L’espropriazione dei terreni gravati da usi civici (nota a SS.UU., sentenza del 10 maggio 2023, n. 12570)

Martina Lazzarini[1]

Con sentenza n. 12570 del 10 maggio 2023 le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno fornito risposta alla questione, controversa e di particolare importanza, se sia ammissibile l’espropriazione per pubblica utilità dei beni gravati da diritti di uso civico c.d. in re propria, indipendentemente da un previo ed espresso provvedimento di sdemanializzazione. La manifestata propensione per la tesi negatoria prende le mosse da una articolata ricostruzione del quadro normativo di riferimento e da una puntuale disamina degli orientamenti sviluppati dalla giurisprudenza di legittimità sedimentatasi sulla vexata quaestio. La pronuncia costituisce, dunque, spunto per una ricognizione della disciplina positiva della materia nonché per un vaglio degli argomenti valorizzati dalle tesi che si contendevano il campo prima dell’intervento nomofilattico in commento. La disamina dell’intelaiatura motivazionale che sorregge il decisum delle Sezioni Unite consente di articolare, da ultimo, alcune considerazioni ricostruttive.

Sommario:

1. La vicenda che ha originato l’intervento nomofilattico delle Sezioni Unite – 2. Il quadro normativo di riferimento sugli usi civici – 3. L’espropriazione per pubblica utilità dei beni gravati da usi civici – 4. Tesi secondo cui l’espropriazione dei beni gravati da usi civici cd. in re propria è ammissibile solo previa sdemanializzazione – 5. Tesi secondo cui l’espropriazione dei beni gravati da usi civici cd. in re propria è ammissibile pur in difetto di previa sdemanializzazione in quanto tale effetto è insito nel decreto di esproprio – 6. I principi affermati da Cass. SS. UU. del 10 maggio 2023, n. 12570 – 7. Considerazioni conclusive

1. La vicenda che ha originato l’intervento nomofilattico delle Sezioni Unite

Il fatto da cui ha preso le mosse il contenzioso approdato all’attenzione delle Sezioni Unite, riguarda taluni terreni facenti parte del Comune di Alfedena che storicamente insistevano nel demanio civico di un ex feudo[2].

Con sentenza commissariale n. 15 del 1935 venne sancito che l’ex feudo costituiva un demanio collettivo[3].

A seguito di una verifica demaniale del territorio condotta dal Comune di Alfedena, la Regione ha segnalato al Commissario regionale l’impossibilità di procedere alla reintegra dei terreni a causa dell’opposizione degli aventi causa dal beneficiario di una pregressa espropriazione.

Con sentenza n. 15/2015 il Commissario per gli usi civici – premesso che l’espropriazione era illegittima in ragione della mancata osservanza delle procedure di cui all’art 12 l. 16 giugno 1927, n. 1766 e del regolamento approvato con R.D. 26 febbraio 1928, n. 332 – in accoglimento delle domande del Comune: i) ha dichiarato la natura demaniale civica dei fondi in contestazione e la conseguente nullità ed inefficacia degli atti pubblici e privati disposti sui beni stessi[4]; ii) ha ordinato la reintegra nel possesso dei fondi in favore della collettività del Comune.

La Corte di appello[5] ha confermato detta statuizione in quanto: i) deve escludersi la decadenza dal diritto di usi civici in danno del Comune, atteso che la dichiarazione prevista dall’art 3, l. n. 1766/1927 non trova applicazione in relazione a diritti su terreni appartenenti al demanio universale o comunale, essendo prevista solo per i diritti di uso civico su beni altrui; ii) i beni di uso civico appartenenti al demanio universale o comunale, per le loro caratteristiche (inalienabilità, imprescrittibilità, immutabilità della destinazione di uso, con conseguente loro inalienabilità) non sono suscettibili di espropriazione per pubblica utilità senza l’osservanza delle procedure previste dalla legge n. 1766/1927, se non previa sdemanializzazione.

Instaurato il giudizio di legittimità, la Seconda Sezione ha emesso l’ordinanza n. 34460/2022[6] con la quale ha rimesso alle Sezioni Unite la seguente questione di massima di particolare importanza:

è ammissibile l’espropriazione per pubblica utilità dei beni gravati da usi civici di dominio della collettività, prescindendo da una loro preventiva espressa sdemanializzazione? O si può ritenere sussistente una incommerciabilità (rectius: una indisponibilità) relativa di tali beni, che viene a cessare allorquando sopravvenga e si faccia valere un diverso interesse statale (o pubblico che sia), del tipo di quelli che si accertano e realizzano con il procedimento espropriativo per pubblica utilità ovvero con altri atti formali?”.

Con sentenza in data 10 maggio 2023 n. 12570[7], le Sezioni Unite hanno affermato il seguente principio di diritto:

I diritti di uso civico gravanti su beni collettivi non possono essere posti nel nulla (ovvero considerati implicitamente estinti) per effetto di un decreto di espropriazione per pubblica utilità, poiché la loro natura giuridica assimilabile a quella demaniale lo impedisce, essendo, perciò, necessario, per l’attuazione di una siffatta forma di espropriazione, un formale provvedimento di sdemanializzazione, la cui mancanza rende invalido il citato decreto espropriativo che implichi l’estinzione di eventuali usi civici di questo tipo ed il correlato trasferimento dei relativi diritti sull’indennità di espropriazione”.

Entrambi i provvedimenti danno conto degli approdi ricostruttivi maturati nella giurisprudenza sedimentatasi in materia, la disamina dei quali postula un preliminare inquadramento di carattere generale in tema di usi civici.

2. Il quadro normativo di riferimento sugli usi civici

Nella sistematica codicistica gli usi civici vengono in evidenza nell’ambito dell’art. 825 cod. civ., che contempla la figura giuridica dei diritti demaniali su beni altrui[8].

Come noto, tale previsione estende il regime del demanio pubblico (art. 823 cod. civ.)[9] ai diritti reali che spettano allo Stato, alle Province e ai Comuni su beni appartenenti ad altri soggetti, quando i diritti stessi “sono costituiti per l’utilità di alcuno dei beni indicati negli articoli precedenti o per il conseguimento di fini di pubblico interesse corrispondenti a quelli a cui servono i beni medesimi”.

Gli usi civici[10], privi di una distinzione netta tra titolarità del diritto di proprietà e uso pubblico sulla cosa altri (presente, invece, nelle servitù pubbliche), sono espressione della proprietà in senso collettivo; in particolare, essi presentano la fondamentale caratteristica della non appartenenza, a titolo di proprietà individuale, a persone fisiche od enti in quanto spettanti ad una comunità di abitanti che ne godono collettivamente[11].

Gli usi civici formano oggetto di una specifica disciplina contenuta nella legge n. 1766/1927[12] e in successivi interventi normativi.

La legge n. 1766/1927 ha inteso armonizzare in un unico corpus normativo la disciplina di tutti gli usi civici, indipendentemente dalle peculiarità storiche e normative che li avevano contraddistinti in passato[13].

Nell’impianto legislativo gli usi civici costituiscono una categoria in cui sono enucleabili due distinti diritti di godimento, in considerazione della “diversità originaria della proprietà del terreno[14]: l’uso civico propriamente detto ed il c.d. demanio civico.

Circa la natura giuridica dei primi, essa viene ricondotta a quella dei diritti reali sui generis gravanti su terre altrui e dal tratto proprio, caratterizzati dall’inerenza al bene, dal diritto di seguito, dall’assolutezza e dalla dimensione erga omnes delle tutele; la connotazione peculiare consiste nel realizzare un uso di matrice non codicistica che spetta alla persona uti civis, quale membro di un ampio gruppo di soggetti e non come singolo individuo. Tali diritti civici consentono l’esercizio del diritto di trarre alcune utilità (es. pascolo) da un fondo altrui.

Ad essi si riferisce l’onere di denuncia ex art. 3 l. n. 1766/1927 ed il procedimento di liquidazione, scilicet la soppressione mediante apporzionamento dei terreni con assegnazione di una porzione al Comune, quale ente esponente della collettività titolare dell’uso civico; inoltre, rispetto ad essi la giurisprudenza di legittimità[15] ha affermato che, in caso di espropriazione per pubblica utilità, i diritti di uso civico si trasferiscono sull’indennità di espropriazione.

La natura giuridica dei secondi è condizionata dal caratterizzarsi come beni di c.d. proprietà collettiva, la cui disciplina è equiparabile a quella dei beni demaniali. Tali diritti civici c.d. in re propria consistono nel godimento di terre proprie della collettività, sono connotati da inalienabilità, inusucapibilità, immodificabilità e devono conservare il vincolo di destinazione, il quale può subire una deroga solo mediante un’apposita “sdemanializzazione”.

Tale regime è assimilabile a quello dei beni demaniali; in particolare, l’inalienabilità permane fino all’eventuale provvedimento amministrativo che ne autorizza l’alienazione, nel quale può ravvisarsi un atto di sdemanializzazione (art. 12, l. n. 1766/1927; artt. 39 e 41 r.d. n. 332/1998)[16].

Il quadro normativo di riferimento si è arricchito in virtù di successivi interventi[17], rivolti a valorizzare la valenza ambientale e paesaggistica degli usi civici[18].

Peculiare rilievo riveste, infine, la l. 20 novembre 2017, n. 168[19], il cui art. 1 riconosce i domini collettivi come “ordinamento giuridico primario delle comunità originarie[20].

L’art. 3, comma 3, della legge sopra citata dispone che il regime giuridico dei beni gravati da usi civici “resta quello dell’inalienabilità[21], dell’indivisibilità, dell’inusucapibilità e della perpetua destinazione agro-silvo-pastorale[22].

3. L’espropriazione per pubblica utilità dei beni gravati da usi civici

E’ noto che il provvedimento che mette capo alla vicenda espropriativa è espressione di potestà ablatoria in quanto produce l’effetto finale di trasferire coattivamente il diritto di proprietà, o altro diritto reale minore, dal relativo titolare alla pubblica amministrazione o al soggetto da questa individuato, per ragioni di pubblica utilità, dietro versamento di un indennizzo[23].

L’esercizio del potere ablatorio sulle terre civiche rappresenta un tema delicato, affrontato, fino ad un recente passato, dalla dottrina e dalla giurisprudenza, nel silenzio della legge, alla luce dei principi generali, con posizioni talvolta contraddittorie[24].

Solo nel 2015 il legislatore ha colmato la lacuna normativa mediante l’inserimento di un nuovo comma 1-bis nel corpo dell’art. 4 (rubricato “Beni non espropriabili o espropriabili in casi particolari”) del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327[25] in virtù dell’art. 74, legge 28 dicembre 2015, n. 221.

Per effetto di tale innesto il citato art. 4, dopo la previsione del comma 1, secondo cui “I beni appartenenti al demanio pubblico non possono essere espropriati fino a quando non ne viene pronunciata la sdemanializzazione”, dispone al comma 1-bis, di nuovo conio, che: “i beni gravati da uso civico non possono essere espropriati o asserviti coattivamente se non viene pronunciato il mutamento di destinazione d’uso, fatte salve le ipotesi in cui l’opera pubblica o di pubblica utilità sia compatibile con l’esercizio dell’uso civico[26].

Completa il quadro il successivo comma 2, secondo cui “I beni appartenenti al patrimonio indisponibile dello Stato e degli altri enti pubblici possono essere espropriati per perseguire un interesse pubblico di rilievo superiore a quello soddisfatto con la precedente destinazione[27].

Pertanto l’assetto definito dal legislatore è il seguente: i) i beni demaniali possono essere espropriati previa sdemanializzazione[28]; ii) i beni appartenenti al patrimonio indisponibile possono essere espropriati solo per perseguire interessi di grado poziore rispetto a quello soddisfatto con la precedente destinazione; iii) i beni gravati da uso civico possono essere espropriati solo previa pronuncia del mutamento di destinazione d’uso.

Pertanto mentre nel procedimento di espropriazione di beni non di interesse pubblico la valutazione dell’autorità procedente è intesa a stabilire la pubblica utilità dell’opera o dell’intervento di cui si tratta, nel caso delle terre civiche questo scrutinio è preceduto, sul piano logico-giuridico, da una valutazione comparativa tra la pubblica utilità dell’opera da realizzare e l’interesse pubblico connesso alla destinazione originaria del bene, “la quale ultima dunque può essere sacrificata non alla stregua di un bene privato, ma soltanto a fronte di preminente ed ineludibile esigenza di realizzazione dell’opera su quella determinata porzione immobiliare, tale da superare la contrapposta esigenza della tutela del bene in quanto tale[29].

Nonostante l’intervento normativo di cui si è dato conto, sono comunque emersi contrasti giurisprudenziali in ordine alla questione se, ai fini dell’espropriazione per pubblica utilità dei terreni di uso civico in re propria[30], nel regime antecedente all’entrata in vigore delle modifiche di cui alla l. n. 221/2015[31], sia necessaria la preventiva formale sdemanializzazione del bene, nei modi previsti dalla legge, o se a tale fine sia sufficiente il decreto di esproprio.

Tale problematica è stata affrontata dalla pronuncia in commento, che, nel prendere posizione rispetto agli orientamenti germinati in giurisprudenza, ha affermato la necessarietà di una previa sdemanializzazione, in difetto della quale il provvedimento di espropriazione è irrimediabilmente invalido.

Una compiuta trattazione delle argomentazioni espresse dall’intervento nomofilattico in esame richiede una preliminare disamina di tali precedenti.

4. Tesi secondo cui l’espropriazione dei beni gravati da usi civici c.d. in re propria è ammissibile solo previa sdemanializzazione

L’ordinanza interlocutoria e la sentenza delle Sezioni Unite passano in rassegna le sentenze più significative ed evidenziano la presenza di un primo orientamento giurisprudenziale secondo cui i beni gravati da uso civico non sono espropriabili per pubblica utilità se non previa sdemanializzazione.

Una compiuta esposizione della tesi si ritrova nella sentenza delle Sezioni Unite, 11 giugno 1973, n. 1671[32] che prende le mosse dalla ripartizione degli usi civici in due categorie generali, in base alla legge n. 1766/1927: quelli che si esercitano su beni appartenenti a privati e quelli che si esercitano su beni appartenenti alla collettività degli utenti (es. demani comunali, terre comuni).

Per gli usi civici della prima categoria, che sono destinati alla liquidazione, è incontroverso che, qualora i beni che ne sono oggetto siano espropriati per causa di pubblica utilità prima della liquidazione, i diritti di uso civico si trasferiscono sull’indennità di espropriazione[33].

Circa gli usi civici della seconda categoria, essi si configurano come diritti di una collettività su beni propri. A tali beni si riferiscono le disposizioni sull’accertamento delle arbitrarie occupazioni (o illegittimi possessi) da parte del privato al fine alternativo della legittimazione a favore dell’occupatore o della reintegra per la destinazione dei terreni al soddisfacimento di pubbliche finalità nei modi previsti dalla legge.

Tali beni hanno una destinazione peculiare e si caratterizzano per il regime di indisponibilità e inalienabilità, analogo a quello dei beni demaniali, il quale comporta che non sono neppure espropriabili per causa di pubblica utilità se non previa sdemanializzazione.

Il riflesso processuale di tale impostazione sostanziale si manifesta in punto di giurisdizione. Invero, poiché l’atto di sdemanializzazione può ravvisarsi soltanto nel provvedimento previsto come tale dalla legge, il Commissario per gli Usi civici conserva la propria giurisdizione – in tema di verifica delle occupazioni arbitrarie secondo le norme della citata legislazione – anche se il terreno oggetto di indagine, ai fini della sua appartenenza o meno alla collettività degli utenti, risulti espropriato per pubblica utilità, in quanto né la dichiarazione di pubblica utilità dell’opera, né il provvedimento di espropriazione possono avere efficacia equipollente all’atto di sdemanializzazione del bene.

A sostegno della tesi in rassegna milita altresì la pronuncia n. 19792/2011 della Terza Sezione civile della Corte di Cassazione[34] che, seppure in relazione al processo esecutivo, muove da principi e considerazioni generali in tema di beni gravati da usi civici che evidenziano il peculiare regime giuridico al quale sono essi sottoposti.

Tale pronuncia impernia valorizza il regime di incommerciabilità dei beni gravati da usi civici, discendente dal pubblico interesse che imprime il vincolo al soddisfacimento di bisogni propri della collettività di riferimento, da cui discende l’assimilazione ad un bene appartenente al demanio, non potendo per esso, per la contraddizione che non lo consente, neppure configurarsi una c.d. sdemanializzazione di fatto. Ne consegue un radicale divieto di assoggettare il bene a vicende circolatorie, ivi comprese quelle che hanno luogo in esito all’espropriazione forzata. Invero, la funzionalizzazione del processo esecutivo al soddisfacimento degli interessi particolari del ceto creditorio risulta in ogni caso subvalente rispetto alla caratterizzazione pubblicistica del peso fondiario.

Il corollario di tale impostazione è che solo in esito al completamento dei procedimenti di liquidazione dell’uso civico è postulabile la soggezione del bene che ne forma oggetto a dinamiche traslative[35].

Infine rileva il precedente costituito da Cassazione, Seconda Sezione civile, n. 17595/2020[36], secondo cui la disciplina di cui al R.D. 1775/1933 (T.U. sulle disposizioni di legge sulle acque e impianti elettrici) non è una disciplina speciale, e quindi prevalente, rispetto a quella dettata dalla l. n. 1766/1927, con la conseguenza che la realizzazione sul bene gravato da uso civico di un bacino artificiale non giustifica l’inapplicabilità della disciplina sul riordino degli usi civici di cui alla citata legge, non rilevando che l’una sia successiva all’altra, giacché si tratta di normative con finalità diverse e non contrastanti tra loro.

Ne consegue l’impossibilità di postulare l’estinzione tacita o per fatti concludenti dei diritti di uso civico in ragione della soggezione del bene che ne forma oggetto a vicende espropriative.

In ragione di ciò le previsioni legislative che sanciscono l’estinzione dei diritti di uso civico in esito a procedure ablatorie (es. art. 12, comma 2, l. 31 gennaio 1994, n. 97) sono eccezionali e tassative, insuscettibili, in quanto tali, di formare oggetto di interpretazione estensiva ovvero di estensione analogica[37].

5. Tesi secondo cui l’espropriazione dei beni gravati da usi civici c.d. in re propria è ammissibile pur in difetto di previa sdemanializzazione in quanto tale effetto è insito nel decreto di esproprio

Secondo una differente impostazione ricostruttiva, l’espropriazione per pubblica utilità di beni gravati da usi civici non è subordinata ad un previo provvedimento di sdemanializzazione, ben potendo un siffatto effetto scaturire dal decreto di esproprio.

Tale posizione risulta espressa da Cass. Sezione Seconda civile, 26 aprile 2007 n. 9986[38], intervenuta in una fattispecie nella quale la Corte di appello aveva dichiarato estinti i diritti di uso civico sui terreni oggetto di espropriazione e di realizzazione di opera pubblica.

E’ utile richiamare l’apparato argomentativo della sentenza di appello[39], de plano condiviso dal giudice della nomofilachia.

In particolare, ad avviso della Corte di appello nel nostro ordinamento vige un principio generale secondo cui il decreto di esproprio determina l’estinzione dei diritti di uso civico gravanti sui beni espropriati, in applicazione del disposto di cui all’art. 52, comma 2, legge n. 2359/1865.

Detta previsione è stata ritenuta estensibile ai diritti di uso civico in virtù di plurimi riferimenti normativi espressivi di una linea di tendenza fatta propria dal legislatore.

Al riguardo sono stati richiamati, oltre all’art. 12, comma 2, l. n. 97/1994, l’art. 9, l. 12 maggio 1950 n. 230[40], nonché l’art. 111, commi 2 e ultimo, R.D.L. n. 3267/1923 (legge forestale)[41].

Pertanto i diritti di uso civico, non soggetti al regime dei beni demaniali, sono suscettibili di espropriazione forzata per pubblica utilità.

La Corte di Cassazione ha condiviso tale impostazione metodologica in quanto, in difetto di una norma espressa che equipari tali proprietà collettive ai beni demaniali, sulla base di una interpretazione sistematica di singole disposizioni il giudice di appello ha desunto il principio della soggezione ad espropriazione per pubblica utilità[42].

Tale orientamento riposa, peraltro, su un orientamento espresso della giurisprudenza costituzionale.

Al riguardo rileva la sentenza n. 391/1989[43] in cui il giudice costituzionale ha affermato che la tesi secondo cui le terre di uso civico non potrebbero essere incluse in parchi o riserve naturali se non previa procedura di “sdemanializzazione” a norma dell’art 12, comma 2, l. n. 1766/1927 e dell’art 39 del R.D. n. 332 /1928, non trova conforto nemmeno nel diritto anteriore alla Costituzione.

Ciò in quanto il vincolo di determinati terreni a parco o a riserva naturale può essere costituito “a qualsiasi proprietario appartengano”, cioè si rende operante secondo un criterio di trattamento indifferenziato dei vari tipi di proprietà.

A conforto depone, inoltre, il richiamato art 111, r.d. n. 3267/1923, il quale comprende tra i terreni boscati, che possono venire espropriati per essere incorporati nel demanio forestale, anche quelli “costituenti i demani comunali del Mezzogiorno e quelli di dominio collettivo nelle altre Province”.

Da questa norma la Corte ha argomentato che, diversamente dalla disciplina dei beni demaniali in senso stretto e tecnico, al regime di inalienabilità dei beni di uso civico (che dovrebbe, più esattamente, definirsi di alienabilità controllata) non inerisce la condizione di beni non suscettibili di espropriazione forzata per pubblica utilità[44].

6. I principi affermati da Cass., SS. UU. del 10 maggio 2023, n. 12570

Le Sezioni unite propendono per la tesi negatoria dell’ammissibilità dell’espropriazione per pubblica utilità dei beni gravati da usi civici di dominio della collettività – nel regime anteriore all’innesto del comma 1-bis nel corpo dell’art. 4 del testo unico espropriazioni, introdotto dalla novella del 2015 – in difetto di un previo formale provvedimento espresso di sdemanializzazione.

Il giudice della nomofilachia pone a fondamento dell’impianto argomentativo il disposto dell’art. 828, comma 2, cod. civ., a mente del quale “i beni che fanno parte del patrimonio indisponibile non possono essere sottratti alla loro destinazione, se non nei modi stabiliti dalle leggi che li riguardano”.

Da tale dettato si desume che occorre l’espressa previsione promanante da una fonte primaria per consentire l’espropriazione per pubblica utilità dei beni appartenenti al patrimonio indisponibile.

Se questo è il regime che connota i beni appartenenti al patrimonio indisponibile, a fortiori esso deve essere declinabile al demanio pubblico dello Stato e degli enti territoriali, che è ontologicamente caratterizzato da una destinazione di interesse pubblico, la quale può essere modificata con il venire meno della demanialità ovvero con la destinazione ad altro uso, disposta dalla competente autorità[45].

Da tali premesse le Sezioni Unite traggono la conclusione che l’indicato assetto giuridico è applicabile anche ai beni di uso civico collettivo, i quali sono “certamente assimilabili” ai beni demaniali, con ciò che ne consegue in punto di indisponibilità.

Ciò posto la pronuncia passa in rassegna gli argomenti sviluppati dalla giurisprudenza costituzionale, amministrativa e di legittimità a sostegno della tesi in essa avallata, onde riaffermarne la piena condivisibilità.

In primo luogo è stato richiamato il principio espresso dalla Corte costituzionale in due risalenti precedenti[46], in virtù del quale i beni gravati da usi civici, attesa la loro equiparabilità ai beni demaniali, non sono assoggettabili ad espropriazione per pubblica utilità.

In secondo luogo è stato valorizzato l’orientamento espresso dal Consiglio di Stato nell’esercizio della funzione consultiva, proclive ad affermare che, in considerazione del regime di indisponibilità dei beni di uso civico, “la destinazione ad altre finalità di pubblico interesse può avvenire solo in virtù di un atto di sclassificazione, che deve contenere la “comparazione dei vari interessi”; tale atto può avere come motivo di pubblico interesse l’esecuzione di un’opera pubblica, ma nel suo oggetto deve sempre contenere un provvedimento diretto alla sclassificazione dei beni.[47]

In terzo luogo ampio risalto è stato conferito alla pregressa giurisprudenza di legittimità stratificatasi in materia, espressasi nel senso della inespropriabilità dei beni gravati da usi civici in assenza di una previa sdemanializzazione.

Al riguardo è stato innanzitutto richiamato il tessuto argomentativo contenuto in Cass. SS. UU. n. 1671/1973, del quale sono state valorizzate due ordini di motivazioni: i) la dichiarazione di pubblica utilità dell’opera, in vista della quale si sviluppa il procedimento espropriativo, “non può ritenersi equivalente ad un provvedimento di sdemanializzazione di beni civici (di dominio collettivo)”; ii) inoltre, fermo che il provvedimento di “sdemanializzazione” non ammette equipollenti, in ogni caso un equipollente ad esso “non potrebbe rinvenirsi in un provvedimento emesso da una diversa autorità nell’esercizio di un potere diverso da quello attribuito in materia di usi civici”, ciò in quanto la dichiarazione di pubblica utilità è caratterizzata dalla funzione tipica di costituire il presupposto dell’espropriazione; al contempo, l’espropriazione non incide “sulla qualità del bene cui si riferisce nel senso di operarne (se siano civici) la sdemanializzazione” ma presuppone proprio quest’ultima quale condizione per il sorgere del potere espropriativo.

Sulla scorta di tale impianto motivazionale la citata pregressa pronuncia ha superato il contrario assunto, sostenuto dal ricorrente, secondo cui la vicenda espropriativa avrebbe determinato la sdemanializzazione del bene civico, con conseguente conversione in diritto all’indennità dell’uso civico delle popolazioni su terre proprie.

Inoltre sono stati esaminati gli arresti della Sezione seconda, n. 17595/2020, e della Sezione terza, n. 19792/2011.

Il primo si è appuntato sul principio di ermeneusi normativa ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit, in forza del quale laddove il legislatore abbia voluto sancire l’estinzione dei diritti di uso civico per effetto di una vicenda espropriativa, ha adottato espresse previsioni in merito: a tale stregua è stato richiamato il disposto dell’art. 12, comma 2, l. n. 97/1994, secondo cui “nei comuni montani i decreti di espropriazione per opere pubbliche o di pubblica utilità, per i quali i soggetti espropriati abbiano ottenuto, ove necessario, l’autorizzazione di cui all’art. 7 della legge 29 giugno 1939 n. 1497, e quella del Ministero dell’ambiente, determinano la cessazione degli usi civici eventualmente gravanti sui beni oggetto di espropriazione”.

Ne consegue che, in difetto di previsioni di tale portata, la vicenda espropriativa è ontologicamente insuscettibile di alterare la natura e la destinazione dei beni di uso civico.

Il secondo ha escluso che un bene gravato da uso civico possa formare oggetto di espropriazione forzata processualcivilistica in ragione del peculiare regime che lo connota, che vale ad assimilarlo ad un bene demaniale, da cui ne scaturisce l’inalienabilità in qualsiasi forma, compresa quella derivante dall’esecuzione forzata per equivalente.

Per contro, la pronuncia in esame ha disatteso l’antitetico principio espresso da Cass. n. 9986/2007, quest’ultima proclive ad ammettere la soggezione ad espropriazione per pubblica utilità dei beni di uso civico, nonostante il regime di inalienabilità di questi ultimi, stante la ritenuta non riconducibilità dei medesimi ai beni demaniali in senso stretto.

Le Sezioni Unite hanno rimarcato che la richiamata conclusione si caratterizza per la totale obliterazione sia della giurisprudenza di legittimità (segnatamente del citato precedente delle Sezioni Unite del 1973) sia della “pressoché univoca” giurisprudenza costituzionale “pur essa contraria alla tesi dell’espropriabilità per pubblica utilità dei beni collettivi gravati da usi civici[48].

In definitiva le Sezioni Unite, muovendo dalla premessa che i beni gravati da uso civico di dominio collettivo sono assimilabili ai beni demaniali, ne tratteggiano il peculiare regime giuridico ad immagine di questi ultimi, da cui discende quale logico corollario che l’espropriazione per pubblica utilità dei primi postula che sia adottata una previa misura di sdemanializzazione dei medesimi, a pena di illegittimità della vicenda espropriativa.

In altri termini stante l’equipollenza concettuale tra i diritti di uso civico ed i beni demaniali, la cessazione del peso fondiario non può operarsi per circostanze concludenti, ma solo tramite apposito provvedimento adottato dall’amministrazione pubblica, previa ponderazione degli interessi contrapposti.[49]

Ne consegue ulteriormente che gli usi civici non possono essere ritenuti implicitamente estinti per la mera costruzione dell’opera pubblica ovvero per effetto dell’adozione del decreto di esproprio ex art. 24 d.P.R. n. 327/2001, il quale ultimo, in difetto di un formale provvedimento di sdemanializzazione, sarebbe irrimediabilmente invalido nella misura in cui implicasse l’estinzione di diritti di uso civico gravanti su beni collettivi ed il trasferimento dei relativi diritti sull’indennità di espropriazione.[50]

7. Considerazioni conclusive

La pronuncia in commento ha affermato che i beni gravati da uso civico di dominio collettivo sono suscettibili di essere validamente ed efficacemente assoggettati ad una procedura di espropriazione per pubblica utilità, solo se preceduti da un procedimento di sdemanializzazione, da adottarsi nel rispetto delle procedure e in base ai criteri definiti dalla legge per ciascuna categoria di beni pubblici.

Il presupposto fondamentale, vero architrave di tale prospettazione, risiede nell’affermazione secondo cui i beni in questione sono soggetti al medesimo statuto giuridico che caratterizza i beni demaniali.

Tale ricostruzione riconduce ad unità e coerenza il sistema in quanto definisce una linea di continuità tra il regime anteriore alla novella apportata dalla l. n. 221/2015 – rispetto al quale l’ordinanza interlocutoria aveva sollecitato l’intervento nomofilattico delle Sezioni Unite – ed il regime attuale, scaturente da detto intervento legislativo, in forza del quale l’art. 4, d.P.R. n. 327/2001 è stato arricchito di un nuovo comma 1-bis, il quale subordina l’espropriazione o l’asservimento coattivo dei beni gravati da uso civico ad un previo mutamento di destinazione d’uso “fatte salve le ipotesi in cui l’opera pubblica o di pubblica utilità sia compatibile con l’esercizio dell’uso civico”.

Ciò in quanto il riferimento al “previo mutamento di destinazione d’uso” dei beni gravati da uso civico, contenuto nel richiamato comma 1-bis, implica l’adozione di una misura di sdemanializzazione e, in tal senso, è stato inteso nell’ordinanza interlocutoria[51].

La differente formulazione linguistica impiegata dal legislatore nel comma 1-bis rispetto alla previsione del precedente comma 1 del medesimo art. 4, in cui è esplicito il riferimento alla sdemanializzazione, non deve trarre in inganno.

Invero i beni gravati da uso civico di dominio collettivo si caratterizzano come beni di proprietà collettiva, destinati, in quanto tali, a fare fronte ad esigenze di una determinata collettività.

Lo statuto giuridico dei medesimi, scolpito nella l. n. 1766/1927 (artt. 9, 11, 12, 13, 21), è logicamente implicato da tale caratterizzazione ed è, conseguentemente, equipollente, nella sua intima essenza, a quello dei beni demaniali, nella misura in cui è connotato da inalienabilità, inusucapibilità, immodificabilità e di conservazione del vincolo di destinazione.

Se così è, è evidente che il mutamento di destinazione d’uso di tale tipologia di beni comporti inevitabilmente la sottrazione dei medesimi alla fruizione indifferenziata della collettività di riferimento e, dunque, la cessazione della relativa caratterizzazione pubblicistica.

Ne consegue, pertanto, che il mutamento di destinazione d’uso di un bene gravato da uso civico ha, in ultima analisi, la stessa valenza giuridica di una misura di sdemanializzazione, posto che entrambi gli interventi sottraggono i beni che ne sono investiti alla rilevanza pubblicistica che avevano precedentemente.

Tanto premesso si noti che le Sezioni Unite non hanno espressamente dato seguito alla considerazione enunciata nell’ordinanza interlocutoria[52], che riteneva rilevante il novum normativo del 2015 rispetto alla soluzione della questione controversa e, dunque, non si sono confrontate, quantomeno esplicitamente, con la valenza innovativa o dichiarativa di quest’ultimo.

Nondimeno dal tenore della soluzione offerta alla vexata quaestio dalle Sezioni Unite e dalle relative argomentazioni addotte a supporto, sembra potersi evincere che il regime dei beni gravati da uso civico in punto di soggezione ad espropriazione per pubblica utilità, delineato dalla novella del 2015, sia in realtà ricognitivo del sistema anteriore, così interpretato e ricostruito nella pronuncia in commento, avendone conservato l’assetto fondamentale.

In tal senso deve essere inteso il rilievo, poco sopra formulato, secondo cui l’intervento nomofilattico ha operato una riconduzione ad unità del sistema.

Ulteriore elemento di riflessione concerne la natura del provvedimento di sdemanializzazione, la cui previa adozione vale a legittimare la vicenda espropriativa, alla stregua di un ineludibile presupposto di legittimità.

Ciò in quanto il provvedimento di sdemanializzazione si impone in funzione della recisione del regime pubblicistico dei beni di uso civico che, come più volte osservato, vale ad assimilarli ai beni demaniali.

Ne consegue che la sdemanializzazione ha ontologicamente valenza costitutiva in quanto determina il venire meno del pregresso regime di inalienabilità, inusucapibilità, immodificabilità e di conservazione del vincolo di destinazione dei beni di uso civico e, atteso tale effetto, vale a radicare una legittima procedura espropriativa.

In tal modo la sdemanializzazione dei beni gravati da uso civico ha la stessa valenza che essa riveste in genere rispetto ai beni del demanio artificiale nonché, in alcune ipotesi eccezionali, rispetto a taluni beni del demanio naturale[53].

Merita, infine, soffermarsi sul regime di invalidità del decreto di espropriazione di un bene gravato da uso civico, adottato in assenza di un previo provvedimento di sdemanializzazione.

Sul punto l’arresto nomofilattico in esame, da un lato, predica l’invalidità del decreto di esproprio adottato in un siffatto contesto, dall’altro afferma che, in tal caso, “i diritti di uso civico gravanti su beni collettivi non possono essere posti nel nulla (ovvero considerati implicitamente estinti)[54].

Orbene, il riferimento alla insuscettibilità del decreto di espropriazione, emesso in difetto di previa sdemanializzazione, ad estinguere i diritti di uso civico gravanti su beni collettivi, sembra evocare la categoria giuridica della nullità[55] del provvedimento amministrativo nella misura in cui, non essendo idoneo ad estinguere i diritti di uso civico, detto decreto sembra considerato dal supremo collegio tamquam non esset.

In quanto tale, il decreto di espropriazione in assenza di previa sdemanializzazione non altera la destinazione ad uso civico dei beni collettivi.

Questa possibile ricostruzione del dictum nomofilattico deve, tuttavia, confrontarsi con il dettato dell’art. 21-septies, l. n. 241/1990, che circoscrive le ipotesi di nullità del provvedimento amministrativo alle fattispecie di nullità strutturale (difetto degli elementi essenziali), di nullità testuale (nei casi previsti dalla legge), di difetto assoluto di attribuzione o di violazione o elusione del giudicato.

In disparte le ultime due ipotesi, che non rilevano, e posto che difetta una espressa comminatoria di nullità da parte del legislatore per il decreto di espropriazione in assenza di previa sdemanializzazione, un possibile ancoraggio della fattispecie in esame al genus della più radicale patologia provvedimentale potrebbe rinvenirsi nella categoria della nullità strutturale, nella misura in cui sia possibile traguardare il decreto di espropriazione come privo di un elemento essenziale.

Sennonché una tale soluzione ricostruttiva si pone in attrito con il rilievo secondo cui il previo provvedimento di sdemanializzazione configura (non già un elemento essenziale, sibbene) un presupposto di legittimità del decreto di espropriazione, il cui difetto, secondo i principi generali, ne determina l’annullabilità.

Ciò in quanto l’atto di sdemanializzazione si atteggia alla stregua di un presupposto esterno rispetto al decreto di espropriazione, ed in quanto tale esso non ne integra uno degli elementi essenziali di struttura, posto che questi ultimi, secondo un constante insegnamento, si appuntano esclusivamente sugli elementi intriseci del provvedimento di cui compongono il profilo strutturale, la mancanza dei quali, pertanto, incide sulla stessa possibilità di ritenere compiutamente perfezionata la fattispecie provvedimentale.

In altri termini, poiché il difetto di elementi essenziali postula esclusivamente una carenza strutturale intrinseca propria del provvedimento e non difetti afferenti a vicende esterne ad esso[56], ne consegue l’impossibilità di qualificare in termini di nullità il decreto espropriativo adottato in difetto di una previa misura di sdemanializzazione.

Dai rilievi che precedono discende che la fattispecie patologica in questione deve essere sussunta nella categoria dell’annullabilità per violazione di legge ex art. 21-octies, l. n. 241/1990.

La conseguenza più evidente che deriva da tale prospettazione è che, in difetto di tempestiva impugnazione, il decreto di espropriazione senza previa sdemanializzazione è comunque destinato a stabilizzarsi sul piano sostanziale, residuando soltanto la via dell’annullamento in autotutela, legata, tuttavia, come noto, ad una determinazione ampiamente discrezionale della Pubblica amministrazione ed al ricorrere dei requisiti dall’art. 21-novies, l. n. 241/1990.

Vi è, dunque, il rischio che, nella concretezza delle vicende amministrative, si possa produrre una attenuazione del livello di protezione dei beni civici collettivi, in quanto la vicenda espropriativa è surrettiziamente suscettibile, sia pure in esito ad una vicenda giuridicamente anomala, di alterare la destinazione ad uso civico del bene che ne forma oggetto.

Onde scongiurare una siffatta evenienza si appalesa ineludibile un nuovo intervento legislativo rivolto a comminare espressamente la nullità a carico del decreto di espropriazione dei beni collettivi gravati da usi civici, in assenza di un previo provvedimento di sdemanializzazione.

In tal modo la fattispecie di invalidità sarebbe armonicamente riconducibile alla categoria della nullità testuale, conseguendone l’applicazione del relativo regime sostanziale e processuale, meno improntato ad assecondare esigenze di stabilità dei provvedimenti amministrativi.

  1. Abilitata all’esercizio della professione di avvocato; praticante con elevata formazione giuridica presso AGCM.
  2. Cerulli Irelli V. (2021), “Usi civici” e “proprietà collettiva”: principi della disciplina e questioni irrisolte (brevi osservazioni)” (nota a Corte Cost. 2 dicembre 2021 n. 228), in Giur. Cost., 6, pp. 2521 ss., spec. 2536, evidenzia che “i beni oggetto di “usi civici” o di “proprietà collettiva” derivano da una apprensione originaria della comunità come tale (non identificata nelle persone fisiche dei suoi membri) da intendere come fatto (la comunità si appropria dei beni con il lavoro, per le sue esigenze di vita) ovvero attraverso un atto (spesso è il fatto che viene riconosciuto e formalizzato attraverso un atto) di autorità sovrane o di signori feudali che alla comunità stessa destinano beni o territori di propria pertinenza (nel senso di signoria sovrana o feudale).” In dottrina si richiama Cristoferi D. (2016), Da usi civici a beni comuni: gli studi sulla proprietà collettiva nella medievistica e nella modernistica italiana e le principali tendenze internazionali, in Studi Storici, vol. 57, no. 3, pp. 577-604; Lauria F. (1924), Demani e feudi nell’Italia Meridionale, Napoli; Cassandro G.P. (1943), Storia delle terre comuni e degli usi civici nell’Italia Meridionale, Bari; Cervati G. (1947), In tema di prova della natura feudale dei beni in rapporto alla presunzione ubi feuda ibi demania, in Arch. Ric. Giur.
  3. Secondo Cerulli Irelli V. (2021), “Usi civici” e “proprietà collettiva”: principi della disciplina e questioni irrisolte (brevi osservazioni)”, cit., p. 2537, “Si afferma un principio generale (esteso anche al di fuori dell’ambiente giuridico napoletano dove era nato) che in tutti i feudi abitati sussistesse il diritto della popolazione ad esercitare, sulle terre infeudate e aperte (salvo quelle che potessero legittimamente essere chiuse ad uso esclusivo del feudatario), gli usi civici secondo le diverse consuetudini in vigore. Ciò comporta, ai fini dell’accertamento della sussistenza degli usi civici su un indeterminato tenimento feudale abitato, la sola prova del carattere feudale di tale tenimento.”
  4. Secondo Cerulli Irelli V. (2021), op. cit., pp. 2537- 2538, “Il regime di tutela dei beni si configura in termini rigidamente “demaniali”, con la conseguente sanzione della nullità degli atti posti in essere in violazione dei divieti di legge, nonché la sottrazione dei beni alla responsabilità patrimoniale del Comune o di altro ente (cui i beni per definizione non “appartengono”) verso i creditori”.
  5. App. Roma, sent. n. 6/2017.
  6. In www.wolterskluwer.com/it
  7. In www.wolterskluwer.com/it
  8. In dottrina, v. Chieppa R., Giovagnoli R. (2018), Manuale di diritto amministrativo, Giuffrè Francis Lefebvre, IV Ed., p. 420; Caputi Jambrenghi V. (1988), Beni pubblici, in EG, V, Roma; Cerulli Irelli V. (1990), Servitù (dir. Pubbl.), in ED, XLII, Milano.
  9. In dottrina v. Lolli A. (1996), Proprietà e potere nella gestione dei beni pubblici e dei beni di interesse pubblico, in Dir. Amm., pp. 53 ss.; Cerulli Irelli V. (1987), Beni pubblici, in Digesto pubbl., II, Torino.
  10. Per un inquadramento v. Cerulli Irelli V. (2021), op. cit., pp. 2534-2535, ed ivi ulteriori richiami bibliografici. Sul tema v., in generale, Cerulli Irelli V. (2022), Il Saggio. Usi civici e proprietà collettiva”, in Diritto pubblico della “proprietà” e dei “beni”, Torino; Marinelli F. (2022), Gli usi civici, in Tratt. Dir. Civ., comm. Cicu-Messineo, Giuffrè; Cervale M.C. (2023), Usi civici e domini collettivi, la proprietà plurale e il diritto civile, in Tratt. dir. civ. Cons. naz. notariato, ed. scientifiche italiane; Bertani D. (2020), L’ordinamento dei domini collettivi, Pacini giuridica; Saleppichi G. (2020), La tutela costituzionale degli usi civici tra regime civilistico speciale e valenza paesistico-ambientale (a partire dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 71 del 2020), in Riv. Aic., n. 4, 6 ottobre 2020, pp. 75 ss.; Grossi P. (2020), Un altro modo di possedere (riflessioni storico-giuridiche sugli assetti fondiari collettivi in Italia), in Rivista Agroalimentare n. 3/2020; Petronio U. (1988), Usi e demani civici fra tradizione storica e dogmatica giuridica, in Giuffrè Ed.; Petronio U. (2021), Usi civici, in Enciclopedia del diritto, XLV, Milano, Giuffrè Ed.; Principato L. (2015), I profili costituzionali degli usi civici, in re aliena e dei domini collettivi, in Giur. Cost., p. 207; Lorizio M.A. (1994), Usi civici, in Enc. Giur. Treccani, Roma, XXXII; Merusi F. (2002), I domini collettivi tra l’interesse della collettività territoriale locale e il pubblico interesse, in P. Nervi (a cura di), I domini collettivi nella pianificazione strategica dello sviluppo delle aree rurali, Padova; Volante R. (2015), Usi civici e proprietà collettiva. La giurisprudenza amministrativa alla ricerca di una definizione, in Archivio Scialoja-Bolla, I, p. 149 ss.
  11. In termini Chieppa R., Giovagnoli R. (2018), op loc. cit., i quali sottolineano che nel corso degli anni gli usi civici hanno assunto una valenza ambientale e paesaggistica sempre di maggiore rilievo: la finalità che il legislatore del 1927 aveva perseguito con detti usi era quella della liquidazione, in realtà non raggiunta, proprio perché negli anni è andato sempre più emergendo il collegamento funzionale tra disciplina degli usi pubblici e la tutela dell’ambiente. In particolare, la l. n. 431/1985, (Legge Galasso) e, successivamente, il d.lgs. n. 42/2004, (Codice dei beni culturali e del paesaggio) hanno sottoposto a vincolo paesaggistico anche le aree assegnate alle università agrarie e le zone gravate da usi civici. Si veda anche Novarese F. (1986), Dal decreto Galasso alla legge 8 agosto 1985, n. 431. Breve storia di un’importante svolta in materia ambientale, in Riv. Giur. Edil., II, p. 209 ss.
  12. La legge n. 1766/1927 disciplina i seguenti profili: accertamento dell’esistenza, natura ed estensione dei diritti di uso civico; liquidazione degli usi civici su terre private, di norma tramite scorporo; scioglimento della promiscuità; legittimazioni di occupazioni arbitrarie di terre di uso civico in presenza del verificarsi delle condizioni previste dalla legge; reintegra al demanio civico delle terre occupate nei casi in cui non avvenga la legittimazione; assegnazione delle terre di uso civico alle 2 categorie previste dalla legge: a) terreni convenientemente utilizzabili come bosco o pascolo permanente; b) terreni convenientemente utilizzabili per la coltura agraria; divieto di alienazione o mutamento di destinazione dei terreni di cui alla categoria a) senza autorizzazione del Ministero dell’Agricoltura (ora Regione); quotizzazione dei terreni assegnati alla categoria b); è possibile l’affrancazione del canone che determina la privatizzazione della terra.
  13. Per una ricostruzione del momento storico in cui ebbe a maturare la legge madre sugli usi civici, v. Petronio U. (1991), Dalla legge del 1927 al disegno di legge quadro: problemi storico-giuridici, in Fanelli O. (a cura di), Gli usi civici. Realtà attuali e prospettive, Milano, p. 37 ss.; Siniscalchi A. (1981), La legge del 1927 annotata con le massime di giurisprudenza, in A.a. V.v. Le leggi complementari al codice civile, Milano, p. 2 ss.; Cervati G. (1951), Gli usi civici e la giurisprudenza della Corte di Cassazione e del Consiglio di Stato, in Riv. Trim. dir. Pubbl.; Siniscalchi A. (1981), La legge del 1927 annotata con le massime di giurisprudenza, in Id., Le leggi complementari al codice civile, Milano, p. 2 ss. Cass. sez. un. n. 12570/2023, p. 26, pone in luce che dal combinato disposto degli artt. 1 e 3 della legge n. 1766/1927 si evince che nell’ambito delle situazioni dominicali collettive individuate dal legislatore esistono quattro classi di situazioni giuridiche diversamente strutturate: (i) i diritti collettivi di godimento su fondo altrui; (ii) le proprietà collettive e, più in particolare, le proprietà collettive aperte; (iii) le proprietà collettive chiuse formate dai discendenti di particolari comunità; (iv) le situazioni di promiscuità, ossia situazioni di promiscuo godimento dello stesso fondo da parte della collettività.
  14. Così, Cass. sez. un. n. 12570/2023, pp. 30 ss., il cui impianto argomentativo è richiamato nel testo. V. altresì Cerulli Irelli V. (2021), op. cit., 2535, e Cervati G. (1967), Aspetti della legislazione vigente circa usi civici e terre di uso civico, in Riv. Trim. dir. Pubbl.
  15. Cass. sez. un. n. 1671/1973, richiamata nella sentenza in commento, pp. 37-38. In tema di liquidazione v. Parente F. (2011), La liquidazione degli usi civici e il controllo sui vincoli alla circolazione, in Riv. Dir. Civ., I, 91; Cerulli Irelli V. (1983), Proprietà pubblica e diritti collettivi, Padova, 265; Marinelli F. (1995), Usi civici, tutela dell’ambiente e poteri d’ufficio del commissario liquidatore, in Giur. Civ., IV, pp. 865 ss.
  16. Cass., Civ., sez. un., n. 12570/2023, rileva che “Agli usi civici in re propria si riferiscono le disposizioni della legge n. 1766/1927 concernenti l’accertamento delle arbitrarie occupazioni da parte dei privati al fine alternativo della legittimazione a favore dell’occupatore o della reintegra per la destinazione dei terreni al soddisfacimento di pubbliche finalità nei modi previsti dalla legge” (p. 32).
  17. Sul punto v. Di Genio G. (2019), Gli usi civici nel quadro costituzionale (alla luce della legge 168 del 20 novembre 2017), G. Giappichelli editore; Volante R. (2018), Un terzo ordinamento civile della proprietà. La legge 20 novembre 2017, n. 168 in materia di diritti collettivi, in Le nuove leggi civili commentate, n. 5/2018, p. 1068 ss., Pagliari G. (2019), Prime note sulla l. 20 novembre 2017, n. 168 (Norme in materia di domini collettivi), in Il Dir. Dell’econ., I, p. 11 ss.; Politi F. (2019), Riflessioni sulle novità della legge n. 168 del 2017 nella prospettiva del diritto costituzionale. Cosa resta delle competenze regionali? in Marinelli F.-Politi F. (a cura di), Domini collettivi ed usi civici. Riflessioni sulla legge n. 168 del 2017, Pisa, pp. 23-56.; Marinelli F. (2019), La cultura dei domini collettivi e la riforma degli usi civici, in cnpaf, 3, p. 6; Nervi P., Calicetti E., Iob M. (2019), Beni e domini collettivi, Key editore; Cosulich M. (2017), La legge 20 novembre 2017, n. 168. <<Norme in materia di demani collettivi>>. Osservazioni a prima lettura, in Riv. Dir. Agr., p. 691 ss.
  18. Il riferimento corre alla l. n. 394/1991, che ha previsto la conservazione e valorizzazione dei beni gravati da uso civico presenti sul territorio su cui si estende il parco, nonché al d. lgs. n. 42/2004, il cui art. 142, lett. h), prevede l’assoggettamento alla disciplina della tutela paesaggistica “le aree assegnate alle università agrarie e le zone gravate da usi civici”, in linea con l’analoga previsione contenuta nell’art. 1, legge 8 agosto 1985 n. 431. V., al riguardo, in dottrina, Louvin R. (2022), La funzione ambientale dei domini collettivi, in Rivista quadrimestrale di diritto dell’ambiente, 3, pp. 210 ss.; Santini G. (2021), Costituzione e ambiente: la riforma degli artt. 9 e 41 Cost., in Forum di Quaderni Costituzionali, 2, p. 471; Buoso E. (2018), La disciplina dei terreni gravati da usi civici e delle terre collettive tra paesaggio e ordinamento civile, in Le Regioni, 5-6, pp. 1074-1101.; Marinelli F. (1995), Usi civici, tutela dell’ambiente e poteri d’ufficio del commissario liquidatore, in Giust. Civ., I, p. 865; Lorizio A. (1995), Il riordino degli usi civici, in Gior. Dir. Amm., p. 609; Assini N., Francalacci P. (1995), Gli usi civici nella recente legislazione ambientale. Le aree di uso civico tra tutela dell’ambiente e salvaguardia della tutela delle attività economiche tradizionali: alcune riflessioni, in Nuova Rass., p. 1958 ss.; Barana A, (2003), Gli usi civici nel contesto dei parchi naturali e nella più ampia funzione di salvaguardia del territorio, in P. Nervi (a cura di), Cosa apprendere dalla proprietà collettiva: la consuetudine tra tradizione e modernità, Padova, p. 303 ss.; Buoso E. (2018), Gli usi civici come valori paesaggistici della comunità nazionale, in Le Regioni, III, p. 453 ss.; Buoso E. (2018), La disciplina dei terreni gravati da usi civici e delle terre colletti e tra paesaggio e ordinamento civile, in Le Regioni, V-VI, p. 1074 ss; Cervale M.C. (2020), Usi civici, diritto civile e tutela del paesaggio: la muova legge sui domini collettivi, in Marinelli F. (a cura di), Lezioni sulla proprietà collettiva, Pisa, p. 353 ss.; Colleo N. (2020), La dimensione paesaggistico- ambientale dell’uso civico. Riflessioni sulle origini e proiezioni verso una moderna dimensione della gestione delle terre di dominio collettivo, in Federalismi.it, II; Lumetti M.V. (2015), Gli usi civici e la tutela ambientale, in Picozza E., Dell’Anno P. (a cura di), Trattato di diritto dell’ambiente, III, Padova, p. 259 ss.
  19. Corte Cost. n. 228/2021, in www.giurcost.org, ha posto in luce l’impostazione di fondo che anima tale intervento normativo: “Dalla nuova legge […] emerge con evidenza il netto cambiamento di prospettiva con cui l’ordinamento statale ha provveduto alla regolamentazione della materia. Se la disciplina contenuta nella legge 1766 del 1927 era ispirata ad una chiara finalità liquidatoria, che trovava fondamento nella posizione di disfavore con cui il legislatore dell’epoca valutava l’uso promiscuo delle risorse fondiarie e nell’esigenza di trasformare la proprietà collettiva in proprietà individuale, nel quadro del controllo sull’indirizzo delle attività produttive proprio del carattere dirigistico dell’ordinamento corporativo, al contrario la disciplina contenuta nella legge 168 del 2017, pur senza abrogare la precedente normativa, risulta orientata alla prevalente esigenza di salvaguardare le numerose forme, molteplici e diverse nelle varie aree territoriali, in cui si realizzano modalità di godimento congiunto e riservato di un bene fondiario da parte dei membri di una comunità, sul presupposto che esse sono funzionali non soltanto alla realizzazione di un interesse privato dei partecipanti, ma anche di interessi superindividuali di carattere generale, connessi con la salvaguardia dell’ambiente, del paesaggio e del patrimonio storico e culturale del Paese.” (§ 4.1)
  20. Corte Cost. n. 228/2021, cit., definisce il dominio collettivo alla stregua di un “diritto reale riservato a una comunità, di usare e godere congiuntamente in via incidentale o collettiva di un bene fondiario o di un corpo idrico sulla base di una norma preesistente all’ordinamento dello Stato italiano. […] Si tratta di un diritto soggettivo dominicale, che, quale proprietà collettiva, si colloca tra quelle, privata e pubblica, previste dall’art. 42, primo comma, Cost., avente ad oggetto un bene economico riferibile all’ente esponenziale della collettività degli aventi diritto.” (§ 4.2.) La pronuncia si sofferma sui peculiari caratteri di tale diritto, che riguardano: i) i soggetti che ne sono titolari o che ne hanno l’amministrazione; ii) l’oggetto, costituito dai beni su cui può essere esercitato il diritto; iii) la situazione giuridica soggettiva attribuita dall’ordinamento per la tutela dell’interesse che lega i soggetti ai beni. Riguardo ai soggetti, “occorre distinguere i singoli appartenenti alle collettività, titolari dei diritti di uso civico e della proprietà collettiva, dagli enti esponenziali di tali collettività.” La l. n. 168/2017, nel solco della l. n. 1766/1927, ha confermato che i soggetti titolari del diritto devono essere “identificati nei singoli soggetti che fanno parte di una determinata collettività, l’appartenenza alla quale dipende dalle regole consuetudinarie che la disciplinano e che variano secondo le diverse realtà territoriali”; gli enti esponenziali hanno personalità giuridica di diritto privato, autonomia statutaria “e danno vita, quanto alla regolamentazione dei domini collettivi, ad un «ordinamento giuridico primario delle comunità originarie», soggetto alla Costituzione” (§ 4.2.1). Riguardo all’oggetto la Corte precisa che “il regime dei beni gravati da usi civici (ora oggetto di domini collettivi) non è mutato nella sostanza. Esso è improntato ai principi della intrasferibilità (sia inter vivos che mortis causa), inusucapibilità, imprescrittibilità e indivisibilità”. La Corte osserva, inoltre, che il regime è stato reso ancor più rigido rispetto a quanto previsto dalla l. n. 1766/1927, dalla previsione di cui all’art. 3, comma 6, nella quale si afferma che con l’imposizione del vincolo paesaggistico nelle zone gravate da usi civici “l’ordinamento giuridico garantisce l’interesse della collettività generale alla conservazione degli usi civici per contribuire alla salvaguardia dell’ambiente e del paesaggio” (§ 4.2.2). Riguardo alla situazione giuridica soggettiva attribuita dall’ordinamento per tutelare l’interesse dei singoli membri della collettività all’uso promiscuo dei beni collettivi, la Corte, richiamando la propria giurisprudenza, ha ribadito che essa “ha natura di diritto soggettivo dominicale presentando le caratteristiche tipiche del diritto di proprietà, quali, in particolare, la realità (si tratta di un potere immediato e diretto sulla res), l’assolutezza (il diritto può essere fatto valere erga omnes) e l’inerenza (il diritto grava direttamente sul bene)”. Sotto il profilo della struttura di tali situazioni soggetti, il diritto di proprietà collettiva implica una situazione giuridica di godimento preesistente allo Stato italiano, esercitata con caratteri di normalità e non di eccezionalità, avente ad oggetto lo sfruttamento di un fondo […] e connotato dal carattere “congiunto” e “riservato” dell’uso. […] Tale carattere congiunto dell’uso sta a significare che i terreni sono aperti al godimento promiscuo di tutti gli appartenenti alla collettività, […] in ragione di ciò, la proprietà collettiva si qualifica come comunione senza quote, in quanto, a differenza della comunione ordinaria, per un verso, il diritto di ogni comunista non è limitato ad una frazione o quota del bene comune; per altro verso, l’uso degli altri comunisti non trova limite nella quota o frazione di ciascuno. […] Il carattere riservato dell’uso costituisce un riflesso della natura reale del diritto che può essere rivendicato erga omnes sia dai singoli sia dalla comunità.” (§ 4.2.3.).
  21. Tale previsione è stata dichiarata costituzionalmente illegittima da Corte cost., n. 119/2023 (in www.giurcost.org) nella parte in cui, riferendosi ai beni indicati dal comma 1 del medesimo art. 3 (che elenca i beni collettivi), non esclude dal regime della inalienabilità le terre di proprietà di privati, sulle quali i residenti del comune o della frazione esercitano usi civici non ancora liquidati.
  22. E’ significativa, nell’economia del presente lavoro, l’ermeneusi di tale previsione fornita da Cass., Civ., sez. un., n. 12570/2023: “[…] l’uso del verbo “resta” va ritenuto manifestazione consapevole di quanto già previsto dalla legge del 1927 e l’aggiunta specificativa della “perpetua destinazione agro-silvo-pastorale” è sintomatica di una connotazione di “intangibilità di tali beni” nella loro funzione e nella finalità che perseguono, da cui – ad avviso dei predominanti orientamenti dottrinali – scaturirebbe la loro inassoggettabilità alla procedura “incondizionata” di espropriazione per pubblica utilità, perciò, attuabile solo previa “sdemanializzazione” o “sclassificazione” da parte della competente autorità” (pp. 33-34).
  23. Casetta E. (2019), Manuale di diritto amministrativo, Milano, p. 341 ss. Tra i provvedimenti ablatori rientrano, oltre alle espropriazioni, le occupazioni, le requisizioni, le confische e i sequestri. Sul punto Ferrari G. (2016), Il procedimento espropriativo nel sistema dei procedimenti ablatori reali: elementi comuni e differenze, in Garofoli-Ferrari, Codice dell’espropriazione, Roma, III Ed; Piterà F. (2004), L’espropriazione per p.u., distinzione da figure analoghe, in La nuova disciplina dell’espropriazione-Commentario al d.P.R. 8 gennaio 2001, n. 327, a cura di Piterà, Torino; Centofanti N. (2006), L’espropriazione per pubblica utilità, Milano, p- 667 ss.; Vignale M. (1951), L’assetto attuale dell’espropriazione per pubblica utilità, Napoli; Comporti M. (2005), La nozione europea della proprietà e il giusto indennizzo espropriativo, in Riv. Giur. ed., 1, p. 109; Giannini M.S. (1993), Diritto Amministrativo, Milano; Leone G. (2001), Osservazioni a margine del nuovo testo unico delle espropriazioni per pubblica utilità, in Riv. giur. Edilizia, 4, p. 291; Sciullo G. (2011), La base giuridica dell’espropriazione: il vincolo preordinato all’esproprio, la dichiarazione di pubblica utilità e l’occupazione acquisitiva, in www.lexitalia.it, n. 11; Comporti G. (2007), La giusta indennità espropriativa tra giurisprudenza europea e giurisprudenza italiana, in Riv. giur. ed., 2, p. 37; Durante N. (2004), L’indennità di espropriazione ed i criteri per la sua determinazione, in giustizia-amministrativa.it; Brunella B, Freni F. Mazza Laboccetta A. (2022), Espropriazione per pubblica utilità, Giuffrè; Meale A. (2023), Manuale breve di diritto delle espropriazioni, Pacini Giuridica; Spanò G. (2018), L’espropriazione per pubblica utilità, Key editore; Cerisano G. (2013), La procedura di espropriazione per pubblica utilità, Cedam, Centofanti N. (2009), L’espropriazione per pubblica utilità, Giuffrè, IV ed.; Landi G. (1984), L’espropriazione per pubblica utilità, Giuffrè; Guaucci G. Perongini S. (2013), Profili giuridici dell’espropriazione per pubblica utilità, Giappichelli; Sciullo G., Ferrara R., Sala G. (2004), Il testo unico in materia di espropriazione, Giappichelli.
  24. Così Paire A. (2020), Contributo allo studio degli usi civici, in Editoriale scientifica, Napoli, p. 369, ed ivi richiamo bibliografico sub nota 256. Sul punto, v. altresì Cerulli Irelli V. (2016), Apprendere <<per laudo>>. Saggio sulla proprietà collettiva, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, XLV, p. 346 ss.; Petronio U. (2006), Rileggendo la legge usi civici, in Riv. Dir. Civ., p. 615.; Tommasella E. (2000), Espropriabilità dei beni civici, in P. Nervi (a cura di), Dominii collettivi e autonomia, Padova, p. 123 ss. La problematica esposta nel testo si inserisce nel dibattito dell’assoggettabilità dei beni pubblici alle procedure di espropriazione per pubblica utilità. In proposito per tutti, Garofoli R. – Ferrari G. (2021), Manuale di diritto amministrativo, Nel Diritto Editore, XV ed., p. 515. Gli autori sottolineano che non si riscontrano significative divergenze circa la possibilità di esercitare il sopra menzionato potere ablatorio nei confronti dei beni del patrimonio disponibile e dei beni di interesse pubblico: tale facoltà è unanimemente riconosciuta, stante lo statuto privatistico dei beni in questione. Nulla quaestio, ancorché in senso inverso, anche per i beni demaniali, atteso che, tali beni, come ribadito dal Testo unico non sono espropriabili, se non previa sdemanializzazione (Tar Lazio n. 6365/2009). I beni demaniali, infatti, a norma dell’art 823 cod. civ., non possono formare oggetto di negozi traslativi o costitutivi di diritti reali, di diritti in favore di terzi, non sono sottoponibili a procedure civilistiche di espropriazione coattiva e non possono formare oggetto di usucapione. Gli unici rapporti giuridici che possono essere costituiti con soggetti privati con riguardo a tali beni presuppongono il ricorso allo strumento della concessione. Quanto ai beni del patrimonio indisponibile, la giurisprudenza aveva ammesso l’espropriazione, ove necessario al fine di perseguire un’utilità superiore rispetto a quella cui i beni stessi sono asserviti al momento dell’ablazione (Cons. Stato n. 439/1977).
  25. Relativo alla “espropriazione, anche a favore di privati, dei beni immobili o di diritti relativi ad immobili per l’esecuzione di opere pubbliche o di pubblica utilità”. Paire A. (2020), op. cit., p. 369, sub nota 256, evidenzia che tale fonte rappresenta il primo riordino globale delle disposizioni in materia di espropriazioni, la cui fonte normativa principale, sino ad allora, era costituta dalla legge 25 giugno 1865, n. 2359, rubricata “Disciplina delle espropriazioni forzate per causa di pubblica utilità”. Per un inquadramento sull’argomento: Sorace D. (1991), Espropriazione per pubblica utilità, in Dig. Disc. Pubbl., Torino; Conticelli M. (2003), L’espropriazione, in Cassese S. (a cura di), Trattato di diritto amministrativo, Diritto amministrativo speciale, Milano, p. 1445 ss.; Caranta R. (2000), Giusto procedimento ed espropriazione, in Gior. Dir. Amministr., p. 162; Scoca F.G. (2006), Modalità di espropriazione e rispetto dei beni (immobiliari) privati, in Dir. Amm., p. 536; Maruotti L., Caringella F., De Marzo G., De Nictolis R. (2007), L’espropriazione per pubblica utilità, Milano; Ferrara L. (2001), L’espropriazione per pubblica utilità e l’occupazione acquisitiva: i criteri di determinazione dell’indennizzo e la determinazione del risarcimento del danno attraverso le pronunce giurisdizionali, in Riv. Giur. dell’edil., II, p. 143 ss.; Travi A. (2004), Commentario sistematico al testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità, in Travi A. (a cura di), Padova; Conticelli M. (2003), L’espropriazione, in Cassese S. (a cura di), Trattato di diritto amministrativo. Diritto amministrativo speciale, Milano, p. 1445 ss.; Sorace D., Torricelli A. (2018), Espropriazione per pubblica utilità, in Scoca F.G., Stella Richter P., Urbani P. (a cura di), Trattato di diritto del territorio, Torino, p. 389 ss.; Tommasella E. (2000), Espropriabilità dei beni civici, in P. Nervi (a cura di), Dominii collettivi e autonomia, Padova, p. 123 ss.
  26. Si noti che il legislatore ha esplicitato, nell’art. 74, l. n. 221/2015, che la ratio dell’intervento normativo in discorso è riconducibile a finalità di “gestione e dello sviluppo sostenibile del territorio e delle opere pubbliche o di pubblica utilità, nonché per una corretta gestione e tutela degli usi civici […]”.
  27. Garofoli R. – Ferrari G. (2021), op. cit., p. 515, rilevano che tale disposizione non pare incompatibile con l’art. 828, comma 2, cod. civ.
  28. In tema di sdemanializzazione, v. Querci E.O. (2005), Sdemanializzazione (voce), in Dig. Disc. Pubbl. Aggiornamento, Torino, p. 663; Sandulli A.M. (1959), Beni pubblici, in Enc. Dir., Milano, p. 277 ss. In generale, la questione dell’inizio e della cessazione della demanialità (o del regime pubblicistico) è affrontata in dottrina avuto riguardo alla distinzione tra beni pubblici naturali e beni pubblici artificiali. Per una ricostruzione della tematica, v. Chieppa R. – Giovagnoli R. (2018), op. cit., pp. 418-420, di cui si dà conto, sinteticamente, nel seguito. I beni naturali, i quali sono pubblici per le loro caratteristiche naturali, l’inizio della demanialità coincide con la loro venuta ad esistenza. Di conseguenza, si attribuisce un valore meramente dichiarativo agli atti con cui la Pubblica amministrazione individua e classifica tale tipologia di beni. Per i beni del demanio artificiale, invece, non è sufficiente la venuta ad esistenza del bene, ma occorre un elemento ulteriore: la destinazione del bene all’uso pubblico. Ci si chiede come debba essere inteso il requisito della destinazione del bene all’uso pubblico, che può essere, a sua volta, uso collettivo oppure uso amministrativo. E’ controverso come debba essere inteso il requisito della destinazione del bene all’uso pubblico. Sul tema si contrappongono due tesi: i) oggettiva; ii) soggettiva. Secondo il primo orientamento basterebbe il fatto oggettivo che il bene sia destinato all’uso pubblico, a prescindere da qualsiasi atto di destinazione della Pubblica amministrazione. Per il secondo orientamento (che gli Autori indicano come maggioritario), oltre alla destinazione all’uso pubblico, serve anche un atto con cui la Pubblica amministrazione manifesti (anche implicitamente) la volontà di destinare il bene all’uso pubblico. Tale atto di destinazione, avrebbe, quindi, effetti costitutivi della demanialità. Gli Autori ritengono che questa seconda tesi sia preferibile in quanto il regime giuridico dei beni demaniali si traduce in una limitazione alla circolazione dei beni in contrasto con alcuni principi fondamentali cui si ispira il nostro ordinamento: in particolare, l’inalienabilità contrasta con il principio generale di incentivazione degli scambi; l’inusucapibilità contrasta con il principio di certezza dei diritti sulle cose e con il principio di tutela delle situazioni possessorie; l’impossibilità di procedere al pignoramento urta con il principio della responsabilità patrimoniale di cui all’art. 2740 cod. civ. In ragione di queste deroghe ai principi fondamentali, il regime pubblicistico non si può far dipendere da una situazione di mero fatto (salvo che per il demanio naturale), ma deve essere collegato ad una esternazione dell’ente proprietario. Per quanto concerne la questione della cessazione della demanialità, la ricostruzione degli Autori prende le mosse dalla previsione dell’art 829, comma 2, cod. civ., a mente della quale per tutti i beni del demanio la cessazione della demanialità deve essere “dichiarata” dalla Pubblica amministrazione ed il relativo atto deve essere oggetto di pubblicità. Tale disposizione non chiarisce se gli effetti della c.d. “sdemanializzazione” debbano essere imputati al provvedimento dichiarativo e fatti decorrere dalla sua vigenza, ovvero debbano ricondursi a un momento costitutivo precedente: in altri termini, non è chiaro se l’atto di sdemanializzazione abbia natura dichiarativa o costitutiva. Anche a tal proposito, gli Autori distinguono tra demanio naturale e artificiale. Per il primo la demanialità cessa automaticamente quando il bene perde quelle caratteristiche naturali che determinavano la sua rilevanza pubblicistica: l’atto ha quindi valore dichiarativo, sebbene siano presenti ipotesi codicistiche, definite eccezionali, che sanciscono la natura costitutiva delle dichiarazioni di sdemanializzazione anche se relative a beni del demanio naturale (ciò si verifica riguardo ai beni del demanio idrico – artt. 942, 945, 946 e 947 cod. civ. – con riferimento al quale la deroga è giustificata dall’esigenza di evitare che notevoli quantità di terreno abbandonati dalle acque possano essere nel frattempo usucapiti da terzi). Per il secondo la regola è quella della sdemanializzazione per volontà della Pubblica amministrazione; ne consegue che di fronte ad un’opera pubblica inutilizzabile, inutilizzata o sottratta alla sua destinazione, solo la Pubblica amministrazione può stabilire se si tratta di una interruzione dell’utilizzo dovuta ad una cessazione della destinazione del bene o meno (es. a temporanea necessità di manutenzione).
  29. L’espressione citata è di Cerulli Irelli V. (2016), Apprendere «per laudo». Saggio sulla proprietà collettiva, op. cit., riportata da Paire A. (2020), op. cit., p. 371, sub nota 260.
  30. Invece non è mai stato dubbio che i beni in proprietà privata gravati da usi civici siano comunemente espropriabili, trasferendosi i diritti d’uso civico sull’indennità di espropriazione (supra, p. 6). Germanò A. (2023), Necessità della previa sdemanializzazione rispetto all’atto di espropriazione per pubblica utilità degli usi civici gravanti sui beni altrui, in Diritto Agroalimentare, 2, pp. 383-387.
  31. La demarcazione della questione controversa al regime anteriore all’introduzione del comma 1-bis nell’art. 4, d.P.R. n. 327/2011, si desume dal tenore del § 12 dell’ordinanza n. 34460/2022.
  32. V. nota 15.
  33. In tal senso, v. art. 9 l. n. 230/1950; Corte Cost. n. 78/1961, in www.giurcost.org. In dottrina v. Sepe O., (1967), Espropriazione, accordi e beni di uso civico, nota a Commissario usi Civici Roma, 28 settembre 1966, in Giust. Civ., I, p. 628 ss.; Marinelli F. (2013), Gli usi civici, Milano, p. 268.
  34. In www.wolterskluwer.com/it
  35. Secondo tale pronuncia l’incommerciabilità che caratterizza i beni gravati da uso civico “comporta come conseguenza che, al di fuori dei più o meno rigorosi procedimenti di liquidazione dell’uso civico e prima del loro formale completamento, la preminenza di quel pubblico interesse che ha impresso al bene immobile il vincolo dell’uso civico stesso ne vieti qualunque circolazione, compresa quella derivante dal processo esecutivo, quest’ultimo essendo posto a tutela (se non altro prevalente) dell’interesse del singolo creditore e dovendo quest’ultimo recedere dinanzi al carattere super individuale e lato sensu pubblicistico dell’interesse legittimante l’imposizione dell’uso civico; e tale divieto comporta la non assoggettabilità del bene gravato da uso civico ad alcuno degli atti del processo esecutivo, a partire dal pignoramento, che ne è quello iniziale”.
  36. In www.wolterskluwer.com/it.
  37. Peraltro l’ordinanza n. 34460/2022 sembrava introdurre un argomento a favore di tale orientamento nella misura in cui poneva in evidenza come la soluzione della controversa questione non prescindesse dalla scelta fatta dal legislatore con la l. n. 221/2015, nel senso della non espropriabilità dei beni gravati da uso civico, occorrendo, dunque, chiedersi se e in che misura tale scelta sia da considerare nella valutazione della legittimità di interventi ablatori assunti in precedenza.
  38. In www.wolterskluwer.com/it.
  39. App. Roma, 23 dicembre 2002 n. 47. La motivazione citata nel testo è riportata nella sentenza n. 9986/2007.
  40. “Sulle indennità di espropriazione sono trasferiti, ad ogni effetto, i diritti dei terzi, compresi i diritti di uso civico”.
  41. Possono essere anche espropriati dal ministero suddetto […] i terreni […] di dominio collettivo”.
  42. In termini Cass. Civ., sez. un., 11 aprile 2016 n. 7021, in www.wolterskluwer.com/it, intervenuta con riferimento alla particolare fattispecie dei beni facenti parte della proprietà regoliera, del patrimonio agro-silvo-pastorale collettivo, inalienabile, indivisibile ed inusucapibile di gruppi familiari stanziati in territori montani del Veneto. La Suprema Corte ha affermato che non vi è alcun vincolo di inespropriabilità dei beni regolieri né il loro esproprio è subordinato a forme di autorizzazione o consenso della regola: “tali beni non possono ritenersi sottratti al principio generale di cui all’art. 42, comma 3, Cost.”.
  43. La sentenza origina da una questione di legittimità costituzionale sollevata dal Commissario per gli usi civici del Piemonte concernente la l.r. Piemonte n. 55/1978, istitutiva di un parco naturale, e la l.r. Piemonte n. 201987, recante norme per l’utilizzo e la fruizione del detto parco e delle dette riserve naturali. Secondo il giudice rimettente tali norme avrebbero limitato, in contrasto con l’art 42, comma 1, Cost., la destinazione pubblica di gran parte delle terre incluse nel parco e nella riserva all’esercizio degli usi civici su esse gravanti a favore delle comunità locali, e comunque eccederebbero i limiti fissati alla competenza legislativa della Regione dall’art 117, comma 1, Cost.
  44. La Corte ha affermato che non possono ritenersi soggetti al requisito della previa “sdemanializzazione” i provvedimenti che includono terre di uso civico in un parco o in una riserva naturale. Invero, essi non modificano gli assetti proprietari, ma impongono al godimento dei titolari limitazioni di vario genere in funzione degli interessi generali alla cui tutela è finalizzata l’istituzione di parchi o riserve naturali.
  45. La medesima definizione del rapporto tra beni demaniali e beni del patrimonio indisponibile si rinviene in Chieppa R. – Giovagnoli R. (2018), op. cit., 416, secondo cui nel Codice civile sono presenti “due distinte categorie speciali di beni appartenenti alla pubblica amministrazione: il demanio, che comprende i beni ritenuti più importanti in ragione sia del loro utilizzo, da parte della collettività, sia della loro strumentalità rispetto allo svolgimento di essenziali funzioni pubbliche; il patrimonio indisponibile, costituito da quei beni considerati meno importanti rispetto ai primi, ma comunque tali, soprattutto per la loro destinazione all’esercizio di una funzione o di un servizio pubblico, da richiedere un regime derogatorio rispetto alla comune disciplina civilistica, seppure, per così dire, “meno speciale” rispetto al regime applicabile ai beni pubblici più importanti”.
  46. Corte cost. n.ri 67/1957 e 78/1961, in www.giurcost.org.
  47. V. pp. 36-37.
  48. Sul punto sono state richiamate, oltre alla sentenza n. 156/1995, le più risalenti di cui ai n.ri 78/1961, 18/1965, 99/1969, nonché la giurisprudenza costituzionale “successiva e più recente” (p. 40), riferimento quest’ultimo da intendersi effettuato a Corte cost. n.ri 71/2020 e 236/2022, in www.giurcost.org.
  49. Sottolineano le Sezioni Unite che la sdemanializzazione deve “realizzarsi tramite le procedure e sulla base dei criteri individuati dalla legge per ciascuna categoria di beni pubblici e non attraverso una mera comparazione di interessi pubblici connessi all’utilizzazione del bene attuata dall’autorità espropriante secondo le regole del diritto amministrativo comune. Una diversa interpretazione si porrebbe in contrasto con la disciplina e la finalità stessa degli usi civici” (p. 44).
  50. V. pp. 44-45.
  51. V. p. 2: “Allo stato, quindi, i beni di demanio pubblico e i beni di uso civico possono essere espropriati solo previa sdemanializzazione, che avviene attraverso il procedimento di cui alla L. 16 giugno 1927, n. 1766”. Contra Paire. A. (2020), op. cit., p. 368 ss., spec. 374-378, secondo cui per effetto della novella del 2015 sia stata introdotta una cesura rispetto all’orientamento prevalente in giurisprudenza – secondo cui la sdemanializzazione del bene civico e quindi la soppressione dell’uso civico è una condizione imprescindibile per l’esercizio del potere ablatorio – con introduzione di un caso di espropriazione atipica, che spiega i suoi effetti nei confronti di un bene che non perde il peso fondiario. L’Autore ritiene che, diversamente opinando, non si comprenderebbe il significato del richiamo all’istituto del mutamento di cui all’art. 41, r.d. n. 332/1928, in luogo della liquidazione. Perplessità sono espresse altresì da Montanaro R. (2019), Commento all’art. 1 del d.p.r. 8 giugno 2001, n. 327, in Ferrara R., Ferrari G.F. (a cura di), Commentario breve alle leggi in materia urbanistica ed edilizia, Padova, p. 563 ss.
  52. V. nota 37.
  53. V. nota 28.
  54. V. pp. 44-45.
  55. Sull’evoluzione della categoria della nullità nel sistema amministrativo, Cavallari C. (2011), La nullità del provvedimento: genesi ed evoluzione nel sistema amministrativo, cause ed effetti, ricadute in punto di giurisdizione, in Rivista Neldiritto, 8, p. 1190 ss.; De Felice S. (2013), Della nullità del provvedimento amministrativo, in www.giustizia-amministrativa.it; Giovagnoli R. (2005), Nullità ed inesistenza dell’atto amministrativo, in AA.V.V., Atti amministrativi e autotutela dopo le leggi n. 15 e 80 del 2005, Torino, p. 276 ss.; Aiello G. (2005), La nullità del provvedimento amministrativo tra dubbi e certezze, in giustizia-amministrativa.it; Paolantonio N. (2007), Nullità dell’atto amministrativo, in Enc. Dir., Annali, I, Milano, p. 855 ss.; Piras A. (1972), Invalidità (dir. Amm.), in Enc. Dir., vol. XXXII, Milano, p. 599 ss.; Luciani F. (2010), Contributo allo studio del provvedimento amministrativo nullo. Rilevanza ed efficacia, Torino, p. 95 ss.; Astone D. (2009), Nullità e annullabilità del provvedimento amministrativo, Soveria Mannelli, p. 51 ss., De Siano A. (2013), Contributo sul tema della nullità dell’atto amministrativo, in Dir. Pubbl. p. 269 ss.; Perongini S. (2016), Teoria e dogmatica del provvedimento amministrativo, Torino, p. 385 ss.; Cerulli Irelli V., Luciani F. (2017), Invalidità e inesistenza degli atti amministrativi e delle leggi, in Studi in memoria di Antonio Romano Tassone, Napoli, vo. I, p. 577 ss.; Romano A. (2016), La nullità del provvedimento amministrativo, in L’azione amministrativa, a cura di Romano A., Torino, p. 799 ss.; Bartolini A. (2002), La nullità del provvedimento nel rapporto amministrativo, Torino; D’Orsogna M (2004), Il problema della nullità in diritto amministrativo, Milano; Spasiano M.R. (2005), Commento all’art 21-septies, in La pubblica amministrazione e la sua azione. Saggi critici sulla legge n. 241/1990 riformata dalla legge n. 15/2005 e n. 80/2005, a cura di Paolantonio N., Police A., Zito A., Torino, p. 551 ss.; Varrone C. (2005), Nullità e annullabilità del provvedimento amministrativo, in www.giustamm.it; Mazzarolli I. (2006), Sulla disciplina della nullità dei provvedimenti amministrativi, in Dir. Proc. Amm., p. 543 ss.; Corletto D. (2007), Sulla nullità degli atti amministrativi, in Studi in onore di Leopoldo Mazzarolli, vol. II, Padova, p. 51 ss.; Tropea G. (2007), Considerazioni sul trattamento processuale del provvedimento amministrativo nullo, in www.giustamm.it; D.Orsogna M. (2017), L’invalidità del provvedimento amministrativo, in Diritto amministrativo, a cura di Scoca F.G., p. 326 ss.; Cavallaro M.C. (2012), Gli elementi essenziali del provvedimento amministrativo. Il problema della nullità, Torino; Romano Tassone A. (2010), Contributo allo studio del provvedimento amministrativo nullo. Rilevanza ed efficacia, Torino, XIII; Morbidelli G. (2015), Della “triplice” forma di nullità dei provvedenti amministrativi, in Dir. Pubbl., p. 666 ss.
  56. Scoca F.G. (2021), L’enigma della nullità del provvedimento amministrativo, in Nuove Autonomie, 135 ss., spec. 153 ss. In giurisprudenza, Cons. Stato, Sez. VI, 16 gennaio 2017 n. 105.