Terrorismo e ruolo delle autonomie territoriali. Vogliamo che il nostro futuro sia la israelizzazione dello Stato?

Mario Dogliani[1]

 

1. Siamo una rivista di diritto e politiche regionali. La curiamo non perché siamo irresistibilmente spinti dall’amore per quell’oggetto giuridico in sé. La curiamo perché continuiamo a credere che le autonomie territoriali siano tuttora un serbatoio di energie politiche al quale attingere per sostenere e migliorare il paese, e soprattutto in questi disgraziati momenti.

2. L’editoriale del numero scorso affrontava il problema del solco che si è venuto scavando tra cittadini e organi politico-costituzionali.

In questo editoriale vogliamo non certo affrontare, ma solo ricordare, un ulteriore e urgentissimo problema: che quel solco si è ramificato, ha generato una ragnatela di crepe che ormai circondano gli individui nelle loro relazioni interindividuali, così da mostrare una vera e propria putrefazione dei legami sociali e dell’obbligazione che dovrebbe costituire l’unità del “corpo politico”.

Mentre stiamo scrivendo questa nota giunge la notizia del parroco sgozzato in Normandia (da due diciannovenni) e continuano a giungere notizie – sull’onda ancora fortissima della strage di Nizza (e di quelle di Dacca, di Bruxelles, di Parigi …) – relative alla strage di Monaco di Baviera (perpetrata da un diciottenne), mentre a Baghdad, un kamikaze terrorista dell’Isis ha provocato 14 morti e più di 30 feriti, e a Kabul kamikaze dell’Isis hanno colpito una manifestazione di migliaia di hazari, etnia di lingua persiana e di religione sciita, provocando più di 80 morti e oltre duecento feriti. E intanto a Reutlingen un profugo siriano ha ucciso e ferito con un machete, ad Ansbach un altro profugo siriano si è fatto esplodere ferendo 12 persone, a Würzburg un diciassette afgano ha colpito con un’accetta cinque persone …

3. Senza nemmeno sfiorare, qui, i discorsi sulle cause e sulle responsabilità profonde di tutto ciò (e delle contrastanti reazioni diffuse nel mondo occidentale), limitiamoci ad isolare alcuni elementi che portano a mettere in primissima luce la necessità di uno sforzo straordinario di politiche di integrazione. Politiche nelle quali le autonomie territoriali sono in prima fila; anzi sono pressoché le sole a reggerne il peso e soprattutto a reggere la responsabilità di “inventarne” e garantirne la qualità.

Questa semplice constatazione legittima la nostra rivista ad iniziare di occuparsi della questione.

Sono di questi giorni le informazioni diffuse dal Viminale che parlano di una crescita esponenziale degli sbarchi (quasi 13mila i questi primi mesi del 2016) di minori non accompagnati tra le file dei migranti (oltre il doppio rispetto al totale dell’intero 2015); ed è di questi stessi giorni la pubblicazione del sesto Rapporto dell’Anci sul fenomeno.Il numero dei piccoli che sbarcano senza genitori nel nostro Paese è triplicato in dieci anni.Attraverso l’Anci i sindaci dicono: non lasciateci soli.

4. La domanda cui dobbiamo tentare di rispondere richiede risposte difficilissime, ma è in realtà semplicissima: che cosa dobbiamo fare per evitare che, a diciassette-diciotto anni, questi bambini diventino, oggettivamente, degli assassini e, soggettivamente, dei martiri?

Riguardando la sorte di bambini abbandonati, la domanda colpisce come un pugno nello stomaco, ma riguarda l’insieme degli immigrati.

5. Che nel mondo (islamico e non solo: si pensi al nazionalismo indù) si sia radicato, seppur ancora minoritario, un odio irriducibile contro il mondo occidentale, è inutile dire.

Questo odio è andato rivestendosi di una forma (di un’ideologia) prodotta dallo scisma aperto nel mondo musulmano da una corrente estremistica wahabita.

Caratteristica prima di questa ideologia scismatica – per quel che qui ed ora interessa – è la disponibilità al suicidio che essa riesce a inculcare nei suoi adepti.

La diffusione di “follie omicide di singoli”, tra gli islamici, si sviluppa pienamente “dentro” questo messaggio.

La diffusione di “follie omicide di singoli” ha cause molteplici (quelle dei campus americani e quelle legate alla questione poliziesco-razziale sono ovviamente molto diverse; come lo è la strage perpetrata a Monaco da un tedesco che, in quanto di origini iraniane, vantava il suo essere “ariano”, e in quanto tale nemico dei semiti e infatuato di Hitler).

Quel che dobbiamo mettere, da subito, al centro dell’attenzione è il problema della “presa psicologica e morale” che la richiesta della disponibilità al suicidio/martirio esercita su singoli individui, in  particolare se immigrati di seconda-terza generazione.

In questo senso, i discorsi sulla “guerra di religione” oggi sono sbagliati. Non che guerre di religione non esistano. L’Europa ne ha il triste e sanguinosissimo primato. Ma chi non sa che quelle guerre avevano come posta “reale” la distruzione del potere imperiale e costantiniano-papale, e l’imporsi di poteri territoriali “sovrani”? E che questi concretissimi obiettivi politici (di Enrico VIII e di Elisabetta, dei principi tedeschi, degli Statolder olandesi …) venivano appoggiati (come quelli contrari) su principi teologici?

Perché questa commistione di discorsi?

Perché la religione era il prisma attraverso cui l’intero “mondo” dei problemi individuali e socio-politici era visto; perché dunque era essenziale per mobilitare le popolazioni, e convincerle di un qualcosa per cui valeva la pena morire.

6. Dunque c’è una guerra che l’Occidente combatte per i suoi interessi, resa possibile dall’utilizzo di mezzi che comportano un limitatissimo sacrificio di vite dei suoi uomini, e che ha effetti devastanti sulle popolazioni colpite; e che non richiede risorse spirituali di mobilitazione.

E c’è una guerra asimmetrica che una parte minoritaria dell’Islam combatte (col supporto obliquo di paesi occidentali mossi da interessi “regionali”) utilizzando la religione come strumento di mobilitazione.

Di contro, non c’è nessuna strategia che miri a disinnescare le cause profonde del conflitto e a generare un qualche nuovo equilibrio. Pensiamo a quale effetto distensivo potrebbe avere la creazione di un vero Stato palestinese.

7. E’ qui – in questo vuoto – che, in modo solo apparenntemente paradossale, si colloca il compito delle nostre amministrazioni territoriali: evitare che quel messaggio di morte attecchisca, in primis tra quei bambini che non hanno mai conosciuto altro che guerre e campi di concentramento, e che tra pochi anni potrebbero decidere di trasformarsi in bombe viventi.

La torbida posizione della Turchia nei confronti dell’Isis; l’accordo tra UE e Turchia sulla deportazione dei profughi; la massa di menzogne e di doppi giochi che molti paesi occidentali hanno accumulato sulla crisi irachena-siriana-turca-curda-libica … (emblematizzata dal fatto che la religione scismatica matrice del terrorismo nasce, ed è sostenuta, proprio dal paese, l’Arabia saudita, che ha i rapporti più stretti e vitali con essi) fanno da sfondo a quel “fatto” che segna il nostro tempo: che la paura socio-economica per l’immigrazione (per l'”altro”) si è saldata con la paura per l’assassinio sempre possibile, vicino, perpetrabile in ogni momento della quotidianità da questo “altro” (il terrorista diffuso, imprevedibile e non controllabile da nessuna intelligence, da nessun apparato per quanto efficiente).

8. Il destino delle società occidentali si trova davanti a un bivio che ogni giorno diventa più chiaro. Se queste paure si salderanno definitivamente, la nostra società è destinata inesorabilmente a subire un  processo di “israelizzazione” – come ormai è comune dire. Ogni passante che incroci ti potrebbe accoltellare; ogni fermata in cui attendi l’autobus può essere il luogo di un’esplosione; ogni dehors in cui stai bevendo un caffè può essere falciato dalla mitraglia. E dunque, controlli militari ad ogni angolo e rappresaglie (l’immediata distruzione della casa, rasa al suolo) contro le famiglie dei terroristi (morti).

Si potrebbe obiettare: il ritorno nei paesi europei di molti combattenti del Califfato certamente disseminerà un terrorismo oggettivamente identico a quello dei “lupi solitari”, anche se sarà, per così dire, “strutturato”, cioè coordinato, inquadrato in una strategia politico-organizzativa complessiva.

A questa visione si ispira, purtroppo, la parte maggioritaria dei mass-media, cercando di presentare sin da ora i “lupi solitari” – compreso l’attentatore di Monaco – come, in realtà, terminali di cellule eversive organicamente collegate al Califfato e da questo manovrate (e contro le quali dunque non c’è che la risposta militare, preventiva, in termine di intelligence, e repressiva).

9. Ma ciò non toglie che:

a) le strategie di integrazione di modello francese (c’è la République laica e siamo tutti figli di Voltaire: e tanto basta. E tanto basta per sbalordirsi di fronte al fatto che coloro contro i quali conduciamo una guerra guerreggiata si rivoltino contro di noi; e per dire beotamente “siamo in guerra!”) sono fallite, e che i moltissimi europei attualmente soldati del Califfato sono l’esito di quel fallimento;

b) che il problema delle future generazioni resta intatto: andranno o no ad ingrossare le fila del terrorismo?

E di contro che:

c) Le strategie volte a sigillare le frontiere, e/o a espellere le popolazioni suscettibili di essere infiltrate dal terrorismo sono semplicemente impossibili (pur se agitate da molti a fini, purtroppo, di consenso interno), per unanime riconoscimento dei soggetti pensanti (civili e militari).

Di qui la sfida:

Non c’è altra strategia (oltre alla politica internazionale – per ora assente – volta a spegnere i focolai veri del conflitto) all’integrazione.

E qui il cerchio si chiude: le amministrazioni locali – in nome del futuro della nostra società – sono chiamate, in concorso con le Regioni, a quel difficilissimo compito di “inventare” e garantire effettivamente la qualità delle politiche di integrazione.

Non siamo impreparati. Non dimentichiamo che le Regioni (e il Piemonte in particolare) sono nate sull’onda delle nuove prospettive che aprivano la medicina e la cultura dei servizi sociali (ce le ricordiamo le USSL, anteriori alla istituzione del SSN?). Le nostre amministrazioni possono contrastare la deriva della militarizzazione di una parte della società contro l’altra. Purtroppo senza farsi illusioni nella favola degli “italiani, brava gente” (v. l’articolo di Pia Saraceno, Un popolo di diffidenti e pessimisti, in Inpiu.net, 21 luglio 2016[2], che riporta indagini statistiche secondo le quali siamo più vicini agli ungheresi e ai polacchi che ai tedeschi e ai francesi).


 


[1] Professore Ordinario di Diritto Costituzionale presso Università degli Studi di Torino.