La Legge Delrio e l’ordinamento regionale: il caso della Regione Piemonte

Rosario Ferrara, Annamaria Poggi[1]

 

1. Come noto la legge Delrio si è fatta interprete di un disegno assai complesso  a Costituzione invariata ed intervenendo sulla materia del riordino territoriale e funzionale su cui vi è la concorrenza con la legislazione regionale.

Perciò, come si vedrà, quasi tutte le Regioni ordinarie sono già intervenute a valle della stessa, allo scopo di riallocare le funzioni “non” fondamentali rimaste sprovviste, con l’abolizione dell’organo politico Provincia, di un capo di imputazione decisionale.

Non vi è dubbio, per altro verso, che il referendum costituzionale di ottobre potrebbe, nel caso avesse esito negativo, proporre il tema della revisione della Delrio. Sebbene, infatti, la Corte costituzionale abbia respinto le censure di legittimità costituzionale di cui era stata oggetto la stessa legge, è evidente che una volontà popolare confermativa dell’attuale testo costituzionale, e dunque confermativa dell’ente Provincia quale ente territoriale costituente la Repubblica, potrebbe proporre un ripensamento dell’indirizzo politico espresso nella Delrio.

L’analisi che segue, pertanto, va collocata e contestualizzata in tale complesso scenario politiuco-istituzionale. 

 

2. In attuazione di quanto previsto dalla legge 7 aprile 2014, n. 56 (Disposizioni sulle città metropolitane, sulle Province, sulle unioni e fusioni di Comuni), quasi tutte le regioni ordinarie hanno provveduto al complessivo processo di riordino e riallocazione delle funzioni amministrative nel proprio territorio. Tranne Lazio e Molise, infatti,  le altre regioni si sono dotate di una specifica legge in proposito.

Gli indirizzi politici perseguiti nelle leggi di riferimento dalle regioni ordinarie sono assai diversi.

Alcune regioni si sono limitate ad una temporanea riassunzione delle funzioni in capo a se stesse, rinviando a tempi successivi l’elaborazione di  una legge di attuazione vera e propria.

In questa direzione si è mossa la Regione Calabria con la legge 22 giugno 2015, n. 14, con cui, appunto, ha riassunto, nell’ambito delle proprie competenze amministrative, le funzioni già trasferite alle Province e ha, conseguentemente, riassunto il relativo personale che transiterà, così, nei ruoli della Giunta regionale. La legge generale di riordino era prevista entro il 31 dicembre 2015, ma al momento non è ancora stata adottata. La legge prevede inoltre che “specifica disciplina, anche in via straordinaria, sarà dettata per la istituita Città metropolitana di Reggio Calabria, ferma restando l’applicazione delle norme della presente legge”. Anche per quanto riguarda questo aspetto, al momento non risultano adempimenti specifici.

Nella stessa direzione ma in maniera parzialmente diversa, la Regione Lombardia con la legge 12 ottobre 2015, n. 32, ha dato attuazione alla legge Delrio unicamente per la parte relativa alla Città metropolitana di Milano, in un’ottica che pare fare della stessa Città metropolitana il perno di sviluppo successivo, anche in relazione alla riallocazione di funzioni. La legge, infatti, pur prescindendo da quest’ultimo aspetto, istituisce all’art. 1, comma 2, la Conferenza permanente Regione-Città metropolitana con lo scopo principale di raccordare il Programma regionale di sviluppo e il piano strategico della Città metropolitana. Infatti tale Conferenza come precisa la stessa norma “provvede alla proposta di aggiornamento dell’Intesa quadro, anche in relazione all’aggiornamento del Programma regionale di sviluppo e del piano strategico della Città metropolitana” ed inoltre, “provvede, con specifica Intesa, alla elaborazione e condivisione dei criteri e indirizzi del Piano territoriale regionale per la redazione del Piano territoriale metropolitano”.

In altri casi ci si è sostanzialmente preoccupati del solo immediato riordino delle solo funzioni “non fondamentali”, mediante il loro trasferimento alla regione stessa, mentre si è attribuito alla giunta regionale il compito di provvedere all’elaborazione di progetti di legge di complessivo riordino.

E’ questo il caso della Regione Marche che, con la legge 3 aprile 2015, n.13, ha provveduto al trasferimento alla regione delle funzioni non fondamentali delle province ed ha contestualmente  previsto che la Giunta regionale adotti una o più deliberazioni contenenti le disposizioni necessarie all’effettivo trasferimento delle funzioni stesse, con l’obiettivo di “disciplinare i procedimenti pendenti e l’individuazione e il trasferimento delle risorse umane, strumentali e finanziarie connesse alle funzioni oggetto di conferimento”, specificando altresì che le deliberazioni in oggetto possano prevedere la costituzione di strutture organizzative di decentramento amministrativo dislocate nel territorio (art.3). La legge prevede inoltre che tali deliberazioni sono adottate previo parere della Provincia interessata, nonché sentiti il Consiglio delle autonomie locali (CAL) e il Consiglio regionale dell’economia e del lavoro (CREL). L’art. 6 della stessa legge, infine, prevede che entro otto mesi dalla data di entrata in vigore di questa legge, la Giunta regionale adotti una o più proposte di legge per l’attuazione di quanto previsto dall’articolo 1, comma 90, della legge 56/2014 e che, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge, la Giunta regionale presenti all’Assemblea legislativa apposite proposte di legge ai fini del coordinamento formale delle discipline di settore relative alle funzioni riallocate alla Regione.

Una scelta politica assai peculiare è quella effettuata dalla Regione Veneto, sostanzialmente “confermativa”, almeno nell’immediato dell’assetto territoriale esistente, attraverso la qualificazione delle province quali enti di area vasta.

L’art.2 della legge 25 ottobre, n. 19 prevede, infatti, che “Le province, quali enti di area vasta, oltre alle funzioni fondamentali di cui all’articolo 1, comma 85, della legge 7 aprile 2014, n. 56, continuano ad esercitare le funzioni già conferite dalla Regione alla data di entrata in vigore della presente legge nonché le attività di polizia provinciale correlate alle funzioni non fondamentali conferite dalla Regione” Al secondo comma si specifica poi che “Il personale provinciale che, alla data di entrata in vigore della presente legge, esercita le funzioni non fondamentali, continua a svolgerle nei limiti della dotazione finanziaria individuata dalla presente legge e secondo la vigente legislazione”. Stesso indirizzo è confermato con riguardo alla Città metropolitana di Venezia che, ai sensi dell’art. 3 “esercita le funzioni fondamentali di cui all’articolo 1, comma 85, della legge 7 aprile 2014, n. 56 e le ulteriori funzioni fondamentali riconosciute alla città metropolitana dall’articolo 1, comma 44, della medesima legge” ed a cui, “sono attribuite le funzioni non fondamentali confermate in capo alle province dall’articolo 2”.

Anche per quanto riguarda il riordino degli enti strumentali e delle agenzie che esercitano compiti di competenza provinciale la legge non dispone direttamente alcunchè, prevedendo, invece, una prima fase di rilevamento della situazione in essere, ed una seconda, la cui direzione è affidata alla giunta regionale, di proposte in merito alla soppressione di tali enti, nonché di proposte in merito alla tempistica della soppressione stessa.     

Altre Regioni hanno provveduto alla mera redistribuzione delle funzioni provinciali verso gli altri livelli di governo.

Così la Regione Puglia, con la legge 27 maggio 2016, n. 9;  la Regione Basilicata con la legge 6 novembre 2015, n. 49 e la Regione Umbria con la legge 2 aprile 2015, n. 10.

La legge regionale umbra provvede altresì alla definizione degli ambiti ottimali per i Comuni, ribadendo gli indirizzi della normativa statale e attribuendo forme di premialità per favorire l’associazionismo.

La legge pugliese si occupa, inoltre, anche della Città metropolitana di Bari, sia attraverso la costituzione di una Conferenza permanente tra Regione e Città (che a norma dell’art. 4 costituisce “sede istituzionale di concertazione degli obiettivi strategici di interesse comune, la cui composizione e modalità organizzative sono stabilite con deliberazione di Giunta regionale, previo accordo interistituzionale sottoscritto tra il Presidente della Giunta regionale e il Sindaco della Città metropolitana”), sia mediante l’attribuzione alla stessa delle funzioni “non” fondamentali.

Tutte le altre regioni si sono mosse nell’alveo di un complessivo riordino delle funzioni amministrative, conseguente alle novità introdotte dalla legge Delrio.

Quasi tutte hanno rinverdito l’idea, già introdotta con le leggi Bassanini ma sostanzialmente fallita, di individuazione dei livelli ottimali di esercizio delle funzioni ai fini di incentivare e/o promuovere in varie forme e con strumenti diversificati l’associazionismo comunale. Contestualmente a tale operazione si prevede un sostanziale ripensamento della governance territoriale.

Un disegno certamente organico e completo in questa direzione è quello prefigurato dalla Regione Emilia-Romagna.

La legge 30 luglio 2015, n.13 prevede, infatti, all’art.1 quale oggetto della legge: a. la definizione del nuovo ruolo istituzionale della Regione, della Città metropolitana di Bologna, delle Province, dei Comuni e delle loro Unioni; b. la definizione di nuove disposizioni per il governo delle aree vaste; c. l’individuazione di nuove sedi di concertazione istituzionale e discipline comuni per la governance multilivello; d. la nuova disciplina di ridelimitazione degli ambiti ottimali di maggiori dimensioni e di incentivazione delle fusioni tra Comuni; e. la disciplina delle funzioni amministrative e la diversa allocazione di competenze conseguente alla legge Delrio; f. la definizione di misure transitorie per il passaggio da un sistema all’altro. La norma successiva, poi, prevede che  “alla Regione, alla Città metropolitana di Bologna, alle Province, ai Comuni e alle loro Unioni sono attributi compiti e funzioni definiti per settori organici di materie, in coerenza, rispettivamente, con il ruolo istituzionale:  a) di indirizzo, pianificazione e controllo della Regione;  b) di governo dell’area vasta della Città metropolitana di Bologna;  c) di governo delle aree vaste delle Province;  d) del governo di prossimità dei Comuni e delle loro Unioni”

Le norme successive, coerentemente all’impianto così delineato, procedono all’individuazione del ruolo e delle funzioni dei vari enti, all’attribuzioni delle funzioni amministrative per ognuno di essi, all’attribuzione del personale e delle risorse conseguenti. Ovviamente la legge prelude ad un impianto normativo a cascata assai complesso, a causa, appunto dell’organicità della stessa legge.

Analogamente, anche se con un impianto meno composito, la Regione Toscana, con la legge 3 marzo 2015, n. 22 ha provveduto al riordino finalizzato “alla riorganizzazione delle funzioni regionali e locali, al miglioramento delle prestazioni che le pubbliche amministrazioni erogano in favore dei cittadini e delle imprese, alla promozione della semplificazione dei processi decisionali, organizzativi e gestionali, in attuazione dei principi di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione e con l’obiettivo di perseguire l’efficienza e il miglioramento della produttività nella pubblica amministrazione” (art. 1, comma 2).

 Anche la regione Abbruzzo si è indirizzata verso tale strada. Ed infatti, con la legge 20 ottobre 2015, n. 32  ha provveduto al “al complessivo processo di riordino e riallocazione delle funzioni amministrative nel proprio territorio, individuando le dimensioni ottimali per l’esercizio delle medesime funzioni amministrative, con l’obiettivo di favorire l’associazionismo tra gli enti locali, la gestione delle funzioni di area vasta e la coesione tra le istituzioni del sistema Regione-Autonomie locali”. Nella stessa legge si prevede che con legge regionali successive si provvederà a stabilire “premialità per promuovere e incentivare gestioni associate di servizi, unioni e fusioni di Comuni, con particolare riferimento alla partecipazione a bandi e avvisi regionali.”; ed ancora che con leggi regionali da adottare in proseguio “la Regione promuove la gestione associata delle funzioni fondamentali comunali e dei servizi ad esse correlati, e favorisce, in particolare, la costituzione di Unioni e fusioni di Comuni, anche per incorporazione di Comuni contigui e di quelli obbligati alla gestione delle funzioni fondamentali.”.

Sulla stessa scia, anche se con qualche preoccupazione sulla salvaguardia delle posizioni del personale,  si è mossa la Regione Campania che con la legge 9 novembre 2015, n. 14 ha disposto che la redistribuzione delle funzioni sia guidata dai seguenti principi “a) tutela e  salvaguardia  dei  livelli  occupazionali  provinciali riferiti  all’esercizio delle funzioni non fondamentali e dei connessi servizi ai cittadini; b) semplificazione   delle   procedure   amministrative  con  contestuale  riduzione  delle duplicazioni di funzioni e servizi mediante la razionalizzazione delle stesse e la digitalizzazione delle procedure; c) soppressione delle funzioni e dei compiti divenuti superflui, per garantire l’efficienza e l’economicità dell’amministrazione pubblica; d) attribuzione delle funzioni amministrative presso il livello di governo più vicino ai cittadini; e) riassorbimento  a  livello  regionale  delle  funzioni  che  sono coerenti  con il ruolo di governo della Regione e richiedono un esercizio a livello unitario per l’intero territorio regionale; f) attribuzione delle funzioni all’ente subentrante qualunque sia stato l’originario titolo di conferimento (trasferimento, attribuzione, delega o sub-delega) al fine di assicurare un esercizio più efficiente e razionale delle funzioni medesime”.

Ed ancora la Regione Liguria, con legge 10 aprile 2015, n. 15 prevede l’individuazione “dell’ambito territoriale ottimale di esercizio di ciascuna funzione tenendo conto delle esigenze unitarie e promuove e valorizza il ruolo della Città metropolitana e dei comuni quali enti di presidio del territorio favorendo forme di esercizio associato delle funzioni da parte degli enti locali”.  La stessa legge, poi, attribuisce alla Regione il compito di assicurare la continuità amministrativa, la semplificazione e la razionalizzazione delle procedure e la riduzione dei costi per l’Amministrazione, garantendo la razionale allocazione delle funzioni privilegiando l’attribuzione dell’intera funzione ad un unico soggetto. Agli articoli successivi provvede poi alla definizione delle competenze della Città metropolitana di Genova e delle Province e al trasferimento delle risorse e del personale. Particolare attenzione viene poi dedicata al tema dei bacini idrogeologici e della loro disciplina ad opera di specifiche Autorità, al fine di prevenire disastri o comunque eventi altamente preoccupanti per l’assetto territoriale.

Anche, ma non certo per ultima, la Regione Piemonte sì è  mossa nella direzione di assicurare un disegno complessivo di riordino.          

 

3. Sembra, a questo riguardo, in qualche modo opportuno, ed anzi necessario, ribadire  un punto di vista già messo in luce: la legge della regione Piemonte 29 ottobre 2015, n. 23, così come successivamente modificata ed integrata, è non solo una buona legge (sul piano tecnico- giuridico, impregiudicato restando ogni discorso sulla persuasività delle opzioni di indirizzo politico), ma sconta anche, sicuramente, il momento di evidente incertezza e provvisorietà nel quale viene, del tutto ovviamente, ad ambientarsi. 

Il passaggio dalla c.d. legge Del Rio (l. 7 aprile 2014, n. 56, sulle città metropolitane, sulle province e sulle unioni e fusioni di comuni) alla novella costituzionale del titolo V° della parte seconda della Costituzione (per quello che qui interessa), sottoposta a referendum confermativo, è foriero infatti di un’incertezza quasi sistemica, o comunque così marcata da rendere molto difficile la messa a punto, rebus sic stantibus, di risposte per così dire sufficientemente affidabili, seppure non definitive.

Se questo è vero, si possono tuttavia passare in rassegna alcuni tra i punti forti e qualificanti della legge regionale in esame  e, segnatamente, quegli elementi in qualche misura costitutivi della normativa regionale, e soprattutto stabili e costanti nel dibattito della nostra dottrina pubblicistica, e ancora prima nell’evoluzione costituzionale del nostro ordinamento.

Tre paiono essere i temi di maggior risalto della legge regionale in questione, due per così dire di rilievo materiale/sostanziale ed uno apprezzabile soprattutto sul piano metodologico-procedurale.

I due temi focali a carattere materiale/sostanziale sono, a tutta evidenza, la riallocazione di una importante serie di funzioni pubbliche in capo alle regioni, anche a seguito della prossima soppressione delle province (e comunque in connessione con la rimodulazione del loro ruolo operata dalla c.d. legge Del Rio), e la messa a punto di una prima griglia di norme capace di dare forma e sostanza a quello che è destinato a diventare, a tutti gli effetti, l’ente di governo e  di gestione chiamato a gestire i processi di area vasta (di livello sovracomunale e tuttavia sub -regionale), ossia la città metropolitana e, nel caso specifico, la Città metropolitana di Torino.

Sul piano metodologico-procedurale, la scelta del legislatore regionale è sicuramente coerente ed anzi, a ben vedere, del tutto in sintonia con il trend assolutamente costante dell’ultimo ventennio, in quanto si mette al centro di ogni processo di riaggregazione e ridefinizione delle funzioni degli enti territoriali, la prassi delle intese e degli accordi, nel senso che saranno gli strumenti e i moduli della concertazione e della cooperazione istituzionale a conformare e plasmare le relazioni intersoggettive fra i diversi attori del sistema regionale e locale.

In merito al primo punto appena evidenziato è soprattutto  l’art 8 della legge regionale in questione a disciplinare la riallocazione di alcune funzioni in capo alle regioni in precedenza già esercitate dalle province e dalla città metropolitana di Torino, tali essendo le materie e le norme di cui all’allegato A, e fatte comunque salve quelle funzioni che il precedente art. 5, comma 3, lettera a) ha già delegato proprio alla Città metropolitana medesima. Il che non è forse il miglior modo di introdurre un (pur provvisorio) modello di riparto delle competenze fra la Città metropolitana e la regione, ma tantè: sotto questo profilo si scontano sicuramente tutti i limiti di una situazione che è in perenne, oggettiva evoluzione e (soprattutto) per così dire quasi sottoposta ad una condizione di tipo sospensivo.

Maggiormente chiara è pertanto la previsione di cui al secondo comma dello stesso art. 8 della legge regionale in esame là ove si prescrive che “Al fine di garantire l’unitarietà dell’esercizio e provvedere al completamento del riordino in materia, sono riallocate, altresì, alla Regione le funzioni amministrative in materia di agricoltura già trasferite alle province ed esercitate dalle comunità montane…”. Norma dalla quale sembra potersi evincere, fra l’altro, che, se il focus  della legge regionale in questione è sicuramente costituito dall’intento di provvedere alla definizione medio tempore del ruolo (forse in rapida transizione) delle province ed a determinare la prima (e certo perfettibile) fisionomia della città metropolitana di Torino,  scopo del legislatore regionale è anche quello di avviare un più vasto e generale processo di riorganizzazione dei poteri e delle autonomie locali.

Da queste prime battute, è agevole giungere ad una conclusione: è la città metropolitana a rappresentare il “nuovo” che avanza, e cioè il soggetto deputato dalla Costituzione (cfr. già l’art. 114 Cost.) e dalla normativa primaria di riferimento (oltre alla c.d. legge Del Rio cfr. ovviamente il t.u. sugli enti locali, d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267) ad intercettare e  gestire i processi di area vasta onde fornire risposte e soluzioni alla domanda di servizi e di prestazioni, a carattere reale e personale, che, sia al livello individuale che collettivo, sostanziano ormai i c.d. diritti di welfare e quelli, forse più evoluti, di terza generazione, e anzi a carattere e dimensione intergenerazionale (ambiente, salute, qualità della vita, ecc.).

E, infatti, l’art. 4 della legge regionale in esame attribuisce un ruolo di importanza primaria  alla città metropolitana di Torino, nella sua veste di autorità di area vasta, in quanto gioca nel contesto territoriale di riferimento “…un ruolo di sviluppo strategico del territorio metropolitano, di promozione e gestione integrata dei servizi, delle infrastrutture e delle reti di comunicazione di interesse della Città metropolitana…”, provvedendo altresì alla cura delle relazioni istituzionali afferenti al proprio livello di governo e di amministrazione. A ciò si aggiunga, sempre ai sensi del medesimo art. 4, primo comma, che il nuovo attore istituzionale del governo locale “…svolge, inoltre, un’azione di governo del territorio metropolitano e di coordinamento dei comuni che la compongono e delle loro forme associative, favorendo i programmi di sviluppo socio-economico”.

Impossibile non cogliere, sotto questo riguardo, il forte richiamo che il legislatore regionale fa (e del tutto consapevolmente, a quel che è dato di arguire) alle dottrine ed alle prassi materiali in materia di smart cities, e anzi ancor più di smart communities,visto il bacino di utenza e di competenza nel quale le città metropolitane, e segnatamente quella torinese, sono chiamate ad agire nel concreto.

La smart city e la smart community, come soggetto di area vasta, sono infatti organizzazioni territoriali “intelligenti”, ossia smart, e in quanto tali capaci di veicolare nei loro ambiti territoriali i processi più avanzati della modernità: infrastrutture digitali, aspetti fondamentali ed istanze progressive delle più moderne politiche ambientali (ricorso alle energie da fonte rinnovabile, infrastrutture verdi, mobilità sostenibile, una nuova policy nel campo della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti, ecc.). In altre parole, la smart city, città metropolitana di Torino, è chiamata a interagire con vaste comunità di residenti e con un certo numero di altri soggetti istituzionali  (con la regione, in primo luogo, ma anche con il comune di Torino, ossia con la Kernstadt, la “città nucleo”, e con gli altri comuni più piccoli ricondotti nell’area di influenza dell’autorità di governo metropolitano) in vista del perseguimento di un più generale obiettivo, tipico e proprio delle democrazie avanzate: l’innalzamento della qualità della vita negli spazi urbani, ossia in quegli spazi pubblici nei quali si concentra ormai larga parte della popolazione dei paesi occidentali (e non solo!).

Se questo è vero, appare del tutto conseguente e coerente l’attribuzione di importanti funzioni alla città metropolitana torinese, ai sensi dell’art. 5 della legge in esame nonché del successivo art.7.

E’ del tutto ovvio che la città metropolitana è chiamata ad esercitare tutte le funzioni fondamentali che la legge c. d. Del Rio  (art. 1, comma 85) attribuisce agli enti di area vasta; e pour cause, verrebbe da constatare, in quanto le città metropolitane vengono progettate ed istituite (e non solo nel nostro paese) proprio per dare risposte ragionate e adeguate ai bisogni e alle aspettative di servizi (reali e  personali) che sono naturalmente implicati con le esigenze individuali e collettive di coloro che vivono nelle smart communities (o nelle smart cities) del nostro tempo.

In questo senso, alla città metropolitana sono attribuite, in particolare, ai sensi del secondo comma dell’art. 5 della legge, funzioni in materia di foreste e di usi civici; altre funzioni sono invece delegate dalla regione in materia di formazione professionale e di orientamento, in materia di ambiente, relativamente al settore (delicatissimo) della tutela della natura, anche con le modalità di cui all’art.41, comma 3, della legge regionale 29 giugno 2009, n. 19 (testo unico sulla tutela delle aree naturali protette e della biodiversità).

 A ciò si aggiunga, alla luce dell’ultimo comma dell’art. 5 fin qui passato in rassegna, che la città metropolitana esercita le funzioni amministrative in materia di trasporto pubblico locale (legge regionale 1/2000) e che, ai sensi del successivo art. 7 della legge in esame, in tema di “razionalizzazione dei servizi di rilevanza economica”, sono attribuite alla  città metropolitana le funzioni di organizzazione e controllo diretto del servizio di gestione integrata dei rifiuti urbani, “nei modi e nei tempi stabiliti da apposita legge regionale”, legge grazie alla quale dovrebbe essere favorito l’esercizio in forma associata (con le province, finché esistenti!) delle politiche nel campo della gestione integrata dei rifiuti urbani.

 

4. In questo quadro, sembra chiaro che il legislatore regionale abbia inteso ritagliare (nel solco della normativa nazionale, peraltro!) un ruolo importante per la città metropolitana e, segnatamente nel campo delle politiche ambientali, secondo quanto già previsto, del resto, per le province tout court dal cit. t.u. n. 267/2000 (art. 19, 20 nonché 22 e ss. per le città metropolitane in senso proprio).

A tratti, tuttavia, la cifra stilistica della legge (e naturalmente i presupposti della ratio legis!) sembra essere in qualche modo non perfettamente coerente e lineare, come se il legislatore regionale sogguardasse con un certo sospetto questa nuova realtà (la città metropolitana) con quale deve fare, per così dire, i conti.

E in ciò non vi è certamente nulla di nuovo, o di strano, in quanto sono ben note le difficoltà che si sono registrate in alcune esperienze (in Germania, ad esempio, a Monaco come ad Hannover) nelle quali si è talora verificata una situazione di  conflitto, anche solo potenziale, fra le ragioni della “città nucleo” (la Kernstadt) e i comuni minori facenti parte dell’area metropolitana. E, d’altro canto, è sufficientemente noto che analoghe preoccupazioni (e rivalità e contrasti non sempre commendevoli) hanno fin qui  ritardato la messa a regime delle città metropolitane in tutto il  nostro paese.

E’ proprio sotto questo riguardo che il suddetto profilo metodologico- procedurale, al quale si è già fatto cenno, potrebbe giocare un ruolo fondamentale onde dirimere preventivamente i possibili conflitti di competenza (e di interesse), sia fra la città metropolitana ed i comuni “minori” facenti parte dell’area che fra la città stessa e la regione.

La prassi della concertazione/cooperazione, delle intese e degli accordi, alla quale si fa ampio e consapevole ricorso in molte norme della legge in commento, può infatti contribuire a stemperare, qualora insorgessero, gli eventuali conflitti intersoggettivi degli attori del governo locale e, anzi, addirittura a prevenirne la materiale elevazione, in un’ottica di confronto anticipato, e quindi in vista della composizione (ancora un volta preventiva!) dei valori e degli interessi coinvolti.

Non c’è quasi norma, da un lato, che non faccia riferimento al metodo della concertazione pattizia degli interessi, sebbene gli strumenti tecnico- giuridici mobilitati siano abbastanza differenziati (dalle intese agli accordi di programma fino ai moduli della programmazione negoziata ), ma non è meno evidente, dall’altro lato, che è soprattutto l’art. 2, secondo e terzo comma, della legge in esame a codificare in termini per così dire assoluti e generali il carattere conformativo della prassi in questione.  E, infatti: “2. La Regione e la Città metropolitana di Torino concordano, tramite intese o altri strumenti di programmazione negoziata, le principali azioni e progetti di interesse della Città metropolitana, per il sostegno e lo sviluppo socio-economico del territorio di competenza, con particolare attenzione agli aspetti rurali e montani dello stesso. Le intese costituiscono il quadro delle iniziative programmatiche e degli interventi regionali volti al rafforzamento della competitività e della coesione sociale del territorio metropolitano.

5. Le intese di cui al comma 2, relative ad azioni e progetti che coinvolgono direttamente comuni o unioni di comuni, devono essere  sottoscritte anche dai comuni o unioni di comuni stessi”.

In questo senso, la circolarità dei procedimenti che si pensa in questo modo di poter veicolare lascia senza dubbio intravedere i segni della contemporaneità:  istituti – quelli della concertazione- in qualche modo di soft law, quasi anticipazione e cornice di successive  determinazioni, forse  maggiormente puntuali, per la realizzazione di obiettivi e risultati propri di una governance multilivello capace di intercettare e gestire, nel bacino regionale, i bisogni e le pulsioni (talora inespressi) della società post-industriale. 

 


 


[1] Rosario Ferrara, Professore Ordinario di Diritto Amministrativo e Diritto dell’Ambiente presso l’Università degli Studi di Torino. Annamaria Poggi, Professora ordinaria di Diritto pubblico, Università degli Studi di Torino. Questo lavoro è il frutto della comune riflessione dei due coautori. Il primo ed il secondo paragrafo sono stati redatti da A. Poggi ed il terzo e il quarto da R. Ferrara.