Verso una Costituzione per Internet

Juan Carlos De Martin1

Questo articolo viene rilasciato dall’autore Juan Carlos De Martin con una licenza Creative Commons Attribuzione, http://creativecommons.org/licenses/by/3.0/it/.

 

Oltre quarant’anni fa, nel 1973, il giurista Stefano Rodotà, occupandosi di elaboratori elettronici e di controllo sociale, si chiedeva se non fosse necessaria una “Bill of Rights”. In quegli anni ciò che preoccupava il prof. Rodotà era soprattutto la crescita smisurata degli archivi elettronici (allora affidati a “mainframe” e a memorie a nastro) e il corrispondente pericolo di schedature sempre più vaste e sempre più efficienti di cittadini e di lavoratori. Un pericolo tanto più sentito dato il contesto italiano (ed europeo) di allora era tutt’altro che sereno dal punto di vista della tenuta delle istituzioni democratiche.

Rodotà reagiva sostenendo che fosse necessaria una norma di rango costituzionale, una “Bill of Rights”, appunto, per tutelare le persone dalle conseguenze, potenzialmente nefaste, di uno sviluppo tecnologico, di cui peraltro il giurista, seguendo un’impostazione equilibrata che lo poi lo contraddistinguerà sempre, vedeva e apprezzava anche gli importanti aspetti positivi.

E’ ragionevole ipotizzare che nel 1973 il prof. Rodotà non fosse a conoscenza di ARPANET, un progetto di ricerca – tra i tanti – finanziato da DARPA, l’agenzia della ricerca del Dipartimento della Difesa USA. I ricercatori di ARPANET stavano lavorando a un nuovo tipo di rete di elaboratori elettronici, una rete basata su un principio nuovo, la commutazione di pacchetto, che poi negli anni a seguire – quando ARPANET sarà ormai diventata Internet – dimostrerà la sua superiorità su tutte le alternative. Ed è altrettanto ragionevole ipotizzare che a inizio anni ’70 del secolo scorso la maggior parte delle persone non sapesse che proprio in quegli anni si stava perfezionando un’invenzione, il microprocessore, che da lì a pochi anni avrebbe reso possibile prima la rivoluzione del personal computer e poi la connessione tra loro prima di milioni e quindi di miliardi di computer.

 In questi decenni Stefano Rodotà ha seguito il dispiegarsi della rivoluzione digitale. Continuando a cogliere sia gli straordinari aspetti positivi resi possibili dalla tecnologia, sia gli aspetti negativi. La sua storia intellettuale, quindi, è caratterizzata da analisi e proposte volte sia a tutelare i nuovi spazi di libertà, sia a proteggere le persone da pericoli spesso altrettanto nuovi. Mai come col digitale, infatti, la stessa tecnologia può essere usata sia per liberare, sia per controllare. E che il baricentro graviti più verso la libertà o più verso il controllo dipende da un intreccio di cause tecnologiche, economiche, giuridiche, sociali e politiche. Un intreccio che è diventato sempre più complesso col passare degli anni, con la diffusione di Internet e col crescere del suo peso economico e sociale, ma proprio per questo sempre più importante da comprendere e affrontare.

Prima con l’invenzione del Web, ormai oltre vent’anni fa, e poi con la diffusione della larga banda a partire dall’inizio di questo secolo, Internet diventa un’infrastruttura critica non solo per l’economia, ma anche per la vita personale di miliardi di persone. Pur un numero crescente di cittadini (anche se, è bene ricordarlo, non tutti, soprattutto in Italia) Internet diventa il mezzo privilegiato per i rapporti con la Pubblica Amministrazione, per l’esercizio dei diritti fondamentali come quelli di espressione, di accesso alla conoscenza, di associazione e di partecipazione politica. Contemporaneamente, col crescere delle capacità tecnologiche a disposizione dei governi e di molte aziende, Internet si rivela una macchina di sorveglianza senza precedenti per efficienza e capillarità. Lo stesso “sistema nervoso” digitale che rende la vita più facile e spesso più ricca a molti di noi è contemporaneamente il collettore di informazioni, precise e aggiornate, sui nostri spostamenti, i nostri acquisti, le nostre conoscenze, le nostre preferenze non solo culturali o commerciali, ma anche politiche, sindacali e sessuali. La stessa tecnologia che ci permette di lavorare da casa o su un terrazzo in riva al mare è la stessa che ci permette – e quindi potenzialmente ci obbliga – a rispondere a messaggi di lavoro la sera o nel fine settimana, smantellando, salvo correttivi, la separazione tra il tempo del lavoro e quello personale. E sempre la stessa tecnologia consente di poter far determinati lavori a chi è disabile, a chi abita in zone rurali o a chi semplicemente desidera lavori flessibili. Allo stesso tempo, però, permette a chi offre certi tipi di lavoro di rivolgersi a una platea potenzialmente planetaria di lavoratori e, quindi, di giocare al ribasso sui compensi. In assenza di correttivi, infatti, i tre euro l’ora insostenibili per l’ingegnere italiano (o tedesco) sono invece un compenso gradito per il giovane, per esempio, malese o vietnamita.

 La rivoluzione digitale, insomma, solleva enormi questioni di carattere sociale. Torna la domanda: come fare a preservare i nuovi spazi di libertà al contempo impedendo le compressioni dei diritti fondamentali? Non c’è dubbio che la domanda, nella sua portata più ampia, è innanzitutto politica. Per troppo tempo il confronto si è limitato ai soli aspetti tecnologici, giuridici o economici. Ma anche una visione integrata tecno-giuridico-economica – per quanto auspicabile – non basta, perché il digitale pone problemi essenzialmente politici. E’ politica la determinazione del confine – tempo variante – tra pubblico e privato. E’ politica la questione dello sfruttamento del lavoro digitale. E’ intrinsecamente politico l’uso di Internet non solo per fare politica in senso lato, ma anche relazionarsi con gli eletti, con le istituzioni repubblicane e con la pubblica amministrazione in genere. E’ un problema politico (oltre che giuridico e morale) determinare il perimetro di ciò che è consentito dire in pubblico e, ancor più, i modi con cui le piattaforme digitali definiscono e sempre più condizionano – in genere con algoritmi proprietari finalizzati alla massimizzazione degli introiti pubblicitari – i confini e i contenuti della sfera pubblica (come peraltro prima di loro hanno sempre fatto, anche se in modi diversi, i media tradizionali).

In questo contesto inevitabilmente politico l’idea di una “Bill of Rights” ha ancora più valenza di quanto già non l’avesse nel 1973. Nel frattempo, infatti, il digitale è diventato qualcosa di immensamente più grande, pervasivo e complesso, e quindi a maggior ragione è necessaria una tutela di rango costituzionale sia di nuovi diritti associati al digitale, sia di diritti pre-esistenti. Non come unica misura, naturalmente, lo abbiamo scritto: i problemi sollevati dalla rivoluzione richiedono soluzioni politiche ampie e articolate. Ma una “Bill of Rights” per Internet (o una Magna Carta per Internet, come ama chiamarla Tim Berners-Lee, l’inventore del Web) costituirebbe uno dei pilastri a tutela dei diritti nel mezzo del profondo cambiamento che chiamiamo rivoluzione digitale.

In questo senso, vanno gli sforzi non solo di Tim Berners-Lee, che ha annunciato di voler redigere, in maniera partecipata, una Magna Carta per Internet, ma – significativamente – di almeno tre istituzioni parlamentari europee: la House of Commons britannica, l’Assemblea parlamentare francese e la Camera dei Deputati. Istituzioni che hanno iniziato a lavorare più o meno negli stessi mesi con l’obiettivo di formulare delle proposte sui diritti digitali (Francia e Italia) e sulla democrazia digitale (Regno Unito). I lavori delle tre commissioni di studio parlamentari sono iniziati con scarsa o nulla conoscenza reciproca; è quindi da escludere un fenomeno imitativo. Piuttosto le spontanee iniziative di tre diversi parlamenti europei sono l’indizio che, a qualche anno di distanza dalle prime proposte di una Internet Bill of Rights (ancora Stefano Rodotà nel 2004 e poi negli anni successivi), i tempi stanno diventando maturi. Ed è motivo di qualche speranza nella democrazia che ad attivarsi siano proprio delle assemblee parlamentari.

1 Professore associato presso Politecnico di Torino, co-direttore Centro Nexa su Internet e Società.