Appunti su pastorizia, ambiente e territorio

Alessandro Crosetti[1]

Sommario:

1. La montagna e i difficili problemi di valorizzazione e di sostenibilità territoriale – La rilevanza della pastorizia quale modello di economia circolare – 2. Origini, natura e profili giuridici della transumanza nel contesto dell’ambiente montano – 3. La transumanza come bene culturale immateriale: evoluzione del diritto interno ed il recente riconoscimento dell’UNESCO – 4. L’alpeggio come punto di approdo della transumanza: i vari modelli giuridici di organizzazione e di conduzione – 5. L’importanza del pascolo e gli effetti positivi di sostenibilità ambientale nelle aree montane e nel presidio del territorio.

1. La montagna e i difficili problemi di valorizzazione e di sostenibilità territoriale. La rilevanza della pastorizia quale modello di economia circolare

Le aree montane (ma anche le zone collinari), da tempo, registrano gravi problemi e squilibri di carattere economico e sociale rispetto ai territori non montani. Le cause di questi problemi hanno origini lontane, ma si sono acuite dopo il secondo conflitto mondiale e sono principalmente riconducibili all’esodo e relativo abbandono e spopolamento delle c.d. “terre alte”, con il progressivo impoverimento demografico e relative diseconomie[2]. Il constatato declino delle zone montane, generalmente collegato a quello demografico, è stato assunto come specchio della marginalità economico-sociale di quei territori. Tale declino è venuto assumendo espressioni specifiche anche nel regresso delle attività produttive, specie quelle agro-silvo-pastorali, con conseguente impoverimento del tessuto sociale mettendo a nudo una grave crisi di civiltà e di identità.[3]

A fronte di questo quadro alquanto negativo e desolante, da sempre, resistono strumenti e attività che, a vario titolo, continuano a fare “vivere” le zone montane e a costituire veicoli per lo sviluppo di economie non solo a valenza meramente interna ma anche a valenza culturale, ambientale, paesaggistica e territoriale. Tra queste forme di economia ha, nei secoli, avuto un ruolo oltremodo rilevante la pastorizia che è una delle forme più antiche di allevamento, praticata dall’uomo con la maggior parte delle specie animali domestiche da reddito, principalmente ovini, caprini, bovini, ma anche suini, equini. La pastorizia, si contraddistingue dall’allevamento classico stanziale in stalla o recinti, perché gli animali (il bestiame) vengono lasciati liberi in un ambiente naturale, ovvero vengono lasciati al pascolo allo stato brado, anziché nutriti con risorse dell’allevatore, venendo a creare una forte di simbiosi tra gli animali ed il pastore che si occupa e convive con loro a tempo pieno, non limitandosi ad accompagnarli al pascolo. Per tale sua peculiarità la pastorizia ha, da sempre, anche rappresentato un importante ruolo di presidio e di tutela dell’ambiente nei territori alpini ed appenninici (v. infra).

La pastorizia aveva assunto un ruolo centrale nelle economie e società del passato in Italia, dal secondo decennio del Novecento le dimensioni degli allevamenti bradi (sia sulle Alpi che negli Appennini) cominciarono progressivamente a diminuire e a regredire. Attualmente, dopo mezzo secolo di progressiva riduzione va registrata una inversione di tendenza. Dalla fine degli anni Settanta dello scorso secolo veniva considerata un fenomeno destinato a scomparire, legato erroneamente al sottosviluppo, oggi la pastorizia è venuta ad acquisire un nuova rilevanza anche tra le nuove generazioni [4], in una rinnovata consapevolezza del recupero di valori e tradizioni dell’economia montana, anche con apprezzabili ricadute positive per le popolazioni locali.

In tal senso la pastorizia può costituire, anzi, un virtuoso modello della c.d. economia circolare intesa quale sistema economico capace di potersi rigenerare da solo garantendo anche la sua stessa ecostenibilità[5]. Tale sistema, infatti, non mira all’obiettivo della massimizzazione del profitto, piuttosto a cercare di ottenere un vantaggio di reciproca utilità tra uomo e natura, in funzione anche di rispetto e tutela ambientale. La pastorizia, infatti, si regge su un modello di autoalimentazione, nel quale la produzione ed il consumo implicano l’utilizzazione e la trasformazione dei prodotti naturali a kilometro zero, con conseguente riduzione della pressione sull’ambiente, stante la disponibilità e l’accesso in loco delle materie prime, quali l’acqua e l’energia solare.

Questi strumenti secolari di sostegno e valorizzazione dei territori montani hanno, da sempre, trovato espressione e attuazione nella transumanza e nell’alpeggio che sono stati studiati principalmente quali attività agro-zootecniche ma, come tutte le attività umane, sono caratterizzati anche da regole e principi giuridici (con sottese valenze sociali, antropologiche e culturali) che intendono essere oggetto delle presenti note.

2. Origini, natura e profili giuridici della transumanza nel contesto dell’ambiente montano

L’alpeggio è solitamente considerato come l’attività agro-zootecnica che viene svolta in montagna durante i mesi estivi. La nozione non va confusa con il termine malga o alpe, che sta, invece, a significare l’insieme dei fattori produttivi, fissi e/o mobili, in cui avviene l’attività di monticazione, cioè l’inizio della transumanza: fabbricati, terreni, attrezzature, animali, lavorazione dei prodotti. La transumanza è, in effetti, una attività diversa in quanto strumentale e servente all’alpeggio (v. infra).

Come accennato, la transumanza [6] è una forma di pastorizia caratterizzata dalla migrazione stagionale delle greggi, delle mandrie e dei pastori che si spostano da pascoli situati in zone collinari o montane verso quelli delle pianure (nella stagione invernale) o viceversa (nella stagione estiva) percorrendo le vie naturali dei c.d tratturi [7].

Tale processo è scandito da spostamenti dettati da antiche regole, non solo consuetudinarie, ma anche da precise esigenze stagionali e climatiche. Per descrivere le fasi in cui si compiono gli spostamenti che danno luogo alla transumanza, vengono generalmente utilizzati i termini di “monticazione” e “demonticazione” (di chiara matrice etimologica riferita alla montagna). Con il termine monticazione, parola che deriva dal verbo “monticare”, si indica la fase iniziale della transumanza che si compie nel periodo primaverile, quando avviene il trasferimento degli armenti e dei pastori dalle zone di pianura (di ricovero invernale) ai pascoli di alta quota dove ha inizio l’alpeggio (v. infra). Con demonticazione si definisce il successivo trasferimento inverso che, nel periodo autunnale, riporta gli animali dai pascoli in quota a quelli di pianura nella fase successiva al periodo estivo dell’alpeggio.

Tale usanza è antichissima [8], nei secoli passati, aveva pesantemente condizionato la vita dei pastori che non potevano contare sulla presenza di strutture tipiche dell’allevamento moderno, quali la stalla e gli impianti di foraggiatura, mungitura e refrigerazione del latte. Ancora oggi gli armenti vivono in genere all’aperto in appositi recinti (chiamati stazzi e anche gias dal latino giacere e vastere), i pastori un tempo soggiornavano in dimore rustiche attualmente in strutture più confortevoli.

In Italia questa antica usanza ha contrassegnato importanti percorsi, nel corso del tempo collaudati, costituiti da una rete di trame viarie denominati “tratturi” [9]che hanno finito per diventare noti strumenti di collegamento tra montagna e pianura e tra le diverse vallate.

La transumanza anche oggi è diffusamente presente sia in tutto l’arco alpino che in quello appenninico ed è retta ancora attualmente da regole consuetudinarie dettate essenzialmente e principalmente da esigenze climatiche e stagionali [10].

Come sempre nel mondo e nel mercato giuridico il termine, inteso quale momento del tempo, dal quale cominciano a verificarsi, o fino al quale durano, gli effetti di un negozio giuridico ha enorme rilevanza[11], ciò in quanto talvolta il termine è concepito come la fissazione di un limite nel tempo da cui si fanno dipendere gli effetti di un negozio (durata ed estinzione di un diritto che sorge dal negozio); altre volte esso è soltanto lo strumento per fissare nel tempo il momento di adempimento o dell’esercizio di un diritto. Entrambe queste circostanze sono presenti nella vicenda della transumanza. Secondo tali regole consuetudinarie la transumanza ha, in genere, inizio il 15 giugno (festa di San Bernardo) e si conclude il 29 di settembre (festa di san Michele) eventi denominati nel patois delle Alpi ènarpa e dèsarpa o in francese inalpe e dèsalpe per indicare l’ascesa e la discesa all’alpeggio [12].

È appena il caso di evidenziare che queste due date coincidono con rilevanti fatti climatici, l’inizio della stagione estiva e l’inizio della stagione autunnale con palesi ripercussioni sulle condizioni ottimali per l’alpeggio delle mandrie.

Oltremodo originali e significative dei rapporti nel mondo agrario e contadino, storicamente e tradizionalmente contrassegnati dal modello del baratto e della permuta [13], sono sempre state le regole consuetudinarie presenti nella demonticazione. L’abbandono dei pascoli di alta montagna e la discesa in bassa valle e/o in pianura è regolato da patti consuetudinari secondo i quali il ricovero invernale delle mandrie e la relativa ospitalità con il fieno veniva barattata con la cessione del letame (segnatamente di pecora ma non solo) considerato un ottimo concime per i campi. Altra forma di accordo pattizio tra la cascina ospitante ed il pastore del gregge, (anche per evitare possibili conflitti), è stato l’istituto del “compascolo” denominato anche “pascipascolo”, che poteva ammettere il libero pascolo delle rispettive greggi su specifiche porzioni di terreno messe in comune[14] e che ne che consentiva una forma indiretta di concimazione [15].

Attraverso questi modelli, giuridici di tipo pattizio [16], la transumanza ha, da sempre, rappresentato una rilevante pratica nell’economia, non solo montana ma anche di pianura, con positivi impatti nelle dinamiche sociali delle popolazioni, lasciando una traccia profonda nel paesaggio e nella biodiversità. [17] Tale aspetto positivo non è tuttavia l’unico e nei tempi recenti la transumanza è venuta ad arricchirsi anche di valenze culturali e tradizionali, anche tramite celebrazioni quali la festa della transumanza, ormai diffusamente presente al rientro dall’alpe.

La rilevanza di questi profili è stata da tempo percepita e recepita nel processo di affermazione dell’esistenza di tali valori culturali fin dalla Convenzione UNESCO sul Patrimonio culturale mondiale, adottata a Parigi il 16 novembre 1972, nella quale è stato evidenziato che il patrimonio culturale e naturale, rappresenta il punto di riferimento, l’identità di un popolo e costituisce l’eredità del passato da trasmettere alle generazioni future [18]. Come noto, infatti, tale Convenzione, all’art. 1, ha considerato il patrimonio culturale e ambientale come “creazione congiunta dell’uomo e della natura” e quale “combinazione dell’ambiente naturale con le esigenze culturali, economiche e sociali” e come tale “un legame tra il nostro passato, ciò che siamo ora e ciò che passeremo alle generazioni future”. L’affermazione di tali principi e linee guida, anche per l’autorevolezza della stessa UNESCO nel contesto internazionale[19], ha avuto una grande rilevanza anche con riferimento alla tutela e valorizzazione delle aree montane (v. infra).

3. La transumanza come bene culturale immateriale: evoluzione del diritto interno ed il recente riconoscimento dell’UNESCO

La transumanza ha, da sempre, contribuito a modellare ed arricchire le relazioni umane e a fecondare i rapporti tra persone, animali ed ecosistemi tra valli e pianure[20]. Tale processo ha comportato, nel corso del tempo, pratiche sociali condivise e modelli comportamentali diffusi e partecipati contribuendo in questo a consolidare quella che nel linguaggio comune è conosciuta come “tradizione”.[21]

Prendersi cura e allevare animali, gestire terreni, foreste, pascoli e risorse idriche, collaudare percorsi ed affrontare i pericoli ed i disagi naturali, sono tutti fattori che hanno contribuito a costruire una “cultura” della transumanza con una rilevante ricaduta di carattere socio-economico nell’ambiente montano, che testimonia, oggi come ieri, un rapporto di equilibrio tra uomo e natura ed un uso sostenibile delle risorse naturali (v. infra).

I pastori transumanti sono venuti acquisendo un patrimonio conoscitivo straordinario, con una consapevolezza unica dell’ambiente montano, del suo rispetto, dell’equilibrio ecologico e dei cambiamenti climatici e dei vari aspetti agro-silvo-pastorali delle montagne.

La transumanza ha portato, infatti, all’affermazione di uno dei metodi di allevamento più sostenibili ed ecologici nel non sempre facile rapporto tra ambiente ed economia[22].

La cultura della transumanza è venuta, nella sua evoluzione, elaborando e raffinando competenze specifiche relative ai vari tipi di produzione alimentare, segnatamente nella produzione lattiero-casearia, con prodotti a denominazione di origine protetta e controllata[23].

Come spesso avviene nel mondo delle relazioni umane, l’inizio e la fine della transumanza sono progressivamente venute acquisendo una valenza sociale. Le festività di primavera ed autunno, che scandiscono i momenti del movimento stagionale delle mandrie, hanno costituito momenti di festa e di aggregazione. Questi momenti di condivisione hanno introdotto rituali e scambi di esperienze tra vecchie e nuove popolazioni, avvicinando il mondo della montagna a quello della pianura con positive ricadute generazionali. Tali forme culturali della transumanza sono state inizialmente ascritte nella categoria dei c.d. beni demo-etno-antropologici.

Con l’acronimo D.E.A. (già presente nelle edizione del Testo unico dei beni culturali del 1999), sono stati tradizionalmente indicati quei beni, appartenenti al patrimonio culturale nazionale, che si distinguono per essere “legati alle culture locali ed alla vita della gente comune in quanto costituiscono espressione delle tradizioni oggetto di studio dell’antropologia”. Invero, la categoria in questione riunisce tre ambiti disciplinari che, in Italia, erano rimasti divisi: la demologia comprensiva delle tradizioni popolari e del folklore, l’etnologia relativa allo studio dei costumi delle società extraeuropee e infine l’antropologia con più recente attenzione all’analisi delle invarianti dell’uomo e delle società complesse. [24]

Al di là delle distinzioni presenti all’interno delle specifiche discipline che si sono occupate di tali beni, si è progressivamente affermato un modo di intendere siffatta componente del patrimonio culturale quale insieme, ossia come complesso di eterogenei beni idonei a costituire oggetto di tutela da parte dell’ordinamento dei beni culturali in quanto, a prescindere dalla specificità delle diverse categorie, costituiscono tutti espressione e testimonianza della cultura popolare e della vita della gente comune, nei suoi più diversi aspetti: dai dialetti alla gastronomia, dall’artigianato agli stili di vita tradizionale familiare e comunitario, dagli oggetti di vita quotidiana alle pratiche simboliche, fino a giungere alle musiche, le danze, i giochi, le mitologie, i riti, le abitudini e le credenze popolari[25]. Già in questa primitiva plurivalenza di aspetti culturali, la transumanza si poneva a pieno titolo in questa categoria di beni proprio per le sue arcaiche e persistenti peculiarità.

Si tratta di una categoria di beni tutt’altro che unitaria, anzi assai ampia ed eterogenea, relativamente alla quale l’evoluzione del riferimento normativo non ha avuto una specifica e percepibile influenza in grado di determinare una significativa evoluzione nella problematica che ha riguardato il più generale problema della tutela dei beni culturali c.d. immateriali[26], in quanto non sempre dotati di un substrato materiale fisicamente percepibile, dall’inerenza ad una res che li renda, anche sul piano giuridico, concretamente tutelabili, conservabili, valorizzabili, fruibili da parte dell’intera collettività nazionale.[27]

Ora, è emerso che molte delle espressioni della cultura popolare, delle tradizioni, delle manifestazioni dell’ethnos, sono suscettibili di divenire, e sovente divengono, prodotti materiali, aventi corporalità, che li rende idonei oggetti delle funzioni di tutela e di valorizzazione ed offerta alla pubblica fruizione così come ormai acquisita nella normativa in materia di beni culturali. Nel caso della transumanza gli armenti e le mandrie costituiscono espressione di tale materialità.

La categoria dei beni in esame, può ritenersi caratterizzata, anzi, in prevalenza, da beni realmente e diffusamente immateriali: beni che, com’è stato esattamente avvertito “potrebbero dirsi “volatili”: tradizioni, feste o spettacoli, cerimonie, riti, racconti, canti, che non sono né mobili né immobili, in quanto per poter essere fruiti devono essere “ri-eseguiti” o “rifatti”[28]. La periodicità stagionale della transumanza richiede esattamente questa “riproduzione” del rito tradizionale dell’andare e del ritornare dall’alpe.

Delle esigenze di riconoscimento e di tutela di tali beni culturali immateriali, la primitiva stesura del Codice dei beni culturali, nella originaria formulazione del 2004, non aveva ritenuto di doversi fare carico e ciò nonostante che la questione della tutela del patrimonio culturale immateriale fosse ormai all’attenzione anche dei più importanti organismi internazionali operanti nel settore.

A questo proposito non può essere sottaciuto come fosse stata da poco adottata una raccomandazione dell’UNESCO, in esito ad una tavola rotonda svoltasi sul tema a Torino nel marzo del 2001, che aveva auspicato la creazione di strumenti normativi internazionali finalizzati alla protezione giuridica di tale tipologia di beni, che pur nella loro immaterialità, devono ritenersi appartenere comunque al patrimonio culturale mondiale.

A tale raccomandazione, come noto, ha poi fatto seguito il 17 ottobre del 2003 la sottoscrizione a Parigi di una vera e propria Convenzione UNESCO per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale, cui è stata data esecuzione in Italia con la legge 27 settembre 2007 n. 167[29] .

In tale Convenzione veniva altresì precisato che il patrimonio culturale immateriale di cui sopra si manifesta, tra l’altro, nei seguenti settori: “ tradizioni orali, ivi compreso il linguaggio; le arti dello spettacolo; le consuetudini sociali, gli eventi rituali e festivi; le cognizioni e le prassi relative alla natura e all’universo”.[30]

Proprio per questi motivi, la transumanza è stata inserita nel 2019 dall’UNESCO nella lista del Patrimonio Culturale Immateriale che ne ha riconosciuto il valore della pratica sulla base di una candidatura transnazionale presentata da Italia, Austria e Grecia. L’UNESCO ha evidenziato l’importanza culturale di una tradizione che ha modellato le relazioni tra comunità e animali ed ecosistemi, dando origine a riti, feste e pratiche che costellano l’estate e l’autunno, testimonianza ricorrente di una pratica che si ripete da secoli con ciclicità delle stagioni in varie parti del mondo.

Come dianzi anticipato, la Convenzione UNESCO, in origine, disciplinava solo i beni culturali aventi il carattere della materialità, valorizzando e favorendo la diffusione dell’idea di un patrimonio culturale universale. Successivamente la nozione di bene culturale è stata ampliata includendo anche i beni immateriali espressivi di una “testimonianza materiale avente valore di civiltà”, ovvero rappresentativa delle tradizioni orali, delle manifestazioni del folklore e, in generale, portatori di un valore culturale.[31]

Il legislatore italiano ha preso atto delle innovazioni provenienti dalla Convenzione UNESCO del 2004 sui beni immateriali, provvedendo ad innovare la disciplina nella revisione del d.lgs correttivo n. 62/2008 del Codice dei beni culturali di cui al d.lgs. 22 gennaio 2004 n. 42, includendo la nuova formulazione dell’art. 7 bis (Espressione di identità culturale collettiva) [32].Il testo dell’articolo, tuttavia, ha introdotto una visione riduttiva del bene culturale immateriale rispetto alla Convenzione UNESCO, ancorando la rilevanza giuridica alla possibilità di “testimonianza materiale” quale attività culturale [33].

Il riconoscimento giuridico dei beni culturali immateriali rappresenta, oltre alla presa di coscienza della testimonianza storica di un determinato evento sociale, anche un rilevante valore economico e di commercializzazione[34]. Questi importanti riconoscimenti portano, infatti, a ricomprendere la dimensione immateriale di patrimoni culturali come uno strumento significativo per la crescita e lo sviluppo sostenibile della montagna, anche in termini di prosperità economica. È appena il caso di evidenziare che tale patrimonio culturale è anche risorsa per una produzione alimentare sostenibile e di grande qualità e per un supporto al turismo rurale.(v. infra).

4. L’alpeggio come punto di approdo della transumanza: i vari modelli giuridici di organizzazione e di conduzione

Come dianzi anticipato, la transumanza è funzionale e servente per raggiungere l’alpeggio che consiste nell’attività agro-zootecnica che si svolge in montagna durante i mesi estivi. Il termine non va confuso con altri termini come malga o alpe con in quali si fa riferimento, invece, all’insieme dei fattori produttivi, fissi o mobili, in cui avviene l’attività di monticazione, cioè l’inizio della transumanza: fabbricati, terreni, attrezzature, animali, lavorazione del latte prodotto. Durante l’alpeggio gli animali, in genere, vengono suddivisi tra le malghe di bassa quota, quelle di alta quota e le baite. Ogni montagna destinata ad alpeggio conserva queste tappe di risalita per ottimizzare l’utilizzo prativo dei terreni pascolivi.

L’alpeggio, rientra, latu sensu, nell’attività zootecnica nell’accezione riconducibile all’allevamento degli animali [35]: essa, tuttavia, rappresenta una tipica espressione della pastorizia caratterizzata dall’allevamento del bestiame in ambiente naturale ovvero con il pascolo allo stato brado. Nell’alpeggio si viene a creare una forte simbiosi che si instaura tra gli animali ed il pastore(i) che si occupa di loro a tempo pieno, non limitandosi ad accompagnarli e a seguirli nelle aree di pascolo, ma fornendo loro protezione dai predatori (con il tradizionale ausilio dei cani), cure sanitarie e assistenza varia[36]. Una particolarità di questo tipo di allevamento, (segnatamente nell’alpeggio) è che la persona che si occupa degli animali è generalmente la stessa che provvede alla trasformazione del prodotto (dalla tosatura della lana alla produzione dei derivati dal latte).

Allo sviluppo ed alla valorizzazione degli alpeggi in generale, si è dedicata la disciplina dell’alpicoltura quale settore scientifico che studia le caratteristiche di funzionamento delle aziende pastorali in montagna, negli aspetti agronomici, zootecnici ed economici, al fine di individuare le tecniche da adottare per migliorarne l’efficienza e la produttività[37]. In particolare, costituiscono oggetto di studio dell’alpicoltura le modalità di sviluppo e le esigenze delle essenze foraggere, gli effetti della permanenza in montagna sullo sviluppo e sulla produttività del bestiame, le connessioni tecniche ed economiche tra le aziende zooteniche montane, dove il bestiame è allevato durante il periodo estivo e le aziende di fondo valle o di pianura, dove il bestiame trascorre il resto dell’anno [38].

Non va sottaciuto che l’alpicoltura, intesa quale disciplina agraria, è di genesi abbastanza recente. I metodi usati nel governo dei pascoli alpini, nella selezione dei terreni più adatti, nella realizzazione di opere di miglioramento sono obiettivi rimasti a lungo arretrati sino al XIX secolo[39]. A queste carenze, soprattutto dopo i conflitti mondiali, hanno pesantemente contribuito il diffuso spopolamento dei territori montani e la mancata ricomposizione fondiaria, sopra segnalati, che hanno gravemente ridotto la possibilità dell’alpicoltura, con riflessi negativi sia sul governo e la salvaguardia dei pascoli.[40]

Va, infatti, registrata una modesta attenzione negli interventi di politica amministrativa e legislativa a favore della promozione e valorizzazione dei pascoli montani, per troppo lungo tempo limitati a meri interventi finanziari e di spesa [41], nel quadro di una politica agraria alquanto frammentata [42]. Sotto il profilo istituzionale, purtroppo, scarso effetto hanno contribuito nel tempo, sia la costituzione delle Comunità montane (L. n. 1102 del 3 dicembre 1971 e le disposizioni integrative contenute nella L. n. 93 del 23 marzo 1981 e 97 del 31 gennaio 1994)[43] e neppure la direttiva 268/CEE del 28 aprile 1975 per gli interventi nelle aree agricole delle terre montane c.d. “svantaggiate”, pur recepita a livello nazionale con la L. n. 352 del 10 maggio 1976)[44]. Più utili contributi ha cercato di apportare la legislazione regionale[45].

Nonostante tali carenze per la salvaguardia e la protezione delle zone montane, che in Italia occupano circa il 40% della superficie agricolo-forestale, l’alpeggio, quale modello contrattuale antichissimo, e pur non senza difficoltà, non ha mai smesso di essere diffusamente praticato, sia nelle aree alpine che in quelle appenniniche[46]. Lungi dal rappresentare un ambito economico marginale, l’alpeggio ha costituito per molte comunità alpine il bene più prezioso, da gestire direttamente o da affittare a qualificati imprenditori in grado di garantire, da un lato, prodotti di pregio e di qualità, dall’altro lato, di assicurare una razionale utilizzazione del pascolo e conseguentemente una importante funzione di salvaguardia e tutela ambientale del territorio.

Nel diritto vigente, l’alpeggio prende il nome di “affitto delle montagne” ed assume regolamentazioni diverse nelle varie località con contenuti funzionali alle esigenze pascolive[47].

L’alpeggio è prevalentemente oggetto di un contratto di affitto di diritti di pascolo sia su proprietà private ma anche su proprietà pubbliche.

In alcuni casi si tratta di terreni di uso civico che sono un residuo di antiche forme di diritti collettivi [48]. Attualmente sono per lo più diritti spettanti alla proprietà altrui (sia pubblica sia privata) ad una collettività di persone. Possono essere cittadini di un Comune che hanno diritto di pascolare il gregge in un determinato possedimento (c.d. diritto di pascolo, o di tagliare l’erba (diritto di erbatico), o di fare legna in un bosco (diritto di legnatico), o di fare pesca in una zona fluviale-lacustre. Sono più numerose di quanto comunemente si crede le terre che, a titolo di antiche derivazioni, vengono sottoposte a diritti collettivi di diretto o indiretto riferimento pubblicistico[49]. Si fa distinzione tra veri e propri diritti di uso civico, così come definiti già dalla vecchia legge 16 giugno 1927 n. 1766 [50], che riguardano diritti delle popolazioni su proprietà altrui (sottoposti ad una normativa e a un’amministrazione di carattere pubblicistico) e i beni civici o di demanio universale che sono formati da terre di proprietà collettiva o di una comunità che sono affidati alla generalità degli utenti.[51]

In questi casi, l’alpeggio viene ad essere condotto su terreni che rientrano nella locuzione dei “demani civici”. Alla luce del combinato disposto degli artt. 1 e 11 della citata L. n. 1766 del 1927, i terreni pervenuti ai Comuni, quali successori delle antiche comunità, i terreni posseduti dai Comuni, frazioni, università ed altre associazioni agrarie, comunque denominate, su cui sono esercitati antichi usi civici, vanno a costituire il c.d. demanio civico [52]. Si tratta comunque di proprietà collettive, in cui la titolarità sostanziale dei beni appartiene alla collettività, anche se nelle intestazioni catastali, i terreni risultino dei Comuni in quanto enti esponenziali delle collettività locali interessate. La peculiarità di tali aree, derivante da specifici vincoli di destinazione alle attività agro-silvo-pastorali (pascolo, legna e frutti del territorio) ha garantito il mantenimento di caratteristiche naturalistiche ed ambientali ed anche il consolidarsi di un valore identitario di determinati luoghi. [53]

L’utilizzazione di tali beni collettivi agro-silvo-pastorali è stata recentemente rivisitata e oltremodo rivalutata dalla L. 20 novembre 2017 n. 168 recante “Norme in materia di domini collettivi”, che ha sancito il dovuto riconoscimento degli assetti collettivi fondiari, più correttamente denominati “domini collettivi” e dei diritti dei cittadini di uso e di gestione dei beni di godimento collettivo, con impegno da parte dello Stato di conseguente tutela e valorizzazione degli stessi. [54] Tale novella legislativa potrà portare ad avere positive ricadute anche per gli alpeggi, in quanto l’art. 2 di tale legge ha avuto modo di precisare che i “domini collettivi” costituiscono strutture “eco-paesistiche del paesaggio agro-silvo-pastorale” funzionali “per la vita e lo sviluppo delle collettività locali e degli aventi diritto”. In particolare, il demanio, o meglio il patrimonio civico dianzi ricordato, che può costituire oggetto di alpeggio, è costituito dai beni collettivi espressamente riconosciuti dall’art. 3 della legge n. 168/2017, in quanto oggetto di una proprietà collettiva intergenerazionale[55].

A seconda delle varie esigenze geografiche e territoriali, si sono sperimentate forme giuridiche, economiche organizzative oltremodo diverse[56].

Sotto il profilo dei modelli giuridici, si sono registrati sia formule organizzative di carattere privatistico (consorzi, cooperative, associazioni[57]) sia (anche se più raramente) interventi e consorterie di matrice pubblicistica da parte di Comuni e Unioni di Comuni[58].

Per quanto riguarda i sistemi di conduzione, oltre al tradizionale contratto stagionale di affitto[59], assai diffuse ed utilizzate sono le concessioni prevalentemente in presenza di terreni di proprietà pubblica comunale[60]. La costanza dell’utilizzo dell’alpeggio ha portato il legislatore a rivisitare il modello contrattuale nell’art. 52 della legge sui contratti agrari 3 maggio 1982 n. 203 s.m.i. ( c.d. testo unico) disciplinando modalità e durata di tali contratti tipici dei terreni montani destinati ad alpeggio. [61]

Va peraltro evidenziato che un tempo l’alpeggio veniva gestito in base alla personale sensibilità ed esperienza del pastore-allevatore, attualmente tali operazioni rispondono a vere e proprie doti imprenditoriali, perché gestire l’alpe e l’alpeggio richiede competenze professionali non dissimili dal condurre una piccola azienda agricola in quota[62].

5. L’importanza del pascolo e gli effetti positivi di sostenibilità ambientale nelle aree montane e nel presidio del territorio

Anche alla luce delle pagine che precedono, risulta evidente che la presenza dell’uomo e dei suoi animali tramite la pastorizia ha, da sempre, svolto un rilevante ruolo multifunzionale nelle aree montane. In tale contesto, una funzione storica è stata svolta dalla diffusa presenza del pascolo quale forma di attività agricola estensiva su distesa erbosa o cespugliata, generalmente utilizzata nella pastorizia proprio per il nutrimento degli animali erbivori (ovini, caprini, bovini) riuniti in mandrie e/o greggi. Il pascolo, infatti, (dal latino pascuum pascere condurre al pascolo) è un terreno coperto di erbe spontanee che non vengono falciate, bensì riservate direttamente all’alimentazione del bestiame in loco.[63]

Il profilo della sostenibilità ambientale del pascolo, va dal recupero di fonti alimentari per il bestiame altrimenti inutilizzabili, all’ottenimento di prodotti trasformati di pregio (formaggio e burro e latticini vari), alla tutela della biodiversità, attraverso l’allevamento di razze locali. In queste diverse valenze, il pascolo in alpeggio è venuto, progressivamente ad assumere un ruolo, a volte anche inconsapevole, di tutela dell’ambiente, del territorio e del paesaggio montano nel suo insieme in funzione ecologica[64].

Sarà sufficiente evidenziare come la scarsa utilizzazione delle superfici pascolive per abbandono o per sottocaricamento ha determinato, nel tempo in molti casi, la variazione e l’alterazione degli sviluppi floristici degli alpeggi con decadimento della qualità dei pascoli per diffusione di specie erbacee poco appetite e a basso valore nutritivo e la diffusione di vaste aree cespugliate (e formazioni boschive).

Il progressivo peggioramento della qualità dei pascoli, sia in termini di valore nutritivo della copertura vegetale sia in termini di pascolabilità, ha, a sua volta, disincentivato l’utilizzo di taluni alpeggi, con perdita per le aziende zootecniche di una importante risorsa alimentare e contrazione delle produzioni casearie anche di pregio. Inoltre, la sospensione e diradazione degli interventi antropici sul territorio montano, in particolare per quanto riguarda la regimazione delle acque, ha spesso favorito l’alterazione dell’equilibrio idrogeologico delle montagne, innescando, in alcuni casi, gravi fenomeni di dissesto. L’alpeggio, in questa sua dimensione, svolge un’importante funzione di presidio del territorio montano e di prevenzione delle calamità naturali (valanghe, frane, incendi)[65]. È un dato di oggettiva rilevazione che i pascoli abbandonati o non utilizzati regrediscono velocemente ad aree cespugliate e, successivamente, se la quota lo consente, il bosco prende il sopravvento coprendo vaste aree dell’alpe[66].

Per queste diverse motivazioni, incentivare e promuovere la presenza dell’uomo e delle mandrie sugli alpeggi rappresenta un obiettivo fondamentale per la conservazione e la valorizzazione dei territori montani in funzione della concreta attuazione del principio dello sviluppo sostenibile o meglio della sostenibilità ambientale[67] .

Tale esigenza appare oggi tanto più vera ed impellente anche in relazione alla recente modifica dell’art. 9 della nostra Costituzione (avvenuta con legge costituzionale n. 1 del 2022) che, innovativamente, ha stabilito che “la Repubblica tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi anche nell’interesse delle future generazioni”.[68] Il richiamo costituzionale, appare tanto più vero nel caso della transumanza e dell’alpeggio che si reggono proprio sulla reiterazione e la riproposizione di attività motorie e di usi tradizionali non meno che di saperi che si perpetuano solo grazie alla trasmissione orale tra generazioni[69].

L’ambiente montano, per sua stessa vocazione, costituisce un importante spazio che, nel crescente timore di un inesorabile degrado degli habitat naturali, ha formato oggetto di particolare attenzione nella politica ambientale della UE. Infatti, come noto, già, con la direttiva 92/43/CEE del Consiglio delle Comunità europee del 21 maggio 1992, denominata Direttiva Habitat, il legislatore europeo aveva inteso garantire la salvaguardia della biodiversità mediante la conservazione degli habitat naturali (quelli meno modificati dall’intervento umano) e seminaturali (quali appunto le aree agro-silvo-forestali). [70]

Accanto a queste direttive europee per il sostegno e la promozione di queste aree marginali alpine e relative economie è intervenuto anche il diritto internazionale con l’importante Convenzione delle Alpi che ha, in uno scenario più ampio, inteso evidenziare l’importanza di costruire sinergie comuni tra gli Stati per favorire il ripopolamento e la sostenibilità delle zone alpine. [71]

In questa ottica, non può essere sottaciuto che l’alpicoltura odierna è chiamata a svolgere un ruolo importante nella tutela del paesaggio e nella conservazione del patrimonio culturale alpino nel più ampio quadro dell’attenzione al paesaggio agrario. [72]

Il corretto e costante mantenimento delle aree a pascolo costituisce garanzia di conservazione della cosiddetta biodiversità vegetale ma anche della diversità paesaggistica e contribuisce alla più adeguata salvaguardia delle aree interne e della montagna nel perseguimento della sostenibilità ambientale e del presidio del territorio [73].

La diffusione della pastorizia nei territori alpini ed appenninici è destinata sempre più a rappresentare anche un prezioso stimolo per un nuovo spirito di coesione sociale delle popolazioni locali. Alcuni segnali incoraggianti provengono dai diversi versanti delle Alpi, indotti dalla più generale crisi economica globale, per un “ritorno” dei giovani all’agricoltura montana [74].

  1. Professore emerito di diritto amministrativo nell’Università degli Studi di Torino.
  2. Su tale fenomeno rimangono tuttora importanti i dati e le conclusioni dell’inchiesta del Comitato della geografia e dell’Istituto Nazionale di economia agraria: INEA, Lo spopolamento montano in Italia, 8 voll., Roma, 1932-38; nonchè M. Fulcheri, Lo spopolamento delle valli, Ufficio della Montagna, Cuneo, 1930; R. Toniolo, Per uno studio sistematico delle vallate italiane, in Atti del XI congresso geografico italiano, Napoli, 1930, vol. II; S. Jacini, Nuovi lineamenti di una politica dell’emigrazione, in Idea, 1945, I, n. 1, pp. 6 ss; S. Sorgnoni, Ripercussioni demografiche e sociali della emigrazione italiana, in Prev. soc., 1956, pp. 1273 ss; v. inoltre C. Barberis, L’esodo: conseguenze demografiche e sociali, in L’esodo rurale e lo spopolamento della montagna nella società contemporanea. Atti del convegno italo-svizzero, Roma, UNESCO, 24-25 maggio 1965, Milano, 1966, pp. 25 ss; G. Tagliacarne, Spopolamento montano ed esodo rurale: misure e prospettive, ivi, 6 ss; tra i giuristi, con particolare attenzione, S. Cassese, Aspetti giuridici della legislazione sulla montagna, in L’esodo rurale e lo spopolamento della montagna nella società contemporanea, Milano, 1966; E. Martinengo, Montagna oggi e domani, Torino, 1968; nonché gli Atti del Convegno internazionale Cuneo 1-3 giugno 1984 su Migrazioni attraverso le Alpi occidentali, Regione Piemonte, 1988 con vari contributi. Un quadro statistico desolante dello spopolamento delle aree montane, ancorchè datato e riferito agli anni 1910-1961, si trova in M. Tofani, L’ambiente economico e sociale, nel volume L’Italia forestale nel centenario della fondazione della scuola di Vollombrosa, Accademia Italiana di Scienze forestali, Firenze, 1970; per dati più aggiornati Convenzione delle Alpi (a cura di), Cambiamenti demografici nelle Alpi. Relazione sullo stato delle Alpi, Innsbruck, 2015, Segretariato permanente della Convenzione delle Alpi.
  3. Sulle problematiche presenti nelle zone montane e sulle ricadute e relativi profili giuridici, già sin dalle previsioni contenute nell’art. 44 della Costituzione, a mero titolo indicativo: già C. Desideri, Montagna, in Enc. dir., Milano, 1970, XXVI, pp. 883 ss; E. Favara, Territori montani, in Nov. Dig. it., Torino, 1974, XIX, pp. 176 ss; quindi F. Merloni, Montagna, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1990, XX, ad vocem; M. Tamponi, Zone montane (proprietà delle), in Enc. giur. Treccani. Aggiorn., Roma, 1995, pp. 5 ss; nonchè A. Crosetti, Il difficile governo dei territori montani in Italia: percorsi e sviluppi normativi, in Riv. giur. ed., 2017, 4, pp. 177-220; per approcci storiografici il volume collettaneo La Maison de Savoie et les Alpes: emprise, innovation, identification XV-XIX e siècle, Chambery, Savoie Mont Blanc, 2015; per i profili antropologici, a vario titolo: P.P. Viazzo, Comunità alpine. Ambiente, popolazione, struttura sociale nelle Alpi dal XVI secolo a oggi, Bologna, Il Mulino, 1990; C. Arnoldi, Tristi montagne. Guida ai malesseri alpini, Scarmagno, 2006; per altri profili problematici delle aree montane già R. Almagià, Montagna, in Enc. it. Treccani, Roma, 1934, XXIII, pp. 711 ss.
  4. Il numero dei capi di bestiame è venuto sensibilmente aumentando, rispetto agli anni Settanta, il numero di pecore ha registrato un aumento del 40% non solo nelle valli alpine ma anche in quelle appenniniche. Per dati informativi: M. Verona, Dove vai pastore? Pascolo vagante e transumanza nelle Alpi occidentali dagli albori al XX secolo, Ivrea, Priuli Verlucca, 2006.
  5. L’economia circolare ha avuto da tempo, riconoscimenti autorevoli in sede scientifica, ma anche significative traduzioni in sede giuridica e normativa quale strumento utile per la difesa dell’ambiente naturale. Tra i contributi giuridici recenti: F. De Leonardis, Economia circolare. Saggio sui suoi tre diversi aspetti giuridici. Verso uno Stato circolare?, in Dir. amm., 2017, pp.163-207; Id., Il diritto dell’economia circolare e l’art. 41 Cost., in Riv. quadr. Dir. amb., 2020, pp. 1 ss; Id., Economia circolare (Diritto pubblico), in Dig. (Disc. pubbl.)Aggiornamento,Torino, 2021: Id. (a cura di), Studi in tema di economia circolare, Università di Macerata, 2015; R. Ferrara, Brown economy, green economy, blue economy: l’economia circolare e il diritto dell’ambiente, ivi quindi in Il Piemonte delle autonome, n. 2/2018; A. Muratori, La revisione della parte quarta del d. lgs n. 152/2006 secondo il Governo e l’economia circolare, in Ambiente e sviluppo, n. 2, 2020, p. 381; da ultimi A. Lepore, F. De Leonardis, A. Rughetti, G. Gringoli, A. Pomella, L’evoluzione dell’economia circolare: analisi e prospettive, Astrid, febbraio 2023. Per un quadro più ampio: F. Capria. U. Mattei, Ecologia del diritto, Aboca, Sansepolcro, 2017, passim.
  6. Il termine transumanza, sotto il profilo etimologico, deriva dal verbo transumare, ossia “attraversare”, “transitare sul suolo”. Il verbo è costituito con l’accostamento del prefisso latino trans nel significato di “al di là” “attraverso” e della parola latina humus che vuol dire “suolo/terreno”. V. voce Transumanza, in Vocabolario Treccani on line,
  7. Si possono distinguere due grandi tipi di transumanza quella orizzontale, in regioni piane o pianeggianti, e quella verticale, tipica delle regioni montane.
  8. Affonda le sue radici nella preistoria ed è diffusa in tutto il mondo. Ne abbiamo riprova in numerose incisioni rupestri presenti nel nostro arco alpino dalla Valcamonica alle Alpi Marittime nella zona del Monte Bego con raffigurazioni di armenti (sia bovini che caprini) e di recinti per il ricovero. Nella letteratura antica ci sono espliciti riferimenti già in Marco Terenzio Varrone (georgico latino del I secolo a.C. nella sua opera didascalica De re rustica) che riferisce già l’usanza di portare le greggi di pecore dalla Puglia verso il Sannio durante il periodo estivo per evidente convenienza dei pascoli. Anche Virgilio nelle Georgiche, Plinio il Giovane e Columella hanno rilevato la descrizione di pastori che conducevano greggi di pecore in pascoli molto distanti. Ulteriori dati in G. Luzzato, Pastorizia, in Enc. it. Treccani, Roma, 1935, XXVI, pp. 485 ss; cui adde A. Saltini, Storia delle scienze agrarie, Roma, 1984, vol. I, pp. 101-118.
  9. I tratturi erano inizialmente sentieri assai larghi, forgiati dal progressivo passaggio delle mandrie che seguivano le curve di livello sfruttando le pendenze più lievi. Vi erano poi delle diramazioni longitudinali (i tratturelli) e trasversali (i bracci). Il viaggio durava diversi giorni, anzi la monticazione eran tarata sui tempi di scioglimento delle nevi e sulla disponibilità della nascita di nuova erba primaverile molto apprezzata per le qualità organolettiche per la produzione casearia. Ai pastori erano ben note soste in luoghi prestabiliti, noti come riposi o “stazioni di posta”. Ulteriori riferimenti in A. Pellicano, Geografia e storia dei tratturi del Mezzogiorno. Ipotesi di recupero funzionale di una risorsa antica, Aracne, 2007, pp. 20 ss.
  10. Gli usi e le consuetudini, intesi quali comportamento uniforme e costante, praticato nella diffusa convinzione che corrisponda ad un obbligo giuridico, hanno, da sempre, avuto rilevanza nelle fonti della regolamentazione di comportamenti locali. A tale rilevanza, non solo nel diritto privato, ma segnatamente anche nel diritto pubblico hanno dedicato attenzione importanti contributi, tra i molti: v. già A. Longo, Della consuetudine come fonte di diritto pubblico, Palermo, 1892; O. Ranelletti, La consuetudine come fonte del diritto pubblico interno, in Riv. dir. pubbl., 1913, V, pp. 30 ss; M. Reglade, Le coutume en droit public intern, Bordeuax, 1919; quindi N. Bobbio, La consuetudine come fatto normativo, Padova, 1942; G. Miele, Profilo della consuetudine nel sistema delle fonti del diritto interno, in Stato e diritto,1943, 20 ss; S. Romano, Consuetudine, in Frammenti di un dizionario giuridico, Milano, 1946, ad vocem; M. S. Giannini, Sulla consuetudine, in Riv. int. fil. dir., 1947, pp. 10 ss; Mori-Checcucci, Gli usi normativi, Milano, 1948; G. Ferrari, Introduzione ad uno studio sul diritto pubblico consuetudinario, Milano, 1950; per i profili privatistici: E. Balossini, Consuetudini, usi, pratiche e regole del costume, Milano, 1958; Id., La rilevanza giuridica delle regole sociali, Milano, 1965; A. Pavone La Rosa, Consuetudine (usi normativi e negoziali), in Enc. dir., Milano, 1961, IX, pp. 513 ss; C. Esposito, Consuetudine, ivi, IX, pp. 472 ss; L. Bobbio, Consuetudine, ivi, IX, pp. 426 ss; C. E. Balossini, Usi (teoria degli), in Noviss. Dig. it., Torino, 1975, XX, pp. 200 ss; A. Pizzorusso, Consuetudine, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1988, VIII, ad vocem.; da ultimo G. De Muro, Consuetudine, in Dizionario di diritto pubblico diretto da S. Cassese, Milano, 2006, II, pp. 1363 ss; da ultimo anche per una prospettiva storicistica M. Caravale, Legge, consuetudine, tradizione. Note sulla dottrina tra Medioevo e prima età moderna, Napoli, 2023. Per un riscontro di tali profili consuetudinari nell’alpeggio v. già G. Pesce, I contratti consuetudinari per l’alpeggio o del bestiame sul Monte Baldo, in Arch. Vittorio Scialoja, 1937, IV, pp. 52 ss.
  11. Sulla rilevanza del termine temporale nel negozio giuridico a vario titolo: già L. Ramponi, La determinazione del tempo nei contratti, in Arch. giur., 1890; quindi E. Russo, Il termine nel negozio giuridico, Milano, 1973; E. Saracini, Il termine e le sue funzioni, Milano, 1979.
  12. Così nella letteratura francese: già Transumance et le bèboisement dans les Alpes, recostitution su sol forestier, par le M. De Saporta, in Les Alpes francaises, par Albert Falsan, Paris, 1893, pp. 326 ss; quindi J. C. Duclos, La transhumance, modèle de complèmentaritè entre la montagne et la plaine, in Histoire des Alpes, 1998, 3, pp. 179-187.
  13. Come ben noto nella sua struttura essenziale, che non si differenzia dalla tradizionale permuta, il baratto è il contratto (anche solo verbale) a prestazioni corrispettive a titolo oneroso, consensuale, commutativo di natura traslativa ed avente ad oggetto la fornitura di beni o servizi a fronte della corresponsione di altri beni o servizi. Più propriamente nel baratto si ha lo scambio tra cosa e cosa, cioè tra bene di natura ed altro bene di natura. V. art. 1552 c.c. in dottrina per tutti v. A. Trabucchi, Istituzioni di diritto civile, XX ediz., Padova, 1988, pp. 756 ss; per dati sull’utilizzo anche risalenti: F. Giannatasio, Permuta (dir. vigente), in Nov. Dig. it., Torino, 1965, XII, pp. 996 ss; G. Ricca, Permuta (Dir. privato), in Enc. dir., Milano, 1983, XXXIII, pp. 125 ss; O. Cagnasso, Permuta, in Trattato di dir. civ., a cura di P. Rescigno, Torino, 1984, XI, tomo, III, pp. 381 ss ed ivi ulteriori richiami bibliografici. L’istituto è stato da sempre oltremodo utilizzato nei rapporti negoziali tradizionali del mondo agricolo e contadino.
  14. L’istituto del compascolo, di origini antichissime, era già ben noto nel diritto romano, inteso come rapporto di diritto privato che si stabiliva quando due soggetti potevano esercitare un diritto di pascolo su un terreno comune perché potesse servire al bestiame di entrambi i fondi (Dig., VIII, 5 cfr. B. Brugi, Dei pascoli comuni nel diritto romano, germanico e italiano, in appendice al Commentario delle Pandette di F. Gluck, Milano, 1900, pp. 307 ss ). Il pascolo reciproco o compascolo nel diritto moderno è una forma di comunione di erbe da pascolo fra proprietari (o affittuari) di un fondo nella stessa zona, per cui a ciascuno di essi è consentito liberamente il pascolo del proprio bestiame sul fondo altrui per il tempo in cui i fondi non sono coltivati (sulla diffusione di tale modello contrattuale nel mondo agrario v. già F. Bassanelli, Affitto e contratto di pascolo, in Riv. dir. agr., 1942, II, pp. 27 ss; C. Frassoldati, Erbe per il pascolo, in Nov. Dig. it., Torino, 1960, VI, pp. 649 ss; F. Colasurdo, Natura giuridica del contratto di pascipascolo, in Giur. agr. it., 1965, pp. 140 ss; A. Moschella, Pascipascolo, in Enc. dir., Milano, 1982, XXX, pp. 27 ss). Il modello è quello esattamente utilizzato dai pastori nel periodo invernale della monticazione in pianura.
  15. L’effetto positivo del pascolo era ed è esplicito nel fatto che le deiezioni caprine (letame o liquami), possono fornire molti macro e micro elementi positivi per la coltivazione dei terreni agricoli, segnatamente azoto utile per la crescita delle piante.
  16. Il diritto pattizio è l’incontro delle volontà di uno o più soggetti volto a regolare una determinata sfera di rapporti giuridici ma anche economici, già presente fin dal diritto romano (cfr. G. Manenti, Contributo alla teoria generale dei pacta, in Studi senesi, VII-VIII, (1890-91), pp. 20 ss; G. Paturini, Pactes et contracts, in Rev. gen. du droit, XXXVII-XL, 1913-16; P. Bonfante, Sui contractus e sui pacta, in Scritti giuridici, Torino, 1924, III, pp. 135 ss; V. Arangio Ruiz, P. Sciuto, Patto, in Enc. it.. Treccani, Roma, 1935; per l’applicazione nel diritto moderno: G. Giorgi, Teoria delle obbligazioni nel diritto moderno italiano, Firenze, 1924-1929, VII ediz.). Nei giuristi è consolidata la distinzione dal diritto consuetudinario che, a differenza del diritto dei patti, ha carattere cedevole. Molta incidenza su tali accordi pattizi, come dianzi rilevato, hanno gli usi locali, che, anche in deroga alla tipicità dei contratti agrari (già sostenuta in passato da G. Carrara, I contratti agrari, in Trattato di dir. priv., a cura di F. Vassalli, Torino, 1959), tanto da portare a compilare una Raccolta sistematica degli usi agrari, a cura di A. Carrozza – E. Bassanelli, Bologna, 1985.
  17. A riprova di tale rilevanza nell’economia e nella società, è stato calcolato che, nella metà del XV secolo, non meno di tre milioni di ovini e tremila pastori percorressero annualmente i tratturi e che l’impatto che la pastorizia esercitava era tale da fornire sussistenza, direttamente o indirettamente, a metà della popolazione abruzzese, cfr. L. Piccioni, La transumanza nell’Abruzzo montano tra Seicento e Settecento, Cerchio, L’Aquila, 1997, pp. 30 ss.
  18. Per la rilevanza della Convenzione UNESCO del 1972 a tutela del patrimonio culturale e naturale mondiale v. W. Cortese, Il patrimonio culturale. Profili normativi, Padova, 2007, p. 102 ss, e attualmente i diversi contributi della Giornata di studi di Roma del 13 settembre 2022 promossa dal CNR nel 50° della Convenzione ed il recente convegno, Patrimonio dell’umanità. 50 anni dalla Convenzione Unesco: prospettive e riflessioni, Bologna, 2022.
  19. Sarà sufficiente sul ruolo e la rilevanza dell’UNESCO, quale organizzazione internazionale, rinviare a contributi specifici: già A. Tamborra, UNESCO, in Enc. it. Treccani Appendice II, Roma, 1949; G. Thomas, L’UNESCO, Paris, 1952; Arscott, The U. N. Educational, Scientifc and Cultural Organisation, Manchester, 1957 ed ivi ulteriori riferimenti bibliografici; per i profili giuridici G. Cansacchi, UNESCO, in Nov. Dig. it., Torino, 1975, XX, pp. 5 ss.
  20. La letteratura in argomento è ormai molto fitta, anche per i profili sociologici ed antropologici, v. a titolo meramente indicativo: per dati risalenti L. Ollivero, Una consuetudine pastorizia delle Alpi piemontesi, in Archivio Vittorio Scialoja, 1934, I, pp. 172 ss; N. Tortorelli, Pastorizia, Roma, 1939; G. Pullè, La pastorizia transumante nell’Italia centrale, Milano, 1940; A. Pracchi, Il fenomeno della transumanza sul versante italiano delle Alpi, Como, 1943; N. Franciosa, La transumanza nell’Appennino, centro-meridionale, Napoli, 1951; quindi: D. Barsanti, Allevamento e transumanza in Toscana. Pastori, bestiame e pascoli nei secoli XV-XIX, Firenze, 1987; AA. VV., Pecore. Percorsi di cultura alpina, Torino, Museo della montagna, 1992; R. Colapietra, Transumanza e società, L’Aquila, 1993; AA.VV., Greggi, mandrie e pastori nelle Alpi occidentali (secoli XII-XX), Cuneo-Roccadebaldi, 1996; E. Petrocelli (a cura di), La civiltà della transumanza. Storia, cultura e valorizzazione dei tratturi e del mondo pastorale in Abruzzo, Molise, Puglia e Basilicata, Cosmo, 1999; M. Aime, S. Allovio, P. P. Viazzo, Sapersi muovere. Pastori transumanti di Roaschia, Roma, Maltemi, 2001; D. Ivone, La transumanza. Pastori, greggi, tratturi, Torino, 2002; L. Viero, La vera transumanza. Mondo della malga e altro, Monselice, 2005; W. Capezzali, La transumanza nella storia e nella bibliografia, in Tratturi e transumanza: arte e cultura, L’Aquila, 2008, 65 ss; da ultimi K. Ballacchino e L. Bindi (a cura di), Cammini di uomini. Cammini di animali. Transumanze, pastoralismi e patrimoni bio-culturali, Campobasso, Ed. Il bene comune, 2017; M. Corti (a cura di), La transumanza tra storia e presente. Studi sulla transumanza e l’alpeggio, s.l., 2019; M. Sentieri, L’ultima transumanza. Dagli Appennini appunti per il domani, Roma, Rubettino, 2021.
  21. Il termine deriva dal latino “traditio dal verbo tradere: consegnare, trasmettere, antropologicamente intesa come la trasmissione nel tempo all’interno di un gruppo umano della memoria di eventi sociali, storici, economici, delle usanze, delle ritualità. Fin dall’inizio del Novecento studiosi come Giuseppe Pitrè, Ernesto de Martino, Alberto Maria Cirese hanno operato importanti ricerche su usi, costumi, dialetti, cultura materiale, consuetudini di diritto, pratiche religiose, canti, poesie, musiche, tradizioni orali ed vari altri profili i quella comunemente percepita come “cultura popolare”. Oltremodo utile ancora lo studio di G. Pitrè, Bibliografia delle tradizioni popolari d’Italia, Torino-Palermo, 1894; recentemente R. Guenon, Scritti (1910-1938), A. Grossato (a cura di), La tradizione e le tradizioni, Edizioni Mediterranee, 2008.
  22. Il difficile rapporto tra ambiente ed economia e la relativa sostenibilità è stato oggetto di puntuali contributi critici, tra i quali: G. Panella, Economia e politiche dell’ambiente, Roma, 2002; L. Musu, Introduzione all’economia dell’ambiente, Bologna, 2003; G. Bologna, Manuale della sostenibilità, Milano, 2005; M. Fontana, La valutazione economica dell’ambiente, Milano, 2005; T. Tietenberg, Economia dell’ambiente, Milano, 2006.
  23. Come ben evidenziato da M. Aime, Alpeggi a fontina, alpeggi a toma: tra Valle d’Aota e Alpi marittime, in La Ricerca Folkloristica, 2001, n. 43, pp. 63-70. Tra i molti può essere citato il Castelmagno formaggio italiano di alpeggio di origine protetta (DOP) della Val Maira in Provincia di Cuneo. Su cui v. M. Ferrari, C. Eandi, E. Bernardi, Alla corte di Re Castelmagno, Cuneo, 2000.
  24. Sulla genesi ed evoluzione dei beni demo-etno-antropologici già gli studi anticipatori di A. M. Cirese, Le discipline demoetnoantropologiche in Italia, Roma, 1991; per i profili giuridici: P. Clemente-I. Candeloro, I beni culturali demo-etno-antropologici, in Manuale dei beni culturali, a cura di N. Assini e P. Francalacci, Padova, 2000, pp. 191 ss; nonché per un più ampio inquadramento A. Crosetti, I “beni demo-etno-antropologici”: origine e parabola di una categoria di beni culturali, in Diritto e Società, 2014 n. 2, pp. 355-388 ed ivi ulteriori riferimenti bibliografici.
  25. Tali atteggiamenti e comportamenti hanno assunto rilevanza anche nella storia del folclore (dall’inglese folk e lore sapere, termine coniato nel 1840 dall’archeologo inglese W.J. Thoms) inteso come l’insieme delle tradizioni popolari di una regione, di un paese assai diffuse anche nel nostro Paese. Per tutti v. G. R. Corso, Folklore. Storia, obietto, metodo, bibliografia, Roma, 1923; segnatamente A. van Gennep, Le folclore, Paris, 1923; G. Toschi, Guida allo studio delle tradizioni popolari, Torino, 1962, nonché Il folclore. Tradizioni, vita e canti popolari, Touring Club Italiano, 1967; più recentemente F. Del, Cultura popolare in Italia, Bologna, 2018.
  26. Come noto i beni immateriali sono beni, per loro natura, che non presentano un’identificazione materiale, concreta e corporale, ma acquistano rilevanza per l’ordinamento giuridico in relazione all’applicazione concreta di essi, a cui viene riconosciuta tutela e legittimazione giuridica. Per la nozione di beni immateriali in generale nella dottrina v. per tutti v. P. Trimarchi, Istituzioni di diritto privato, Milano, 1995, X. ediz, 103 ss; nonché per dati risalenti già T. Ascarelli, Teoria della concorrenza e dei beni immateriali, Milano, 1960; Voltaggio Lucchesi, I beni immateriali, Milano, 1962; M. Are, Beni immateriali, in Enc. dir., Milano, 1959, V, pp. 251 ss.; più recentemente D. Messinetti, Beni immateriali, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1988, vol. V. pp. 1 ss.
  27. Il modello sul quale si è fondato l’assetto della normativa italiana sui beni culturali (sin dalle leggi del 1939, per approdare al citato T.U. del 1999 e poi confluire nel Codice dei beni culturali del 2004-2006), è stato il criterio della materialità, nel quale è costante sia il riferimento ad un substrato materiale, alla necessaria presenza di una res che sia in grado di compenetrare e trasmettere quei valori di testimonianza avente valore di civiltà. Su tale criterio della c.d “concezione reale”. P.F., Ferri, Beni culturali e ambientali nel diritto amministrativo, in Dig. (Disc. publ.), Torino, 1987, II, pp. 93 ss sottolineava che l’identità del bene culturale “ è connessa ad un valore ideale che risulta profondamente compenetrato dall’elemento materiale”; sul processo evolutivo: E. Follieri, Il diritto dei beni culturali e del paesaggio, I Beni culturali, Napoli, 2005, spec. p. 53; nonché A. Crosetti. D. Vaiano, Beni culturali e paesaggistici, Torino, 2018, V. ediz., spec. p. 37.
  28. In tal senso Cirese, Le discipline demoetnoantropologiche, cit., pp. 20 ss.
  29. Detta Convenzione ha assunto una importanza fondamentale ai fini di una effettiva evoluzione della problematica in questione, poiché in essa gli Stati contraenti “considerando la profonda interferenza fra il patrimonio culturale immateriale e il patrimonio culturale materiale”, si sono detti “consapevoli della volontà universale e delle preoccupazioni comuni relative alla salvaguardia del patrimonio culturale immateriale dell’umanità”. Essi, di conseguenza, “notando che tuttora non esiste alcun strumento per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale” sono addivenuti alla seguente definizione comprensiva di tale patrimonio: “le prassi, le rappresentazioni, le espressioni, le conoscenze, il know-how, come pure gli strumenti, gli oggetti, i manufatti e gli spazi culturali associati ad essi, che le comunità, i gruppi, gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale…trasmesso di generazione in generazione…costantemente ricreato dalle comunità, dai gruppi in risposta al loro ambiente, alla loro interazione con la natura ed alla loro storia, dando loro un senso d’identità e di continuità . Su tale Convenzione, a titolo generale, anche per le valenze antropologiche, M. Centini, Il patrimonio immateriale dell’UNESCO. Cultura e tradizioni dell’umanità, s.l., 2019, pp. 20 ss.
  30. In relazione a tale definizione gli Stati firmatari hanno assunto formali impegni di salvaguardia e cooperazione, anche attraverso l’adozione di “misure volte a garantire la vitalità del patrimonio culturale immateriale, ivi compresa l’identificazione, la documentazione, la ricerca, la preservazione, la promozione, la valorizzazione, la trasmissione, in particolare attraverso un’educazione formale ed informale.
  31. Per la evoluzione della nozione di bene culturale anche in senso immateriale: già M. S. Giannini, I beni culturali, in Riv. trim. dir. pubbl., 1976, pp. 3 ss; T. Alibrandi-P. Ferri, I beni culturali e ambientali, Milano, 2001, pp. 39 ss; M. Ainis-M. Fiorillo, I beni culturali e ambientali, in Trattato di diritto amministrativo a cura di S. Cassese, in Diritto amm. speciale, Milano, 2003, II, pp. 1067 ss; L. Casini, Beni culturali (dir. amm.), in Dizionario di diritto pubblico, a cura di S. Cassese, Milano, 2006, I, pp. 679 ss; A. L. Tarasco, Beni, patrimonio e attività culturali. Attori privati e autonomie territoriali, Napoli, 2004, pp. 11 ss; W. Cortese, Il patrimonio culturale, cit., pp. 102; da ultimi A. Bartolini, Beni culturali (diritto amministrativo), in Enc. dir. Annali, Milano, 2013, vol. VI, pp. 93 ss; L. Casini, Beni culturali, in Il Diritto. Enciclopedia giuridica del Sole 24 Ore, Milano, 2017, 2, pp. 483 ss; nonché per la rilevanza dell’immaterialità: G. Morbidelli, Il valore immateriale dei beni culturali, in Aedon, n. 1/2014; A. Gualdani, I beni culturali immateriali: una categoria in cerca di autonomia, in Aedon, n. 1/2019.
  32. Il testo di tale art. 7 bis ha, infatti, previsto che “Le espressioni di identità culturale collettiva contemplate nelle Convenzioni UNESCO per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale e per la protezione e la promozione delle diverse culture, adottate a Parigi, rispettivamente, il 3 novembre 2003 ed il 20 ottobre 2005, sono assoggettabili alle disposizioni del presente codice qualora siano rappresentate da testimonianze materiali e sussistano i presupposti e le condizioni di applicabilità dell’articolo 10”.
  33. Sulla valenza di tale novella dispositiva e relativi limiti: G. Severini, Disposizioni generali, in Codice dei beni culturali e del paesaggio, a cura di M. A. Sandulli, Milano, 2019, III ediz, spec. pp. 27 ss.
  34. In tal senso le attente considerazioni di G. Morbidelli-A. Bartolini, L’immateriale economico nei beni culturali, Torino, 2018; v. pure le osservazioni critiche di A. L. Tarasco, Diversità e immaterialità del patrimonio culturale nel diritto internazionale e comparato: analisi di una lacuna più solo italiana, in Foro amm. CdS, 2008, pp. 2261 ss..
  35. L’allevamento degli animali è considerato dall’art. 2135 cod. civ., come complementare dell’attività agricola anche se spesso è svincolato dal possesso del fondo agricolo, quale è il caso appunto dell’alpeggio; sul punto M. Bione, Allevamento del bestiame, fondo, impresa agricola, in Riv. dir. civ., 1968, I, pp. 537 ss; M.G. Giuffrida, Imprenditore agricolo, in Enc. dir., Milano, 1970, XX, pp. 553 ss. Sulla nozione di zootecnica nel linguaggio giuridico, segnatamente volta allo studio alimentare e genetico degli animali: R. Iannotta, Zootecnica, in Nov. Dig. it., Torino, 1975, XX, pp. 1208 ss; M. Carrà, Zootecnica, in Enc. dir., Milano, VI, pp. 122 ss; da ultimo F. Adornato, Agricoltura e zootecnica, in Enc. giur. Treccani. Aggiorn. XVI, Roma, 2008, ad vocem; per cenni sulle pregresse politiche a favore del patrimonio zootecnico e dell’allevamento: già A. Pirocchi, Per la tutela e l’incremento del patrimonio zootecnico, in L’Italia agricola e il suo avvenire, Piacenza, 1920, II; G. Fotticchia, La zootecnica italiana, in L’Italia agricola, 1929; L. Lenti, L’industria zootecnica italiana, in Annali d’Economia, gennaio, 1930.
  36. In tema v. M. Gubbiotti, Zootecnica e parchi. Costruire un futuro di sostenibilità ambientale e sociale per un nuovo rapporto tra persone, natura e animali, Roma, 2022. Un fattore di elevata criticità che ha reso l’alpeggio dei pastori oltremodo più difficile e rischioso è il ritorno spontaneo del lupo sulle Alpi e sul’Appennino. La presenza del predatore ha richiesto ai pastori più strette misure di protezione e sorveglianza degli animali, soprattutto durante le ore notturne, ma ha conseguentemente portato in evidenza seri problemi di convivenza per i danni agli armenti. A questi fini di tutela, da sempre, un ruolo fondamentale hanno avuto i cani da gregge su cui: V. Meneghetti, I cani da pastore, s.l, 2015; E. Torresani, Vita da pastore. Studio sulle origini dei cani da gregge alpini, Crepaldi Editore, 2020.
  37. I primi studi e contributi risalgono ai primi del ‘900: G. Spampani, Coltura montana. Con speciale riguardo all’alpicoltura, Milano, Hoepli, 1910; L. Piccioli, Note di alpicoltura, Firenze, 1913; Id., Alpicoltura. Economia alpestre. Prati e pascoli di monte. Governo dei pascoli, Enciclopedia agraria italiana, Torino, Utet, 1923; L. Gori Montanelli, Selvicoltura e alpicoltura, Faenza, 1939; L. Vezzani, Verso una nuova alpicoltura, Torino, Sten, 1944; E. Bernardini, Nozioni di selvicoltura e alpicoltura, Bologna, 1963, solo recentemente la disciplina si è fortemente evoluta ed aggiornata anche in funzione ambientale-territoriale.
  38. In Italia l’alpeggio si svolge tra un’altitudine minima di 600 m s.l.m. e una massima di 2500-2700, ha una durata di circa 40-50 giorni nelle zone alpine e fino a 120 giorni nell’area appenninica.
  39. Un particolare impulso agli studi sulla flora e l’ecologia delle piante foraggere fu dato dai Giardini botanici alpini (quale ad esempio in Italia Chanousia al Piccolo San Bernardo).
  40. Su queste carenze sia consentito il rinvio a A. Crosetti, Abbandono dei terreni rurali e associazionismo fondiario. in Mondi montani da governare a cura di R. Louvin (Collana Diritto e ambiente), Milano, 2017, pp. 57 ss; Id., Il difficile governo dei territori montani in Italia: percorsi e sviluppi normativi, cit., pp. 220.
  41. L’interesse pubblico alla conservazione e valorizzazione dei pascoli montani ha sviluppato, nel tempo, vari provvedimenti legislativi che hanno trattato, direttamente o indirettamente, dell’alpeggio. Si è trattato prevalentemente di normativa di sostegno tecnico e finanziario e di funzioni di controllo e di vigilanza tecnico amministrativa, esercitate un tempo dal Ministero dell’Agricoltura e passate con il decentramento alle Regioni. Sarà sufficiente citare nel tempo la legge organica sulla produzione zootecnica (29 giugno 1929 n. 1366) che aveva già previsto possibili contributi dello Stato per incrementare e migliorare la produzione bovina e il R.D. 31 gennaio 1929 n. 200 che aveva autorizzato la costituzione di consorzi per le stazioni di alpeggio. Infine con L. 9 aprile 1990 n. 87 era stato costituito presso il Ministero delle risorse agricole un fondo per la ristrutturazione e il risanamento del settore zootenico, al fine di erogare finanziamenti in conto capitale o contributi su mutui a favore delle imprese di allevamento, produzione, trasformazione commercializzazione dei prodotti zootecnici o di prodotti derivanti dall’allevamento degli animali. Ulteriori dati in M. Athena Lorizio, Alpeggio, in Digesto. Leggi d’Italia, 1987, ad vocem.
  42. La storia politico-amministrativa dell’agricoltura in Italia è in gran parte da riscrivere, avendo avuto il fattore politico, nel governo e nella gestione amministrativa del settore, un’importanza enorme ma assolutamente inadeguato. A conferma di queste lacune vi sono i rari contributi già di V. Presutti, L’Amministrazione pubblica dell’agricoltura, in V.E. Orlando (a cura di), Trattato di diritto amministrativo, Milano, 1902, I, 1, pp. 183; sulla esposizione economico-politica: M. Bandini, Cento anni di storia agraria italiana, Roma, 1937; una breve sintesi anche in L. Acrosso, Agricoltura (disciplina amministrativa), in Enc. dir., Milano, 1958, I, pp. 907 ss; F. Benvenuti, Gli aspetti giuridici degli interventi pubblici in agricoltura, Bologna, 1971; P. Calandra, L’amministrazione dell’agricoltura, INEA-ISAP, Bologna, 1972; nonchè R. Perez, Vicende organizzative dell’amministrazione dell’agricoltura, in F. Merusi (a cura di), La legislazione economica in Italia dalla fine della guerra al primo programma economico, Milano, 1974, pp. 557 ss; dopo l’avvento dell’ordinamento regionale: C. Desideri, L’amministrazione dell’agricoltura, Roma, 1981; E. Romagnoli, Agricoltura, in Nov. Dig. it. Appendice, Torino, 1982, I, pp. 165 ss; dati più recenti in A. Fioritto, Agricoltura (amministrazione della), in Dig. (Disc. pubbl.), Torino, 1987, pp. 108 ss; amplius Id., Agricoltura, in Dizionario di diritto pubblico, a cura di S. Cassese, Milano, 2006, I, pp. 181 ss.
  43. Sul ruolo poco incisivo delle Comunità montane nell’alpicoltura v. A. Crosetti, Le Comunità montane dalla legge 142/90 alla legge 97/1994: analisi e prospettive, in Riv. dir. agrario, 1994, (3), pp.416- 432.
  44. Per valutazioni specifiche sulle politiche comunitarie nell’ambito dell’agricoltura: G. Olmi, Agricoltura in diritto comunitario, in Dig. (Disc. pubbl.), Torino, 1987, I, pp. 118 ss; M. Garbagnati, La politica agricola comunitaria, in U. Draetta, Elementi di diritto comunitario (parte speciale), Milano, 1995, pp. 108 ss.
  45. Possono essere qui solo segnalati i contributi ancorchè datati di F. Benvenuti, Le competenze delle regioni in materia di agricoltura e foreste, in L’intervento pubblico in agricoltura tra Stato e Regioni, Milano, 1971, pp. 25 ss; S. Cassese, Le Regioni nel governo dell’agricoltura, ivi, pp. 39 ss; A. Brancasi, I finanziamenti pubblici in agricoltura tra programmazione e regioni, Milano, 1974.
  46. Sulle origini storiche dell’alpeggio e sulla sua diffusione: G. P. Bognetti, Alpeggio. a) Premessa storica, in Enc. dir. Milano, 1958, II, pp. 74 ss; nonché G. Bolla, Alpeggio, in Nuovo Dig. it., Torino, 1937, I, pp. 356 ss; quindi Alpeggio e Alpicoltura, in Enc. agraria it., Roma, 1952, I; da ultimo per profili ricostruttivi La pastorizia mediterranea. Storia e diritto (secoli XI-XX), Roma, 2011.
  47. I contenuti prevalenti sono: la stipula può durare più anni; l’affittuario corrisponde un canone ed assume a suo carico tutti gli oneri di conservazione; a carico dell’affittuario (in molte regioni alpine detto malghiere) ricade la custodia dei pascoli e dei boschi; a tal fine è vietato asportare la deiezione degli animali o il letame ammonticchiato; entro aprile deve essere dichiarato il carico della montagna, ossia la quantità di bestiame portato all’alpeggio; per fare beneficiare tutta la superficie pascoliva della letamazione, deve essere periodicamente spostato il luogo della pastura (e della mungitura), come quello del riparo notturno; l’affittuario è espressamente tenuto a rispettare i confini, impedendo ogni turbativa di terzi. Accordi più specifici possono riguardare la rotazione dei pascoli per il migliore utilizzo del manto erboso, le modalità di concimazione naturale del terreno, la lavorazione e distribuzione del prodotto, la manitenzione dei fabbricati del pastore e del bestiame, l’uso delle sorgenti, fontanili, ruscelli per l’abbeveraggio del bestiame, l’uso del legname del bosco, ecc. Cfr. G. Cervati, Alpeggio. Diritto vigente, in Enc. dir., cit., II, pp. 77 ss ed ivi ulteriori riferimenti bibliografici segnatamente G. Bolla-Piazza, Alpeggio, in Nov. Dig. it., Torino, 1957, I, pp. 523 ss, nonché Athena Lorizio, Alpeggio, cit.. Molto spesso la disciplina dei contenuti è esito di disposizioni molto antiche denominate “regole”, su tali particolari fonti: G. Romagnoli, Regole dell’arco alpino, in Nov. Dig. it. Appendice, Torino, 1986, pp. 605 ss; G. C. De Martin, Profili giuridici degli enti regolieri nel nuovo assetto degli enti montani, Milano, 1973.
  48. La genesi storica e le diverse configurazioni dell’espressione sono state affrontate in trattazioni specifiche da studiosi italiani fin dalla fine dell’ottocento, tra i molti, v. C. Calisse, Storia del diritto italiano, Firenze, 1891, vol. III, pp. 188 ss; G. Raffaglio, Diritti promiscui ed usi civici, in Enc. giur. it., 1905, vol. IV, pp. 899 ss; F. Quarta, Relazione negli atti della Commissione per la riforma della legge sugli usi civici, Roma, 1908; L. Ratto, Le leggi sugli usi e demani civici, Roma, 1909; A. Granito, Usi civici, Milano, 1911; Id., Concetto fondamentale degli usi civici, in Riv. dei demani, 1925, pp. 145 ss; G. Beneduce, Stato della legislazione sui demani comunali, Roma, 1913.
  49. La locuzione “domini collettivi” è risalente, e si collega alla tradizione dell’Italia centrale, ove compariva nella L. 4 agosto 1894 n. 397, relativa all’ordinamento dei domini collettivi nelle province dell’ex Stato Pontificio; su tale nozione v. già L. Frezzini, Domini collettivi, in Dig. it., Torino, 1902, IX; e soprattutto G. Curis, Domini collettivi, in Nuovo Dig. it., Torino, 1938, V, pp. 182 ss; E. Cortese , Domini collettivi, in Enc. dir., Milano, 1964, XIII, pp. 913 ss; v. recentemente A. Germanò, I domini collettivi, in Dir. agr., 2018, pp. 85 ss; nonché S. Rosati, La categoria dei domini collettivi nella cultura giuridica italiana a cavaliere tra ottocento e novecento, in Historia et jus, 2019, pp. 15 ss; G. Ferri, Proprietà collettive e usi civici nella prospettiva storico- giuridica del Novecento, http://www.historiaetius.eu/uploads/5/9/4/8/5948821/ferri_7.pdf; per una utile indagine transfrontaliera il volume collettaneo Propriètè individuelle et collective dans les Etats de Savoie, Nice, 2012, in particolare B. Bertier, Les ambiguitès de la “grande montagne à gruyère” traditionelle dans les hautes vallèes savoyardes; il ricco volume collettaneo Les “communeaux” au XXI e siècle. Une proprietè collective entre histoire et modernitè, sous la direction de Jean Francois Ioye, Chambery, Cedex, 2021.
  50. Sulla disciplina dei terreni di uso civico, così come dettata dalla L. 1766/1927, a vario titolo, già G. Curis, Gli usi civici, Roma, 1939; G. Raffaglio, Diritti promiscui, demani comunali ed usi civici, Milano, 1939, III ediz.; R. Trifone, Gli usi civici, in Trattato di diritto civile e commerciale, a cura di Cicu e Messineo, Milano, 1963, XI, t. 2, pp. 147 ss; cui adde per contributi più recenti, anche per i profili storici, G. Palermo, Usi civici, in Nov. Dig. it., Torino, 1975, IV, pp. 209 ss; M. Zaccagnini-A. Palatello, Gli usi civici, Napoli, 1984; U. Petronio, Usi civici, in Enc. dir., Milano, 1992, XLV, pp. 930 ss; da ultimi F. Marinelli, Gli usi civici, in Trattato di dir. priv. Cicu e Messineo, Milano, 2013; F. Macario-C. Marseglia, Usi civici, in Commentario Cod. civ.,diretto da E. Gabrielli, Della proprietà. Leggi collegate, Milano, 2013, IV, pp. 965 ss; L. De Lucia, Usi civici, in Dig. (Disc. pubbl.),Torino, 1999, XV, spec. 594 ss; e segnatamente V. Cerulli Irelli, Proprietà pubblica e diritti collettivi, Padova, 1983, pp. 3 ss; L. Fulciniti, I beni di uso civico, Padova, 2000; fondamentale su tali diritti rimane lo studio di P. Grossi, Un altro modo di possedere. L’emersione di forme alternative di proprietà alla coscienza giuridica postunitaria, Milano, 1978 (rist. 2017); id., Usi civici: una storia vivente, in Archivio Scialoja Bolla, 2008, pp. 20 ss.
  51. La legge sulla montagna del 3 dicembre 1971 n. 1102 aveva regolato alcune proprietà collettive come “comunioni familiari montane”, espressamente indicando che esse non fossero sottoposte alla disciplina degli usi civici. La presenza è circoscritta ad alcuni settori delle aree montane occidentali. Su tali comunioni: C. Marzuoli, Comunità montane, comunioni familiari e usi civici, in Riv. dir. agr., 1974, I, pp. 669 ss; Romagnoli-Tebeschi, Comunioni familiari montane, Brescia, 1975; M.A. Lorizio, Demani civici e comunità montane, Bologna, 1979.
  52. Va solo notato che il termine “demanio” è assolutamente improprio, in quanto dal tenore letterale dell’art. 119 Cost., come novellato dalla L. Cost. n. 3 del 2001, non si parla di demanio con riferimento agli enti territoriali, ma solo di patrimonio, riconosciuto a Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni. Il termine è arcaicamente utilizzato per evidenziare la titolarità pubblica del bene. Per tale nozione S. Buscema, Patrimonio dello Stato e degli enti pubblici, in Dig. IV (Disc. pubbl.), Torino, 1996, XI, pp. 28 ss.
  53. Come messo in evidenza dalla stessa Corte costituzionale si tratta di beni che “comprendono vaste aree con destinazione a pascolo naturale o a bosco, o agricole tradizionali e risalenti nel tempo nelle diverse Regioni in relazione agli obblighi gravanti e alla particolare sensibilità alla conservazione da parte delle collettività o comunità interessate, in modo da consentire il mantenimento di una serie di porzioni omogenee del territorio, accomunate da uno speciale regime o partecipazione collettiva o comunitaria e caratterizzate da una tendenza alla conservazione dell’ambiente naturale o tradizionale, come patrimonio dell’uomo e della società in cui vive” (Corte cost., 22 luglio 1998 n. 316, in Giur. cost., 1998, p. 231 21; in dottrina E. Tomasella, Il ruolo della proprietà collettiva nella tutela ambientale,in L. Costato, A. Germanò, E. Rook Basile (diretto da), Trattato di diritto agrario. Il diritto agro ambientale, Torino, Utet, 2011, pp. 225; sul valore identitario del paesaggio: E. Boscolo, Nozione giuridica di paesaggio identitario eil paesaggio “a strati”, in Riv. giur. urb., 2009.
  54. In ordine alla portata innovativa di tale legge in rapporto alla pregressa normativa sugli usi civici anche in relazione ai terreni di pascolo montani: M. Consulich, La legge 20 novembre 2017 n. 168 “Norme in materia di demani collettivi”. Osservazioni a prima lettura, in Riv. dir. agr., 2017, pp. 691 ss; S. Orrù, Usi civici,in Dig. (civile), Aggiornamento, anno, 2018, pp. 3 ss; M. Vaccarella, Considerazioni sulla legge n. 168/2017 di tutela e valorizzazione dei domini collettivi, in Giustamm., 2018; nonchè i contributi nel volume collettaneo di P. Nervi, E. Caliceti, M. Job, Beni e domini collettivi. La nuova disciplina degli usi civici, Milano, 2019, cap. I; da ultimi F. Marinelli e P. Politi (a cura di), Domini collettivi e usi civici. Riflessioni sulla legge n. 168 del 2017, Pisa, 2019; A. Crosetti, Nuove prospettive per i domini collettivi, in Diritto e processo amministrativo, n. 2 /2020, pp. 323 ss.
  55. In punto Orrù, Usi civici, in Dig., cit., v. inoltre G. Pagliari, Prime note sulla legge 20 novembre 2017 n. 168 (“Norme in materia di domini collettivi”), in Dir. econ., 2019, n. 98, pp. 11ss.
  56. La dottrina che si è occupata di tali rapporti (v. già G. Carrara, I contratti agrari, in Trattato di dir. civ. a cura di F. Vassalli, Torino, 1959 cit.) ha, da sempre, evidenziato il carattere atipico e peculiare contrassegnato dagli usi locali che tradizionalmente variano a seconda delle zone geografiche del nord e del sud. La scelta del sistema di conduzione del pascolo avviene, in genere, con conduzione diretta da parte di un unico proprietario o affittuario o di una cooperativa. Tale metodologia si è rivelata, soprattutto nel lungo termine, economicamente ed ecologicamente più utile e conveniente rispetto alla conduzione dei pascoli in proprietà collettiva (università agrarie e comunanze, pur se assai storicamente diffuse), basata sul diritto di una comunità di allevatori di far pascolare il proprio bestiame. In questi casi, infatti, si è verificato il rischio di un eccessivo carico di bestiame e di un uso non razionale delle erbe.
  57. Sulla funzione dei consorzi in agricoltura e sulla relativa varietà; già A. Callegari, I consorzi nel campo dell’agricoltura, Torino, 1940; cui adde L. Acrosso, Consorzi in agricoltura, in Enc. dir., Milano, 1961, IX, pp. 389 ss.
  58. Sono i casi degli alpeggi su terreni di appartenenza delle comunità locali. Gli utenti possono esercitare, anche in forma associativa diritti propri in rappresentanza della collettività, secondo i regolamenti dei terreni di uso civico (artt. 42 ss del R.D. 26 febbraio 1928 n. 332 approvativo del Regolamento di cui alla citata L. 1766/1927 sul riordinamento degli usi civici). Il diritto civico di pascolo ha natura diversa a seconda che sia esercitato su beni aperti all’uso di tutti i cives (art. 26 L. n. 1766/1927), nel qual caso è soggetto alla disciplina dei beni civici (art. 42 cit.), oppure se sia rivendicato come diritto proprio da talune comunità originarie titolari di antichi diritti di contenuto agro-silvo-pastorale della stessa. cfr. M. Athena Lorizio, Alpeggio, cit. v. anche quanto accennato nel testo.
  59. Si tratta comunque di un affitto sui generis, in quanto è un modo di regolare l’uso dei pascoli montani (alpe o malga) da parte degli allevatori di bestiame proprio od altrui, con durata stagionale. Il bestiame può essere bovino o ovino a seconda della particolarità dei terreni pascolivi e delle regioni agrarie.
  60. In questi casi di beni di proprietà comunale l’assegnazione dell’alpeggio avviene (ancora oggi), con il sistema del pubblico incanto o asta pubblica. L’aggiudicazione viene pronunciata a favore di colui che ha presentato l’offerta più vantaggiosa e competitiva da confrontarsi con il prezzo base indicato nell’avviso di asta ovvero con l’offerta segreta da confrontarsi con il prezzo minimo prestabilito. La concessione di terreni del patrimonio immobiliare pubblico è ora disciplinata dall’art. 6 del d. lgs 18 maggio 2001 n. 28. Sul sistema del pubblico incanto: G. Pittalis, Asta pubblica, in Dig. (Disc. pubbl.),Torino,1987, I, pp. 510 ss. La Regione Piemonte, ad esempio, con L. R. n. 6 del 2013 ha stabilito una disciplina omogenea per l’affitto o la concessione degli alpeggi (malghe) di proprietà pubblica.
  61. Agli obblighi tipici dell’affitto e della soccida ex art. 2170 c.c. (canone annuo anche in quota di prodotto o per capo di bestiame), si aggiungono talora oneri specifici di custodia del manto erboso o del bosco nonché la manutenzione degli edifici ed attrezzature per il ricovero del bestiame ove esistenti: in questi casi la durata minima del contratto non deve essere inferiore a sei anni v. art. 52 L. sui contratti agrari n. 203 del 1982. Non va sottaciuto che l’autonomia negoziale è stata fortemente limitata dal processo di omogeneizzazione introdotta da tale normativa. Su tale specifica normativa v. tra i molti: M. Tamponi, Terreni montani destinati ad alpeggio, in La riforma dei contratti agrari. Commentario alla L. 3 maggio 1982 n. 203, a cura di C.A. Graziani, P. Recchi, L. Francario, Napoli, 1982, sub. Art. 52, pp. 425 ss; A. Carozza, L. Costato, A. Massait (a cura di), Commentario alla legge sui contratti agrari, Padova, 1983, sub. Art. 52; A. Germanò, E. Rook Basile (a cura di), I contratti agrari, Torino, Utet, 1990, M. G. Giuffrida, spec. 97 ss; più recentemente M. Tamponi, Contratto agrario, in Enc. dir. Aggiornamento, Milano, 2001, V, spec. 283; in giurisprudenza Cass. Civ. Sez. III, 28.VIII.2007 n. 18162, in Dir. e giur. agr., 2008, (2), p. 107 con nota di Busetto a commento dell’art. 52.
  62. Va solo rilevato che l’azienda agricola corrisponde alla disciplina generale di cui all’art. 2555 c.c. ma inquadrata nella figura dell’imprenditore agricolo (per tale configurazione già E. Romagnoli, Impresa agricola, in Nov. Dig. It., Torino, IV, pp. 13 ss; Id., L’impresa agricola nell’ordinamento italiano, in Dir. lav., 1993, pp. 125 ss; A. Germanò, Nuove forme di attività imprenditoriale agricole, ivi, 1993, I, pp. 295 ss; G. Ferri, Imprenditore agricolo, in Riv. dir. comm., 1994, I, pp. 593 ss). Tale azienda è pertanto un complesso di beni e di persone organizzato per l’esercizio dell’impresa agricola. Sulla figura e requisiti dell’imprenditore agricolo dopo la riforma di cui alla L.20 febbraio 2000: tra i molti: D. Galloni, Impresa agricola. Disposizioni generali: artt.2135-2139, in Commentario Cod. civ. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 2003; N. Abriani-C. Motti (a cura di), La riforma dell’impresa agricola, Milano, 2003; da ultimo A. Jannarelli, Imprenditore agricolo, in Il Diritto. Enciclopedia giuridica del Sole 24 Ore, Milano, 2017, 7, pp. 400 ss.
  63. Il pascolo è, infatti, la forma tipica di conduzione degli armenti nella pastorizia tradizionale e segnatamente nell’alpeggio, dove la nutrizione degli animali avviene tramite la vegetazione locale. Per questi riferimenti v. voce Pascolo, in Enc. it. Treccani, ad vocem. Oggi possediamo anche una doppia definizione normativa introdotta opportunamente dall’art. 3 del D. lgs . 3 aprile 2018 n. 34 recante il Testo unico in materia di foreste e filiere forestali che ha avuto modo di distinguere alla lett. i) “il prato o pascolo permanente quale superficie non compredsa nell’avvicendamento delle colture dell’azienda da almeno cinque anni, in attualità di coltura per la coltivazione di erba e altre piante erbacee da foraggio, spontanee o coltivate, destinate ad essere sfalciate, affienate o insilate una o più volte all’anno, o sulle quali si è svolta attività agricola di mantenimento, o usate per il pascolo del bestiame, che possono comprendere altre specie segnatamente arbustive o arboree, utilizzabili per il pascolo o che producano mangime animale, purchè l’erba e le altre piante erabacee da fogaggio restino predominanti”; e alla lett. l) “Prato o pascolo arborato quale superficie vin attualità di coltura con copertura arborea forestale inferiore al 20 per cento impiegate principalmente per il pascolo del bestiame”. Sulla portata e valenza di tali definizioni per profili generali: A. Crosetti, Beni forestali nel T.U. n. 34/2018, in Digesto ipertestuale, Utet, 2019.
  64. Non è inutile rilevare che solo nel 1992 alla Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sull’Ambiente e sviluppo (UNCED) di Rio de Janeiro, è stata riconosciuta per la prima volta, a livello globale, l’importanza delle montagne quali habitat naturali ambientali, con il Capitolo 13 dell’Agenda 21: Gestione degli ecosistemi fragili, sviluppo sostenibile delle zone montane. Sull’importanza di tale riconoscimento: G. C. Garaguso, S. Marchisio (a cura di), Rio 1992. Vertice per la terra, Milano, 1993; nonché N. Olivetti Rason, La disciplina dell’ambiente nella pluralità degli ordinamenti giuridici, in A. Crosetti, R. Ferrara, F. Fracchia, Introduzione al diritto dell’ambiente, Roma-Bari, 2018, pp. 8 ss. Per i profili giuridici dell’equazione ambiente-ecologia v. D. Borgonovo Re, Ecologia, in Dig. (disc. pubbl.), Torino, 1990,V, pp. 352 ss; R.Vigotti, Ecologia, in Dig. Aggiorn., Torino, 2000, pp. 199 ss.
  65. Per la rilevanza di tale ruolo: A. Crosetti, Suolo (difesa del), in Dig. (Disc. Pubbl.). Aggiornamento, Torino, 2008, vol. II, p. 875; Id., Suolo (Difesa del), in Dizionario di diritto pubblico diretto da S. Cassese, Milano, 2006, vol. II, pp. 1838-1848.
  66. Su tali fenomeni di degrado v. le riflessioni di A. Varotti, Territori abbandonati. Pastorizia e paesaggio agrario, Roma, 2000.
  67. Tale principio, come noto, costituisce il principio cardine del diritto internazionale dell’ambiente più recente, così come recepito nel nostro diritto interno dall’art. 3 quater del Codice dell’ambiente di cui al d. lgs n. 152 del 2006 s.m.i. La definizione del principio comunemente è fatta risalire al Rapporto Brundtland del 1987, anche se era già presente, allo stato embrionale ed in modo diffuso, in molti principi della Dichiarazione di Stoccolma del 1972. Tale Rapporto definisce lo “sviluppo sostenibile” come lo sviluppo che soddisfa i bisogni della generazione presente senza compromettere la possibilità, per le generazioni future, di soddisfare a loro volta i loro bisogni presenti. I parametri di riferimento sono pertanto le risorse, che cosituiscono l’oggetto dello sfruttamento e delle utilizzazioni, il rapporto tra generazioni, con la considerazione di soggetti “potenziali” che non sono veri e propri soggetti di diritto, ma a cui sono riconosciute posizioni di vantaggio, e la relazione tra bisogni e limiti alle possibilità di soddisfarli. L’uso equo e sostenibile delle risorse comporta in sé un limite allo sfruttamento delle risorse in funzione di garanzia alle future generazioni. In sostanza, il principio dello sviluppo sostenibile richiede una precisa integrazione tra politiche di sviluppo (economico e sociale) e politiche di protezione ambientale in un non sempre facile contemperamento e anzi conflitto tra conservazione e sviluppo. Il principio ha trovato riscontro anche in recenti disposizioni normative dove si è evidenziata la necessità della salvaguardia dei diritti delle generazioni presenti e future (v. già art.3 quater del d. lgs n. 152 del 2006 c.d. Codice dell’ambiente); su tale principio in dottrina, tra i primi contributi, già F. Salvia, Ambiente e sviluppo sostenibile, in Riv. giur. amb., 1998, pp. 235 ss; M. A. Sandulli, Tutela dell’ambiente e sviluppo economico e infrastrutturale: un difficile ma necessario contemperamento, in Riv. giur. ed., 2000, II, pp. 3 ss; B. Caravita, Diritto dell’ambiente e diritto allo sviluppo: profili costituzionali, Milano, 1993; Id., in Scritti in onore di A. Predieri, Milano, 1996, II, pp. 343 ss; nonchè V. Pepe, Lo sviluppo sostenibile tra governo dell’economia e profili costituzionali, in I “nuovi diritti” nello stato sociale in trasformazione. I. La tutela dell’ambiente tra diritto interno e diritto comunitario a cura di R. Ferrara e P.M. Vipiana, Padova, 2002, pp. 249 ss; Id., Lo sviluppo sostenibile tra diritto comunitario e diritto interno, in Riv. giur. amb., 2002, pp. 209 ss e A. Lanza, Lo sviluppo sostenibile, Bologna, 2002; F. Mattasoglio, Le funzioni amministrative ambientali tra sviluppo sostenibile ed esigenze di mercato, Roma, 2008. Sulla rilevanza di tale principio e sulle sue applicazioni tra i contributi più recenti, rimane fondamentale il libro di F. Fracchia, Lo sviluppo sostenibile. La voce flebile dell’altro tra protezione dell’ambiente e tutela della specie umana, Napoli, 2010; Id., Sviluppo sostenibile e diritti delle generazioni future, in http://www.rqda.eu; Id., Il principio dello sviluppo sostenibile, in Diritto dell’ambiente, a cura di G. Rossi, Torino, 2015, pp. 175 ss; Id., Introduzione allo studio del diritto dell’ambiente. Principi, concetti e istituti, Napoli, 2013, spec. pp. 143 ss; Trattato di diritto dell’ambiente, a cura di R. Ferrara- M. A. Sandulli, I, Politiche ambientali, lo sviluppo sostenibile e il danno, Milano, 2014, ed ivi i contributi di R. Ferrara, Etica, ambiente e diritto: il punto di vista del giurista, pp. 19 ss; e di C. Videtta, Lo sviluppo siostenibile:dal diritto internazionale al diritto interno, pp. 221 ss; v. inoltre G. Di Plinio-P. Fimiani (a cura di), Principi di diritto ambientale, Milano, 2008, spec. 53 ss; M. Cafagno, Principi e strumenti di tutela dell’ambiente, Torino, 2007, pp. 205 ss; M. Montini-F. Volpe, La scienza della sostenibilità e la necessità di regolazione, in Riv. giur. amb., 2011, pp. 157 ss; N. Lugaresi, Diritto dell’ambiente, Cedam, 2015, pp. 18 ss.
  68. Per una prima lettura delle valenze del nuovo testo costituzionale: M. Delsignore, A. Marra, M. Ramajoli, La riforma costituzionale e il nuovo volto del legislatore nella tutela dell’ambiente, in Riv. giur. ed., 2022, pp. 1 ss; C. Sartoretti, La riforma costituzionale dell’”ambiente”: un profilo critico, ivi, 2022, n.2, pp.119 ss; F. Fracchia, L’ambiente nell’art. 9 della Costituzione: un approccio in “negativo”, in Dir. econ., n. 107, 2022, pp. 15-30; R. Bifulco, Primissme riflessioni alla l. cost. 1/2002 in materia di tutela dell’ambiente, in Federalimi.it., n. 11/2022; P. Logroscino, Economia e ambiente nel “tempo della Costituzione”in Federalismi.it, n. 29/2022, pp. 86 ss; per l’impatto sulle future generazioni: D. Porena, Anche nell’interesse delle future generazioni. Il problema dei rapporti intergenerazionali all’indomani della revisione dell’art. 9 Cost., in Federalismi.it., n. 15, 1.06.2022; L. Bartolucci, Le “future generazioni” sono entrate in Costituzione. Conseguenze giuridiche e politiche, Roma, Luiss, 2022.
  69. Il valore dei rapporti intergenerazionali è proprio costituito dall’insieme degli usi, costumi, comportamenti che ogni generazione, dopo aver appreso, conservato, modificato e perfezionato dalla precedente, trasmette alle generazioni successive con conseguenti responsabilità (su cui R. Bifulco, La responsabilità giuridica verso le generazioni future tra autonomia morale e diritto naturale laico, in Teoria del diritto e dello Stato, Milano, 2002, III, pp. 353 ss). Tale elemento è ben presente anche nella tradizione giuridica come l’insieme dei modi di pensare, insegnare e applicare regole comportamentali, storicamente acquisite e profondamente radicate. Sul valore anche della tradizione giuridica v. già S. Perozzi, La tradizione, in Annali Università Perugia, 1886; nonché E. Albertario, Tradizione (Diritto),in Enc. It. Treccani, Roma, 1937, XXXIV, pp. 140 ss.
  70. Sulla valenza della Direttiva Habitat per la tutela e conservazione degli habitat naturali e seminaturali: già A. Simoncini, Ambiente e protezione della natura, Padova, 1996; G. Greco, La direttiva Habitat nel sistema delle aree protette, in Riv. dir. pubbl. comun., 1999, 5, pp. 1297 ss; D. Amirante (a cura di), La conservazione della natura in Europa, Milano, 2003; R. Fuzio, Aree naturali protette di origine comunitaria, quale tutela per gli “habitat” naturali e di specie?, in Ambiente, 2004, pp. 471 ss; A. Crosetti, Aree naturali protette, in Dig. (Disc. pubbl.) Aggiornamento, Torino, 2008, vol. I, p. 10; L. Eccher, La strategia europea per la gestione delle risorse naturali quale esempio dei nuovi sviluppi nel diritto ambientale europeo, in Riv. giur. amb., 2012, pp. 485 ss; da ultimo A. Farì, Beni e funzioni ambientali. Contributo allo studio della dimensione giuridica dell’ecosistema, Napoli, 2013, pp. 119 ss; da ultimo il ricco volume collettaneo Production de la norme environnementale et “codification” du droit rural dans l’Europe mèridionale (France-Italie) aux XVIII e XIX siècles, Nice, 2018.
  71. La Convenzione delle Alpi, come noto, è un trattato internazionale sottoscritto dai Paesi alpini (Austria, Francia, Germania, Italia Liechtenstein, Monaco, Slovenia e Svizzera) e dall’Unione europea per lo sviluppo sostenibile e la protezione delle Alpi. Siglata nel 1991 ed entrata in vigore nel 1995, la Convenzione delle Alpi è il primo Trattato per protezione di aree montane al mondo ad essere vincolante in conformità al diritto internazionale. Per la prima volta, infatti, un territorio montano transnazionale viene considerato in base alla sua continuità geografica e come spazio comune che deve affrontare problematiche comuni. Sulle politiche, leggi e misure di attuazione della Convenzione delle Alpi: F. Angelini (a cura di), La Convenzione delle Alpi. Politiche, leggi e misure di attuazione in Italia, Bolzano, Eurac; M. Onida (a cura di) The Alpine Convention. Reference Guide, Permanent Secretariat of the Alpine Convention, Innsbruck, 2010.
  72. Come emerge nelle sollecitazioni da parte della dottrina più recente: M. Brocca, Paesaggio e agricoltura. Riflessioni sulla categoria del “paesaggio agrario”, in Riv. giur. ed., 2016, 1-2, pp. 3 ss; sulle importanti valenze antropiche del paesaggio agrario v. inoltre: P. Urbani, Governo del territorio e agricoltura. I rapporti, in Riv. giur. ed., 2006, 3, pp. 122 ss; Id., Le aree agricole tra disciplina urbanistica e regolamentazione dell’attività economica, ivi, 2010, n. 1, pp. 44 ss; N. Ferrucci, Riflessioni di una giurista sul tema del paesaggio agrario, in Dir. giur. agr. e amb., 2007, n.7-8, pp. 453 ss; E. Picozza, La tutela del paesaggio nelle zone agricole tradizionali, in G. Cugurra, E. Ferrari, G. Pagliari, (a cura di), Urbanistica e paesaggio, Atti del VIII Convegno nazionale AIDU, Milano, 2005, pp. 81 ss; N. Lucifero, Paesaggio, agricoltura e territorio. Nuovi modelli di tutela,in E. Rook Basile, S. Carmignani, N. Lucifero, Strutture agrarie e metamorfosi del paesaggio. Dalla natura delle cose alla natura dei fatti,, Milano, Giuffrè, 2010, pp. 229 ss; N. Ferrucci, La tutela del paesaggio e il paesaggio agrario,in L. Costato, A.Germanò, E. Rook Basile (a cura di), Trattato di diritto agrario, Torino, 2011, II, pp. 202 ss; da ultimo M. Brocca, Il paesaggio “espressione di un ritrovato equilibrio tra società ed ambiente”: il caso del paesaggio agrario, in Scritti in onore di Maria Immordino, Napoli, 2022, II; per la rilevanza del paesaggio agrario nell’ampia nozione ambiente e territorio acutamente già A. Predieri, Paesaggio, in Enc. dir., Milano, 1981, XXXI, pp. 503 ss.
  73. In questa prospettiva va evidenziato che l’attuazione dell’Agenda ONU 2030 richiede espressamente di occuparsi di aree interne e di montagna perché in queste realtà, di per sé fragili per condizioni fisico-geografiche e ambientali, si manifesta maggiormente l’esigenza di una sostenibilità ambientale. A tal fine l’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile (AsviS) ha pubblicato, nel 2002, un importante rapporto “Le aree interne e la montagna per lo sviluppo sostenibile”, nel quale viene evidenziata la necessità di dotarsi di una “Agenzia per lo sviluppo sostenibile delle aree interne e della montagna”, già elaborato dal CIPESS, Comitato interministeriale per la programmazione economica e lo sviluppo sostenibile presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Sulla esigenza di politiche di sostenibilità ambientale nelle aree montane anche recentemente sono comparsi specifici contributi, tra cui: G. Quaranta (a cura di), Montagna e sviluppo. Le politiche, la governance e il menagement per la valorizzazione delle risorse, Milano, 2008; M. Ciani Scarnicci,A. Marcelli, P. Pinelli, Economia, ambiente e sviluppo sostenibile, Milano, 2016; L. Bonato (a cura di) Aree marginali. Sostenibilità e saper fare nelle Alpi, Milano, Franco Angeli, 2017; G. Cepollaro-B. Zanon (a cura di), Il governo del territorio montano nello spazio europeo. Innovare gli sguardi e gli strumenti per lo sviluppo sostenibile della montagna, Milano, Ets, 2020.
  74. Come già auspicato nella normativa sull’occupazione giovanile del 1978, su cui M. Morsillo, Occupazione giovanile, cooperazione e impresa agricola, in Riv. dir. agr., 1978, I, 741 ss; S. Mazzarese, La legge sulla occupazione giovanile nella parte relativa alle disposizioni in materia agraria, ivi, 1978, I, 721 ss; M. D’Addezio, Provvedimenti per l’occupazione giovanile in agricoltura e cooperative di giovani: il quadro normativo, ivi, 1980, 60 ss