Considerazioni sull’impugnazione da parte del Governo della l. r. Piemonte n. 7/2022 “Norme di semplificazione in materia urbanistica ed edilizia”

Maria Pia Genesin[1] e Carlo Alberto Barbieri[2]

Sommario:

1. Introduzione – 2. I motivi di impugnazione – 3. Considerazioni finali d’insieme

1. Introduzione

La legge della Regione Piemonte 31 maggio 2022, n. 7, recante “Norme di semplificazione in materia urbanistica ed edilizia”, in vigore dal 1° giugno 2022, interviene in larga misura a modificare la precedente legislazione regionale in materia di edilizia, in particolare la l. l. r. n. 16/2018, “Misure per il riuso, la riqualificazione dell’edificato e la rigenerazione urbana” – tuttora vigente, nel testo modificato, e non oggetto di impugnazione – e in materia di urbanistica (l. n. 56/1977, “Tutela ed uso del suolo”, e smi).

L’impugnazione da parte del Governo è essenzialmente incentrata su tre ordini di motivi di incostituzionalità inerenti i criteri di riparto della potestà legislativa Stato/Regioni: violazione di principi fondamentali nella materia concorrente del governo del territorio (art. 117, comma 3, Cost.); violazione della competenza esclusiva dello Stato in materia di tutela dell’ambiente (art. 117, comma 2, lett. s), Cost.; violazione di altri ambiti di potestà esclusiva statale (tutela della concorrenza, dei livelli essenziali delle prestazioni, delle funzioni fondamentali dei Comuni, secondo quanto statuito dall’art. 117, comma 2, lett. e), m) e p), Cost.)[3].

Sul piano più generale e trasversale della tutela di valori imprescindibili della Repubblica, si lamenta, poi, il contrasto con gli artt. 9, recentemente innovato[4], e 32 Cost., in materia di tutela dell’ambiente, del paesaggio, della salute e si lamenta la violazione dei principi di ragionevolezza, di leale collaborazione, di autonomia degli enti locali.

La l. r. in esame consta di 51 articoli; il ricorso del Governo interessa un nutrito gruppo di articoli (artt. 3, comma 2; 5; 7; 8, commi 1, 6 e 9; 10; 11; 13, comma 6; 14, commi 3 e 5; 16; 18; 19, comma 1; 20; 21, commi 1 e 3; 34; 36; 40; 41; 42; 47 e 48) mettendo in luce un complessivo disallineamento della recente iniziativa regionale rispetto agli orientamenti della legislazione statale – peraltro in buona misura precedente alla riforma costituzionale del 2001 – in materia di disciplina dell’attività urbanistica ed edilizia, di tutela ambientale e paesaggistica, di funzioni fondamentali dei Comuni.

Non può, dunque, passare inosservato il gran numero di articoli oggetto di impugnazione. Questo aspetto stimola una riflessione urgente sul ruolo dei principi fondamentali, di matrice statale, in una materia concorrente come quella del governo del territorio, di importanza strategica per uno sviluppo ordinato degli utilizzi del territorio e per la preservazione dello stesso, tuttora ancorata ad una legislazione urbanistica statale risalente alla l. n. 1150/1942 (c.d. legge urbanistica fondamentale, modificata dalle l. n. 765/1977 e n. 10/1977)[5]; occorre, altresì, valutare con approccio critico il grado di attuazione della riforma costituzionale del 2001 del sistema delle autonomie e la problematica coesistenza di attribuzioni di enti territoriali differenti in materie, quale quella del governo del territorio, che ben si prestano a reciproche interferenze[6].

Il governo del territorio, nelle sue duplici principali declinazioni dell’urbanistica e dell’edilizia[7], costituisce un ambito di legislazione concorrente in cui, in assenza di una legge dello Stato recante principi fondamentali esplicitamente posti a vincolo della legislazione regionale di dettaglio[8], si esprime la cospicua e continua attività normativa dei legislatori regionali con soluzioni innovative talora apprezzate per la capacità di ammodernare gli istituti di riferimento (si pensi, solo per fare un esempio, alla articolata fisionomia, forma ed efficacia giuridica dei piani urbanistici comunali, al metodo della perequazione urbanistica, ecc.) e di farsi portavoce di istanze di tutela di risorse non riproducibili (si pensi alla legislazione regionale sul consumo di suolo) e di nuovi paradigmi come la rigenerazione urbana; talaltra, fortemente poste in discussione per l’invasione della sfera di potestà legislativa statale, dell’autonomia comunale o per una variegata serie di altri motivi, come evidenziato nel caso dell’impugnazione della legge regionale piemontese, che si ritiene pongano tale “eclettismo regionale” al di fuori dello schema costituzionale di riparto delle competenze legislative e del sistema di valori (tutela ambientale, paesaggistica, della salute) impresso dalla Costituzione all’ordinamento della Repubblica[9].

La legge piemontese qui in parola ha suscitato la reazione del Governo per il suo essersi mossa con eccessiva disinvoltura sul fronte dei rapporti con i principi desumibili dal t.u. in materia edilizia – d.p.r. 380/2001 – e su quello dei rapporti con il ruolo della pianificazione paesaggistica; disinvoltura dettata, forse, dalla urgenza di offrire risposte, quali esse siano, ad istanze di semplificazione amministrativa generalmente provenienti dalla società civile in nome di politiche improntate al riuso e alla riqualificazione dell’esistente, che si ritiene forzino gli obiettivi di tutela ambientale, paesaggistica e della salute espressi dal testo costituzionale, dalla legislazione statale e dall’assetto degli strumenti di pianificazione urbanistica e territoriale.

Quanto precede induce a riflettere su cause e conseguenze della situazione venutasi a creare con l’emanazione e successiva impugnazione della legge piemontese; sull’incertezza generatasi in merito all’applicazione delle norme impugnate, segnalando, in particolare, quanto pesi il silenzio degli organi di governo regionali e l’assenza di iniziative legislative volte a porre in qualche misura al riparo sia l’attività delle amministrazioni comunali che quella dei privati dalle conseguenze di un’eventuale declaratoria di incostituzionalità, che potrebbe giungere non prima della prossima primavera[10]. Riflessioni segnate dall’incertezza sull’esito dell’impugnazione e persino sulla effettiva volontà del Governo, a ragionare di nuove maggioranze politiche, di persistere nella propria iniziativa.

2. I motivi di impugnazione

Volendo fornire una panoramica dei motivi di impugnazione, si può osservare, in partenza, che la l. r. Piemonte n. 7/2022 (art. 3, comma 2) è impugnata per aver fornito una definizione di “edifici o parti di edifici legittimi” che si discosta da quella di “stato legittimo” degli immobili sancita dal d.p.r. n. 380/2001, in riferimento ad immobili realizzati in epoca antecedente all’introduzione dell’obbligo di munirsi di licenza edilizia[11]. In particolare, la definizione statale di stato legittimo include implicitamente, fra le fonti dell’obbligo di munirsi di licenza edilizia, non solo la legge[12], ma anche i regolamenti comunali[13], mentre la legge regionale fa esplicito riferimento alla sola fonte legislativa, escludendo la rilevanza di disposizioni locali di diverso tenore[14]. Come si può comprendere si ha un’estensione, a livello regionale, del concetto di immobile legittimamente realizzato, con l’inclusione delle costruzioni realizzate prima del 1967 fuori dai centri abitati e dalle zone di espansione, prive di titolo edilizio, anche nei Comuni per i quali l’obbligo generalizzato di munirsi del titolo edilizio vigeva già prima di quella data. Secondo il Governo, la definizione di cosa debba intendersi per immobile legittimamente realizzato costituirebbe principio fondamentale della materia concorrente del governo del territorio, con carattere vincolante nei confronti della legislazione regionale di dettaglio.

Poiché l’accezione di stato legittimo dell’immobile è più ampia nella legge regionale in esame rispetto a quanto previsto a livello statale, si ottiene un duplice effetto contrastante con i criteri di riparto della potestà legislativa sanciti a livello costituzionale. In primo luogo, deriva dalla scelta legislativa regionale un effetto di sanatoria (condono) nei confronti di immobili realizzati non legittimamente ai sensi della legislazione statale (abusivi), non sanabili alla luce del criterio della doppia conformità, con conseguente violazione del principio fondamentale, desumibile dall’art. 31 d.p.r. n. 380/2001, che impone la demolizione dei medesimi[15]; in secondo luogo, ne deriva un differente trattamento degli abusi edilizi da Regione a Regione, contrariamente alla scelta del legislatore statale di imporre una reazione uniforme su tutto il territorio nazionale. Perciò si configura una violazione dei criteri di riparto anche sul versante della potestà esclusiva statale per quanto concerne la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni da garantire su tutto il territorio nazionale considerando l’uniforme applicazione del regime sanzionatorio un aspetto rilevante a tal fine.

L’ampliamento del concetto di stato legittimo dell’immobile ha conseguenze in ordine all’ambito di applicazione delle norme di cui alla l. r. n. 16/2018 relativamente agli interventi di riuso e di riqualificazione presupponendo questi ultimi un immobile legittimamente realizzato[16]; a seguito delle modifiche apportate, a livello di legislazione regionale, al concetto di stato legittimo dell’immobile, nel ricorso del Governo si evidenzia come possano rientrare nella disciplina degli interventi di riuso e riqualificazione anche immobili soggetti a condono edilizio e non solo immobili oggetto di sanatoria secondo la regola della doppia conformità. L’estensione della nozione di immobile legittimo proietta i propri effetti anche sull’ambito di applicazione delle premialità edilizie previste dall’art. 5, comma 9 e ss. del d.l. n. 70/2011, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 106/2011, c.d. secondo piano casa, che esclude gli immobili abusivi – facendo salvi quelli oggetto di titolo edilizio in sanatoria rilasciato nel rispetto del requisito della doppia conformità – dalle premialità volumetriche ivi previste. In tal modo è violato il principio fondamentale fissato dal legislatore statale secondo cui non possono essere riconosciuti vantaggi in caso di immobili abusivi[17].

Con riguardo agli interventi di cui al secondo piano casa, l’art. 3 della l. r. n. 16/2018 (che ne ha superato la straordinarietà/temporaneità e la prevalente azione in deroga), per come riscritto dall’art. 5 della l. r. n. 7/2022, prevede che il rilascio del permesso di costruire sia subordinato a delibera del Consiglio comunale volta a dichiarare, fra gli altri elementi: l’eventuale delocalizzazione di superficie o volume, in tutto o in parte, in area o aree diverse, purché non caratterizzate da inedificabilità assoluta, statuendo che la dotazione delocalizzata possa aggiungersi a quella esistente o prevista dalla disciplina urbanistica vigente; gli interventi eventualmente necessari per conseguire l’armonizzazione architettonica e paesaggistica rispetto al contesto edificato, con facoltà di concedere, previa motivazione, premialità anche maggiori rispetto a quelle di cui alla normativa locale. Fatto salvo quanto previsto dalla deliberazione del consiglio comunale, trova applicazione la disciplina prevista dal PRG vigente nel Comune.

In tal modo statuendo, la l. r. impugnata consente che si possa derogare a quanto previsto dal PRG, indirettamente incidendo sul valore vincolante del Piano paesaggistico regionale (PPR), al quale il PRG è subordinato secondo le regole di gerarchia fra piani previste dal Codice dei beni culturali e del paesaggio, d.lgs. n. 42/2004 (artt. 143, comma 9; 145, commi 3 e 4).

La Corte costituzionale ha in più occasioni sottolineato il valore imprescindibile dell’impronta unitaria della pianificazione paesaggistica, non derogabile a livello di legislazione regionale poiché espressione di un intervento teso a stabilire una metodologia uniforme nel rispetto della legislazione di tutela dei beni culturali e paesaggistici sull’intero territorio nazionale: il paesaggio deve essere rispettato come valore primario, attraverso un indirizzo unitario che superi la pluralità degli interventi delle amministrazioni locali[18]. Questo significa riconoscere la preminenza del Piano paesaggistico regionale nel contesto della pianificazione urbanistico – territoriale[19], secondo quanto statuito dal legislatore statale nell’esercizio della sua potestà esclusiva in materia di ambiente[20].

La Regione Piemonte ha invece disconosciuto – afferma il ricorso – il ruolo preminente del Piano paesaggistico e lo ha fatto dettando norme unilaterali, che prevedono la realizzazione di interventi edilizi, con premialità volumetriche “incentivanti” in deroga agli strumenti urbanistici (sede dell’adeguamento e/o coerenza con il Piano paesaggistico), altresì violando il principio inderogabile, posto dal d.lgs. n. 42/2004, della copianificazione[21]. Oltre alla violazione degli artt. 9, 117, comma 2, lett. s) Cost. si configura una violazione degli artt. 3 e 97 Cost. poiché non è ragionevole ed è contrario al buon andamento prevedere che sia vanificato dal legislatore regionale il carattere vincolante di uno strumento di pianificazione che la Regione stessa ha contribuito a porre in essere.

L’art. 7 della l. r. n. 7/2022 è interessato da plurimi rilievi di incostituzionalità; tale articolo ha sostituito il contenuto dell’art. 5 della l. r. n. 16/2018 avente ad oggetto gli interventi di ristrutturazione edilizia con ampliamenti. L’articolata disciplina dei limiti entro i quali gli ampliamenti sono consentiti è costruita in funzione derogatoria, nei limiti ivi indicati, sia delle previsioni degli strumenti urbanistici comunali sia degli standard ad operatività differita stabiliti a livello statale (tuttora dal d.m. n. 1444/1968). Gli incrementi volumetrici sono disciplinati senza alcun riferimento alle previsioni del Piano paesaggistico regionale, il cui carattere vincolante è nuovamente posto in discussione in violazione di quanto statuito dal legislatore statale nel d.lgs. n. 42/2004. Oltre a questo, si prevede (art. 5, comma 9, l. n. 16/2018) che gli interventi in esame possano: superare i parametri edilizi e urbanistici previsti dagli strumenti urbanistici; superare l’altezza massima consentita dagli strumenti urbanistici fino alla quantità necessaria per sopraelevare il fabbricato di un piano; superare le densità fondiarie previste dal d.m. n. 1444/1968. In tal modo risulterebbe violato il principio fondamentale, desumibile dalla l. n. 1150/1942, del carattere vincolante della pianificazione urbanistica, in ragione della insostituibile funzione che le è assegnata di disciplina degli usi del territorio, e degli standard urbanistici. La l. r., pretendendo di introdurre deroghe generalizzate a carattere temporalmente illimitato, snatura un principio fondamentale della materia governo del territorio ponendosi in contrasto con l’art. 117, comma 3, Cost.[22]. Sullo sfondo resta il principio di leale collaborazione, anch’esso violato a causa della scelta unilaterale della Regione, al di fuori del percorso condiviso con lo Stato di formazione del Piano paesaggistico regionale.

L’art. 8 della l. r. n. 7/2022 disciplina il recupero dei sottotetti, modificando l’art. 6 della l. r. n. 16/2018. Anche in questo caso vari sono i profili di incostituzionalità rilevati dal Governo. Si segnala, in particolare, l’irragionevolezza della scelta di ampliare il novero delle ipotesi in cui è consentito il recupero dei sottotetti facendo riferimento a sottotetti non ancora realizzati per i quali, dunque, non può porsi un problema di “recupero”. Inoltre, il recupero dei sottotetti esistenti è sempre ammesso indipendentemente dagli indici o dai parametri urbanistici ed edilizi previsti dai PRG e dagli strumenti attuativi vigenti o adottati; ciò significa, in primo luogo, con riferimento ai sottotetti ricadenti in ambiti paesaggisticamente tutelati, non tenere conto, anche in questo caso, del Piano paesaggistico regionale – confermando un generalizzato orientamento della legge regionale in esame nella direzione di svalutare il ruolo di tale strumento di pianificazione, con buona pace dell’art. 9 della Cost.; in secondo luogo, introdurre una deroga sistematica e generalizzata agli strumenti urbanistici violando i principi relativi alla generale necessità di pianificazione del territorio e al rispetto degli standard urbanistici. Anche questo appare essere orientamento caratterizzante la l. r. n. 7/2022 in contrasto con i principi fondamentali della legislazione statale in materia di governo del territorio.

La disciplina dei sottotetti presenta profili di illegittimità anche sotto il profilo della disciplina igienico-sanitaria poiché l’art. 8 della l. r. n. 7/2022 prevede la possibilità di deroga ai requisiti prescritti dal decreto del Ministro della sanità 5 luglio 1975, recante “Modificazioni alle istruzioni ministeriali 20 giugno 1896 relativamente all’altezza minima ed ai requisiti igienico sanitari principali dei locali d’abitazione”, in ordine alle misure minime dei sottotetti. In tal caso ad essere compromessa è la potestà legislativa statale nella materia concorrente della tutela della salute.

L’art. 10 della l. r. n. 7/2022 reca norme per la decostruzione e sostituisce il testo dell’art. 8 della l. r. n. 16/2018; anche in questo caso la disciplina non tiene in debito conto il ruolo del Piano paesaggistico regionale poiché, nel consentire deroghe agli indici di edificabilità previsti dagli strumenti urbanistici mediante variante semplificata[23], non prevede e non garantisce la conformazione al PPR ai sensi dell’articolo 145 del Codice dei beni culturali e del paesaggio. Ne deriva la violazione del principio di prevalenza del Piano paesaggistico, nonché del principio di copianificazione obbligatoria e, dunque, dell’art. 117, secondo comma, lett. s), della Costituzione, rispetto al quale costituiscono norme interposte gli artt. 135, 143 e 145 del Codice dei beni culturali e del paesaggio; non essendo garantito il livello elevato di tutela del paesaggio richiesto dalla Costituzione, è da intendersi violato anche l’art. 9 della medesima.

L’art. 11 della l. r. n. 7/2022 ha introdotto, nel corpo della l. r. n. 16/2018, l’art. 8-bis recante “Norme per la delocalizzazione dei fabbricati localizzati in aree a rischio idraulico e geologico”; ad essere chiamato in causa è nuovamente il tema della violazione del principio statale di prevalenza del Piano paesaggistico poiché soltanto le delocalizzazioni riguardanti le aree di cui all’articolo 136, comma 1, lettere a) e b) del d.lgs. n. 42/2004 devono avvenire nel rispetto delle norme di attuazione e delle prescrizioni d’uso dei beni paesaggistici individuati dal Piano paesaggistico regionale, nonché previo parere obbligatorio della competente Soprintendenza. Per le restanti, si prescinde invece dal rispetto delle prescrizioni del PPR nonché dal predetto parere che è, comunque, dequotato da vincolante ad obbligatorio.

Come si può constatare, la svalutazione del ruolo del Piano paesaggistico regionale è uno dei motivi di impugnazione maggiormente presenti nel testo del ricorso del Governo e porta con sé anche il tema della violazione del principio di leale collaborazione espresso, nella disciplina di settore, dal principio di copianificazione obbligatoria Stato/Regioni. Il profilo della deroga al PPR appare particolarmente grave, sottolinea il ricorso del Governo, in una Regione, come il Piemonte, in cui il processo di adeguamento degli strumenti urbanistici al Piano paesaggistico (vigente da ottobre 2017) è ancora in itinere e solo alcuni Comuni hanno già portato a termine le procedure di adeguamento dei propri piani regolatori generali al PPR.

Sempre con riguardo all’art. 8-bis della l. r. n. 16/2018 è segnalata la violazione del principio fondamentale, espresso dall’articolo 16, comma 4, lettera d-ter), del d.p.r. n. 380/2001, che prevede l’obbligo della corresponsione di un contributo straordinario in ipotesi di interventi su aree o immobili in variante urbanistica o in deroga[24]; l’art. 8-bis esclude la corresponsione di tale indennizzo per il rilascio del permesso di costruire ivi previsto.

L’art. 13 della l. r. n. 7/2022, nel modificare l’art. 11 della l. r. n. 16/2018, in tema di ristrutturazione edilizia con premialità volumetriche, reca unilateralmente una disciplina d’uso di beni paesaggistici[25], in violazione del ruolo del PPR e del principio di copianificazione.

L’art. 14 della l. r. n. 7/2022 modifica l’art. 12 della l. r. n. 16/2018, che si occupa, anche se non esaustivamente, di rigenerazione urbana. Il Governo lamenta che la Regione Piemonte, attraverso tale articolo, abbia dettato norme unilaterali che prevedono la realizzazione di interventi edilizi con premialità volumetriche “incentivanti”; tuttavia, in relazione ai beni paesaggistici, una eventuale disciplina finalizzata alla c.d. rigenerazione urbana avrebbe dovuto essere trasfusa nel Piano paesaggistico regionale, approvato previa intesa con lo Stato, e attuata mediante la pianificazione urbanistica comunale, e non in deroga o in alternativa a quest’ultima. L’art. 14 cit. consente, altresì, di derogare agli indici di edificabilità previsti dagli strumenti urbanistici mediante una c.d. variante semplificata, che non garantisce la conformazione al Piano paesaggistico regionale in violazione del principio di prevalenza di quest’ultimo.

Terminato l’esame dei motivi di ricorso relativi agli articoli della l. r. n. 7/2022 contenuti nel capo II della legge medesima, dedicato alle modifiche della l. r. n. 16/2018, si può passare all’esame dei motivi di ricorso incentrati sugli articoli del capo III recante norme in materia di altezza minima interna e di utilizzo di vani e locali interrati e seminterrati di fabbricati esistenti.

L’art. 16 della l. r. n. 7/2022, in tema di altezza minima interna e di utilizzo di vani e locali interrati e seminterrati dei fabbricati esistenti, nel disciplinare i limiti in cui è consentita l’azione di promozione del recupero di tali vani e locali, rievoca il concetto di stato legittimo dell’immobile e si presta, pertanto, alle medesime censure sollevate nei confronti dell’art. 3 della legge.

L’art. 18 della l. r. n. 7/2022, dopo aver statuito che il recupero con cambio di destinazione d’uso dei vani e locali interrati o seminterrati può avvenire anche senza opere edilizie, non è soggetto alla preventiva adozione e approvazione di un piano attuativo o di un permesso di costruire convenzionato e non è qualificato come nuova costruzione, al comma 3 prevede che se conseguito senza opere edilizie, il recupero è soggetto a preventiva segnalazione certificata di inizio attività (SCIA) al Comune e al pagamento del contributo di costruzione ai sensi dell’articolo 16 del d.p.r. n. 380/2001, limitatamente alla quota per gli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria, ridotta di un terzo. Il rilievo di incostituzionalità concerne il mancato rispetto dei principi fondamentali desumibili dal d.p.r. n. 380/2001, artt. 10, comma 1, lett. c) e 23, comma 01, lettera a), poiché l’art. 18 subordina gli interventi consistenti nel mero mutamento di destinazione d’uso senza opere alla segnalazione certificata d’inizio attività/SCIA, anche con riguardo agli immobili posti nelle zone territoriali omogenee A, di cui all’art. 2 del d.m. n. 1444 del 1968. Se è vero che dall’art. 10, comma 2, t.u. edilizia, si evince il principio fondamentale che prescrive, per i mutamenti di destinazione d’uso degli immobili o di loro parti, un vaglio dell’autorità amministrativa, rimesso alle più puntuali determinazioni della Regione, nel rispetto della normativa statale di principio, resta fermo il vincolo, stabilito dall’art. 10, comma 1, lett. c) t.u. edilizia, della necessità del permesso (tra gli altri) per i mutamenti di destinazione d’uso nei centri storici (permesso eventualmente sostituibile con la “super SCIA”, ex art. 23, comma 01, lettera a, dello stesso testo unico)[26]. Nel ricorso si precisa che, pur essendo stato modificato il testo dell’art. 10, comma 1, lett. c) del d.p.r. n. 380/2001 ad opera del d.l. n. 17/2022, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 34/2022, la parte di disposizione richiamata è rimasta invariata. Analoga considerazione può essere svolta anche con riguardo alle modifiche apportate al testo del menzionato art. 10, comma 1, lett. c) da parte del d.l. n. 50/2022, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 91/2022.

L’art. 19, comma 1, della l. r. n. 7/2022 prevede che il recupero dei vani e locali interrati o seminterrati sia sempre ammesso anche in deroga ai limiti e alle prescrizioni edilizie dei PRG e dei regolamenti edilizi, in tal modo indirettamente violando il ruolo assegnato dal legislatore statale al PPR, al quale il PRG deve adeguarsi. L’illegittimità dell’articolo 19, comma 1, si configura per violazione della potestà legislativa esclusiva in materia di tutela del paesaggio, (art. 117, secondo comma, lett. s), Cost.), rispetto alla quale costituiscono norme interposte gli articoli 135, 143 e 145 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, per le ragioni già precedentemente esposte, nonché per violazione degli articoli 3 e 97 Cost.

Il successivo art. 20 presta il fianco ad analoghe doglianze poiché prevede che siano i Comuni, con deliberazione del consiglio comunale, motivata in relazione a specifiche esigenze di tutela paesaggistica o igienico-sanitaria, di difesa del suolo e di rischio idrogeologico, a disporre l’esclusione di parti del territorio dall’applicazione delle disposizioni del capo III, nuovamente violando il principio fondamentale della prevalenza della tutela paesaggistica espressa dal PPR. Intrinsecamente irragionevole appare poi la previsione, contenuta nel comma 2 dell’art. 20, della possibilità di recupero “a regime” dei volumi edilizi relativi a immobili di futura realizzazione, peraltro dopo soltanto cinque anni dall’edificazione. Afferma il ricorso, “In questi casi, è evidente che nessuna esigenza di efficientamento energetico e di razionalizzazione del patrimonio edilizio può giustificare il sacrificio indiscriminato delle previsioni pianificatorie, degli standard e delle esigenze di tutela paesaggistica”.

Il Capo IV della l. r. n. 7/2022 contiene varie disposizioni di “coordinamento”; fra queste alcune incidono, modificandola, sulla legge urbanistica regionale n. 56/1977. L’art. 21 della l. r. n. 7/2022, nel modificare l’art. 13, “Prescrizioni operative del Piano Regolatore Generale”, della l. r. n. 56/1977, oltre a violare la sfera di potestà esclusiva statale di cui all’art. 117, comma 2, lett. s), Cost., in relazione alla tutela dei valori paesaggistici, e la competenza del legislatore statale in ordine ai principi fondamentali nella materia concorrente del governo del territorio (art. 117, comma 3, Cost.), lede l’autonomia comunale, in violazione degli artt. 5 e 118, commi 1 e 2, Cost. e la sfera di potestà legislativa esclusiva statale in materia di funzioni fondamentali dei Comuni sancita dall’art. 117, comma 2, lett. p), Cost. Le ragioni di tale contrasto sono insite nella scelta del legislatore regionale di considerare la definizione di ristrutturazione edilizia – fornita dal menzionato art. 21 ed inserita, in sostituzione della precedente, nel testo dell’art. 13 della l. r. n. 56/1977[27] – idonea a “prevalere sulle difformi previsioni delle leggi regionali e degli strumenti urbanistici generali ed esecutivi, senza necessità di varianti o adeguamenti”. In tal modo, osserva il Governo, l’ampliamento del novero di interventi assoggettati al regime della ristrutturazione edilizia si riflette non solo sul regime edilizio dei medesimi, ma anche sul relativo regime urbanistico a prescindere dalle scelte a suo tempo espresse dal pianificatore comunale con buona pace degli orientamenti interpretativi espressi dalle Corte costituzionale in ordine al rapporto fra legislazione regionale in materia di governo del territorio e autonomia comunale[28]. La previsione censurata implica che, qualora il PRG abbia previsto la possibilità di realizzare interventi di ristrutturazione edilizia, tali interventi si debbano intendere consentiti secondo la nuova nozione di ristrutturazione edilizia prevista dalla l. r. n. 7/2022 e che siano anche consentite automaticamente le premialità volumetriche ivi previste, senza necessità di variante, come espressamente statuito. La compressione che ne deriva in ordine all’autonomia comunale, non graduata in relazione alle caratteristiche dei luoghi e con un regime non di tipo transitorio, non rispetta il criterio di proporzionalità e necessità evidenziato dalla giurisprudenza costituzionale proprio con riguardo al profilo dei rapporti fra legislazione regionale e pianificazione urbanistica comunale nella materia governo del territorio[29].

Dei restanti articoli del Capo IV della l. r. n. 7/2022, alcuni sono considerati contrari, ancora una volta, all’art. 117, comma 2, lett. s), Cost. recando norme che violano la posizione di preminenza del PPR nel contesto della pianificazione territoriale ed urbanistica o comunque norme che non rispetterebbero la potestà esclusiva statale in materia di tutela ambientale[30]; altri violerebbero principi fondamentali del governo del territorio estrapolati dal testo del d.p.r. n. 380/2001[31].

3. Considerazioni finali d’insieme

La vicenda dell’impugnazione della l. r. n. 7/2022 esprime il malessere che caratterizza la materia, di potestà concorrente, del governo del territorio. Da un canto – va sottolineato – per l’assenza, proprio da parte dello Stato, di un quadro compiuto, aggiornato e ben definito di principi fondamentali[32], come già ricordato; dall’altro, per il suo essere intrinsecamente permeata di interessi sensibili a tutela differenziata, il che rende spesso difficilmente districabile il riparto delle competenze legislative ed amministrative[33]. Non è, dunque, un caso che nel ricorso del Governo prevalgano i motivi di incostituzionalità incentrati sulla violazione della materia, di potestà esclusiva statale, della tutela dell’ambiente, con riguardo ai valori paesaggistici, e – va rimarcato – sulla violazione dei principi fondamentali, in ordine ai quali lo Stato stesso non ha, però, sino ad ora legiferato ricavandoli, di conseguenza, dalla l. n. 1150/1942, e smi, e dal d.p.r. n. 380/2001.

La l. r. n. 7/2022 si pone come fonte di norme di non marginale “semplificazione” in materia edilizia ed urbanistica; attraverso le lenti del ricorso del Governo, essa appare soprattutto come un testo normativo improntato all’obiettivo di: ridurre adempimenti burocratici; elidere procedimenti decisionali ed amministrativi; introdurre un sistema di deroghe al PRG e, per tale via, di fatto, al PPR; concedere premialità; legittimare abusi edilizi massimizzando gli obiettivi di semplificazione amministrativa a scapito della tutela dei valori ambientali, dell’autonomia comunale, della ragionevolezza, della leale cooperazione[34].

La materia del governo del territorio, in assenza di una legislazione statale di principi e a prescindere dal significato che si intenda attribuire al ruolo della legislazione regionale c.d. di dettaglio[35], esemplifica il carattere significativamente incompiuto della riforma del Titolo V risalente al 2001, in particolare proprio con riferimento all’art. 117, comma 3, Cost. Con una peculiarità. Normalmente si evidenzia che i legislatori regionali abbiano assunto un atteggiamento passivo e tendenzialmente inerte, essendosi assistito al fenomeno dell’amministrativizzazione delle Regioni[36]. Non così nella materia del governo del territorio, in cui i legislatori regionali sono stati e sono particolarmente attivi – si contano leggi regionali di terza e quarta generazione[37]; attenti all’emergere di nuove esigenze di tutela; dotati anche di inventiva nel plasmare contenuti e struttura degli strumenti di pianificazione urbanistica comunale. Si è, in altri termini, assistito ad una “regionalizzazione”, di necessità, di tale materia[38].

Su questo fronte il legislatore piemontese si è spinto forse troppo oltre nella sua azione improntata all’imperativo della semplificazione per massimizzare recupero, riuso, riqualificazione senza tenere in debito conto i criteri di ragionevolezza e di leale cooperazione, travolgendo interessi sensibili, principi fondamentali (laddove sussistenti alla luce della giurisprudenza costituzionale o ritenuti tali dal Governo) e autonomia comunale.

Un cenno, infine, al tema delle conseguenze di un’eventuale declaratoria di incostituzionalità in ordine alla qualificazione delle attività svolte, dai privati e dalle amministrazioni comunali, in applicazione della legge impugnata, fermo restando il criterio ermeneutico, prevalente in dottrina, della piena efficacia ed obbligatorietà di norme della cui legittimità costituzionale si abbia motivo di dubitare[39].

A questo proposito non si può fare a meno di ricordare che si è discusso, soprattutto in passato, circa la condizione giuridica della legge incostituzionale prima della dichiarazione di incostituzionalità e che, accanto all’orientamento, che appare prevalente, che considera la medesima pienamente vigente e cogente, si affiancano altri orientamenti di segno opposto o intermedio. La tesi di segno opposto considera nulla o inesistente tale legge. La tesi intermedia, nelle sue variegate formulazioni, considera non obbligatoria l’applicazione della legge ma, al contempo, nemmeno obbligatoria la disobbedienza ad essa; discorso a parte per la pubblica amministrazione per la quale la legge, in forza degli artt. 97 e 136 Cost., sarebbe comunque da applicare, anche in considerazione del fatto che non è previsto nel nostro ordinamento un sindacato diffuso di incostituzionalità[40].

In un quadro così controverso non si può fare a meno di notare che, in ragione anche dell’efficacia retroattiva riconosciuta alla declaratoria di incostituzionalità, restano sostanzialmente a carico dei privati le conseguenze sfavorevoli derivanti dall’applicazione di una legge poi dichiarata incostituzionale[41], dal momento che viene esclusa in linea di principio, per orientamento consolidato della giurisprudenza della Cassazione e del Consiglio di Stato[42], la risarcibilità del danno derivante dall’applicazione/esecuzione, da parte della pubblica amministrazione, della legge incostituzionale. Tale indirizzo interpretativo si fonda sull’assunto che la legge incostituzionale, sino a che non sia dichiarata tale dalla Corte costituzionale, sia vigente e cogente e sulla considerazione che non possa ravvisarsi colpa nella fedele applicazione di tale legge da parte dell’autorità amministrativa; coerentemente con tali premesse si afferma che gli atti amministrativi emanati nel rispetto di una legge poi dichiarata incostituzionale siano validi sino a che non sopraggiunga la pronuncia di accoglimento da parte della Corte costituzionale.

Un’eventuale sentenza di accoglimento avrebbe effetto retroattivo; questo è un principio generale, derivante da consolidata interpretazione del testo dell’art. 136, comma 1, Cost. e dell’art. 30, comma 3, della l. n. 87/1953[43]; la Corte costituzionale si è, però, riservata nel tempo il potere di graduare gli effetti temporali delle proprie decisioni sui rapporti pendenti allorché sia ravvisata l’impellente necessità di salvaguardare principi o diritti di rango costituzionale che risulterebbero altrimenti irrimediabilmente sacrificati[44].

In caso di effetto retroattivo – che costituisce, come si è detto, la regola – vale il limite, altrettanto generale, dei rapporti esauriti, delle situazioni giuridiche comunque divenute irrevocabili onde salvaguardare il principio di certezza dei rapporti giuridici; la retroattività della declaratoria di incostituzionalità riguarda, dunque, i soli rapporti pendenti. La definizione di rapporto pendente o, al contrario, esaurito dipende dall’interpretazione, da parte del giudice comune, delle specifiche discipline di settore, relative a termini di decadenza, di prescrizione, di inoppugnabilità (nel caso degli atti amministrativi), da cui derivi la preclusione nei confronti di ulteriori azioni o rimedi giurisdizionali analogamente a quanto accade in caso di formazione del giudicato.

Nel caso di impatto sull’attività amministrativa, occorre ricordare, secondo quanto già anticipato, che l’orientamento prevalente è nel senso di considerare viziato per invalidità sopravvenuta o successiva l’atto amministrativo fondato su norma di legge dichiarata incostituzionale in epoca successiva all’adozione del medesimo[45]. L’effetto retroattivo di un’eventuale pronuncia di accoglimento proietterebbe, dunque, la propria ombra sulla validità degli atti amministrativi posti in essere dalle amministrazioni comunali in applicazione della l. r. n. 7/2022 e sulla liceità dell’attività dei privati esplicata ai sensi di detta legge[46]. A complicare il quadro si aggiungerebbe l’incertezza interpretativa in merito alla reviviscenza della disciplina originaria a seguito di declaratoria di incostituzionalità di norme della legge di modifica[47].

  1. Professoressa associata in Diritto amministrativo, Dipartimento di Giurisprudenza, Università di Torino.
  2. Già Professore ordinario di Urbanistica del Politecnico di Torino, Esperto del Consiglio Superiore LL.P.
  3. Corte costituzionale, questioni pendenti, registro ricorsi n. 54/2022 (G.U. del 5 ottobre 2022, n. 40).
  4. Si ricorda, per inciso, la modifica al testo costituzionale (artt. 9 e 41) operata dalla l. cost. n. 1/2022 finalizzata ad introdurre la tutela dell’ambiente come principio fondamentale della Repubblica. Per un commento, fra i tanti, si rinvia a P. Logroscino, Economia e ambiente nel “tempo della Costituzione”, in Federalismi.it, n. 29/2022, p. 86 ss.; C. Sartoretti, La riforma costituzionale “dell’ambiente”: un profilo critico, in Riv. giur. edilizia, n. 2/2022, p. 119 ss.; R. Bifulco, Primissime riflessioni intorno alla l. cost. 1/2022 in materia di tutela dell’ambiente, in federalismi.it, n. 11/2022; G. Alpa, Note sulla riforma della Costituzione per la tutela dell’ambiente e degli animali, in Contratto e impresa, n. 2/2022, p. 361 ss.
  5. Come osserva F. Trimarchi Banfi, Sul regionalismo cooperativo, in Dir. amm., n. 1/2021, p. 134, a seconda di come si interpreta il rapporto fra legislazione statale e legislazione regionale nelle materie di potestà concorrente – reciproca integrazione oppure autonomia della fonte regionale – i principi fondamentali assumono una funzione differente. “Nel primo caso, l’integrazione postula la strumentalità delle norme regionali agli scopi perseguiti dalle norme statali che devono essere attuate: i principi svolgono una funzione nomopoietica, tendente all’uniformità. Nel secondo caso, i principi si pongono come limite negativo alla legge regionale, la quale è libera di perseguire scopi autonomi, purché compatibili con i principi – il che è quanto basta affinché sia assicurata l’unità. Le due ipotesi non si escludono vicendevolmente: il dosaggio è affidato … alla leale adesione dei protagonisti al rispettivo ruolo istituzionale”. A prescindere dalla questione interpretativa sul ruolo dei principi fondamentali, ciò che si osserva nella materia del governo del territorio è la mancanza di una legislazione statale a ciò dedicata; tale situazione può essere intesa come riflesso, più in generale, del disinteresse del legislatore statale per l’attuazione della riforma del Titolo V Cost. In proposito, per un riscontro, si veda, per tutti, V. Onida, Più o meno autonomia? Itinerari per una risposta articolata, in Le Regioni, 2-3/2011, p. 576 ss.
  6. Per una valutazione complessiva del livello di attuazione della riforma del Titolo V si rinvia ai saggi pubblicati nel fascicolo n. 1-2/2021 della rivista Le Regioni, a tale tema dedicato. Afferma G. Falcon nell’editoriale Lo Stato delle Regioni ivi pubblicato, “Mi sembra, in primo luogo, condivisa la constatazione che a vent’anni dalla riforma del Titolo V, sulla base del costante indirizzo del legislatore statale e della formidabile opera razionalizzatrice della Corte costituzionale, il riparto di competenze tra lo Stato e le Regioni ha visto confermare o ripristinare su tutti i fronti una netta supremazia statale. In piena continuità con il Titolo V originario, la legge statale mantiene – senza essere troppo disturbata dalla ufficiale necessità di un titolo specifico – la sua capacità di intervenire ed imporsi in qualunque materia, mentre la legislazione regionale rimane non solo istituzionalmente limitata in ambiti ristretti (sostanzialmente coincidenti con la regolamentazione, all’interno del quadro normativo nazionale, dell’attività e dei servizi amministrativi ricadenti nelle materie di sua competenza), ma anche necessariamente frammentaria, dato che una disciplina finalisticamente compiuta finirebbe per incidere in ambiti preclusi”. Rispetto a questo quadro, fa eccezione quanto si può constatare nella materia del governo del territorio in cui si osserva una preponderanza della legislazione regionale rispetto a quella statale. Per un ulteriore approfondimento si vedano anche i contributi pubblicati in Ripensare il Titolo V a vent’anni dalla riforma del 2001, a cura di F. Fabrizzi, A. Poggi, G.M. Salerno, in federalismi.it, n. 20/2022.
  7. In tal senso l’orientamento costante della Corte costituzionale secondo cui l’urbanistica e l’edilizia devono essere ricondotte alla materia “governo del territorio”, di cui all’art. 117, terzo comma, Cost. Cfr., fra le pronunce più recenti, le sentenze 5 aprile 2018, n. 68; 13 aprile 2017, n. 84.
  8. Si ricorda quanto previsto dall’art. 1 della l. n. 131/2003, recante Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla l. cost. n. 3/2001, ai sensi del quale i principi fondamentali devono essere “espressamente determinati” dallo Stato; in caso ciò non avvenga essi devono essere desunti dalle leggi statali vigenti. La legge delegava il Governo ad emanare, entro tre anni, decreti legislativi ricognitivi dei principi fondamentali che possono trarsi dalle leggi vigenti; per questa parte, da quasi vent’anni, è rimasta inattuata.
  9. Nel senso di un “sistema urbanistico” elaborato a livello regionale si veda E. Ferrari, Le mille Italie dell’urbanistica: federalismo o frammentazione del territorio?, in E. Ferrari-P.L. Portaluri-E. Sticchi Damiani (a cura di), Poteri regionali ed urbanistica comunale, Milano, 2005, p. 5.
  10. Si può menzionare, a questo proposito, quanto accaduto, ad es., con riguardo alla l. r. Piemonte n. 13/2020, oggetto di impugnazione da parte del Governo, parzialmente rivisitata dal legislatore regionale (l. r. n. 22/2020 che ha abrogato alcune disposizioni oggetto di impugnazione), con successiva parziale rinuncia al ricorso da parte del Governo; la vicenda si è conclusa con la pronuncia della Corte cost. 17 giugno 2021, n. 125.
  11. L’art. 3 della l. r. n. 7/2022 ha modificato il testo dell’art. 2 della l. r. n. 16/2018 avente ad oggetto “Definizioni”; il comma 2 dell’art. 3 della l.r. n. 7/2022, in particolare, ha inserito, nel corpo dell’art. 2 della l. r. n. 16/2018, la lettera d-bis recante la definizione di “edifici o parti di edifici legittimi”.
  12. Si ricorda che la l. n. 1150/1942 aveva introdotto l’obbligo di munirsi di licenza edilizia solo per gli immobili da realizzare nei centri abitati ed, eventualmente (laddove presente il piano regolatore generale), nelle zone di espansione dell’abitato. Successivamente, la l. n. 765/1967 (c.d. legge ponte) estese all’intero territorio comunale l’obbligo di licenza edilizia.
  13. La formula espressa dall’art. 9-bis, comma 1-bis, d.p.r. n. 380/2001 è la seguente “Per gli immobili realizzati in un’epoca nella quale non era obbligatorio acquisire il titolo abilitativo edilizio, lo stato legittimo è quello desumibile …”.
  14. La formula presente nell’art. 3, comma 2, della l. r. Piemonte n. 7/2022 è la seguente “Per gli immobili realizzati in un’epoca nella quale la legge non imponeva, per l’attività edilizia nella porzione di territorio interessata, l’acquisizione di titolo abilitativo edilizio, ancorché in presenza di disposizioni locali diverse, lo stato legittimo è desumibile …”
  15. Il testo del ricorso richiama, a supporto, la giurisprudenza della Corte costituzionale e, in particolare, le sentenze 5 luglio 2018, n. 140; 19 novembre 2015, n. 233.
  16. Il riferimento è al testo dell’art. 3 della l. r. n. 16/2018 sostituito dall’art. 5 della l. r. n. 7/2022.
  17. Cfr. Corte cost. 28 gennaio 2022, n. 24; 11 maggio 2017, n. 107.
  18. Cfr. Corte cost. 17 novembre 2020, n. 240; 15 aprile 2019, n. 86; 23 luglio 2018, n. 172.
  19. Cfr. Corte cost. 28 dicembre 2021, n. 261; 8 luglio 2021, n. 141; 21 aprile 2021, n. 74; 29 gennaio 2016, n. 11. Dalla giurisprudenza della Corte costituzionale si ricava il principio di prevalenza delle disposizioni dei piani paesaggistici rispetto a quelle degli altri atti di pianificazione ad incidenza territoriale con la conseguenza che non sono compatibili con il testo costituzionale normative regionali che deroghino o contrastino con norme di tutela paesaggistica. Il rapporto in termini di prevalenza fra le prescrizioni del Piano paesaggistico e quelle di carattere urbanistico ed edilizio non è dunque alterabile dalla legislazione regionale nemmeno per perseguire l’obiettivo di rivitalizzare lo sviluppo dell’attività edilizia. Per un commento alla giurisprudenza costituzionale in materia si veda E. Furno, La Corte costituzionale conferma il primato dei piani paesaggistici sulla pianificazione territoriale tra esigenze di tutela e recupero del territorio, in Giur. cost., n. 6/2021, p. 2849 ss.
  20. Interessante è il punto di vista della dottrina in merito ai rapporti fra pianificazione paesaggistica regionale e pianificazione comunale. Come afferma P. Stella Richter, Relazione generale, in P. Stella Richter (a cura di), Verso le leggi regionali di IV generazione, Milano, 2019, p. 3, ai sensi della normativa contenuta nel d.lgs. n. 42/2004, si assiste ad una “sostanziale compressione del potere del Comune di pianificare il proprio territorio derivante dall’affermazione del prevalere dei vincoli storico-artistici e paesaggistici, i quali si sovrappongono alla disciplina urbanistica in modo tale che al piano è lasciato un ambito decisionale assai limitato, se non addirittura in alcuni casi del tutto inesistente”. Analogamente, nel senso di una “drastica” riduzione del potere discrezionale delle amministrazioni locali, v. P. Urbani, Per una critica costruttiva all’attuale disciplina del paesaggio, in Il diritto dell’economia, n. 1/2010, p. 63; nel senso dello “snaturamento della funzione urbanistica” v. G. Pagliari, Piani urbanistici e piani paesaggistici: il progetto di paesaggio, in W. Cortese (a cura di), Conservazione del paesaggio e dell’ambiente, governo del territorio e grandi infrastrutture: realtà o utopia?, Editoriale Scientifica, Palermo, 2009, p. 126.
  21. Cfr. Corte cost. n. 240/2020.
  22. Cfr. Corte cost. 23 novembre 2021, n. 219; 20 ottobre 2020, n. 217.
  23. Gli interventi di ricostruzione ivi previsti, con recupero della capacità edificatoria, sono consentiti previa variante urbanistica semplificata, approvata ai sensi dell’articolo 17-bis, comma 5, della l.r. n. 56/1977; nel caso di edifici localizzati non in zona agricola e non utilizzati è previsto anche il permesso di costruire in deroga ai sensi dell’articolo 5, comma 9, lettera b), del d.l. n. 70/2011.
  24. Cfr. Corte cost. 25 novembre 2020, n. 247.
  25. Sono esclusi gli immobili sottoposti a tutela ai sensi della parte seconda del d.lgs. n. 42/2004 e ai sensi dell’articolo 136, comma 1, lettere a) e b), del d.lgs. n. 42/2004 così come individuati dal PPR.
  26. In questi passaggi il testo del ricorso richiama le argomentazioni della sentenza della Corte costituzionale 13 gennaio 2021, n. 2 (punto 17.3 del considerato in diritto).
  27. La definizione di ristrutturazione edilizia contenuta nell’attuale testo della lettera d) dell’art. 13, comma 3, della l. n. 56/1977 si riferisce agli “interventi volti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo in tutto o in parte diverso dal precedente. Nell’ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi gli interventi ammessi dalla vigente normativa statale, con le specificazioni previste dalla normativa regionale”.
  28. Cfr. Corte cost. 28 ottobre 2021, n. 202 avente ad oggetto questioni di incostituzionalità sollevate con riguardo a disposizioni della l. r. Lombardia n. 12/2005; 23 giugno 2020, n. 119 avente ad oggetto questioni di incostituzionalità sollevate con riguardo a disposizioni della l. r. Veneto n. 30/2016.
  29. Cfr. Corte cost. 6 luglio 2019, n. 179, in Le Regioni, 209, p. 1114, con commento di M. Gorlani, Il nucleo intangibile dell’autonomia costituzionale dei Comuni. La sentenza si è occupata della questione di incostituzionalità di norme della l.r. Lombardia n. 31/2014.
  30. Cfr. artt. 34, 36, 40, 47, 48 l. r. n. 7/2022.
  31. Cfr. artt. 41, 42 l. r. n. 7/2022.
  32. Come sottolineato da S. Civitarese Matteucci-P. Urbani, Diritto urbanistico. Organizzazione e rapporti, Giappichelli, Torino, 2020, p. 42 ss., a ridosso della riforma del Titolo V Cost. attuata dalla l. cost. n. 3/2001 e nel periodo successivo, il legislatore statale ha rinunciato ad emanare discipline organiche o generali della materia del governo del territorio con conseguente maggiore rilievo assunto dalla legislazione regionale. Si vedano, altresì, le riflessioni espresse da L. Violini, 50 anni di vita delle Regioni: un percorso a fasi alterne per la crescita del paese, in Le Regioni, n. 1-2/2021, p. 253 ss., per la quale «si riscontrano … ancora oggi forme di sottovalutazione della loro presenza nelle dinamiche della gestione politica ed amministrativa del Paese nonché una endemica incapacità degli apparati centrali a porsi come punto di raccordo e di sintesi degli interessi compositi presenti nei territori, una sorta di “immaturità istituzionale” che si traduce in incapacità a governare la diversità regionale».
  33. Cfr. A. Simonati, Urbanistica, edilizia e governo del territorio: nozioni e principi, in A. Simonati (a cura di), Diritto urbanistico e delle opere pubbliche, Giappichelli, Torino, 2021, p. 3 ss.
  34. Sull’importanza del principio di leale collaborazione ai fini di una corretta applicazione dei criteri costituzionali di riparto delle competenze si veda C. Tubertini, Attualità e futuro del sistema delle conferenze, in Diritto pubblico, n. 2/2021, p. 667 ss. e ivi per ulteriori riferimenti bibliografici.
  35. In proposito v. F. Trimarchi Banfi, Sul regionalismo cooperativo, cit., p. 125, per la quale l’espressione “di dettaglio”, presente anche nel linguaggio della giurisprudenza costituzionale, “mette in evidenza ciò che ci si aspetta dall’autonomia regionale: che completi il disegno normativo statale in modo da renderlo operativo; resta in ombra la funzione innovativa della legislazione, quale espressione politica delle collettività territoriali minori, nell’ambito di quanto compatibile con i principi unitari. Le stesse Regioni, che non mancano di rivendicare con puntiglio il rispetto di un margine entro il quale inserire la propria normazione di dettaglio, hanno mostrato scarsa propensione all’innovazione”. Anche in questo caso la materia del governo del territorio esprime un’esperienza differente caratterizzata da un forte piglio innovativo del legislatore regionale.
  36. Cfr. C. Mainardis, Il regionalismo italiano tra continuità sostanziale e le sfide del PNRR, in Le Regioni, n. 1-2/2021, p. 147 ss., nel senso che il ruolo del legislatore regionale sia generalmente compromesso dalla pervasività della legislazione statale e dalla preponderanza della dimensione amministrativa regionale rispetto a quella legislativa.
  37. E. Boscolo, Leggi regionali urbanistiche di quarta generazione: consolidamento di un modello, in P. Stella Richter (a cura di), La nuova urbanistica regionale, Milano, 2021, p. 13 ss.,
  38. Cfr. T. Bonetti-A. Sau, Regioni e politiche di governo del territorio, in Le Regioni, n. 4/2014, p. 649.
  39. Non è certamente questa la sede per trattare problematiche interpretative così complesse; come evidenzia R. Giovagnoli, Atto amministrativo e legge incostituzionale: profili sostanziali e processuali, in Urbanistica e appalti, n. 2/2002, p. 223, il dibattito è essenzialmente incentrato su due tematiche (rilevanti per la vicenda in esame): “l’efficacia che deve riconoscersi alla legge incostituzionale prima che sia dichiarata tale, da un lato; le conseguenze che la pronuncia di incostituzionalità della legge produce sull’atto amministrativo emanato in base ad essa, dall’altro”. Risulta evidente che la soluzione che si intenda dare al problema della natura della legge incostituzionale prima della declaratoria di incostituzionalità si riflette sulla soluzione del problema delle sorti dell’atto amministrativo fondato su tale legge. Infatti, solo ritenendo che la legge incostituzionale sia temporaneamente efficace si può affermare, come in prevalenza avviene, che l’atto amministrativo emanato sulla base di tale legge sia annullabile.
  40. Per riferimenti bibliografici e per approfondimenti si rinvia a V. Bontempi, Illecito costituzionale e responsabilità dello Stato: verso un regime oggettivo?, in Riv. Trim. dir. Pubbl., n. 4/2017, p. 1083; R. Giovagnoli, Atto amministrativo e legge incostituzionale: profili sostanziali e processuali, cit., p. 223 ss. Relativamente al profilo della responsabilità del legislatore – statale o regionale – per adozione di legge incostituzionale si veda, per un quadro sintetico delle posizioni della giurisprudenza – orientata a negare (Corte di cassazione e Consiglio di Stato) tale responsabilità – e della dottrina – incline ad affermare tale responsabilità sulla scia di quanto stabilito dalla Corte di giustizia con riguardo alla responsabilità dello Stato per omesso tempestivo recepimento di direttive UE, M. Di Francesco Torregrossa, Ulteriori spunti sulla posizione della giurisprudenza in materia di responsabilità dello stato-legislatore, in federalismi.it, n. 24/2022, p. 131 ss.; G. Serra, Cenni in tema di responsabilità del legislatore per adozione di legge incostituzionale. Note a margine dell’ordinanza T.A.R. per le Marche, n. 7/2022, ivi, n. 12/2022, p. 273 ss.
  41. In merito, con riguardo al tema della tutela dell’affidamento in relazione a legge incostituzionale, v. le riflessioni di S. Puddu, La tutela dell’affidamento del cittadino nel quadro delle trasformazioni del sistema amministrativo, in Resp. civ. e prev., n. 5/2021, p. 1767 ss.
  42. Cfr. Cass., Sez. lav., 7 ottobre 2015, n. 20100 ; Cons. Stato, Sez. V, 14 aprile 2015, n. 1862.
  43. Cfr. Corte cost. 2 aprile 1970, n. 49; 29 dicembre 1966, n. 127.
  44. Cfr. Corte cost. 11 febbraio 2015, n. 10. Questa sentenza ha suscitato vivaci reazioni in dottrina. Per tutti si vedano i commenti di V. Onida, Una pronuncia costituzionale problematica: limitazione degli effetti nel tempo o incostituzionalità sopravvenuta?, in www.rivistaaic.it, n. 1/2016; A. Anzon Demmig, La Corte costituzionale “esce allo scoperto” e limita l’efficacia retroattiva delle proprie pronunzie di accoglimento, in www.associazionedeicostituzionalisti.rivista.it, n. 2/2015; E. Grosso, Il governo degli effetti temporali nella sentenza n. 10/2015. Nuova dottrina o ennesimo episodio di una interminabile rapsodia?, in Giur. cost., n. 1/2015, p. 79 ss.
  45. Occorre ricordare che, in linea di principio, in relazione all’attività amministrativa trova applicazione il principio tempus regit actum secondo cui la validità del provvedimento deve essere determinata sulla base dello stato di fatto e di diritto esistente al momento della sua emanazione. Controverso è, perciò, il concetto di invalidità/annullabilità sopravvenuta o successiva, configurabile solo in alcuni specifici casi; in particolare allorché una legge retroattiva modifichi presupposti e requisiti dell’atto o nel caso della declaratoria di incostituzionalità della norma sulla cui base l’atto amministrativo è stato posto in essere (potendosi, poi, distinguere a seconda che si tratti di norma su cui si fonda il potere amministrativo esercitato o di norma che regola le modalità di esercizio di tale potere). Per un riscontro si veda, per tutti, G. Corso, Manuale di diritto amministrativo, Torino, 2022, p. 366; S. Foà, L’invalidità dell’atto amministrativo, in C.E. Gallo (a cura di), Manuale di diritto amministrativo, Torino, 2020, p. 121; M. Clarich, Manuale di diritto amministrativo, Bologna, 2019, p. 204.
  46. Fermo restando che la retroattività della declaratoria di incostituzionalità può riguardare solo rapporti ancora pendenti, occorre, altresì, sottolineare, con le parole di R. Bin, G. Pitruzzella, Le fonti del diritto, Torino, 2019, p. 15, che i rapporti sorti in precedenza sulla base della legge dichiarata incostituzionale non cadono ipso jure; conseguentemente, gli atti amministrativi emanati sulla base di detta legge non cadono automaticamente (escludendo la nullità dei medesimi), ma solo a seguito di annullamento (in sede giurisdizionale oppure amministrativa). Cfr. M. Ramajoli, Il provvedimento amministrativo, in G. Della Cananea, M. Dugato, B. Marchetti, A. Police, M. Ramajoli, Manuale di diritto amministrativo, Torino, 2022, p. 349. Più in generale, è compito del giudice, trovandosi di fronte ad un rapporto giuridico al quale dovrebbe essere applicata la norma dichiarata illegittima, astenersi dall’applicarla utilizzando altre fonti normative. Con riguardo alle sorti dell’atto amministrativo emanato sulla base di norma dichiarata incostituzionale, escluso l’effetto caducante automatico derivante dalla sentenza di incostituzionalità, affinché il giudice amministrativo possa procedere all’annullamento occorre che l’atto sia stato tempestivamente impugnato poiché se è vero che la declaratoria di incostituzionalità ha rilevanza nei processi in corso, è, altresì, vero che essa non incide, come già ricordato, sugli effetti irreversibili già prodottisi; in particolare, è necessario che il ricorrente abbia impugnato il provvedimento amministrativo facendo valere, mediante la formulazione di censure, la sua illegittimità per contrasto con la norma, senza che sia necessario aver indicato, fra i motivi, anche l’illegittimità costituzionale della medesima. Occorre, altresì, ricordare che resta fermo, anche in caso di provvedimento divenuto inoppugnabile, il potere di annullamento d’ufficio della pubblica amministrazione a seguito di declaratoria di incostituzionalità. Per un riscontro degli orientamenti della giurisprudenza amministrativa – che hanno tratto origine da Cons. Stato, Ad. Pl., 8 aprile 1963, n. 8 – v. TAR Veneto Venezia, Sez. I, 3 dicembre 2018, n. 1103; TAR Molise Campobasso, Sez. I, 5 gennaio 2018, n. 3.
  47. Cfr. Corte cost. 9 novembre 2011, n. 294. In dottrina, per tutti, R. Bin, G. Pitruzzella, Le fonti del diritto, cit., p. 14.