Il bicameralismo si supera se si reinventa (ma anche se si rottama)

Jörg Luther1

1. Lo stato dei lavori nel cantiere della riforma del bicameralismo (primavera 2014)

Sul primo numero della rivista “Piemonte delle autonomie”, i membri piemontesi della “Commissione per le riforme costituzionali” del governo Letta hanno affrontato il dibattito sul cd. “superamento del bicameralismo paritario” a favore del quale tale Commissione aveva raggiunto l’unanimità. Tre sono state le posizioni del dibattito presentate nella rivista:

(1) il monocameralismo (Ciarli-Pitruzzella),

(2) il bicameralismo differenziato con una seconda camera rappresentativa delle autonomie territoriali (Poggi, Violini),

(3) il bicameralismo differenziato con una camera alta moderatrice per funzioni di “garanzia-arbitraggio-manutenzione” delle istituzioni (Dogliani).

Il disegno di legge costituzionale governativo Renzi/Boschi (A.S. 1429) si orienta verso la seconda soluzione e si propone di perseguire due obiettivi: “da una parte, rafforzare l’efficienza dei processi decisionali e di attuazione delle politiche pubbliche nelle quali si sostanzia l’indirizzo politico, al fine di favorire la stabilità dell’azione di governo e quella rapidità e incisività delle decisioni che costituiscono la premessa indispensabile per agire con successo nel contesto della competizione globale; dall’altra, semplificare e impostare in modo nuovo i rapporti tra i diversi livelli di governo, definendo un sistema incentrato su un nuovo modello di interlocuzione e di più intensa collaborazione interistituzionale e, in alcuni ambiti, di co-decisione tra gli enti che compongono la Repubblica, volto a favorire il protagonismo dei territori nella composizione dell’interesse generale e la compiuta espressione del loro ruolo nel sistema istituzionale.” (A.S. 1429, p. 4).

La relazione fa eco alle seguenti conclusioni della Commissione: “È largamente prevalente l’ipotesi di introdurre una forma di bicameralismo differenziato per attribuire al Senato della Repubblica la rappresentanza degli enti territoriali, intesi sia come territorio che come istituzioni, e alla Camera dei Deputati il rapporto fiduciario e l’indirizzo politico. Questa scelta è frutto di due motivazioni : a) la necessità di garantire al governo nazionale una maggioranza politica certa, maggiore rapidità nelle decisioni, e dunque stabilità; b) l’esigenza di portare a compimento il processo di costruzione di un sistema autonomistico compiuto, con una Camera che sia espressione delle autonomie territoriali.”

Le motivazioni del bicameralismo differenziato derivano da idee di politica costituzionale non del tutto nuove. La prima si ispira alla razionalizzazione della forma di governo parlamentare prospettata in Assemblea costituente dall’o.d.g. Perassi, facendo sostanzialmente i conti con la problematica della differenziazione dei premi di maggioranza tra le due leggi elettorali i cui risultati hanno in via di fatto già superato il modello originario di Senato, sin dagli anni sessanta destinato ad essere etichettato in modo superficiale come bicameralismo “perfetto”.

La seconda si ispira ad una razionalizzazione della forma di Stato paventata già nelle precedenti commissioni “bicamerali”, anche nell’ottica di una “riforma della riforma” del 2001 destinata ad armonizzare ora il titolo primo e il titolo quinto della seconda parte della Costituzione.

La novità riguarda invece la composizione del “Senato delle Autonomie” che definisce, secondo la relazione che accompagna il d.d.l., “in modo univoco il suo nuovo ruolo costituzionale al contempo di raccordo tra lo Stato e il complesso delle Autonomie e di garanzia ed equilibrio del sistema istituzionale.” Questa composizione, coerente a un ruolo definito apparentemente diverso da quello definito nella seconda motivazione di cui sopra, è fondata su una quota paritaria, in ciascuna Regione, di rappresentanti degli organi regionali (e delle Province autonome) e di sindaci dei comuni. La carica di senatore acquisiscono di diritto i Presidenti di Regione e Provincia autonoma e i sindaci dei comuni capoluogo di Regione e di Provincia autonoma. Gli altri senatori sono eletti indirettamente con voto limitato da parte, rispettivamente, di ciascun Consiglio regionale e di un collegio elettorale costituito dai sindaci della Regione, sempre tra i componenti i rispettivi collegi, mentre ventuno senatori sono nominati dal Presidente della Repubblica per un settennio.

Il progetto governativo è stato criticato pubblicamente e diverge da altri provenienti dalla maggioranza governativa. Ad es., 36 senatori della maggioranza governativa (Chiti et al. AS. 1420: Istituzione di un Senato delle Autonomie e delle Garanzie e riduzione del numero dei parlamentari) preferiscono l’elezione di 100 senatori su base regionale e 6 nella circoscrizione estero, mentre i senatori Monti e Lanzilotta (AS 1416) propongono un Senato della Repubblica che “rappresenta le autonomie territoriali, funzionali e sociali del Paese”, con 200 senatori eletti in collegi regionali di grandi elettori da liste di candidati composte “per un terzo da consiglieri e membri della Giunta regionale, per un terzo da sindaci e consiglieri comunali, per un terzo da esponenti delle autonomie funzionali e sociali”.

Nel corso dell’esame nella prima Commissione del Senato, il testo governativo è stato scelto come testo di base dei lavori, ma è stato approvato in data 6 maggio 2014 anche l’o.d.g. dell’on.le Roberto Calderoli, che contiene, tra l’altro, “le seguenti linee di indirizzo: il Senato è la camera che rappresenta le Regioni e le Autonomie; inserire, tra le funzioni del Senato delle Autonomie, quelle di controllo dell’attività delle pubbliche amministrazioni, di verifica dell’attuazione delle leggi dello Stato, nonché di controllo e di valutazione delle politiche pubbliche, nonché l’espressione di pareri, eventualmente vincolanti, sulle nomine di competenza del Governo; prevedere che il Senato delle Autonomie sia composto da senatori regionali eletti in ciascuna Regione in proporzione alla popolazione, contestualmente all’elezione del rispettivo Consiglio regionale o di Provincia autonoma. La legge regionale, sulla base della legge dello Stato, disciplina il sistema di elezione dei senatori e la loro sostituzione, prevedendo altresì la corrispondente riduzione del numero dei consiglieri regionali; prevedere la soppressione dei senatori a vita di nomina presidenziale; (…).

Allo stato attuale quindi esiste solo un consenso parlamentare in negativo a favore del “superamento del bicameralismo paritario”, forse anche sulla eliminazione dei poteri di fiducia/sfiducia al Governo, non invece un consenso in positivo sui principi caratterizzanti le funzioni e la struttura della nuova seconda camera, né tanto meno un consenso che renda prevedibile in tempi brevi – ad es. prima dell’estate – l’approvazione della proposta governativa.

2. Il compito della scienza del diritto costituzionale: monitorare e consigliare il sovrano

A differenza delle precedenti procedure di revisione costituzionale, per lo più fallite, quella dell’attuale legislatura ha cercato di coinvolgere maggiormente esperti della scienza del diritto costituzionale, dai lavori del Gruppo di lavoro sulle riforme istituzionali, nominato dal Presidente della Repubblica il 30 marzo 2013 2 passano per quelli della sopracitata Commissione istituita dal Governo Letta fino al variegato panorama delle opinioni emerse nelle audizioni del 8 e 13 giugno 2014 dei “costituzionalisti” in senso mediatico, cioè dei professori Caravita, Ceccanti, Cerrone, Clementi, Falcon, Ferrajoli, Frosini, Lippolis, Luciani, Manetti, Mangiameli, Nicotra, Pace, Rodotà, Tondi della Mura, Violante, Zaccaria ecc. 3 . L’Associazione Italiana dei Costituzionalisti ha organizzato a sua volta due seminari su “I costituzionalisti e le riforme” in data 28 giugno 2013 e 28 aprile 2014 (relazioni di P. Carretti, M. Luciani, B. Pezzini et al.), i cui risultati sono stati peraltro solo parzialmente recepiti dai membri che hanno partecipato alle audizioni.

La riflessione su quale debba e possa essere il ruolo che i costituzionalisti assumono nelle procedure di revisione costituzionale, riflessione avviata da Gustavo Zagrebelsky nel convegno annuale dell’associazione tenutosi a Torino nel 2011 4, è rimasta per lo più monologica e implicita nei contributi dei costituzionalisti al dibattito pubblico.

Non vi è dubbio che ogni politica democratica, anche quella costituzionale, deve poter avvalersi di competenze scientifiche tecniche, ma non può abbandonare le responsabilità politiche ai tecnici e ridurre sé stessa all’esecuzione di opzioni politiche inespresse di esperti non eletti, ma solo cooptati dalla politica. Il professore della scienza del diritto costituzionale è sempre al servizio “esclusivo della Nazione” (art. 98 cost.) e al servizio di una scienza libera, anche quando risponde a questioni sollevate da rappresentanti democraticamente eletti. La designazione e l’invito non conferiscono alcuna legittimazione democratica a produrre o diffondere idee politiche a sostegno di un gruppo o partito, non potendo autorizzare a scambiare o integrare la funzione pubblica culturale con funzioni politiche, né a trasformare il sapere da consigli e moniti in pretese di emendamenti, approvazioni o veti.

Non è questa la sede per delineare le implicazioni per i doveri di trasparenza dei professori che ne conseguono (ad es. quello di appalesare attività di consulenza privata), ma per riflettere sul tipo di saperi che la politica costituzionale può legittimamente aspettarsi dal diritto costituzionale, una scienza che deve essere necessariamente critica, ma possibilmente libera da giudizi di valore partitici o personali. Innanzitutto, la scienza del diritto costituzionale deve aiutare a valutare l’impatto delle riforme sui principi costituzionali supremi, in particolare su quelli che pongono limiti allo stesso potere di revisione costituzionale.

Questo vale soprattutto per il principio di democrazia, potendo anche il potere costituente non più alienare la sovranità popolare, solo determinare le “forme” e i “limiti” dell’esercizio della stessa. Vale poi anche per il principio che “forme e limiti” siano degni di uno Stato costituzionale di diritto, rispettino i diritti inviolabili e non degradino a non fondamentali i principi di libertà e di eguaglianza o il principio fondamentale della Repubblica, una e indivisibile, delle autonomie (art. 5). La scienza del diritto costituzionale deve aiutare ad evitare sacrifici sproporzionati dei principi fondamentali che possano compromettere l’essenza delle funzioni della Costituzione o, come si direbbe nel contesto dell’Unione europea, l’identità costituzionale che riposa nell’effettività dei valori ai quali rinviano i principi fondamentali come norme.

A questo compito di conservazione culturale del “nucleo duro” o “patrimonio inalienabile” dello Stato costituzionale, compito che si realizza tramite critiche e moniti a legislatori e giudici costituzionali, si aggiunge quello di dare consigli tecnici ai responsabili delle politiche di riforma . Il costituzionalista dispone di saperi non solo sulle funzioni che una Costituzione può svolgere, ma anche sulla realtà dell’interpretazione e sulla prassi di applicazione delle norme costituzionali vigenti, sull’individuazione di alternative possibili e sulle necessità di miglioramenti. Questi saperi e i consigli di drafting che ne derivano devono scindere la realtà delle norme vigenti dalle necessità di conservazione ed innovazione della vita costituzionale, ma anche dal potenziale interpretativo delle disposizioni attuali e di quelle future.

Il buon costituzionalista deve saper rendere compatibili le esigenze di stabilità e di dinamicità della Costituzione tanto nell’interpretazione quanto nella revisione costituzionale, perché la Costituzione non può mai essere perfetta, sempre solo perfezionabile essendo sempre da interpretare e da riformare. La manutenzione dello Stato costituzionale avviene tramite interpretazioni e riforme e può rendere necessario, ad es., il superamento di istituti divenuti obsoleti, anacronistici o nocivi, l’adeguamento di norme o istituti a contesti mutati, il riequilibrio di assetti di competenze, la razionalizzazione di procedure, la composizione di conflitti o la soluzione di problemi di interpretazione irrisolvibili in sede di giurisdizione costituzionale. Proprio in quanto scienza critica, quella del diritto costituzionale può anche implicare idee su quali norme costituzionali siano da perfezionare come, anzi può produrre o esaminare cahiers de doléances indipendenti da quelle confluite nell’agenda parlamentare al fine di prevenire eventuali omissioni del legislatore della revisione costituzionale. Ma se il costituzionalista deve coniugare la conservazione con l’innovazione non può lasciarsi tentare né dalla rivoluzione, né dalla reazione. In genere, i costituzionalisti rivoluzionari rischiano di fare ridere, quelli reazionari di fare piangere ed entrambi di far perdere tempo e idee.

Lo scienziato del diritto costituzionale ovviamente non sarà mai il Licurgo di Sparta, libero di esprimere una propria volontà dittatoriale sulla riforma costituzionale. Semmai potrà cercare una sintesi tra le volontà delle forze politiche legittimamente rappresentate e quelle ragioni inerenti alle funzioni di una Costituzione che fanno parte del bagaglio teorico ed esperienziale del costituzionalismo. La massima cautela richiede non solo il rispetto della volontà e l’autonomia di giudizio di chi è legittimato a decidere sulla revisione costituzionale, ma anche la difesa delle esigenze di ragionevolezza e prudenza richieste per la manutenzione della Costituzione stessa. Si potrà dire: se vuoi raggiungere l’obbiettivo politico X devi formulare la prescrizione costituzionale Y1 o la legge Y2 o promuovere una convenzione Y3. Oppure: se vuoi la prescrizione Y1 o Y2 o Y3 (…) avrai le conseguenze o problematiche interpretative Z1, Z2, Z3 (…). Si potrà quindi anche prospettare una disposizione o una norma interpretativa, ma non spetta certo al costituzionalista comandare i riformatori.

Se rende pareri, preferibilmente scritti, dovrà infine badare sempre alla leggibilità della Costituzione per un popolo che può intervenire come corpo elettorale nel referendum costituzionale, e che è tenuto ad osservarla per essere fedele alla Repubblica. Nessuno si dimentichi quindi di essere consigliere di un principe solo, anche quando valuta l’impatto della revisione costituzionale su una Regione il cui consiglio potrebbe tutt’al più appellarsi al sovrano.

3. Le imperfezioni democratiche del bicameralismo differenziato prospettato dal Governo

Il d.d.l. Renzi/Boschi si pone l’obiettivo esplicito di «elevare la qualità della vita democratica» e di «ricostruire il rapporto di fiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni», cioè di «incrementare complessivamente il tasso di democraticità del nostro ordinamento”. Le criticità delle norme proposte al riguardo sono sia di natura procedurale (1), sia di natura sostanziale (2) e investono lo stesso principio fondamentale di democrazia (art. 1 Cost.).

(1) Sono rilevanti, ma non insuperabili alcune eccezioni sul piano procedurale che riguardano i ruoli del parlamento, del governo e del Presidente della Repubblica nei procedimenti iniziati. Al di là delle valutazioni del peso delle singole eccezioni, potrebbero ritenersi sanabili da un eventuale referendum costituzionale.

(1.1) Innanzitutto è stata eccepita la carenza di legittimazione democratica delle attuali camere, come conseguenza della sentenza n. 1/2014 della Corte costituzionale. Tale decisione tuttavia non ha sancito un obbligo di scioglimento delle Camere, giudicando “evidente che la decisione che si assume, di annullamento delle norme censurate, avendo modificato in parte qua la normativa che disciplina le elezioni per la Camera e per il Senato, produrrà i suoi effetti esclusivamente in occasione di una nuova consultazione elettorale, consultazione che si dovrà effettuare o secondo le regole contenute nella normativa che resta in vigore a seguito della presente decisione, ovvero secondo la nuova normativa elettorale eventualmente adottata dalle Camere.” In virtù del principio della necessità ed indefettibilità degli organi costituzionali non solo sono salvi gli atti già compiuti, ma “del pari, non sono riguardati gli atti che le Camere adotteranno prima che si svolgano nuove consultazioni elettorali.” Se le Camere dispongono solo più di una legittimazione costituzionale, non più riconducibile ad una volontà democraticamente dichiarata del corpo elettorale ma solo a quella altrettanto democratica del potere costituente, il costituzionalista deve tuttavia sconsigliare di usare in parlamento i premi di maggioranza, ottenuti in modo costituzionalmente illegittimo e conservati solo ai fini della continuità dello Stato, per raggiungere la “maggioranza assoluta dei componenti” delle camere ex art. 138 cost. o addirittura per raggiungere la maggioranza dei due terzi degli stessi che precluderebbe un referendum costituzionale 5 .

(1.2) Non coerente con lo spirito di una democrazia che privilegia l’allargamento del consenso per le scelte costituzionali può essere considerato inoltre l’inserimento dell’iniziativa legislativa nel programma di governo: “Noi vogliamo sfidare il Parlamento; non consideriamo il Parlamento un inutile orpello. Noi siamo pronti a recuperare, nell’ambito di una cornice condivisa, tutti i miglioramenti possibili. Noi non abbiamo l’idea di venire a dettare la linea e di aspettare che rapidamente si esegua nelle Aule parlamentari. Ma stiamo scherzando? Però, vi chiediamo di farvi carico, insieme a noi, del fatto che i tempi non sono più una variabile indipendente; e che se non iniziamo dalle riforme istituzionali e costituzionali e poi interveniamo nel pacchetto di riforme che vi ho esposto nel corso dell’intervento, noi perdiamo la possibilità di essere considerati credibili non tanto dai nostri partner europei, ma anche e soprattutto dai nostri concittadini.” (comunicazioni del Presidente del Consiglio al Senato, 24. 2. 2014). A questa richiesta di corsia preferenziale per le riforme “istituzionali e costituzionali” hanno fatto eco ulteriori dichiarazioni idonee a condizionare i tempi dei lavori in Senato e a sminuire le garanzie di riflessione e di appello all’opinione pubblica da parte delle minoranze, come se il Governo intendesse in modo informale porre sulle proprie scelte di politica costituzionale una questione di fiducia impropria. Almeno a questo punto, i presidenti delle Camere dovrebbero interpretare i propri regolamenti alla luce della separazione dell’indirizzo politico costituzionale di cui al titolo sesto dall’indirizzo politico governativo di cui al titolo quarto della seconda parte della Costituzione 6 .

(1.3) Può essere considerata irrituale, anche se non priva di qualche precedente, l’ingerenza del Presidente della Repubblica, organo di minore legittimazione democratica, nei procedimenti di revisione costituzionale pendenti, in particolare in occasione del discorso del giuramento del secondo mandato (22. 4. 2013: “Non meno imperdonabile resta il nulla di fatto in materia di sia pur limitate e mirate riforme della seconda parte della Costituzione, faticosamente concordate e poi affossate, e peraltro mai giunte a infrangere il tabù del bicameralismo paritario” 7 Autore sc . L’agenda setting della politica costituzionale spetta alla società democraticamente rappresentata in Parlamento, non al capo dello Stato, almeno fino a quando non è la stessa Costituzione a minacciare l’unità nazionale. Il bicameralismo paritario avrà tutti i suoi difetti, ma difficilmente può essere considerato un pericolo per la democrazia tale da rendere la sua riforma una necessità ed urgenza.

(2) Sono ancora più rilevanti e anche più difficilmente superabili le criticità sul piano di alcuni contenuti della revisione proposta. A tal riguardo occorre focalizzare (1) la democraticità del potere di revisione costituzionale, (2) la componente aristocratica del Senato delle Autonomie, (3) la responsiveness democratica del Senato delle Autonomie. Complessivamente, tali criticità richiedono una revisione o della struttura o delle funzioni del Senato prospettato.

(2.1) Il nuovo parlamento bicamerale avrà nel Senato una minore legittimazione democratica di quella attuale, ragione per la quale la seconda camera non deciderà più sulla fiducia al governo e inciderà solo più su una parte della legislazione ordinaria. Le fonti costituzionali, più immediata espressione della sovranità popolare, al contrario sono decise dall’intero parlamento bicamerale, quindi avranno una minore legittimazione democratica sia rispetto al passato, sia rispetto alle leggi ordinarie future.

In effetti, la revisione della Costituzione sarà affidata insieme a una Camera dei deputati, dotata di una legittimazione democratica non inferiore a quella attuale (purché dotata di una legge elettorale costituzionalmente legittima) e votata alla rappresentanza della Nazione, a un Senato delle Autonomie, dotato di una legittimazione inferiore e di un nuovo mandato di “rappresentanza territoriale” del Paese. Non è escluso che nel Senato i rappresentanti di una maggioranza di enti che sarebbero una minoranza demografica nel paese esercitassero un potere di veto rispetto alla volontà della maggioranza (governativa o più ampia) dei rappresentanti della Nazione, eletti dal popolo nella Camera dei deputati.

A differenza del passato, i deputati della Camera saranno quindi costretti a negoziare con i rappresentanti degli enti autonomi i contenuti dell’intera revisione costituzionale. Tale negoziazione potrebbe sempre essere incanalata nei partiti politici nazionali, ma potrebbe complicarsi anche per un effetto di incentivazione della formazione di partiti regionali. La revisione sarebbe decisa in ogni caso in un procedimento che consentirebbe a) a un terzo degli enti di impedire revisioni senza referendum, b) finora solo a cinque consigli regionali, ma ora anche solo a un quinto dei senatori di provenienza degli enti locali, di appellarsi al popolo.

I poteri del Senato delle Autonomie nel procedimento di revisione della Costituzione non saranno circoscritti a una valutazione dell’impatto delle future riforme sul sistema delle autonomie. In nome del superamento del bicameralismo paritario, la riforma attuale offrirebbe quindi agli enti territoriali autonomi una partecipazione paritaria al potere di revisione costituzionale. Il bicameralismo paritario non sarebbe superato da un Senato che nel momento dell’esercizio del potere più alto della sovranità popolare rappresenterebbe non più la Nazione bensì il Paese o la Patria. Ad es., il Piemonte, per mezzo del Senato, non avrebbe più solo poteri sull’iniziativa o sull’integrazione dell’efficacia delle scelte di riforma costituzionale, ma parteciperebbe per mezzo dei suoi senatori anche all’istruttoria e deliberazione della stessa riforma.

In un’ottica comparata, simili poteri costituenti delle seconde camere sono pacifici soprattutto negli stati federali, ma esistono anche in altri paesi europei. In Spagna, unico paese nel quale la rappresentanza della Nazione è riservata alla sola prima camera, la rappresentanza territoriale del Senato che partecipa alla riforma costituzionale è tuttavia in parte eletta direttamente su base provinciale, in parte indirettamente dalle Comunità autonome nel rispetto di proporzionalità demografica. In sintesi, occorre sottolineare che per effetto delle riforma nel testo qui esaminato, il livello di legittimazione democratica della Costituzione stessa rischia di abbassarsi non solo rispetto al passato, ma anche rispetto alla media degli altri paesi europei (Irlanda non docet)8.

(2.2) Il Senato della Repubblica Italiana deve il suo nome e la sua legittimazione storica alle antiche tradizioni piemontesi 9 e romane dei patres gentium: “cum potestas in populo, auctoritas in senatu sit 10. L’aristocrazia ottocentesca del Senato serviva “1° per conservare la tradizione, 2° per un secondo esame e miglioramento delle leggi, 3° per ostacolare i movimenti irragionevoli del demos 11. Alla perpetuazione di tali funzioni costituzionali nella Repubblica intendeva servire l’istituto dei senatori a vita dell’art. 59 cost. che dovevano essere un modello culturale per tutti gli altri senatori e trasformare i senatori stessi nella “sanior pars” della classe politica, un obbiettivo di “incivilimento” della rappresentanza politica agli occhi dei più oggi non pienamente realizzato. A differenza dei cinque senatori a vita nominati e degli ex presidenti della Repubblica, i ventuno senatori che possono essere nominati dal Presidente della Repubblica per un settennato non rappresentano più la Nazione. Avranno un mandato libero, ma appartengono a un organo che ha il compito principale di rappresentare le autonomie territoriali. Un nesso tra i loro “altissimi meriti” e la funzione di rappresentanza delle istituzioni territoriali non sussiste e non è prevista nemmeno una loro incompatibilità con funzioni governative. Sommandovi i cinque senatori attuali (ed evt. l’attuale Presidente), sarebbero meno di un quinto del Senato (26 (27) su 148), ma sufficienti a costituire un gruppo autonomo. Rischierebbero di dover concorrere ad un’eventuale rielezione del Presidente il quale, in mancanza di un divieto di rinnovo, potrebbe a sua volta nominarli per un altro settennato, aggiungendo in tal caso agli altissimi meriti in campo sociale e culturale anche un effetto di premiazione politica. Per non dimenticare la conservazione del potere presidenziale di scioglimento del Senato. È difficile pensare che questa spirale di auto-legittimazione che ne consegue, diametralmente opposta al principio di democrazia, sia premeditata, ma non vi è dubbio che possa essere percepita da qualche parte come un rischio di “svolta autoritaria”. Le virtù dei senatori della Patria peraltro non necessariamente dovrebbe essere affidate al giudizio del Presidente, ben potendo formarsi anche nella società civile locale (cfr. infra 4).

(2.3) Una rappresentanza è democratica se il popolo, agendo come corpo elettorale, può controllare i propri rappresentanti e decidere di non rinnovare il loro mandato. Alle elezioni successive, il rappresentante si assume una responsabilità politica che caratterizza la “responsiveness” della democrazia. I senatori rappresentanti delle istituzioni territoriali sono eletti solo indirettamente e, a differenza dei rappresentanti dei Länder nel Bundesrat tedesco, hanno un mandato libero. A differenza dei senatori odierni e dei deputati della Camera che possono sottoporsi al giudizio del corpo elettorale quando si ripresentano alle elezioni successive, non devono assumersi una responsabilità politica diretta davanti al popolo, se non alla successiva elezione a sindaco, consigliere regionale o presidente della giunta regionale. Per quanto ai sensi dell’art. 68 cost. né i deputati, né i senatori “possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni”, non è esclusa quindi una eventuale valutazione da parte del corpo elettorale regionale o locale che decide su una eventuale rielezione, valutazione che tuttavia darà solo accessoria e secondaria rispetto a quella della performance nella carica di governatore, sindaco o consigliere.

Nella misura in cui la Costituzione esige la democraticità degli organi rappresentativi di tutte le istituzioni territoriali, richiede non solo l’elettività delle rispettive assemblee e/o dei capi, ma anche la responsabilità dei rispettivi organi di governo dinnanzi ad assemblee elettive dotate di poteri di indirizzo e controllo.Autore sc Il divieto del mandato imperativo per il Senato delle Autonomie sembra escludere invece ogni responsabilità all’interno delle istituzioni rappresentate. Pertanto, i senatori non dovrebbero rispondere delle loro scelte senatoriali nei consigli regionali e locali, piuttosto nelle sedi dei partiti politici e dell’ANCI. Per la maggior parte dei senatori, e precisamente per i sindaci e i presidenti di Regione e Provincia autonoma, si creerebbe tuttavia una situazione normativa bizzarra. In effetti, nulla vieterebbe ai consigli rispettivi di sfiduciarli per motivi inerenti alle loro scelte in loco, ma la Costituzione escluderebbe qualsiasi controllo sulle loro scelte in Senato in rappresentanza delle “istituzioni territoriali”. Il Presidente della Giunta della Regione Piemonte finora “rappresenta la Regione, dirige la politica della Giunta e ne è responsabile” ed esercita le funzioni relative al coordinamento e all’intesa tra lo Stato e la Regione (art. 51 Statuto) e può essere più sfiduciato per qualsiasi motivo (art. 52 Statuto). La riforma renderebbe incostituzionale una sfiducia motivata in relazione ad atti imputabili alla funzione di rappresentanza istituzionale in sede senatoriale, forse addirittura ogni discussione sui voti e le opinioni espresse o anche solo ripetute in tale sede. Se il Senato della Autonomie assorbirà il sistema delle competenze, i già deboli poteri di controllo del consiglio regionale al riguardo si restringerebbero quindi ulteriormente, come si restringono anche gli analoghi poteri dei consigli comunali. In sostanza, i consiglieri non potrebbero opporsi a un Presidente della Regione in scadenza le cui scelte risultassero pregiudizievoli degli interessi della Regione stessa e magari favorevoli alla propria carriera politica.

Questa restrizione sarebbe giustificabile se il sindaco o presidente senatore rappresentasse solo le autonomie di categoria, non invece anche interessi e volontà della propria collettività locale. Non essendo stata recepita né la proposta della Commissione bicamerale d’Alema del 1997, né la scelta della Francia di rendere il mandato senatoriale incompatibile con mandati regionali o locali12, non è esclusa una rappresentanza di interessi particolari sottratta al controllo politico dei consigli eletti in loco. La compatibilità consentirebbe solo l’instaurazione di pratiche di scambio di informazioni (da rendere obbligatorie anche con norma statutaria), non meccanismi di indirizzo e controllo. La responsività della democrazia locale e regionale rischia pertanto di ridursi ulteriormente. Effetto che si aggiunge alla deminutio della legittimazione democratica del Senato causata dal passaggio dall’elezione diretta a quella indiretta e dal contestuale mantenimento del potere di scioglimento presidenziale del Senato.

A nulla vale replicare che il divieto di controllo sui presidenti senatori potrebbe essere eluso evitando riferimenti all’attività senatoriale nella motivazione dell’eventuale mozione di sfiducia. Nel sistema delineato dal disegno di riforma, si punta più su controlli intra-senatoriali da parte dei senatori eletti dal consiglio regionale e da parte dei sindaci eletti in Regione, ma queste forme di autocontrollo all’interno del Senato non possono compensare la perdita di responsiveness democratica. Per evitarla sarebbe

In ultima analisi, la compensazione della riduzione dei poteri legislativi delle Regioni sarà “monetarizzata” principalmente dai Presidenti delle Regioni che potranno usare il Senato più come tribuna per le proprie carriere a livello nazionale che non come luogo di difesa delle autonomie. In questo modo la democrazia regionale rischia di diventare insieme più presidenziale e meno autonoma.

4. Quale “rappresentanza territoriale” può rigenerare il Senato?

Non esiste bicameralismo al mondo che non sia sospettato di essere un anacronismo o “historical hangover”, che non sia come ogni dualità instabile soggetto a tensioni, mutamenti e tentazioni di abolizione, che non sia alla ricerca di identità e legittimazione. In Austria, ad es., la presidente socialdemocratica della prima camera ha appena proposto di abolire il Bundesrat, trasferendo le competenze direttamente ai consigli regionali13. In Italia prevale oggi piuttosto l’idea di rigenerare la seconda camera come sede di una “rappresentanza territoriale”, concetto aperto e attraente nel quale si cela il desiderio di una “vicinanza al cittadino”, ma nel quale si riflette anche la crisi europea della tradizionale “rappresentanza nazionale”. Prima di entrare nei profili funzionali (2) e strutturali (3) che concretizzano questa idea di rappresentanza, conviene ricostruirne il contesto storico (1).

(1) Le radici pre-moderne e le giustificazioni moderne dei vari prototipi del bicameralismo rimandano ai principi dello stato di diritto o della rule of law, in particolare alla separazione dei poteri in senso orizzontale e verticale. Nella monarchia costituzionale tradizionale era l’idea che il Re dovesse sentire quello che nell’Ottocento fu chiamato un “consiglio di Stato”. Alle origini della democrazia costituzionale fu il Parlamento a riprodurre nella seconda camera le virtù della prudenza e della moderazione della politica per prevenire quella che, riprendendo idee di Harrington, Lord Bolingbroke chiamava la “democratical tyranny” 14.

Nella rivoluzione francese, il monocameralismo è nato dal rigetto dell’aristocrazia e delle signorie, rafforzandosi nei regimi socialisti e nei momenti di crisi della democrazia. Il bicameralismo ha resistito soprattutto negli Stati federali e, nel secolo scorso anche in quelli regionali, perché giustificabile come strumento di garanzia di modelli di democrazia costruiti gradualmente “dal basso” delle autonomie locali e regionali.

Nel secolo scorso, il bicameralismo pertanto non poteva che diventare democratico. L’idea originale dell’assemblea costituente italiana di prevedere un Senato eletto “su base regionale” con senatori più anziani che durassero in carica un anno di più dei deputati della camera e solo un anno di meno del Presidente della Repubblica era non solo dettata dalla paura della dittatura dei partiti del proletariato, ma serviva a garantire insieme la lungimiranza e continuità degli indirizzi politici del parlamento, leggibili anche nelle Regioni. La dialettica tra le due camere serviva anche a radicare l’aspettativa che le leggi della Repubblica fossero riconosciute ovunque come un’eredità da tramandare come beni pubblici.

La successiva parificazione della durata, lungi dal poter o voler rendere il bicameralismo “perfetto”, lasciava ai cittadini il potere di scindere i propri voti anche per evitare delle maggioranze risicate e costringere, se necessario, una partisan polity a trovare delle soluzioni bipartisan o consociative che superassero le divisioni. Questo “bicameralismo cooperativo” (L. Elia) è stato messo in crisi negli ultimi decenni dalla “transizione” verso una forma di democrazia più maggioritaria e verso una forma di Stato meno unitaria, crisi aggravata dalle aspettative generate dalle riforme prospettate dalle Commissioni bicamerali e dall’inapplicato art. 11 della l. cost. n. 3/2001 che affidava alla Commissione bicamerale per gli affari regionali il compito di consentire la partecipazione di rappresentanti delle Regioni, delle Province autonome e degli enti locali “sino alla revisione delle norme del titolo I della parte seconda della Costituzione”15 .

In seguito alla riforma costituzionale parziale del 2001 sono poi fiorite ulteriori proposte di revisione del bicameralismo che hanno stimolato anche una ricca produzione scientifica, non del tutto convergente sull’idea della “rappresentanza territoriale” promossa dall’odierno d.d.l. governativo16.

Il “superamento del bicameralismo paritario”, descritto come minimo comune denominatore di una presunta diffusa volontà di riforma costituzionale, va in ogni caso oltre una semplice differenziazione delle funzioni, perché pretende di modificare anche la struttura e quindi l’identità del Senato.

In effetti, il d.d.l. Boschi/Renzi modifica il nome e separa prima le funzioni delle due camere (art. 55)17 per differenziare poi le strutture (art. 56, 57). L’idea della “rappresentanza territoriale” si cristallizza sia nelle funzioni (“rappresenta le Istituzioni territoriali”, “funzione di raccordo tra lo Stato e le Regioni, le Città metropolitane e i Comuni”, “valutazione dell’impatto delle politiche pubbliche sul territorio”), sia nelle norme che ne disciplinano la composizione (ad eccezione dei senatori di nomina presidenziale) e che sembrano prefigurare all’interno del Senato due anime e camere, quella regionale e quella municipalista.

(2) Per quanto riguarda le funzioni, è controversa non tanto l’esclusione del potere di sfiducia (e quella della questione di fiducia), quanto la perdita del potere di inchiesta sul governo (art. 82) che non viene compensata né dalla facoltà di svolgere attività conoscitive in sede legislativa (art. 70), né da quella della valutazione dell’impatto delle politiche. Nell’ottica della prevenzione di conflitti di attribuzione, la “rappresentanza delle Istituzioni territoriali” dovrebbe in effetti implicare un minimo di controllo anche sulle funzioni amministrative dello Stato. A tal proposito potrebbe essere utile garantire quanto meno un diritto di accesso dei senatori ai lavori della Camera dei deputati, analogamente a quello riconosciuto ai membri del Bundesrat (art. 43 co. 2 Legge fondamentale).

La nuova funzione di “raccordo” dovrebbe far assorbire inoltre nel Senato delle Autonomie l’attuale sistema delle conferenze, ma resterebbe senza raccordo ulteriore con l’analoga funzione dei Consigli delle autonomie locali (CAL) garantita all’art. 123 u.c. cost., i quali peraltro non sono l’unico strumento di coinvolgimento del “sistema degli enti locali” nelle scelte legislative e di governo della Regione (cfr. art. 2 e 97 Statuto della Regione Piemonte). Mancano disposizioni transitorie al riguardo.

Spetterà poi a una legge approvata dalla Camera, ma proponibile dal Senato, disciplinare le modalità di partecipazione del Senato alle decisioni dirette alla formazione e all’attuazione degli atti normativi dell’Unione europea.

In sintesi, sotto il profilo funzionale la “rappresentanza delle istituzioni territoriali” sarà inevitabilmente sia una rappresentanza generale delle categorie di autonomie, sia una rappresentanza individuale dei singoli enti regionali e locali rappresentati. Massimo Luciani difende questa idea di un “senato rappresentativo delle istanze territoriali”, proponendo di mantenere il nome “Senato della Repubblica”, perché garantirebbe “un fruttuoso assorbimento del pluralismo nella dimensione della statualità e potrebbe consentire di affrontare al meglio le sfide dei processi di sovra-nazionalizzazione e globalizzazione” 18.

Il Senato si reinventerebbe come istituzione di (re-)integrazione politica della Repubblica, consentendo allo Stato di opporre il glocal al global e di rafforzare i propri poteri di veto in sede di Unione europea? Forse si, ma il Senato delle Autonomie potrebbe essere considerato anche solo come una compensazione più o meno simbolica per la riduzione della perdita di funzioni e di autonomia da parte degli enti rappresentati, innanzitutto per la perdita di competenze legislative regionali. Tale compensazione di competenze con poteri di partecipazione è una prassi diffusa nelle dinamiche costituzionali degli ordinamenti federali, ma difficilmente giustificherebbe anche una effettiva parità di poteri di partecipazione tra Regioni ed enti locali.

(3) Per quanto riguarda infine i profili strutturali della “rappresentanza territoriale” è controversa non solo la non elettività, ma anche il principio di parità delle anime regionaliste e municipaliste. La tesi secondo cui “la pura e semplice elezione diretta dei senatori sarebbe in contraddizione con la sottrazione al Senato del rapporto fiduciario” (Luciani) si fonda su un’altra tesi secondo cui “la medesima legittimazione reclama le medesime funzioni”. Quest’ultima suona più come un dogma. Semmai sono piuttosto le medesime funzioni che esigono una medesima legittimazione. E le differenze strutturali tra le due Camere che derivano finora dalle norme costituzionali e dalle leggi elettorali vigenti comportano una differenziazione dei livelli di legittimazione democratica tale da non poter reclamare affatto “medesime funzioni”. Se una qualche differenziazione delle funzioni sarebbe quindi legittima già de constitutione lata, anche quella maggiore prospettata de constitutione ferenda non imporrebbe una non elettività del Senato. Solo un’elezione diretta di rappresentanti privi di poteri reali non gioverebbe alla democrazia. Tuttavia, non si può escludere a priori che nell’esercizio dei propri poteri di partecipazione un nuovo Senato delle Autonomie con senatori eletti direttamente non possa acquisire autorevolezza e capacità di tirare dalla propria parte l’opinione pubblica. La discrezionalità dei revisori della Costituzione è pertanto ampia, anche se non illimitata.

Peraltro, l’elettività diretta è difficile da negare ai presidenti delle giunte regionali e ai sindaci dei comuni capoluogo. Alla cittadinanza basterà leggere il testo della Costituzione riformata per sapere che l’elezione di queste figure è anche elezione diretta di senatori. Il sistema proposto, in verità è un sistema misto di elezione di primo e di secondo grado. Tra elezione di primo e di secondo grado, la differenza la fa solo la menomazione della democrazia perché il cittadino che elegge un consigliere regionale o sindaco difficilmente potrà sapere per quale senatore gli eletti voteranno.

Le criticità di questo sistema misto sono varie. Sul versante delle Regioni è la disparità del peso del voto dei cittadini tra le varie regioni, pesando quello del cittadino residente in Valle d’Aosta molto di più rispetto a quello residente in Lombardia. Tale criticità è stata riconosciuta anche in sede politica. Sul versante degli enti locali si aggiunge l’ulteriore disparità tra chi risiede nel capoluogo e vota direttamente il proprio sindaco senatore e chi risiede fuori e incide solo indirettamente, non essendo peraltro in grado di controllare il potere intermediario di fatto dell’ANCI. Anche questa disparità sembra essere riconosciuta in sede politica.

Sul versante regionale, la prospettata mediazione di un’elezione diretta dei senatori non presidenti, Regione per Regione, da un apposito listino in coincidenza con l’elezione dei Consigli regionali, secondo criteri di proporzionalità, ridurrebbe la disparità di peso, ma rischierebbe di fare prevalere il criterio della rappresentanza partitica su quella territoriale. Inoltre avrebbe lo svantaggio rispetto alla proposta governativa di indebolire ulteriormente i Consigli regionali, organi comunque previsti dalla stessa Costituzione a differenza di quelli locali e valorizzati anche in Spagna e Austria. Esistono delle alternative ulteriori? A questo punto, il costituzionalista può contribuire idee proprie, anche se rischia di essere percepito come avvocato di interessi particolari o come mediatore.

Una soluzione alternativa potrebbe prevedere la partecipazione dei Presidenti dei Consigli regionali che potrebbero rappresentare al meglio le esigenze della legislazione regionale e integrare la propria conferenza nello stesso Senato delle Autonomie. Per garantire poi una rappresentanza delle opposizioni, un terzo rappresentante potrebbe essere individuato nel candidato alla Presidenza che avrebbe raggiunto il secondo risultato migliore e non rinunciato al seggio in Consiglio. In questo modo, si raggiungerebbe una rappresentanza articolata e non necessariamente unitaria delle Regioni, si darebbe più peso all’elezione diretta che non a quella indiretta, ma non si risolverebbe ancora la disproporzionalità della rappresentanza tra le singole regioni. Un riequilibrio almeno parziale potrebbe avvenire nell’anima municipalista del Senato delle Autonomie.

In effetti, sul versante locale, la proposta creazione di un nuovo organo costituzionale, l’assemblea regionale dei sindaci, garantirebbe una visione più corporativa della “rappresentanza territoriale”, quindi non sarebbe facile spiegare ai cittadini perché possano eleggere senatori dell’anima regionalista, non invece senatori dell’anima municipalista.

La rappresentanza territoriale dell’anima municipalista dovrà in ogni caso restringersi in linea di principio ad una rappresentanza virtuale della categoria. Infatti, se è possibile avere una rappresentanza di ognuna delle Regioni e Province autonome, lo stesso non vale per ognuno dei più di 8.000 comuni e forse nemmeno più per le altre 107 Province, tutt’al più per le 10 Città metropolitane.

In linea di principio, la riforma dovrebbe essere in effetti coerente con la contestuale de-costituzionalizzazione delle Province e con la scelta di conservare la garanzia di un ruolo costitutivo per la Repubblica delle Città metropolitane, enti ora animati dalla legge n. 56/2014. L’unica rappresentanza insieme categoriale ed individuale possibile sarebbe pertanto quella dei territori metropolitani. Riservare ai sindaci metropolitani un posto al Senato sarebbe peraltro più coerente al principio della competizione europea e globale tra le aree metropolitane. In questo caso, il sindaco metropolitano diventerebbe paragonabile a un Presidente di Regione, ma resterebbero privi di rappresentanza il consiglio e le opposizioni, come ne resterebbero privi i territori non metropolitani. Per creare una rappresentanza delle autonomie locali diverse da quelle delle aree metropolitane non resterebbe che restringere l’assemblea regionale dei sindaci a una riunione delle assemblee provinciali dei sindaci della Regione.

L’alternativa dell’elezione dei senatori dell’anima municipalista da parte dei CAL proposta nella bozza Violante mescolerebbe la rappresentanza dei comuni nei confronti delle Regioni con quella nei confronti dello Stato e sarebbe gravata dalla necessità di adeguare i CAL alle trasformazioni del sistema degli enti locali introdotte dalla legge n. 56/2014. I CAL, pur avendo rilievo costituzionale, sono organismi nuovi e non conosciuti dai cittadini che difficilmente accetterebbero di essere rappresentati da senatori scelti da un organo ancora privo di autorevolezza.

Semmai sarebbe l’elezione diretta dei senatori espressione delle autonomie locali a poter aiutare a rigenerare il Senato. A tal riguardo, la riforma costituzionale deve fare i conti tuttavia anche con le recenti scelte opposte dell’Assemblea nazionale francese di sancire un’incompatibilità fra le funzioni esecutive locali, fra cui quelle di sindaco, e quelle di deputato o senatore a decorrere dal 2017. Nel caso l’Italia volesse aderire a tale indirizzo e permettere solo più una rappresentanza dei sindaci nei consigli provinciali e in quelli delle autonomie locali all’interno della Regione, la rappresentanza dell’anima municipale delle autonomie nel Senato potrebbe essere limitata a sindaci e consiglieri anziani, restringendo la eleggibilità a quanti hanno acquisito esperienze di amministrazione locale.

Si potrebbe obiettare subito che la restrizione delle candidature e della scelta degli elettori era un elemento caratterizzante la riforma del bicameralismo già respinta nel referendum del 2006 19.

Il progetto rigettato dal referendum costituzionale riguardava tuttavia una disposizione che estendeva l’eleggibilità anche ai titolari di cariche locali attuali, mentre il requisito dell’esperienza di un precedente mandato premierebbe piuttosto i “seniores” della politica locale. Un “Senato delle Autonomie” legittimamente potrebbe trarre la propria legittimazione da esperienze nell’ambito delle autonomie, demandando al corpo elettorale la premiazione.

Si potrebbe obiettare allora che l’esclusione dei sindaci in carica significherebbe un passo indietro anche rispetto all’attuale rappresentanza nelle conferenze e che un’incompatibilità degraderebbe i sindaci a un ruolo di semplice lobby. Ma anche a questo argomento potrebbe replicarsi che un sindaco difficilmente può essere simultaneamente buon sindaco e buon senatore e che nulla vieterà di associare in via procedurale o informale i rappresentanti dell’ANCI (e UPI) ai lavori della seconda camera.

Restano ulteriori perplessità, non meno rilevanti: come fa un cittadino a promuovere i “migliori” amministratori a senatori se ne ha esperienza diretta per lo più nel territorio del proprio campanile ? Non presuppone questo un’opinione pubblica regionale particolarmente ben informata, capace di offrire elementi di valutazione comparativa, per evitare scelte non di mera appartenenza partitica, ma di premiazione di buone esperienze di governo locale ? Chiedere un simile giudizio ai cittadini significa chiedere troppo repubblicanesimo ?

Si potrebbe obiettare che da un simile modello di (ri-)legittimazione discenderebbe solo una rappresentanza territoriale “virtuale”, non effettiva delle autonomie locali. In condizioni di divieto di mandato imperativo, tale rappresentanza sarebbe tuttavia non necessariamente fittizia e avrebbe in più la possibilità di coniugare l’esperienza in loco con una valorizzazione della società civile locale. Senza poter escludere – realisticamente e costituzionalmente, visto l’art. 49 Cost. – il ruolo attivo dei partiti politici nella designazione dei candidati, nulla vieterebbe in effetti, anzi una norma obiettivo potrebbe promuovere candidature di cittadini che uniscano all’esperienza politica particolari meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario in ambito locale e nazionale. Simili candidature, ove non fossero sufficientemente sostenute dai partiti potrebbero anche essere promosse da liste civiche. In questo modo, la rappresentanza territoriale potrebbe saldarsi con una rappresentanza civile, i poteri intermediari della politica potrebbero saldarsi con quelli della cultura.

Non resterebbe quindi che congegnare un meccanismo elettorale ad hoc che crei almeno una parziale parità tra l’anima regionalista e quella municipalista e realizzi un almeno parziale riequilibrio della rappresentanza tra i cittadini delle varie regioni 20 . In effetti, se ai 42 presidenti di Giunta e Consiglio e ai 21 rappresentanti delle opposizioni consiliari, eventualmente dotati del potere di delegare il proprio voto, si aggiungesse un numero pari di senatori rappresentanti dell’anima municipalista, eletti direttamente dai cittadini, sarebbe possibile un sistema misto in grado di ridurre le perdite di legittimazione democratica diretta del Senato. Nulla vieterebbe di integrare in questa anima anche la decina di sindaci metropolitani, detraendo dal numero dei senatori civici spettanti a ogni Regione il senatore dell’eventuale area metropolitana ed escludendo il territorio metropolitano dalla geografia dei collegi elettorali.

In tal caso potrebbe servire un sistema elettorale che garantisse

(1) l’elezione di altri 63 (53) senatori (numero tale da raggiungere in Senato una parità complessiva tra anima regionalista e anima municipalista) già amministratori, cioè titolari di precedenti cariche elettive locali nella regione in questione,

(2) in collegi uninominali pluri- o macroprovinciali distribuiti tra le Regioni secondo un criterio di proporzionalità demografica tale da incentivare fusioni delle Province (ad es. 1 senatore per ogni milione di abitanti con arrotondamento in alto a partire dai 500.000, più 1 Valle d’Aosta, Molise) 21,

(3) la simultaneità dell’elezione con le elezioni regionali e il collegamento con le rispettive liste,

(4) la non incompatibilità della carica di senatore con quella di consigliere regionale e CAL22 .

I dettagli sarebbero disciplinati preferibilmente da una legge elettorale statale, da approvare, se possibile, simultaneamente con la riforma costituzionale. Questione di dettaglio sarebbe anche la definizione di un tetto massimo a gettoni o indennità aggiuntive a quelle regionali e locali (ad es. pari al 50 % dell’indennità più alta di sindaco) a spese del Senato e la ripartizione delle spese del procedimento elettorale tra Regioni e Stato.

La “rappresentanza territoriale” delle autonomie locali prodotta da un simile sistema non sarebbe di tipo corporativo o burocratico, ma per lo più una scelta dei cittadini ai quali verrebbe chiesto di premiare gli amministratori locali migliori e quelle personalità che abbiano illustrato la Patria in ambito locale, unendo a un minimo di esperienza politica ed amministrativa “altissimi meriti” nel campo sociale o culturale. Questo sistema non escluderebbe del tutto un ruolo di mediazione dei partiti politici che potrebbero a loro volta agevolare il ricambio generazionale delle proprie élites, essendo stimolati ad aprirsi alla società civile e offrendo anche ai leaders tradizionali che hanno iniziato la propria carriera da sindaco l’opportunità di tornare a Roma come senatori eletti a garanti delle autonomie locali…

Il senso di questo tipo di rigenerazione del Senato come “rappresentanza territoriale” sarebbe in ultima analisi di rendere l’anima regionalista visibile e responsabile per l’intera Repubblica, ma anche di valorizzare l’anima municipalista delle autonomie, premiando le competenze “civiche” acquisite e stimolando le migliori virtù repubblicane italiche. Rappresentare le istituzioni territoriali significherebbe rappresentare insomma la politica e la cultura delle istituzioni territoriali.

Fin qui una riflessione propositiva che dimostra tutti i limiti del ruolo che il costituzionalista può assumere in relazione alle riforme costituzionali e che andrebbe estesa anche agli altri aspetti della proposta di riforma in questione. È inutile nascondersi che anche con la migliore ingegneria elettorale la riforma non diventerebbe mai un pensiero o modello geometrico forte. 23 L’inevitabile ambiguità ed eterogeneità dei fini di ogni scelta di politica costituzionale non escluderà soluzioni e letture meno repubblicane e più “postdemocratiche”. Nolens volens, il bicameralismo imperfetto si può sempre migliorare, ma le esperienze delle riforme costituzionali precedenti dimostrano che si rischia sempre anche di peggiorare. Se la reinvenzione del bicameralismo non riesce, si rischia che il suo superamento non sia un togliere e conservare hegeliano. Si rischia di non andare oltre la rottamazione.

5. Verso un compromesso parlamentare sostenibile? (postilla del 30. 6. 2014)

Eppure qualcosa si muove. In data 24 giugno 2014, i relatori Finocchiaro e Calderoli hanno proposto una ventina di emendamenti alla proposta governativa che la modificano profondamente, peraltro sulla base di un lavoro del ministro non documentato dal sito del governo, né desumibile dai resoconti sommari e anche solo vagamente ricostruibile dalle notizie di stampa 24.

Restando coerente al modello di analisi di legittimità costituzionale e di impatto sulle funzioni della Costituzione sopra delineato, in questa sede devono essere aggiunte le seguenti (prime) osservazioni:

(1) Per quanto riguarda le funzioni del nuovo “Senato della Repubblica”, si accolgono in gran parte le proposte Calderoli, allargando le funzioni di valutazione delle attività amministrative e delle politiche, peraltro non sempre agevolmente separabili dalle attività di controllo sull’operato del governo: “Valuta l’attività delle pubbliche amministrazioni, verifica l’attuazione delle leggi dello Stato, controlla e valuta le politiche pubbliche. Concorre a esprimere pareri sulle nomine di competenza del Governo.” (nuovo art. 55 emendato) Non sono indicati né gli strumenti di valutazione, verifica e controllo, né le fonti idonee a disciplinare le procedure di “concorso in parere”. In ogni caso il senato può solo disporre “inchieste su materie di pubblico interesse concernenti le autonomie territoriali” (nuovo art. 82 emendato).

(2) Preoccupante resta la definizione del nuovo ruolo legislativo del Senato e la conseguente moltiplicazione e complicazione dei procedimenti legislativi. Un nuovo procedimento sarà peraltro quello della legislazione elettorale, per la quale è stata accolta la proposta del collega on.le Andrea Giorgis di introdurre un controllo di costituzionalità preventivo, peraltro non a tutela delle minoranze bensì solo a tutela delle “opposizioni riunite”, cioè “presentato da almeno due quinti dei componenti di una Camera” (nuovo art. 73 emendato). Se questa soglia superiore a quella in uso in Francia e Germania possa offrire una garanzia efficace della Costituzione e della democrazia resta molto dubbio.

(3) Si aggrava poi il problema della conservazione della parità dei poteri delle due camere nella legislazione costituzionale (e quello in materia referendaria). Dare lo stesso potere di 630 deputati eletti dallo stesso popolo, anche nella circoscrizione estero, a 100 senatori non eletti dal popolo e selezionati in modo tale da riprodurre solo in parte la composizione di consigli regionali eletti attualmente per lo più con sistemi (iper-)maggioritari significa parificare i rappresentanti eletti con quelli non eletti proprio nella funzione che maggiormente dovrebbe riflettere e garantire la sovranità popolare. Rendere un organo non democratico contitolare del potere di revisione costituzionale, de facto sostitutivo di quello costituente, significa sminuire la legittimazione democratica della stessa Costituzione.

(4) Problemi di sovranità si prospettano anche per il potere del Senato di co-decidere sulle “leggi che autorizzano la ratifica dei trattati relativi all’appartenenza dell’Italia all’Unione europea” (nuovo art. 70 emendato), visto che il disegno originale consentiva alla Camera di superare un eventuale dissenso del Senato con la maggioranza assoluta dei propri componenti. Dare un simile potere di veto assoluto, che resta negato alle commissioni (art. 72 co. 4) e allo stesso popolo (art. 75), in mano ad un organo non eletto dal popolo, sembra coerente solo con la scelta di rendere il Senato contitolare del potere di revisione costituzionale, ma risulta incoerente rispetto all’obiettivo generale del superamento del bicameralismo “paritario”. Rendere il Senato della Repubblica coautore di una legge che definisce i principi del diritto delle Province è ben altra cosa che renderlo coautore dell’indirizzo politico europeo, ma escluso dal circuito della responsabilità politica governativa. Si rischia di alterare la forma repubblicana, rendendola – nel contesto storico e politico dell’iniziativa referendaria della Lega contro l’attuazione del cd. Fiscal Compact – meno aperta all’Europa di quella disegnata dall’art. 11 della Costituzione.

(5) Venendo alla struttura del nuovo Senato, la proposta di emendamento ha accolto positivamente le critiche contro la figura dei senatori di nomina presidenziale, conservando l’istituto attuale dei cinque senatori a vita nell’interpretazione più restrittiva accolta dalla prassi più recente e senza ravvisare la necessità di prevenire l’abuso della nomina di senatore a vita di uomini della politica o dell’economia utilizzabili per governi “tecnici”.

(6) Se “settantaquattro senatori sono eletti dai Consigli regionali e dai Consigli delle Province autonome di Trento e di Bolzano fra i loro membri, in proporzione alla loro composizione,” e altri ventuno dagli stessi organi “fra i sindaci dei comuni della Regione” (nuovo art. 57 emendato), si mantiene l’obiettivo di un senato non eletto dal popolo, avvicinandosi più al modello austriaco e francese che non a quello tedesco o spagnolo. Al di là delle possibili obiezioni di anacronismo, occorre innanzitutto segnalare che anche i presidenti delle giunte regionali e dei consigli regionali possono essere considerati “membri” dei Consigli regionali e qualora fossero eletti potrebbe convenire definire meglio la disciplina della loro responsabilità politica di fronte alle istituzioni che li eleggono (e finanziano), mentre per i sindaci, tra i quali devono contarsi anche quelli delle città metropolitane, una responsabilità politica potrebbe crearsi almeno di fatto anche rispetto ai rispettivi consigli comunali (metropolitani).

(7) La riduzione ulteriore del numero dei senatori accentuerà il peso della scelta di non farli eleggere direttamente dal corpo elettorale regionale. La massima “meno il popolo vota meglio è” può essere criticabile come espressione di uno spirito dei tempi non consona a quello della Costituzione. Anche per questo, tale scelta mette a rischio non solo l’accettazione della stessa riforma costituzionale in parlamento, ma anche nel corpo elettorale. Nulla vieterebbe una soluzione di scorporo di questa scelta, particolarmente controversa e rilevante per la scelta del corpo elettorale in sede di eventuale referendum costituzionale, in modo da sottoporla a un referendum costituzionale separato da quello (eventuale) sulla riforme restante.

(8) Resta infine da segnalare l’emendamento riguardante l’elezione del Presidente della Repubblica dal parlamento in seduta comune, solo più composto da 730 componenti più 58 delegati regionali: “All’elezione partecipano tre delegati per ogni Regione, eletti dal Consiglio regionale in modo che siano assicurati l’equilibrio di genere e la rappresentanza delle minoranze. La Valle d’Aosta ha un solo delegato.” (nuovo art. 83 co. 2 emendato). Leggendo questa disposizione insieme a quella relativa all’elezione consigliare dei senatori “in proporzione alla loro composizione”, va subito rilevato che tali aspetti della rappresentanza saranno se non sacrificati, quanto meno subordinati a quella territoriale nel Senato. Il Presidente della Repubblica continuerebbe ad essere legittimato dalla democrazia parlamentare e da una Costituzione riformata che gli affida di rappresentare più l’unità nazionale che non le autonomie tutelate dal Senato. Sotto questo profilo potrebbe forse diventare più coerente affidare le sue funzioni, in ogni caso in cui egli non possa adempierle, al Presidente della Camera anziché al Presidente del Senato e di affidare viceversa l’indizione delle elezioni presidenziali al Presidente del Senato (art. 86 Cost.).

È appena il caso di concludere nuovamente con l’invocazione delle virtù del “migliorismo” presenti anche nelle due camere esistenti e con l’ammonimento che la necessaria velocità della riforma del bicameralismo va coniugata con una più intensa ricerca della sua qualità. Si tratta di osservazioni “a prima lettura” accademica, ben consapevoli tanto del rischio di travalicare i limiti della scienza del diritto costituzionale quanto della necessità di ulteriori approfondimenti, in particolare dell’impatto della prospettata riforma emendata sulle autonomie regionali e locali.

 

1 Professore Ordinario di Istituzioni di Diritto Pubblico presso l’Università del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro”.

 

2 Su cui cfr. le critiche ad es. di M. Dogliani / F. Pallante, Sull’attuale forma del procedimento di revisione costituzionale (e sui presupposti della sopravvivenza del regime parlamentare, in: http://www.associazionedeicostituzionalisti.it/sites/default/files/rivista/articoli/allegati/Q2_2013_Dogliani_Pallante.pdf).

 

5 B. Pezzini, La riforma del bicameralismo; Rivista AIC 2. 5. 2014: “limitarsi a riforme sostenute da un consenso davvero ampiamente condiviso”.

 

6 A. Manzella, Note sulla questione di fiducia, Annali della Facoltà di Giurisprudenza di Genova, 1970, 300: “ (…) improponibilità della questione di fiducia in tutte le materie nelle quali non sia coinvolto l’indirizzo politico del governo (e quindi, prima fra tutte, nella materia costituzionale.”

 

7 www.quirinale.it/elementi/Continua.aspx?tipo=Discorso&key=2688. Cfr. anche le esternazioni del Presidente della Corte costituzionale sulla revisione costituzionale, ad es. http://ansa.it/web/notizie/rubriche/politica/2014/02/26/Napolitano-Catania-accolto-500-bambini_10145627.html.

 

8 Cfr. ora anche A. Morrone, Questioni di principio per la riforma costituzionale, in federalismi.it 816. 4. 2014.

 

9 Classico F. Sclopis, Considerazioni storiche intorno alle antiche Assemblee rappresentative del Piemonte e della Savoia, Torino 1878, 328ss.

 

10 Cic., De leg., III, 28.

 

11 G.B. Ugo, Il Senato nel governo costituzionale, Torino 1881, 25.

 

12 Cfr. Servizio Studi del Senato, L’introduzione in Francia del divieto di cumulo tra mandato parlamentare e funzioni esecutive locali, Dossier n. 28, marzo 2014.

 

14 Su cui sia permesso rinviare a J. Luther, The Search for a Constitutional Geography and Historiography of Second Chambers, in: idem /P. Passaglia / R. Tarchi, A World of Second Chambers, Milano 2006, 3ss.

 

15 J. Luther, Il contributo di Leopoldo Elia al bicameralismo, Rassegna parlamentare 2009, 1055ss.

 

16 Ripassando in rassegna soltanto i libri principali:

(1) Provincia di Roma, Un Senato delle autonomie per l’Italia federale, Napoli 2003 (proposta S. Mangiameli, p.154: 1/3 elezione diretta per Regione, 1/3 elezione indiretta dai consigli regionali, 1/3 in collegi uninominali provinciali).

(2) S. Bonfiglio, Il Senato in Italia, Roma 2006 (p. 102: “al fine di valorizzare la rappresentanza territoriale occorre evitare l’elezione diretta”).

(3) J. Luther / P. Passaglia / R. Tarchi, A World of Second Chambers, Milano 2006 (M. Manetti, The Italian-style Federal Senate, 829ss; R. Bifulco, The Italian Model of State-Local-Autonomies Conferences (also) in the Light of Federal Experiences, pp. 1045ss.).

(4) I.Ruggiu, Contro la Camera delle Regioni, Napoli 2006.

(5) V. Baldini (a cura di), La camera degli interessi territoriali nello stato composto, Napoli 2007 (p. 4: “Senato federale che combini (…) prerogative funzionali di modelli consolidati nell’esperienza e particolarità del localismo nostrano”).

(6) P. Martino, Seconde camere e rappresentanza politica, Torino 2009 (p. 299: “la garanzia della loro efficienza (…) non va individuata nell’assegnazione loro di un’identità specifica, territoriale, corporativa, socio-economica”).

(7) I. Ciolli, Il territorio rappresentato, Napoli 2010 (p. 274 “Senato delle Regioni” rispettoso di tradizione di unicameralismo di fatto, con rappresentanza territoriale inscindibile da quella politica).

(8) L. Castelli, Il Senato delle autonomie: ragioni, modelli, vicende, Padova 2010 (p. 279 “sono gli enti territoriali a necessitare di una specifica rappresentanza parlamentare”).

(9) F. Sgrò, Il Senato e il principio della divisione dei poteri, Milano 2012 (p. 357 “nuovo baricentro tra la divisione verticale e la divisione orizzontale dei poteri”).

 

17 Mentre la Camera dei deputati “è titolare del rapporto di fiducia con il Governo ed esercita la funzione di indirizzo politico, la funzione legislativa e quella di controllo dell’operato del Governo”, il Senato delle autonomie “rappresenta le Istituzioni territoriali. Concorre, secondo modalità stabilite dalla Costituzione, alla funzione legislativa ed esercita la funzione di raccordo tra lo Stato e le Regioni, le Città metropolitane e i Comuni. Partecipa alle decisioni dirette alla formazione e all’attuazione degli atti normativi dell’Unione europea e, secondo quanto previsto dal proprio regolamento, svolge attività di verifica dell’attuazione delle leggi dello Stato e di valutazione dell’impatto delle politiche pubbliche sul territorio.”.

 

18 M. Luciani, Il bicameralismo, oggi, Rivista AIC 2/2014.

 

19 Art. 58: “Sono eleggibili a senatori di una Regione gli elettori che hanno compiuto i venticinque anni di età e hanno ricoperto o ricoprono cariche pubbliche elettive in enti territoriali locali o regionali, all’interno della Regione, o sono stati eletti senatori o deputati nella Regione o risiedono nella Regione alla data di indizione delle elezioni.”

 

20 Per l’abbandono dell’anima municipalista invece L. Violini, Le prospettive della riforma del bicameralismo, Il Piemonte delle autonomie n.1/2014.

 

21 Basilicata 1, Umbria 1, T.A.A. 1, F.V.G 1, Abruzzo 1, Liguria 2-1, Calabria 2-1, Marche 2, Sardegna 2, Toscana 4-1, Puglia 4-1, E-R 4-1, Piemonte 4-1,Veneto 5-1, Sicilia 5, Lazio 6-1, Campania 6-1, Lombardia 10-1.

 

22 In questo modo, anche le indennità dei senatori aggiunti potrebbero essere a carico del consiglio regionale o del CAL.

 

23 Cfr. anche A. Mastromarino, Modificare, superare, abolire. Quale bicameralismo per l’Italia delle riforme? (9. 5. 2014), Costituzionalismo.it.

 

– La Costituzione e anche il diritto internazionale pattizio! Cfr. art. 3 co. 2 CEAL.