Il labirinto delle riforme

mario dogliani1

1 Professore Ordinario di Diritto Costituzionale presso l’Università degli Studi di Torino.

Si racconta che Francesco I di Valois, Re di Francia, abbia detto: «Io e mio fratello Carlo (l’Imperatore Carlo V di Asburgo, sui cui stati non tramontava mai il sole) vogliamo la stessa cosa … [fin qui l’uso della parola figurata “fratello” (giacché non erano affatto fratelli) e il “volere la stessa cosa” sembravano far pensare a una identità affettuosa d’intenti, ma poi chiudeva dicendo]: Milano». Dunque, non erano mossi da una unità d’intenti, ma da intenti opposti; non volevano la stessa cosa per realizzare assieme un desiderio comune, ma la volevano ognuno per sé solo. Tutti e due volevano conquistare Milano, e sottrarla all’altro.

Oggi tutte le parti politiche dicono di volere le “riforme”, e fingono di scandalizzarsi perché dopo tanto parlarne per decenni, nulla è stato fatto. Come se le “riforme” fossero una realtà chiara, univoca, autoevidente per tutti e in sé, come se tutti dovessero essere d’accordo per volerle perché sarebbe impossibile non volerle, e dunque bastasse un po’ meno di cecità, di ottusità, di calcoli egoistici (per conquistarsi qualche spazio di “visibilità”), per realizzarle.

Ma le riforme sono come Milano: ognuno dice di volerle, ma vuole averle per sé, vuole avere le “sue” riforme.

Questo gioco degli equivoci, ovviamente, è benzina sul fuoco del qualunquismo; non fa che alimentare il disprezzo per la classe parladora, invece di rafforzare la consapevolezza dei termini dello scontro.

Questo atteggiamento denuncia una grave mancanza di cultura democratica. Di fronte al fatto che molti tentativi di riforma siano falliti, non dovrebbe restare altro da dire che se sono falliti è perché non si è trovato il consenso necessario. Punto. E che la Costituzione, resistendo a questi tentativi, ha solo fatto ciò che non poteva non fare.

Ma una cultura che non è stata ancora scandagliata davvero a fondo, e che potrebbe essere sinteticamente definita come della “perversione” della critica sociale, non si arrende di fronte ai principi della democrazia, ma agita “valori” per scandalizzarsi e indignarsi, presentando le proprie opzioni soggettive come delle autoevidenti “necessità” cui solo per malafede, per ottusità o per inconfessabili, taciuti e dissimulati interessi ci si può opporre.

Altro è la ribellione e il conseguente agire politico, altro è lo sdegno, di per sé populistico.

In questo senso ci troviamo nel labirinto delle riforme.

Che non è un labirinto procedimentale, un ingorgo di iniziative, e nemmeno un labirinto di progetti contrapposti, tra i quali è difficile procedere.

E’ piuttosto un labirinto mentale, un ingorgo di pensieri in cui ci troviamo costretti, e che genera un senso di smarrimento. Smarrimento rispetto alla nebulosità delle proposte e delle loro evoluzioni-aggiustamenti-emendamenti; rispetto ai mercanteggiamenti e allo scambio politico che si svolge su piani diversi (il partito A appoggerà la riforma X perché è stato rassicurato dal partito B sulle soglie di sbarramento che saranno previste dalla legge elettorale …); rispetto al tono decisionistico-impositivo-ricattatorio, assolutamente contrario a quello che dovrebbe essere il tono di una discussione di politica costituzionale; rispetto ad un magma in cui si sono persi i confini tra maggioranza e opposizione, e non perché si sia stipulata una “grande coalizione” tra diversi, resa necessaria dalla grandiosità del compito da affrontare, ma perché si è persa ogni ragione “intellettuale e morale” che giustifichi l’opposizione; e soprattutto smarrimento rispetto alla possibilità stessa che siano configurabili diversi disegni di lungo periodo sul futuro delle nostre società. Non è più solo questione di “pensiero unico”, ma di contesto unico, attuale e futuro: di una gabbia di ferro dalla quale non si può e non si potrà uscire.

 

Tutto ciò crea uno stato di sofferenza nel Paese, che o non capisce, o – quando vuole credere alle favole – si sente frustrato dai rinvii e dalle promesse, o si sente solleticato nelle sue pulsioni populiste a rimestare nel malessere generale.

 

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Come uscire da questo labirinto?

Di fronte alla evidente strumentalità delle proposte – delle accelerazioni, dei cambiamenti, dei sopravvenuti silenzi … – rispetto a fini di breve periodo (non possiamo presentarci in Europa a mani vuote … ) e di fronte all’evidente prevalere dell’interesse per l’annuncio sull’interesse per il merito, è inutile tentare (ma in realtà fingere) di condurre una battaglia sui contenuti delle riforme stesse.

Sarebbe utile come abbaiare alla luna.

Quanto successo finora ha grandemente accentuato la percezione della politica come dominata dagli arcana imperii, e ha conseguentemente scoraggiato ogni forma di discussione pubblica, che non sia il pettegolezzo (che anche se burbanzoso e condotto da “grandi firme” è pur sempre solo pettegolezzo).

Da dove riprendere dunque?

Le indicazioni hanno certo il sapore dei “consigli di Donna Letizia” buonanima, ma non hanno altra pretesa se non di indicare una via per arrivare alle domande veramente fondamentali di questo nostro tempo.

La premessa è non cercare capri espiatori. Non è certo l’Europa la causa dei nostri mali. Se si vogliono aggredire le cause del nostro malessere e dei nostri fallimenti dobbiamo innanzi tutto cercare la causa del differenziale che ci separa da altri paesi europei, simili al nostro. E con le cause di questo differenziale l’Europa non c’entra proprio nulla.

Fin che non si affronterà la questione morale come questione diffusa, propria non solo della classe politica, burocratica e imprenditoriale, ma come questione profonda, dalla quale non è certo immune la “povera gente”, non si caverà il ragno dal buco. Si tratta di affrontare problemi pedagogici giganteschi, ma non si sa a chi affidarli.

E fin quando la classe operaia non avrà riconquistato quel “primato morale e civile” che essa aveva – grazie al discorso, di cui era protagonista, del “ben fare”, dell’orgoglio del saper fare e del fare bene – e che purtroppo, non da oggi, ha perso (grazie anche alla “cultura dei diritti” che ha fatto scambiare la forza dell’autotutela e dell’orgoglio di classe con la forza dei tribunali), non si caverà il ragno dal buco per quel che riguarda la natura e il fondamento del nucleo della opposizione “strutturale” nei paesi capitalistici.

Fin che non si ribalterà con coraggio l’attuale assioma per cui la creazione di posti di lavoro è funzione solo del capitale privato (assioma smentito non solo da ciò che accade davanti ai nostri occhi, ma da quanto accade negli USA, in Israele… dove sono gli investimenti pubblici, ahimé militari, a trainare la ricerca tecnologica e l’economia, e dunque l’occupazione) non si avrà nessun lume su come riagguantare l’economia e orientarla a fini di benessere dell’intera società. Non è vero che l’economia non funziona. Se un quarto degli italiani scomparisse per magia, l’economia continuerebbe a funzionare benissimo. Ciò che non va bene è l’economia come funzione della società complessivamente intesa: è l’economia chiamata a produrre il lavoro e il benessere per la società nella sua interezza.

E fin quando non verrà affrontata con forza – ma di nuovo: da chi? – la “quistione degli intellettuali” non si risolverà né il problema dell’accumulazione delle idee necessarie allo sviluppo complessivo della società, né il problema dell’autoreferenzialità di quella classe politica – sempre più estesa – che nulla sa, che nulla dice, ma che tutto è pronta a orecchiare e a strumentalizzare.

E questo ci porta al problema centrale. Un ex Presidente della Corte Costituzionale, appena scaduto, ha detto che oggi, a parlar male dei partiti, si dovrebbe rischiare l’imputazione di “vilipendio al cadavere”, dato che i partiti non ci sono più.

Ma chi si affanna a praticare la respirazione bocca a bocca per evitare la morte del sistema parlamentare – posto che ci sia riuscito e che il sistema parlamentare stia sopravvivendo – non può non concentrare la sua attenzione sul sistema dei partiti, perché senza partiti nessun sistema democratico può esistere, e in modo particolare non può esistere nessun sistema parlamentare.

I partiti sono oggi – a tutto voler concedere – fortini nei quali si è asserragliato il ceto politico professionistico locale.

La scommessa, dunque, sta innanzi tutto nel rivitalizzare i partiti, per rivitalizzare la democrazia. Ma essendo estremamente difficile che questo obiettivo venga raggiunto attraverso una autoriforma dei partiti stessi, occorrerebbe che una politica illuminata di governo provasse a perseguire questo scopo con mezzi e strumenti istituzionali, che almeno la facilitino (anche se questo obiettivo è altrettanto irrealistico del precedente: ma non si sa mai; le strade del Signore sono infinite).

Proviamo a seguire l’ipotesi.

Si potrebbe tornare a ragionare come alla fine degli anni sessanta, quando di fronte alla crisi del sistema politico si pensò di dare attuazione alle Regioni proprio per dare “sbocchi” (così si diceva) alla crisi medesima.

Se il cuore della crisi sta nell’indebolimento dei partiti, la cura non potrà consistere che nella loro rivitalizzazione, a partire – nell’ordine di idee che stiamo seguendo – dal livello regionale.

La cura dovrà iniziare dall’abbandono dell’attuale filosofia che domina a livello centrale, dove si puote ciò che si vuole, del “maggioritarismo personalizzato senza partiti e fondato sul ricatto, dentro i partiti e tra i partiti coalizzati”. E, si dovrebbe aggiungere, fondato su un qualcosa di molto simile al ricatto (il voto di scambio nel senso deteriore del termine) nei confronti di un elettorato sempre più esiguo e sempre meno idealmente motivato, e dunque sempre più esposto ad una presa diretta da parte delle macchine elettorali.

A livello centrale si dovrebbe avere il coraggio di prendere atto che l’attuale sistema in fieri coniuga il peggio del parlamentarismo e il peggio del presidenzialismo. Si delinea una forma di governo incentrata non su un partito pivot, come era la Democrazia cristiana che doveva destreggiarsi tra partiti (e correnti) rissose per “cucire” maggioranze e programmi, ma su un partito della nazione inteso come sostanzialmente unico (che viene non a caso designato con la stessa espressione che, nei tempi andati, si dava al partito del trasformismo) fondato su una disciplina – quella interna e quella degli accordi di coalizione, palesi e occulti – che viene realizzata attraverso il ricatto (in primis il ricatto intrapartitico sulle candidature; e poi il ricatto interpartitico sulla formazione e sul mantenimento delle coalizioni).

Il modello in fieri coniuga dunque, da un lato, la personalizzazione/concentrazione del potere in un leader che non è espresso da un partito dalla solida cultura politica e dalla solida struttura “pubblica” interna (come sono ad esempio i partiti inglesi e tedeschi), ma che fa leva solo sull’effimero carisma personale: dunque il peggio del presidenzialismo. Dall’altro, la polverizzazione del Parlamento, che vota in modo disciplinato solo se costretto da voti di fiducia, e che è privo di iniziativa politica, ma solo dominato da logiche di piccolo cabotaggio finalizzate alla sopravvivenza e alla spasmodica ricerca di “visibilità”: il peggio del parlamentarismo. E soprattutto che è umiliato da leggi elettorali che privatizzano la scelta dei candidati riservandola non a segreterie di partito espressione della solida struttura “pubblica” interna, di cui si è detto (contro il che non ci sarebbe nulla di male), ma a gruppi oscuri e veramente privati, dominati solo dalla logica amico-nemico (mio).

Se il vero problema non è la garanzia della governabilità, e basta; ma la garanzia di una governabilità che comprenda la solidità dell’impianto politico-culturale-morale del Paese, allora si deve puntare su un modello che non miri a svuotare e a rendere inutili i partiti, come sarebbe il semipresidenzialismo di cui tanto si è discusso, ma verso una forma di governo fondata su un irrigidimento della separazione dei poteri, che miri espressamente a rivitalizzare il potere rappresentativo, come potere costruttore di cultura politica e di identità politiche-culturali.

Le proposte semipresidenzialistiche erano fondate su questo semplice assunto: i partiti sono definitivamente persi, sono sterco del demonio; cerchiamo dunque di modellare uno Stato che non abbia bisogno dei partiti (se non come sigle elettorali).

Oggi si sta perseguendo lo stesso obiettivo, in modo più subdolo.

Le assemblee elettive (Parlamento, Consigli regionali, Consigli comunali, per non parlare di quelli provinciali) sono state svuotate. Con esse sono stati svuotati i partiti, e il potere è trasmigrato agli esecutivi guidati da un personale politico a legittimazione carismatica.

Perché non provare allora, a livello regionale, a sperimentare una forma di governo che preveda:

a) l’elezione diretta del Presidente della Giunta (con eventuale ballottaggio);

b) l’elezione separata del Consiglio (eventualmente contestuale, ma nettamente separata);

c) il potere del presidente della Giunta di formare la giunta stessa come meglio crede;

d) la sfiducia costruttiva, e dunque l’addolcimento del simul stabunt simul cadent.

Ovviamente ciò andrebbe accompagnato da un’offensiva culturale che contrasti la vulgata oggi dominante, al fine di preparare – anche per il livello nazionale – un sistema che contrapponga al titolare del potere esecutivo una assemblea forte, e che eviti la trasmigrazione – oggi in pieno svolgimento – del potere politico al di fuori delle istituzioni.

La durata “semi-garantita” (dalla sfiducia costruttiva e dall’elevatezza del quorum necessario per l’approvazione della mozione di sfiducia) dell’Esecutivo cancellerebbe ogni necessità di manipolare l’elettorato mediante premi di maggioranza, ma non la necessità di sbarramenti o, ancor meglio, di collegi uninominali, perché l’Assemblea (Parlamento o Consiglio) non dovrebbe essere sbriciolata e dunque alla mercé del trasformismo. L’obiettivo primario dovrà sempre essere il rafforzamento dei partiti e del luogo della loro composizione.

C’è una evidente obiezione a questo disegno: che i partiti non si dimostrino all’altezza della sfida, e che pertanto non si ri-costituiscano come produttori di linee politiche e di consenso sociale, in dialettica con il Presidente e la sua Giunta, ma che al contrario si acconcino al nuovo contesto, e facciano vieppiù dilagare il trasformismo e il potere di ricatto, trasferendolo anche ad altri piani, comunale o nazionale, come era ai tempi in cui si barattavano i sindaci con cariche governative …

Se così è – e il rischio che così sia è molto concreto – non resta che osservare gli sviluppi del conflitto sociale in atto.