaria funzionale all’autosomministrazione. Come si è visto sopra, la libertà di scelta non implica automaticamente un diritto di prestazione, e cioè un diritto pretensivo a ottenere la procedura medicalizzata funzionale a soddisfare il bisogno individuale. Non vi è dubbio che la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali costituisca una competenza trasversale, e che le Regioni possano, ove non siano in dissesto finanziario, aggiungere ulteriori prestazioni, ad integrazione dei LEA fissati dallo Stato. Il punto è che, nel caso in esame, manca un esplicito riconoscimento, da parte della Corte, di un diritto soggettivo alla prestazione pubblica.

Non a caso, la Consulta di garanzia statutaria della Regione Emilia-Romagna, pur ritenendo nel complesso ammissibile la proposta di iniziativa popolare presentata dall’Associazione Coscioni volta ad attuare la sent. n. 242/2019 nell’ordinamento regionale, ha criticato una previsione che pone, a carico dell’azienda sanitaria, un diritto a ricevere la prestazione di agevolazione del suicidio.

Ad avviso della Consulta di garanzia, il diritto individuale configurato dalla sent. n. 242/2019 non assume le sembianze di «un diritto ad essere aiutati a morire dal Servizio sanitario nazionale, ma semmai [di] un diritto a darsi la morte ottenendo da una struttura pubblica del SSN l’accertamento dei presupposti per la non punibilità, quello dell’idoneità del farmaco e più in generale l’accertamento delle modalità di esecuzione»[34].

La delibera della Consulta coglie nel senso là ove segnala il mancato riconoscimento esplicito, ad opera della Corte costituzionale, di un diritto di prestazione volto a ricevere una pubblica prestazione medica consistente nell’aiuto al suicidio. Come già accennato supra[35], tuttavia, questa considerazione non comporta che una simile prestazione non possa essere aggiunta dallo Stato o dalle Regioni. Sarebbe infatti paradossale ammettere che, alle condizioni indicate dalla Corte, si possa ricorrere al suicidio assistito, a pagamento, nella propria abitazione con l’ausilio di personale sanitario e sia invece vietato apprestare tale servizio da parte delle strutture pubbliche. Peraltro, in questa direzione muove il precedente della PMA eterologa che, una volta liberalizzata, è stata inclusa da alcune Regioni tra i livelli di assistenza[36].

Certo, molto dipende dalla situazione finanziaria e, in assenza di una regolazione nazionale, dalle scelte politiche dell’ente: per questo il diritto di prestazione può – non deve – essere previsto dal servizio sanitario regionale e, nel caso questa possibilità sia data, deve essere consentita l’obiezione di coscienza. Simile possibilità deve essere esclusa per le Regioni commissariate per disavanzo sanitario, in virtù della costante giurisprudenza costituzionale che priva dette ragioni di qualsiasi autonomia di spesa che possa interferire con i poteri del commissario straordinario e con l’obiettivo di rientro finanziario[37].

Le eventuali leggi regionali non dovrebbero poi essere di ostacolo a una successiva, eventuale avocazione al centro, da parte del Parlamento, della disciplina. Per tale ragione è senz’altro opportuna la previsione, contenuta nella stessa proposta di legge regionale (ora sdoppiata in Consiglio regionale E.-R.[38]), di una clausola di «cedevolezza invertita», una clausola cioè che delimita l’efficacia della legge sino all’entrata in vigore della compiuta disciplina nazionale[39]. Questa tipologia di norme, salvata dalla giurisprudenza costituzionale quando contenuta nella legge statale (ed anzi, in taluni casi imposte dalla stessa Corte attraverso apposita addizione)[40], pare ammissibile anche quando prevista dalle Regioni nell’esercizio di proprie competenze[41]. Sono clausole che premiano forme di regionalismo cooperativo, soprattutto in ambiti (le competenze concorrenti per antonomasia) toccati da intrecci di competenze appannaggio dei diversi livelli di governo. Per un verso, infatti, consentono di non paralizzare l’azione amministrativa, colmando quelle lacune costituzionali che vengono a crearsi nei casi in cui vi sia un obbligo di intervento imposto da norme di rango costituzionale a carico del legislatore nazionale e questo ometta di intervenire; per altro verso, fanno salva comunque la primazia del Parlamento, riconoscendo alla legislazione nazionale una gerarchia di contenuti idonea a delimitare l’efficacia della normativa regionale.

5. La soluzione amministrativa della Regione Emilia-Romagna entro il paradigma della legalità

Forse anche per evitare un defatigante e politicamente impegnativo dibattito consiliare, la Regione Emilia-Romagna, con una determinazione del direttore generale dell’assessorato alla cura della persona, salute e welfare[42], ha dato attuazione alla sent. n. 242/2019.

Tale determinazione è complessivamente in linea con quanto richiesto dalla Corte costituzionale: essa disciplina il contenuto della richiesta di suicidio medicalmente assistito (SMA), proveniente dai titolari individuati secondo i criteri della sentenza “Cappato” (criteri che prudentemente non vengono ulteriormente specificati, come nel caso delle terapie di sostegno vitale) e affida a una commissione competente per provincia (cd. Commissione di valutazione di area vasta) l’esame della richiesta, in contraddittorio col paziente e sempre verificando la possibilità di soluzione alternative (es., cure palliative). La relazione della commissione provinciale viene inviata al Comitato regionale per l’etica nella clinica, nel frattempo istituito con apposita delibera di Giunta[43], che esprime un parere, obbligatorio ma non vincolante. A seguito di tale parere, vi è la relazione definitiva della commissione che, in caso di accoglimento della richiesta, deve contemplare, in modo dettagliato, la tipologia di farmaci, le dosi, le modalità di somministrazione ed eventuali altri presìdi, tenendo conto delle condizioni cliniche del paziente. La relazione della Commissione deve essere portata a conoscenza della Direzione sanitaria dell’Azienda territorialmente competente. Questa, nei sette giorni successivi, deve procedere all’attuazione attraverso la selezione di «personale adeguato, individuato su base volontaria», garantendo il rispetto dei tempi e delle modalità previste ed assicurando la gratuità della prestazione[44].

Come si vede, la Regione Emilia-Romagna ha dato seguito, in via amministrativa, alla sentenza n. 242/2019, istituendo un organo apposito (il Comitato regionale per l’etica nella clinica) per l’emissione di pareri su tutte le richieste di suicidio assistito. Inoltre, ha previsto una prestazione gratuita di assistenza al suicidio di suicidio, riconoscendo comunque l’obiezione di coscienza (la partecipazione del personale medico è sempre su base volontaria).

Rimane però un dubbio fondamentale: è possibile per le Regione intervenire con atti provenienti dalla Giunta in assenza di una previa legge? Il principio di legalità dell’azione amministrativa, di cui all’art. 97 Cost., non richiede forse che l’attribuzione e la disciplina del potere amministrativo siano poste dal legislatore?

Simili interrogativi riguardano anche l’istituzione del Comitato regionale per l’etica nella clinica. La scelta dell’Emilia-Romagna, che conosce un rilevante precedente nell’esperienza della Regione Veneto[45], si inserisce nel dibattitto sull’idoneità, da parte degli attuali Comitati etici territoriali (CET), riordinati dai d.m. del 26 maggio e 30 maggio 2023[46], a svolgere funzioni di consulenza ai centri clinici del servizio sanitario in ordine alle richieste di SMA. In effetti, l’art. 1, comma 3, del d.m. 30 gennaio 2023 afferma che i CET svolgono funzioni consultive in ordine a questioni etiche connesse ad attività «assistenziali, allo scopo di proteggere e promuovere i valori della persona». Si tratta però di una competenza residuale, posto che tali comitati hanno anzitutto compiti di valutazione per la sperimentazione clinica sui medicinali e sui dispositivi medici propedeutici alla commercializzazione[47]. Da qui la richiesta di chiarimento, da parte dello stesso Ministero della salute, su sollecitazione delle Regioni e indirizzata al Comitato nazionale di bioetica (CNB), circa l’esatta individuazione dei comitati, cui la stessa Corte costituzionale fa riferimento nella sent. n. 242/2019, che hanno competenza a pronunciarsi in materia di suicidio assistito. Il CNB ha affermato che i CET possono pronunciarsi su tali richieste, richiedendo però una loro integrazione rispetto alle competenze e alle professionalità rappresentate al loro interno e al necessario coinvolgimento, nelle valutazioni delle richieste, del familiare, fiduciario o amministratore di sostegno del paziente nonché dei medici specialisti che hanno in cura il paziente[48]. Lo stesso CNB ha allegato al parere una postilla, sottoscritta da una minoranza di componenti, che sostiene la necessità di affidare ad appositi Comitati per l’etica clinica, come quelli istituti dalla Regione Emilia-Romagna, la valutazione delle richieste di SMA. Sarebbero infatti questi gli organi più idonei a compiere tale delicata funzione (per una molteplicità di ragioni: peculiari finalità istituzionali ed expertise, approccio metodologico, procedure e tempi della valutazione, profili di trasparenza e tutela della privacy, tipologie di conflitti di interesse, fonte di finanziamento delle attività)[49].

L’individuazione del comitato che deve adiuvare il SSN nell’esame delle richieste di SMA è solo uno dei molteplici profili di incertezza legati alla mancata intermediazione del legislatore nazionale, inadempiente rispetto alle richieste compiute dalla Corte costituzionale. Si tratta di incertezze tali da bloccare l’attuazione della sentenza n. 242/2019? Di fronte al riconoscimento di nuovi diritti implicati da una libertà fondamentale, è ammissibile che questi restino in una sorta di limbo, in uno stato di quiescenza, lasciati alla discrezionalità amministrativa delle singole aziende sanitarie o alle valutazioni caso per caso della giurisdizione?

Il potere amministrativo esercitato dalla Regione Emilia-Romagna esprime una funzione regolatoria, attuativa dei disposti della Corte costituzionale affinché, al riconoscimento, segua la garanzia effettiva della libertà di autodeterminazione terapeutica attraverso suicidio assistito. Sotto il profilo contenutistico, le scelte non contraddicono i principi fondamentali posti dal Giudice delle leggi. Assodato che tali coordinate non sono state oltrepassate, preso atto della violazione del principio di leale collaborazione perpetuata da un legislatore nazionale sordo ai plurimi richiami della Corte, di fronte al pericolo di una lesione continuata della libera autodeterminazione terapeutica della persona, evocare la lesione del riparto di competenze o del principio di legalità non rischia forse di tradursi nella rimozione legalistica di un problema di giustizia costituzionale, legato al seguito delle pronunce additive del Giudice delle leggi?

Per le ragioni già esposte[50], non sembra che la Regione abbia agito sine titulo. Quanto alla possibile violazione del principio di legalità, il dilemma o la contrapposizione tra legalità ed effettività dei diritti è riduttiva, se non fuorviante. È lecito infatti dubitare, oggi, che il principio di legalità si esaurisca nella semplice attribuzione del potere amministrativo da parte di un atto formalmente legislativo.

Il principio di legalità non è solo autorizzazione formale ma è anche tipizzazione e disciplina sostanziale del potere conferito[51]. Nel caso di specie, questa tipizzazione può trarsi dalla legge (ad esempio, dagli artt. 1 e 2 della l. n. 219/2017 sul testamento biologico) e dalle stesse pronunce della Corte costituzionale. Ad esempio, per restare al Comitato di etica clinica introdotto dalla Regione, non vi è dubbio questo organismo risponda all’esigenza, evidenziata dal Giudice delle leggi, di coinvolgere nelle valutazioni di SMA «un organo collegiale terzo, munito delle adeguate competenze», il quale possa garantire tutela alle situazioni di particolare vulnerabilità. È vero che la stessa Corte affida ai Comitati etici territoriali queste valutazioni; ma si tratta, come ammesso dagli stessi giudici costituzionali, di una scelta temporanea e necessitata, funzionale a rendere immediatamente operativa la sentenza.

Il Comitato di etica clinica è l’unico organismo dotato delle competenze indicate dal CNB nella sua risposta al Ministro della salute, necessarie a fornire ulteriori garanzie al paziente[52]. Davvero può dirsi che l’introduzione di questo organismo, che integra qualifiche di cui i CET sono sprovvisti, privo di potere decisorio ma volto ad assicurare uniformità di orientamenti nel territorio regionale, sia totalmente eccentrico rispetto alla disciplina nazionale, per come interpretata e arricchita dalla sentenza della Corte costituzionale[53]?

In ogni caso, la legalità che fonda il potere amministrativo non si esaurisce nella sede formalmente legislativa della disciplina, ma è il risultato di una normatività integrata, composta dalle ulteriori fonti di produzione del diritto ammesse e collocate dall’ordinamento in posizione equiordinata (se non sovraordinata) alla legge.

La legalità non coincide più con la sola auctoritas del singolo atto legislativo, ma rinvia «ad un tessuto di auctoritas e rationes intimamente intrecciate: le prime, infatti, per essere valide, devono essere conformi alle rationes del diritto […]; le seconde, per farsi valere, devono tradursi, assumendo idonee forme e seguendo corretti itinerari procedurali, in auctoritates»[54]. E non vi è dubbio che la Corte costituzionale, nel caso di specie, abbia espresso rationes materialmente costituzionali, enunciate in una sentenza manipolativa dotata di un’auctoritas sostanzialmente equivalente alla produzione normativa realizzata mediante legge. D’altronde, una nozione formalistica del principio di legalità porterebbe all’insanabile paradosso di ritenere invalide, per violazione di legge o eccesso di potere, delibere amministrative conformi alla Costituzione e coerenti con le sentenze della Corte costituzionale. Un po’ troppo, forse, anche per gli italici cantori del formalismo legalistico.

  1. Professore associato di diritto costituzionale nell’Università di Bologna; Vicepresidente della Consulta di garanzia statutaria della Regione Emilia-Romagna (corrado.caruso@unibo.it).
  2. Cfr. sent. n. 242/2019, anticipata dalla nota ord. n. 207/2018.
  3. Cfr. G. Razzano, Nessun diritto di assistenza al suicidio e priorità per le cure palliative, ma la Corte costituzionale crea una deroga all’inviolabilità della vita e chiama «terapia» l’aiuto al suicidio, in Dirittifondamentali.it, 1/2020, pp. 18 e ss., Id., Le proposte di leggi regionali sull’aiuto al suicidio, i rilievi dell’Avvocatura generale dello Stato, le forzature del Tribunale di Trieste e della commissione nominate dall’azione sanitaria, in Consulta Online, 1/2014, 69 e ss.; M.G. Nacci, Il contributo delle regioni alla garanzia di una morte dignitosa. note a margine di due iniziative legislative regionali in tema di suicidio medicalmente assistito, in La Rivista “Gruppo di Pisa”, 1/2023, pp. 93 e ss.
  4. Osservazione ricorrente in dottrina, anche per la dinamica complessiva della vicenda processuale: l’ord. n. 207/2018, ha inaugurato, prima del suo genere, le ordinanze di incostituzionalità prospettata (così le ha definite l’allora Presidente della Corte costituzionale, Lattanzi, Relazione del Presidente Giorgio Lattanzi, Riunione straordinaria del 21 marzo 2019, p. 12). Riassunta la causa in decisione, a fronte dell’inerzia parlamentare, la Corte costituzionale ha dettato in via pretoria le condizioni di prevalenza della libertà di autodeterminazione terapeutica rispetto al diritto alla vita, suscitando perplessità quanto al rispetto del petitum della questione e della discrezionalità politica del legislatore: cfr., tra le voci critiche, G. D’Alessandro, Su taluni profili problematici della sentenza n. 242/2019 sul caso “Cappato-Antoniani”, in Giur. cost., 2019, n. 6, pp. 3011-3018; F. Politi, La sentenza n. 242 del 2019 ovvero della rarefazione del parametro costituzionale e della fine delle “rime obbligate”? Un giudizio di ragionevolezza in una questione di costituzionalità eticamente (molto) sensibile, in Dirittifondamentali.it, 1/2020, pp. 639 e ss.; A. Ruggeri, Rimosso senza indugio il limite della discrezionalità del legislatore, la Consulta dà alla luce la preannunziata regolazione del suicidio assistito (a prima lettura di Corte cost. n. 242 del 2019), in Giustizia insieme, 27 novembre 2019. Per valutazioni tendenzialmente positive v. invece U. Adamo, La Corte costituzionale apre (ma non troppo) al suicidio medicalmente assistito mediante una inedita doppia pronuncia, in Biolaw journal, 2020, n. 1, pp. 27 e ss.; M. D’Amico, Il “fine vita” davanti alla Corte costituzionale fra profili processuali, principi penali e dilemmi etici (Considerazioni a margine della sent. n. 242 del 2019), in Osservatorio AIC, 2020, n. 1, pp. 286 e ss.; F. Rimoli, Suicidio assistito, autodeterminazione del malato e tutela dei più deboli: la Corte trova un difficile equilibrio, in Giur. cost., 2019, n. 6, pp. 2991 e ss.
  5. Ord. n. 207/2018, p. 5 cons. dir.
  6. Così C. Tripodina, La “circoscritta area” di non punibilità dell’aiuto al suicidio. Cronaca e commento di una sentenza annunciata, in Corti supreme e salute, 2/2019, p. 7.
  7. Corte cost., sent. n. 242/2019, p. 3 cons. dir.
  8. Sottolinea tale aspetto A. Alberti, La vita nella Costituzione, Jovene, Napoli, 2021, pp. 113-114, che rileva peraltro l’asimmetria, ora presente nell’ordinamento, tra la disciplina in materia di DAT, che non riconosce l’obiezione di conoscenza, e quanto affermato dal Giudice delle leggi con riferimento al suicidio medicalmente assistito. In senso simile v. O. Caramaschi, La Corte costituzionale apre al diritto all’assistenza nel morire in attesa dell’intervento del legislatore (a margine della sent. n. 242 del 2019), in Oss. cost., 1/2020, pp. 384-385; C.B. Ceffa, Obiezione di coscienza e scelte costituzionalmente vincolate nella disciplina sul “fine vita”: indicazioni e suggestioni da una recente giurisprudenza costituzionale, in Nomos, 1/2021, p. 17.
  9. La nota del Ministro alla salute Speranza, diretta al Presidente della Regione Emilia-Romagna è del 20 giugno 2022, ed è richiamata in plurimi documenti, tra cui la determinazione della Regione Emilia-Romagna n. 2956/2024.
  10. Sent. n. 141/2019.
  11. Cfr. gli itinerari della ricerca di Augusto Barbera, volti a ricostruire l’art. 2 della Costituzione come norma a fattispecie aperta e, allo stesso tempo, a delimitare i confini delle nuove situazioni soggettive da essa desumibili. Cfr. A. Barbera, Articolo 2, in G. Branca (a cura di), Commentario della Costituzione. Artt. 1-12. Principi fondamentali, Zanichelli, Bologna-Roma, 1975, pp. 50 e ss., Id., “Nuovi diritti”: attenzione ai confini, in L. Califano (a cura di), Corte costituzionale e diritti fondamentali, Giappichelli, Torino, 2004, pp. 19 e ss.
  12. Sent. n. 242/2019, p. 5 cons. dir.
  13. Ibidem.
  14. In questa direzione, peraltro, si muovono le prime pronunce di merito adottate a seguito della sent. n. 242/2019. Cfr. sul punto P.F. Bresciani, Sull’idea di regionalizzare il fine vita. Uno studio su autonomia regionale e prestazioni sanitarie eticamente sensibili, in Corte supreme e salute, 1/2024, pp. 4 e ss.
  15. C. Caruso, La garanzia dell’unità della Repubblica. Studio sul giudizio di legittimità in via principale, BUP, Bologna, 2020.
  16. Sul ruolo delle forze sociali nello sviluppo dell’ordinamento costituzionale e nella vivificazione dei suoi valori, cfr. A. Barbera, Costituzione della Repubblica italiana, in Enc. dir., Ann. VIII, Giuffrè, Milano, 2015, pp. 265 e ss. La Corte costituzionale non dovrebbe così limitarsi a disvelare la portata di giustizia del caso concreto, come invece ritiene G. Zagrebelsky, Il diritto mite, Einaudi, Torino, 1992, ma registra e dà voce a interessi costituzionali che restano esclusi dalla mediazione parlamentare. La Corte costituzionale svolgerebbe perciò una funzione di mediazione e moderazione dei conflitti sociali, come per primo sostenuto da F. Modugno, Corte costituzionale e potere legislativo, in P. Barile, E. Cheli, S. Grassi (a cura di), Corte costituzionale e sviluppo della forma di governo in Italia, il Mulino, Bologna, pp. 19 e ss. Porta ad estreme conseguenze questa tesi A. Morrone, che considera il sindacato di costituzionalità alla stregua di uno strumento di razionalizzazione della forma di governo e, dunque, la stessa Corte costituzionale organo di indirizzo politico. Cfr. A. Morrone, Corte costituzionale: fattore condizionante o elemento strutturale?, relazione al XXXVIII Convegno AIC, Le dinamiche della forma di governo nell’Italia repubblicana (https://www.associazionedeicostituzionalisti.it/images/convegniAnnualiAIC/2023_Brescia/Andrea_Morrone.pdf).
  17. Come già intuito da C. Mezzanotte, Corte costituzionale e legittimazione politica, vol. I.II, Editoriale Scientifica, Napoli, 2014.
  18. Si pensi alle ipotesi in cui le Regioni partecipano alla formazione della volontà politica nazionale: al potere di presentare proposte di legge in Parlamento, alla possibilità – sinora mai attuata – di partecipare con propri rappresentanti alla Commissione bicamerale per le questioni regionali, alla co-titolarità del potere di iniziativa referendaria, alla compartecipazione al procedimento di elezione del Presidente della Repubblica.
  19. Così si esprime invece P.F. Bresciani, Sull’idea di regionalizzare, cit., nel corso di un’analisi per larghi tratti condivisibile.
  20. P. Ingrao, Regioni per unire, in E. Rotelli (a cura di), Dal regionalismo alla regione, il Mulino, Bologna, 1973, pp. 249 e ss. Sulle diverse concezioni culturali delle Regioni sia consentito il rinvio a C. Caruso, Cooperare per unire. I raccordi tra Stato e Regioni come metafora del regionalismo incompiuto, in M. Cosulich (a cura di), Il regionalismo italiano alla prova delle differenziazioni. Atti del Convegno Annuale dell’Associazione “Gruppo di Pisa”, Trento, 18-19 settembre 2020, Editoriale Scientifica, Napoli, 2021, p. 311.
  21. Un rischio avallato da quanti hanno sostenuto l’allargamento della legittimazione ad agire delle Regioni nel giudizio in via principale. Sia consentito sul punto il rinvio a C. Caruso, La garanzia, cit., pp. 296 e ss. e 346 e ss.
  22. Cfr. art. 9, l. n. 62/1953, art. 1, comma 3 legge n. 131 del 2003. Tra le prime pronunce successive al Titolo V, sent. n. 282/2002. In tal senso v. anche P.F. Bresciani, cit., p. 9.
  23. Cfr. Avvocatura Generale dello Stato, Parere reso il 16 novembre 2023 al Consiglio regionale del Veneto relativo alla Proposta di legge di iniziativa popolare n. 217 su “Procedure e tempi per l‘assistenza sanitaria regionale al suicidio medicalmente assistito ai sensi per effetto della sentenza n. 242 del 2019 della Corte costituzionale”.
  24. Cfr. il ricorso dell’Avvocatura di Stato, notificato il 12 aprile del corrente anno, pendente davanti al TAR Emilia-Romagna. Sulle menzionate delibere regionali v. infra, par. 5.
  25. In questo senso v. A. Morrone, Suprematismo giudiziario II. Sul pangiuridicismo costituzionale e sul lato politico della Costituzione, in federalismi.it, 12/2021, p. 199.
  26. Sent. n. 162/2014.
  27. Cfr. Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, Documento sulle problematiche relative alla fecondazione eterologa a seguito della sentenza della Corte costituzionale nr. 162/2014.
  28. Cfr. Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, Definizione tariffa unica convenzionale per le prestazioni di fecondazione eterologa.
  29. V., ad esempio, la delibera della Giunta regionale dell’Emilia-Romagna n. 1487/2014.
  30. V., ad esempio, Corte d’Assise di Massa, sent. 27 luglio 2020, reperibile su https://www.biodiritto.org.Va ancora oltre l’ordinanza di rimessione del GIP di Firenze che chiede alla Corte di superare il trattamento di sostegno vitale quale condizione indicata dalla sent. n. 242/2019.
  31. L’espressione è di C. Salazar, L’accesso al giudizio in via principale e la «parità delle armi» tra stato e regioni: qualche considerazione sul presente ed uno sguardo sul futuro, in A. Anzon, P. Caretti, S. Grassi (a cura di), Prospettive di accesso alla giustizia costituzionale, Atti del seminario di Firenze svoltosi il 28-29 maggio 1999, Giappichelli, Torino, 2000, p. 229.
  32. Cfr. Consiglio regionale Puglia, art. 1, Proposta di legge su “Assistenza sanitaria per la morte serena e indolore di pazienti terminali”, n. 583 XI leg., su cui diffusamente M. G. Nacci, Il contributo, cit., pp. 94 e ss.
  33. Principi compendiati da P.F. Bresciani, Sull’idea di regionalizzare, cit., p. 10.
  34. Consulta di garanzia statutaria Regione Emilia-Romagna, del. n. 12/2023.
  35. Cfr. par. 2.
  36. V. supra, nt. 28.
  37. V., ex plurlimis, Corte cost., sentt. nn. 134/2023, 20/2023. Per una opinione diversa v. invece P.F. Bresciani, Sull’idea di regionalizzare, cit., pp. 17-18.
  38. Accanto al pdl di iniziativa popolare presentata dall’Associazione Coscioni e ammessa dalla Consulta di garanzia statutaria (7229, XI legislatura) ve n’è ora un’altra in discussione, di contenuto identico, presentata dalla consigliera Piccinini (8058, XI leg.).
  39. V. Art. 1, comma 2, della proposta di legge citata supra, nt. 37.
  40. I leading cases sono la sent. n. 241/1985 e dopo, la riforma del Titolo V, la sent. n. 303/2003. Interessante però la sentenza n. 13/2004, ove la clausola di cedevolezza, in una legge in materia di istruzione sulle dotazioni organiche delle scuole, è inserita attraverso un’aggiunta da parte della Corte.
  41. V. sentt. nn. 1/2019, 398/2006. V. però la dichiarazione di illegittimità costituzionale della sent. n. 246/2006, con nota di G. Di Cosimo, Norme cedevoli: un genere, due specie, in Le Regioni, 2007, pp. 168 e ss., attinente però a una clausola di cedevolezza che affidava l’attuazione a un regolamento regionale fino all’entrata in vigore del regolamento dell’ente locale.
  42. Determinazione n. 2596/2024.
  43. Cfr. le DLG n. 194/2024, integrata dalla DLG n. 333/2024.
  44. Art. 5, ult. comma, determinazione n. 2596/2024.
  45. Cfr. in particolare la delibera della Giunta regionale n. 983/2014, che riordina e distingue i compiti del Comitato regionale per la bioetica, dei Comitati etici della pratica clinica e dei Comitati etici per la sperimentazione clinica.
  46. Cfr. Min. Salute, d.m. 30 gennaio 2023, Definizione dei criteri per la composizione e il funzionamento dei comitati etici territoriali e d.m. 26 gennaio 2023, Individuazione di quaranta comitati etici territoriali.
  47. Cfr. art. 2, c. 7, l. n. 3/2018, art. 1, c. 2, d.m. 26 gennaio 2023.
  48. Cfr. Comitato nazionale per la bioetica, Risposta al quesito del ministero della salute 2 gennaio 2023, p. 3. Il Comitato richiede il necessario coinvolgimento di un medico palliativista con competenze ed esperienze assistenziali, del medico anestesista rianimatore, dello psicologo, dello psichiatra, del bioeticista, di un infermiere con competenze ed esperienze specifiche in cure palliative, del medico di medicina generale, dell’esperto in materie giuridiche.
  49. Sulle “divisioni” in seno al CNB cfr. L. Busatta, Comitati etici e assistenza al suicidio: la posizione del Comitato Nazionale per la Bioetica, in Responsabilità medica, 3/2023, pp. 289 e ss.
  50. Supra, par. 3 e 4.
  51. Cfr. sent. n. 115/2011, sulla dichiarazione di illegittimità del potere di ordinanza dei sindaci in materia di sicurezza urbana, considerato contrario, tra gli altri, al principio di legalità sostanziale.
  52. Cfr. DLG n. 194/2024.
  53. La domanda sorge spontanea di fronte alle considerazioni spese dall’Avvocatura dello Stato nel ricorso con cui sono state impugnate le delibere regionali davanti al TAR Emilia-Romagna.
  54. M. Vogliotti, Legalità, in Enc. dir., Ann. VI, Giuffrè, Milano, 2013, p. 420.