I Garanti territoriali delle persone private della libertà: l’esecuzione della pena come responsabilità repubblicana

Stefano Anastasia[1]

(ABSTRACT) ITA

Il ventesimo anniversario dall’istituzioni dei primi garanti territoriali delle persone private della libertà è l’occasione per un bilancio della esperienza di autorità nominate dalle Regioni, dalle Province e dai Comuni che ormai fanno parte del sistema penitenziario e vanno consolidandosi anche in altri campi, dalla gestione del fenomeno migratorio ai servizi di salute mentale.

Da allora a oggi, in forza di atti normativi diversi, diciotto Regioni e una Provincia autonoma, nove Province e tre Aree metropolitane, più di cinquanta Comuni hanno istituito un’autorità con funzioni di Garante dei detenuti o, più in generale, delle persone private della libertà. Si è di fronte a un attore diffuso e consolidato, che ha innovato l’organizzazione amministrativa territoriale e di cui vanno studiate le relazioni con i tre principali ambiti istituzionali di riferimento: quello di nomina (l’ente territoriale), quello di principale competenza (l’amministrazione penitenziaria), quello corrispondente nella legislazione nazionale (il Garante nazionale).

(ABSTRACT) EN

The twentieth anniversary since the institutions of the first territorial guarantors of persons deprived of their liberty is an opportunity to take stock of the experience of authorities appointed by the Regions, Provinces and Municipalities that are now part of the penitentiary system and are being consolidated in other fields as well, from migration management to mental health services.

Between then and now, by virtue of different regulatory acts, eighteen Regions and one Autonomous Province, nine Provinces and three Metropolitan Areas, and more than fifty Municipalities have established an authority with the functions of Guarantor of Prisoners or, more generally, of persons deprived of their liberty. We are dealing with a widespread and well-established actor, which has innovated the territorial administrative organization and whose relations with the three main institutional spheres of reference should be studied: the one of appointment (the territorial entity), the one of main competence (the penitentiary administration), and the corresponding one in national legislation (the National Guarantor).

Sommario:

1. Venti anni di Garanti territoriali delle persone private della libertà – 2. Una sperimentazione bottom-up: genesi di una figura atipica – 3. Il riconoscimento statale: 2009-2017 – 4. Le attribuzioni normative delle fonti istitutive – 5. I modelli di intervento, tra indipendenza e prossimità agli attori del campo penitenziario – 6. Il Garante nazionale e i Garanti territoriali: le norme, le prassi e le potenzialità – 7. La responsabilità repubblicana nell’attuazione del volto costituzionale della pena

1. Venti anni di Garanti territoriali delle persone private della libertà

Il ventesimo anniversario dall’istituzioni dei primi garanti territoriali delle persone private della libertà[2] è l’occasione per un bilancio della esperienza di autorità nominate dalle Regioni, dalle Province e dai Comuni che ormai fanno parte del sistema penitenziario e vanno consolidandosi anche in altri campi, dalla gestione del fenomeno migratorio ai servizi di salute mentale.

Da allora a oggi, in forza di atti normativi diversi (leggi regionali, previsioni statutarie, delibere consiliari, decreti presidenziali o delibere sindacali), diciotto Regioni e una Provincia autonoma, nove Province e tre Aree metropolitane, più di cinquanta Comuni hanno istituito un’autorità con funzioni di Garante dei detenuti o, più in generale, delle persone private della libertà. Salvo le cariche vacanti o in attesa di prima nomina, solo i tre Istituti penitenziari della Basilicata non hanno un Garante territoriale di riferimento. Dunque, siamo in presenza di un attore diffuso e relativamente consolidato, che ha innovato l’organizzazione amministrativa territoriale e di cui vanno studiate le relazioni con i tre principali ambiti istituzionali di riferimento: quello di nomina (l’ente territoriale), quello di principale competenza (l’amministrazione penitenziaria), quello corrispondente nella legislazione nazionale (il Garante nazionale). L’espansione e la dimensione raggiunta dalla rete dei Garanti territoriali, insieme con la istituzione di un Garante nazionale competente sulle medesime materie[3], richiede una ridefinizione di sistema, in grado di affrontarne le criticità e di svilupparne le potenzialità, inimmaginabili al tempo delle prime sperimentazioni.

2. Una sperimentazione bottom-up: genesi di una figura atipica

La rete dei Garanti delle persone private della libertà ha una genesi bottom-up[4], contro-intuitiva rispetto alla distribuzione di competenze tra Stato, Regioni e Autonomie locali in materia di giustizia, privazione della libertà ed esecuzione penale. Chi non ne conosce la genesi, infatti, immagina che i Garanti territoriali siano articolazioni locali del Garante nazionale[5], così come accade per molte strutture ministeriali in materie di competenza delle amministrazioni centrali dello Stato, dall’istruzione, ai lavori pubblici, alla stessa amministrazione penitenziaria. Invece la rete dei Garanti nasce dal basso, come espressione delle autonomie territoriali, per completarsi, appunto nel biennio 2014-16, a livello nazionale. La differenza, ovviamente, non è solo di processo (come si sia arrivati all’attuale configurazione della rete dei garanti in Italia), ma anche di sostanza, essendo i garanti espressioni delle autonomie territoriali, e quindi indipendenti funzionalmente e gerarchicamente dal Garante nazionale.

Risale alla seconda metà degli anni Novanta del secolo scorso la riflessione promossa dall’associazione Antigone sulla necessità di istituire una nuova figura, non giurisdizionale, di tutela e promozione dei diritti dei detenuti[6]. All’origine di quella riflessione c’era il disincanto sulle capacità trattamentali dell’istituzione penitenziaria[7] (e dunque la prefigurazione della centralità del tema dei diritti dei detenuti[8]) e la consapevolezza che la pur necessaria giurisdizionalizzazione della tutela dei diritti dei detenuti[9] non poteva assorbirne integralmente la domanda di effettività[10]. I modelli in campo, sin dal convegno padovano di Antigone del 1997, erano due: l’esperienza della difesa civica, già presente negli enti territoriali italiani per le materie di competenza delle singole amministrazioni e già applicata in altri contesti nazionali alla privazione della libertà per motivi di giustizia[11] e l’azione del Comitato per la prevenzione della tortura e delle pene inumane o degradanti, da qualche anno operativo nei confini del Consiglio d’Europa [12]. Ne sarebbe uscita una proposta di legge istitutiva del “difensore civico delle persone private della libertà” presentata in entrambe le Camere sin da quella XIII legislatura[13]. Sul modello del CPT europeo, il difensore civico avrebbe avuto poteri ispettivi dei luoghi di privazione della libertà, sul modello dell’Ombudsperson avrebbe potuto rispondere a reclami individuali, raccomandando quanto ritenuto opportuno all’Amministrazione competente.

La necessità di un’articolazione territoriale dell’azione del Difensore civico delle persone private della libertà era già presente ai proponenti di quella prima proposta di legge che prevedevano che, “per l’esercizio delle sue funzioni”, esso avrebbe potuto “avvalersi dei difensori civici regionali e delle province autonome a seguito di apposita convenzione”, ma il rovesciamento di prospettiva e la scelta del percorso bottom-up avviene con il convegno promosso nel novembre del 2002 presso la Camera dei deputati dall’associazione A buon diritto, d’intesa con la stessa Antigone[14]. Lì matura l’idea di una “sperimentazione” locale del difensore civico dei detenuti, ridenominato “garante”. Seguiranno le prime decisioni conseguenti, a opera di alcuni enti territoriali, di istituire garanti regionali e locali.

3. Il riconoscimento statale: 2009-2017

I Garanti territoriali nascono dunque così: per iniziativa di Regioni, Province e Comuni, senza una norma di legge nazionale di riferimento che ne preveda la istituzione, ma per atti normativi autonomi degli enti territoriali che rivendicano competenze e attenzione nei confronti della privazione della libertà che si realizza sul proprio territorio. Alla sensibilità di sindaci, consiglieri, presidenti di province e regioni, e alla lunga tradizione di alcuni enti territoriali nella promozione di politiche e servizi per il reinserimento sociale e il sostegno di detenuti ed ex-detenuti, si aggiunge in quegli anni l’onda lunga di un contesto politico di valorizzazione delle autonomie territoriali, che si realizza prima con l’elezione diretta di sindaci, presidenti di province e di regioni (1993-95) e poi con l’approvazione della riforma costituzionale di ispirazione federalista (2001).

A partire dal 2009, per effetto della diffusione dei garanti territoriali, con successivi interventi legislativi, il Parlamento ha riconosciuto le funzioni dei garanti regionali e locali nell’ambito della privazione della libertà per motivi di giustizia e, in seguito, anche in altri ambiti della privazione della libertà di competenza statale, garantendo loro poteri e facoltà necessari all’espletamento delle proprie funzioni e, in particolare, alla verifica delle condizioni materiali di privazione della libertà e alla comunicazione diretta con le persone che vi sono costrette.

La legge 27 febbraio 2009, n. 14 (che ha convertito il decreto-legge 30 dicembre 2008, n. 207), ha aperto la strada al riconoscimento legislativo nazionale dei garanti territoriali, attribuendo loro la facoltà di accesso senza autorizzazione agli istituti penitenziari e di colloquio diretto con le persone detenute. L’art. 12bis, comma 1, lett. a), di quel decreto (come modificato dalla legge di conversione), infatti, consentiva al “garante dei diritti dei detenuti” di svolgere colloqui con i detenuti o gli internati “anche al fine di compiere atti giuridici”[15], mentre la lettera b) modificava l’articolo 67 dell’Ordinamento Penitenziario, consentendo ai “garanti dei diritti dei detenuti”, “comunque denominati” di visitare senza necessità di autorizzazione gli istituti penitenziari al pari di altre Autorità. Con la legge di conversione del decreto-legge 22 dicembre 2011, n. 211, tale potere di accesso è stato quindi esteso anche alle camere di sicurezza delle forze di polizia, locali e nazionali, secondo quanto disposto dal nuovo art. 67bis dell’Ordinamento penitenziario. Infine, ai sensi dell’art. 19, comma 3, del decreto-legge 17 febbraio 2017, n. 13, come modificato dalla legge di conversione 13 aprile 2017, n. 46, l’accesso senza necessità di autorizzazione si applica anche ai Centri di permanenza per il rimpatrio degli stranieri presenti irregolarmente sul territorio nazionale.

Intanto, lo stesso decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 146, istitutivo (all’art. 7) del Garante nazionale, individuava nei “garanti regionali o locali dei diritti dei detenuti” una tipologia di autorità cui i detenuti e gli internati possono rivolgere “istanze o reclami, orali o scritti, anche in busta chiusa”, e quindi con la necessaria riservatezza[16].

4. Le attribuzioni normative nelle fonti istitutive

Nel rispetto del principio di autonomia normativa degli Enti territoriali e alla luce della loro magmatica diffusione, le attribuzioni e le funzioni dei garanti riflettono le diverse sensibilità dei legislatori regionali e delle competenti autorità amministrative locali. Sia a livello regionale che locale, infatti, ci sono garanti esclusivamente “dei detenuti”, garanti delle persone private della libertà, garanti di persone con diverse condizioni di vulnerabilità e difensori civici con competenze di garanti dei detenuti. Da ciò, quindi, la scelta del legislatore nazionale – all’atto del riconoscimento del loro ruolo – di usare quella comprensiva definizione di “garanti comunque denominati”.

Al di là della denominazione dell’organo, e salvo il riconoscimento di competenza conferito dalla legislazione nazionale sulle carceri, le camere di sicurezza delle forze di polizia e i centri di permanenza per il rimpatrio degli stranieri irregolari, gli ambiti di competenza dei garanti sono generalmente individuati negli atti istitutivi o di attribuzione delle funzioni, e così abbiamo garanti le cui competenze si limitano al campo della privazione della libertà per motivi di giustizia e garanti che arrivano fino alla privazione della libertà per motivi amministrativi (CPR) o di salute (in esecuzione di trattamenti sanitari obbligatori). Ma anche nel consolidato campo della giustizia, ci sono garanti che hanno competenza solo sulla privazione della libertà intramuraria e garanti che hanno competenza anche sull’esecuzione penale esterna o – addirittura – sull’esecuzione di misure cautelari personali non detentive, come gli arresti domiciliari[17]. Naturalmente previsioni di competenze su situazioni di esclusiva pertinenza legislativa statale, come nelle materie di giustizia e pubblica sicurezza, se non assistite (come nel caso di carceri, camere di sicurezza e Cpr) da specifiche norme di legge nazionali, restano mere attribuzioni formali, almeno fino a quando le autorità amministrative o giurisdizionali competenti non siano disponibili a prestare attenzione alle richieste e agli eventuali rilievi del garante territoriale, ma il percorso bottom-up di affermazione della rete dei garanti sta anche a dimostrare che – tanto più nel caso di Autorità dotate unicamente di poteri raccomandatori, in rappresentanza delle comunità territoriali – le buone ragioni possono creare competenze laddove non ce ne sono e dunque non ha senso ritrarsi formalisticamente da esse, quanto sperimentare sul campo le possibili sinergie con le autorità competenti, provando a esercitare nei loro confronti le modalità di azione generalmente individuate dagli atti costitutivi e inventate nella pratica.

Sin dall’inizio i garanti sono stati assimilati a figure di difesa civica le cui modalità di azione sono ispirate alla informalità, soprattutto nell’accesso da parte dell’utenza, ma anche nella risoluzione delle controversie. Norme e atti istitutivi delineano, così, modalità flessibili di azione nei confronti delle amministrazioni di nomina così come nei confronti delle amministrazioni interessate dalla loro azione, che in qualche caso possono coincidere (le prestazioni sanitarie per i garanti regionali o l’offerta di assistenza sociale nel caso di quelli comunali), ma più frequentemente no. E così i garanti “assumono ogni iniziativa …”, si attivano nei confronti dell’amministrazione interessata, segnalano, intervengono o propongono agli organi della amministrazione di nomina o alle aziende o agli uffici dipendenti[18].

Nel tentativo di darvi omogeneità, la Conferenza dei Presidenti delle Assemblee legislative delle Regioni e delle province autonome, nella seduta del 26 settembre 2019, ha approvato delle “Linee di indirizzo in merito alla disciplina degli organi di garanzia” di nomina regionale, ivi compresi i garanti dei detenuti[19]. Non potendosi in quella sede disciplinare le relazioni con le Amministrazioni centrali dello Stato, oltre a ridefinire la collocazione istituzionale degli organi di garanzia nel sistema delle istituzioni regionali e gli attributi di autonomia e di indipendenza, le Linee di indirizzo circostanziano i poteri di accesso degli organi di garanzia regionali agli uffici, ai luoghi e alla documentazione sulle materie di competenza, le modalità di interlocuzione con gli organi politici e quelle di segnalazione dei rilievi e la loro eventuale pubblicizzazione.

Il 2 agosto 2023 il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà e l’Associazione nazionale dei Comuni d’Italia hanno sottoscritto delle linee-guida volte allo stesso scopo[20], anche avvalendosi indicazioni emerse nel documento “Diritti Comuni”, approvato dalla Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private dalla libertà nell’assemblea del 5 novembre 2021 e frutto del lavoro di ricognizione svolto dall’Ufficio della Garante del Comune di Torino con il supporto dell’Università di Torino.

5. I modelli di intervento, tra indipendenza e prossimità agli attori del campo penitenziario

Nell’esperienza concreta, il garante territoriale si trova al centro di una complessa rete di relazioni, da cui dipende l’efficacia del suo operato. Privo di poteri dispositivi, siano essi amministrativi o giudiziari, le uniche chances del garante di far valere le ragioni della propria mission istituzionale sono affidate alla capacità di relazionarsi con gli interlocutori del campo penitenziario in modo da sollecitarne l’azione in direzione della massima effettività dei diritti dei detenuti.

Tralasciando le relazioni con il Garante nazionale e gli altri garanti territoriali, su cui torneremo dopo, la rete di relazioni dentro cui il garante si muove può essere innanzitutto distinto in relazioni interne o domestiche e relazioni esterne o operative.

Interne all’habitat istituzionale del garante sono le relazioni con le autorità politiche o amministrative dell’ente territoriale di appartenenza. I garanti sono istituiti sulla base di un principio di competenza degli enti territoriali nelle materie oggetto delle proprie funzioni e nell’intento di offrire a persone con ridotta capacità di rivendicazione dei propri diritti un difensore civico che li tuteli innanzitutto davanti all’amministrazione che li hanno espressi. Quindi i garanti devono relazionarsi non solo con le autorità politiche a cui, generalmente, sono tenuti a presentare una relazione annuale di attività, ma anche con gli uffici, i dirigenti e i funzionari amministrativi responsabili dell’attuazione delle politiche e della garanzia dei servizi su cui l’ente ha competenza.

Esterne all’ambito dell’ente di nomina sono le relazioni che il Garante intrattiene con una pluralità di attori, istituzionali e non, che ne abitano il campo, dagli operatori dell’Amministrazione penitenziaria alla magistratura competente, da quelli di altre amministrazioni pubbliche attive negli istituti penitenziari (dalla sanità all’istruzione, per intenderci) a quelli che dovrebbero starci di più, dall’anagrafe agli uffici immigrazione delle questure, fino a quelli di altri enti che svolgono funzioni essenziali in carcere, come i patronati.

Tra gli altri interlocutori dei garanti c’è infine il vasto mondo del volontariato, del terzo settore, dell’imprenditoria sociale e non, e poi le famiglie e gli avvocati, tramite cui arriva parte rilevante delle segnalazioni di problematiche individuali o collettive delle persone detenute.

Le norme istitutive si limitano, quando lo fanno, ad affermare il principio di indipendenza che deve muovere l’azione del garante, innanzitutto dagli interlocutori “forti” del sistema: l’amministrazione di nomina e quella penitenziaria. Ma altrettanto si potrebbe dire della necessità di indipendenza dagli altri attori di sistema, anche quando siano – in qualche modo – “dalla stessa parte” dei garanti, dichiaratamente a tutela dei detenuti. La qualità e l’efficacia dell’azione del garante è nel difficile bilanciamento tra indipendenza e autonomia di giudizio da una parte e prossimità e capacità di relazione dall’altra nei confronti di ciascuno degli altri attori di sistema,

Nell’esperienza concreta, soprattutto in sede di prima istituzione, ciascun garante ha portato la propria formazione e la propria cultura nell’imprinting della funzione[21]. Abbiamo così avuto i garanti volontari, che hanno proseguito dalla sede istituzionale un impegno decennale a sostegno delle persone detenute, i garanti assessori, che hanno assunto più o meno formalmente una delega alla progettazione e all’amministrazione diretta delle politiche e delle risorse dell’ente territoriale in materia, i garanti avvocati, che interpretano il loro ruolo come una sorta di tutela legale pro bono dei detenuti, i garanti politici, che hanno continuato il loro decennale impegno pubblico a favore dei detenuti dalla tribuna istituzionale loro riconosciuta da questa o quella amministrazione, e via proseguendo. Da ultimi, sotto le spoglie dei garanti istituzionali, si incominciano a intravvedere anche i garanti dell’istituzione. In ciascuna di queste classificazioni è possibile individuare la formazione, la cultura, la storia individuale o la dinamica di legittimazione di ciascun titolare di carica, con il rischio – in qualche caso – se non di una disfunzione istituzionale, di uno sbilanciamento tra quei due poli della indipendenza e della prossimità (dagli stakeholders e dagli attori del campo penitenziario) lungo cui deve muoversi una figura di garanzia priva di poteri autoritativi, ma investita di una funzione di raccomandazione e di armonizzazione tra gli attori del sistema.

Da qualche anno le prime forme di coordinamento orizzontale tra garanti territoriali sono approdate a un’unica conferenza di raccordo che ha l’ambizione di condividere prassi ed esperienze, a beneficio delle persone detenute, ma anche dei singoli garanti, troppo spesso lasciati soli e senza mezzi nella selva di suoni che animano il campo penitenziario[22].

6. Il Garante nazionale e i Garanti territoriali: le norme, le prassi e le potenzialità

L’istituzione del Garante nazionale delle persone private della libertà ha mutato la scena entro cui si era avviata la sperimentazione territoriale interpretata dai garanti regionali e locali. Le forme sono presto dette: la legge istitutiva del Garante nazionale, in premessa dei compiti che gli sono attribuiti, incidentalmente gli affida quello di “promuovere e favorire rapporti di collaborazione con i garanti territoriali” (art. 7, co. 5, decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 146). Ne nasce, ovviamente, un ambito di leale collaborazione istituzionale tra organismi istituzionali distinti, che fanno riferimento a diversi livelli istituzionali che concorrono, ciascuno per propria competenza, nelle finalità e nei limiti della privazione della libertà, per quanto ammessa dall’art. 13 della Costituzione. Altrettanto ovviamente, questa leale collaborazione istituzionale non è facile: va sperimentata giorno per giorno, sul campo, avendo presente le prerogative di ciascun attore istituzionale, di ciascun garante e di ciascun ente. Né si limita alle relazioni tra Garante nazionale e garanti territoriali, ma si articola ulteriormente tra garanti regionali, comunali e di area vasta (province e aree metropolitane). L’ordinamento della Repubblica dà indicazioni in questo senso: da una parte, infatti, vi è il riparto di competenze tra Stato, Regioni e autonomie locali, dall’altra parte vi sono i principii di sussidiarietà e adeguatezza nell’esercizio delle funzioni. Nella prassi, questo significa che nella interlocuzione con le medesime persone private della libertà, che spesso si rivolgono a più autorità di garanzia, di diverso genere e di diverso livello, in uno spirito di leale collaborazione istituzionale dovrebbe attivarsi l’autorità più prossima o quella la cui istituzione è competente nella materia della doglianza (il garante regionale per questioni di assistenza sanitaria, il garante comunale per questioni di assistenza sociale, il garante nazionale per decisioni delle Amministrazioni centrali dello Stato o per effetti di politiche nazionali).

Naturalmente, queste buone prassi non sono sempre e dappertutto garantite, ma progressivamente si vanno affermando nelle relazioni tra garanti, con beneficio – si spera – per i loro stakeholders (le persone in carne e ossa temporaneamente private della libertà) e per il sistema nel suo complesso (a dispetto di una certa vulgata polemica e manichea, la sollecitazione all’intervento dei garanti viene frequentemente da parte del personale e della dirigenza amministrativa, sanitaria e penitenziaria, che riconosce l’utilità di sistema di una funzione di mediazione e difesa civica svolta in nome dei detenuti, in quanto beneficiari della funzione pubblica dell’istituzione[23]).

Ciò detto, il mutamento intervenuto con l’istituzione del Garante nazionale non è solo un mutamento normativo o organizzativo, ma – più profondamente – un mutamento politico-culturale. Nella ispirazione originaria della “sperimentazione locale” della tutela non giurisdizionale dei detenuti, forte era la motivazione politica, di affermare la centralità dei diritti dei detenuti nel funzionamento della istituzione penitenziaria. E quindi i garanti territoriali, seppur territoriali, sono stati i rappresentanti – nel dibattito pubblico, e non solo a livello regionale e locale – delle ragioni dei detenuti. Oggi, il completamento dell’assetto degli organi di garanzia trasferisce in capo al Garante nazionale questa responsabilità di voice, in nome e per conto delle persone private della libertà. Certo, ai garanti territoriali resterà la responsabilità di “farsi sentire” a livello regionale e locale, non solo nelle istituzioni, ma anche nell’opinione pubblica[24], ma la loro funzione non può più risolversi in essa.

7. La responsabilità repubblicana nell’attuazione del volto costituzionale della pena

Con spirito di inimicizia qualcuno ha detto che a questo punto dei garanti territoriali non c’è più bisogno: la festa, con la “sperimentazione”, è finita. Ma in questi vent’anni l’istituzione di garanti territoriali ha sollecitato Regioni ed enti locali a riconoscere le proprie competenze in materia di esecuzione penale e di privazione della libertà. Lo ha fatto formalmente, nelle premesse e nelle attribuzioni legali degli organi di garanzia, e lo ha fatto sostanzialmente, grazie alla sollecitazione dei singoli garanti all’effettività delle previsioni e degli impegni normativi degli enti di nomina. Questo impone un supplemento di riflessione sulla funzione dei garanti territoriali alla luce del volto costituzionale della pena e della accettabilità sociale del terribile potere di privare della libertà una persona.

La Costituzione affida alle Regioni e agli Enti locali rilevanti competenze nella programmazione e nell’offerta di servizi a tutela dei diritti delle persone private della libertà. Se è vero che lo Stato ha poteri esclusivi di legislazione in materia di ordine pubblico, sicurezza, giurisdizione e ordinamento penale, i principi costituzionali e sovranazionali in materia di esecuzione penale e di privazione della libertà, dalla finalità rieducativa della pena al divieto di trattamenti contrari al senso di umanità, passano attraverso le competenze delle Regioni e degli enti locali in materia di tutela della salute, politiche sociali, istruzione e formazione professionale, orientamento e inserimento lavorativo[25]. Per questa ragione non è una forzatura affermare che la privazione della libertà e una pena costituzionalmente orientata non sono già più – per forma e sostanza – affare esclusivo delle Amministrazioni centrali dello Stato, ma sono soggette alla condivisione e alla cooperazione istituzionale con le amministrazioni regionali e locali, senza le quali ne rimarrebbero mutilate, limitate alla loro dimensioni custodiali o punitive, con una violazione di fatto del dettato costituzionale. Questo giustifica non la semplice sopravvivenza dei garanti territoriali quali articolazioni di prossimità di un’Autorità nazionale di garanzia delle persone private della libertà, ma la opportunità di una pluralità di garanti nominati dagli enti territoriali come espressione della loro consapevole corresponsabilità nel perseguimento dei fini e nel rispetto dei limiti alla privazione della libertà.

L’articolo 27, comma 3, della Costituzione, non regolamenta infatti le competenze istituzionali in ordine all’esecuzione delle pene, ma ne afferma i principi fondamentali: il limite assoluto al potere punitivo (“le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”) e lo scopo (secondo cui le pene “devono tendere alla rieducazione del condannato”). Non ci sono, in questo articolo, responsabilità esclusive del Ministero e delle Amministrazioni della giustizia nella sua attuazione. Al contrario, quell’articolo della Costituzione, individuando elementi essenziali di una funzione pubblica, definisce una responsabilità repubblicana, di tutte le amministrazioni pubbliche – centrali e territoriali, statali, regionali e locali -, e della stessa società civile e della cittadinanza attiva, secondo quanto disposto dall’articolo 118, comma 4, della Costituzione. Questa è la sfida intuita dalla sperimentazione territoriale di autorità di tutela non giurisdizionale dei diritti delle persone private della libertà che va portata oltre la sua contingenza, per una reale, non retorica, attuazione dell’articolo 27 della Costituzione.

  1. Garante dei diritti dei detenuti del Lazio e coordinatore dei garanti territoriali.
  2. Sulla base di una delibera consiliare del 14 maggio 2003, l’11 ottobre di quell’anno il Sindaco di Roma nominava il primo Garante comunale, mentre sulla base della legge 6 ottobre 2003, n. 31, il 26 febbraio 2004 il Consiglio regionale del Lazio eleggeva il primo Garante di una Regione italiana.
  3. Nel 2014, con la conversione nella legge n. 10/2014 del decreto-legge n. 146 del 23 dicembre 2013, è stato istituito il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, operativo dal febbraio 2016, al termine della procedura di nomina del primo collegio da cui è stato costituito.
  4. Questa dimensione bottom-up della costituzione della rete dei garanti dei detenuti è evidenziata già in B. Mellano-L. Scomparin, “Garantire i diritti di chi non ha libertà”, ne Il Piemonte delle autonomie, a. VII (2020), n. 1.
  5. Osservazione più volte registrata da chi scrive in comunicazioni informali anche con dirigenti e funzionari degli enti territoriali di nomina, oltre che con dirigenti e personale delle amministrazioni centrali dello Stato e, specificamente, del Ministero della giustizia.
  6. Si fa qui riferimento al convegno promosso da Antigone e dall’associazione Diritti umani/Sviluppo umano svoltosi a Padova il 14 e il 15 novembre del 1997. Le relazioni e gli interventi principali tenuti in quella sede sono raccolti A. Cogliano (a cura di), Diritti in carcere. Il difensore civico nella tutela dei detenuti, Quaderni di Antigone, 2000.
  7. Si vedano, in proposito, gli atti del convegno tenutosi a Roma nel maggio 1996 a dieci anni dalla cd. “legge Gozzini”, in M. Palma (a cura di), Il vaso di Pandora. Carcere e pena dopo le riforme, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana G. Treccani, 1997.
  8. Il tema dei diritti fondamentali dei detenuti come limite al potere punitivo emerge in Italia a partire dall’inizio degli anni 90, con la eco nazionale della cd. mass incarceration, e appare evidente a livello internazionale con la giurisprudenza umanitaria del 2009-2013. In proposito: S. Anastasia, Le pene e il carcere, Milano, Mondadori, 2022, pp. 83 e ss..
  9. In questo senso andava la capitale sentenza della Corte costituzionale n. 26/1999 (redattore G. Zagrebelsky) che ha aperto la strada all’esame in forma giurisdizionale dei reclami dei detenuti, fino ad allora oggetto di valutazioni de plano da parte dei magistrati di sorveglianza, rimesse alla incerta attuazione dell’amministrazione penitenziaria.
  10. Cfr. S. Anastasìa, “Introduzione”, in A. Cogliano (a cura di), op. cit., pp. 7-15 e, specificamente, pp. 10-11. Gli approdi più recenti della tutela giurisdizionale dei diritti dei detenuti sono in S. Talini, “Il ‘diritto all’effettività dei diritti’: quali forme di tutela per le persone private della libertà?”, in M. Ruotolo e S. Talini (a cura di), I diritti dei detenuti nel sistema costituzionale, Napoli, Editoriale Scientifica, 2017, pp. 431-460, e in F. Fiorentin e C. Fiorio, Manuale di diritto penitenziario, Milano, Giuffrè Francis Lefebvre, 2020, pp. 189 e ss..
  11. A Padova Antonio Rodriguez Maximiano, Ombudsperson della polizia portoghese, ne illustrò genesi, modello e caratteristiche operative (in A. Cogliano (a cura di), op. cit., pp. 51-60), mentre Johannes Feest si soffermò sull’esperienza tedesca (in A. Cogliano, a cura di, op. cit., pp. 45-49) e Marco Mona sulle relazioni tra Ong e Ombuds (in A. Cogliano, a cura di, op. cit., pp. 61-67). Una ricostruzione delle tipologie, degli ambiti e dei poteri degli ombudspersons delle prigioni in ambito internazionale è in D. Bruno e D. Bertaccini, I garanti (dalla parte) dei detenuti, Bononia University Press, 2018, pp. 51 e ss.
  12. Cfr. P. Gonnella e R. Kicker in Cogliano (a cura di), op. cit., rispettivamente alle pp. 29-38 e 39-43.
  13. AS 3744, Salvato e altri; AC 5509, Pisapia.
  14. Del Convegno è stata pubblicata la relazione principale, affidata al Prof. Franco Della Casa, “Per un più fluido (ed esteso) “monitoraggio” delle situazioni detentive: il Difensore civico della libertà personale”, in Politica del diritto, a. XXXIV, n. 1, marzo 2003, pp. 69-82.
  15. Il successivo decreto legislativo n. 123, del 2 ottobre 2018, ha introdotto un nuovo comma 2 nell’art. 18 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (“Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà”, di seguito Ordinamento Penitenziario), dedicato espressamente ai colloqui della persona detenuta con il proprio difensore e con il Garante. L’assimilazione del colloquio con il Garante con quello con il difensore ha consentito di superare alcuni problemi interpretativi emersi con la disciplina precedente, secondo cui i colloqui con i garanti avrebbero potuto essere equiparati a quelli con i familiari, con le conseguenti limitazioni in ordine alla frequenza e alla riservatezza.
  16. Così recita l’articolo 35 dell’Ordinamento penitenziario, come modificato dall’art. 3, comma 1, lett. a) del decreto citato.
  17. E’ il caso di quanto previsto dall’art. 1, comma 3, della legge istitutiva del Garante regionale dell’Umbria del 18 ottobre 2006, n. 13.
  18. Per un’analisi più dettagliata di modelli e soluzioni normative, si rinvia a D. Bruno e D. Bertaccini, I garanti (dalla parte) dei detenuti, Bononia University Press, 2018.
  19. Reperibili in http://www.parlamentiregionali.it/linee_indirizzo_organi_di_garanzia_26.09.19_esiti.pdf.
  20. Reperibili in https://www.anci.it/wp-content/uploads/Linee-guida-firmate_2-agosto-2023.pdf.
  21. Una buona rappresentazione della diversità di prassi e di culture è data dalle relazioni annuali dei garanti, generalmente reperibili online nei rispettivi siti istituzionali e fonti delle considerazioni che qui si vengono facendo, insieme con l’osservazione partecipante di chi scrive alle prassi di alcuni uffici dei garanti territoriali e alle dinamiche delle relazioni intercorrenti tra di loro.
  22. Il Regolamento della Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà, a cui afferiscono tutti i garanti regionali, locali e di area vasta, da ultimo revisionato nell’Assemblea del 29 settembre 2023, è reperibile online all’indirizzo http://www.garantedetenutilazio.it/garante-detenuti-lazio/le-carceri-nel-lazio/10-sito-web/376-conferenza-dei-garanti-territoriali-delle-persone-private-della-liberta
  23. Le dinamiche di relazione tra i garanti e le diverse figure professionali del campo penitenziario (dirigenti e funzionari delle amministrazioni penitenziaria e sanitaria, magistrati di sorveglianza, insegnanti, volontari ed esponenti della “comunità esterna) meriterebbero ulteriori approfondimenti che in questa sede non possono essere svolte con la necessaria accuratezza.
  24. Molto acutamente la Presidente del Tribunale di sorveglianza di Milano, Giovanna Di Rosa, nel suo saluto alla assemblea annuale della Conferenza dei Garanti territoriali, il 4.10.2019, sottolineava l’importanza di questa facoltà di parola in pubblico dei garanti, per diverse ragioni impedita alla stessa magistratura di sorveglianza e a gran parte degli operatori penitenziari.
  25. Una disamina più dettagliata è in P. Gonnella, “Il welfare territoriale penitenziario e l’egemonia custodiale dello Stato”, ne La Rivista delle Politiche Sociali, n. 4/2020, pp. 173-188.