Da un sistema elettorale misto a uno maggioritario puro via referendum abrogativo. I profili di ammissibilità del quesito

Francesca Paruzzo[1]

 

(Abstract)

Il 26 Settembre 2019, il Consiglio regionale piemontese, approva a maggioranza dei consiglieri assegnati, la richiesta di referendum, volta, nelle sue finalità, ad abrogare, attraverso una complessa operazione di “chirurgia normativa”, la quota proporzionale della legge elettorale vigente, la n. 165 del 3 Novembre 2017, dando vita, in caso di raggiungimento del quorum di validità e di esito positivo del voto, a un sistema maggioritario puro, interamente basato su collegi uninominali. Superato un primo vaglio di regolarità, è ora la Corte costituzionale a dover indicare se tale proposta referendaria, così formulata, possa essere considerata ammissibile alla luce dei limiti, molto più pervasivi rispetto alla loro configurazione normativa, elaborati negli anni dalle numerose pronunce degli stessi giudici costituzionali.

 

1. Premessa. Il caso.

Il 26 Settembre 2019, il Consiglio regionale piemontese, con delibera n. 6-21071[2], approva a maggioranza dei consiglieri assegnati, la richiesta di referendum, volta, nelle sue finalità, ad abrogare, attraverso una complessa operazione di “chirurgia normativa”, la quota proporzionale della legge elettorale vigente, la n. 165 del 3 Novembre 2017, dando vita, in caso di raggiungimento del quorum di validità e di esito positivo del voto, a un sistema maggioritario puro, interamente basato su collegi uninominali.

Secondo le intenzioni dei proponenti ciò dovrebbe assicurare la formazione di una maggioranza parlamentare al momento del voto, garantendo, pertanto, efficacia decisionale e stabilità dell’esecutivo per tutta la durata della legislatura[3].

La modifica del sistema elettorale in senso maggioritario è, così, assunta, per mezzo di tale proposta referendaria, come la via maestra attraverso cui disegnare un quadro politico votato a un’esigenza di governabilità che porti a compimento l’idea di una “democrazia immediata”, di un governo “del giorno dopo” che, con la sua azione, possa tradurre senza mediazioni una volontà popolare unitariamente rappresentata[4]. L’ingegneria elettorale è, così, posta al servizio di un disegno riformatore che, nelle sue intenzioni, sembra andare nella direzione di mettere il sistema istituzionale, in un contesto in cui già è recentemente intervenuta una drastica riduzione del numero dei parlamentari – con effetti in sé alterativi in senso maggioritario dell’esito del voto politico, indipendentemente dalle leggi elettorali adottate[5] – al pari con le esigenze di una “democrazia governante”[6] o “decidente”[7].

Diventano così 8 le delibere approvate da Consigli regionali[8], che il 30 Settembre 2019 hanno consentito di depositare il quesito presso l’Ufficio centrale per il referendum[9].

Superato il primo vaglio di regolarità[10], è, ora, la Corte costituzionale a dover indicare se tale proposta referendaria, così formulata, possa essere considerata ammissibile alla luce dei limiti, molto più pervasivi rispetto alla loro configurazione normativa[11], elaborati negli anni dalle numerose pronunce degli stessi giudici costituzionali.

 

2. Leggi elettorali e referendum abrogativo. Cenni.

Alle leggi elettorali, per quanto non comprese tra gli atti legislativi di cui all’art. 75 comma 2 della Costituzione[12], esclusi dal referendum abrogativo, è riconosciuto uno statuto particolare: esse, invero, sono leggi costituzionalmente necessarie[13]; leggi, cioè, “la cui esistenza e vigenza è indispensabile per assicurare il funzionamento e la continuità degli organi costituzionali della Repubblica”[14], i quali, come tali, “non possono essere esposti all’eventualità, anche soltanto teorica e temporanea, di una paralisi”[15].

Se ciò vale per le leggi elettorali in generale, a maggior ragione, riguarda la normativa relativa all’elezione delle Assemblee parlamentari – luoghi privilegiati della rappresentanza politica[16] – la quale potrà essere abrogata nel suo insieme solo se sostituita, dal legislatore rappresentativo, con una disciplina nuova. 

Un referendum abrogativo in materia elettorale, quindi, non potrà mai avere a oggetto il testo normativo nella sua interezza (fosse anche nella prospettiva di determinare, in caso di esito positivo del voto, la reviviscenza della legislazione pregressa in materia[17] ), ma potrà solo tendere, mediante la manipolazione delle disposizioni interessate, a far emergere dalla parziale normativa superstite, una soluzione differente.  

È proprio in forza di questo particolare statuto riconosciuto alle leggi elettorali che sono individuati, da parte della giurisprudenza costituzionale, dei limiti ulteriori[18], volti a indirizzare l’orientamento della stessa Corte nel giudizio di ammissibilità di un referendum abrogativo.

In tal senso, a garanzia della libertà di voto dell’elettore, in un’ottica di necessaria e persistente operatività del sistema democratico, non vengono in considerazione i soli requisiti di omogeneità e univocità del quesito[19]  – funzionali a un’esigenza di chiarezza dell’operazione referendaria che deve essere riconducibile a una matrice razionalmente unitaria tanto nella finalità unidirezionale quanto nella struttura del quesito[20] -, ma, anche e indefettibilmente, quei criteri che impongono la verifica dell’immediata applicabilità della normativa di risulta[21] e della sussistenza di una manipolazione che, per essere legittima, non può spingersi fino a introdurre nell’ordinamento una disciplina completamente nuova, estranea al contesto normativo di riferimento[22].

 

3. Materia elettorale. Manipolatività e diretta applicabilità nella giurisprudenza della Corte costituzionale.

Alla luce dei criteri sopra individuati, quindi, un quesito referendario in materia elettorale risulta inammissibile non solo quando non sia sufficientemente chiaro, omogeneo e riconducibile a una matrice razionalmente unitaria, ma anche, e soprattutto, quando la manipolatività non rispetti i confini definiti e la normativa di risulta non sia immediatamente applicabile.

In primo luogo, la manipolazione della struttura linguistica – conseguenza inevitabile dell’ammissibilità di un’abrogazione solo parziale della disciplina legislativa – deve essere contenuta entro limiti tali da andare a creare una norma non totalmente estranea al contesto normativo da cui essa ha origine; una norma, cioè, che, lungi dall’andare a trasformare l’abrogazione in legislazione positiva, stravolgendo il senso stesso della legge elettorale e del sistema partitico a esso rispondente[23], non faccia altro che espandere[24] una possibilità già intrinseca nella normativa in vigore[25].

È stato ritenuto, pertanto, ammissibile, sulla base di tale profilo – e dei suoi confini così delineati – il referendum abrogativo[26] relativo alla quota proporzionale introdotta, per l’elezione della Camera dei Deputati, dalla l. 4 agosto 1993, n. 277 (Norme per l’elezione della Camera dei deputati) e dal decreto legislativo 20 dicembre 1993, n. 534 (Modificazioni al testo unico delle leggi recanti norme per l’ elezione della Camera dei deputati, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 30 marzo 1957, n. 361): la Corte costituzionale, in questo caso, sottolinea come il quesito, pur  “abrogando parzialmente la disciplina stabilita dal legislatore […], non la sostituisce con un’altra assolutamente diversa, ma utilizza un criterio provvisoriamente esistente e rimasto in via di normale applicazione nella specifica parte di risulta della legge oggetto del referendum”. L’ammissibilità del quesito, rispetto a questo criterio va, quindi, a fondarsi sul presupposto per cui non si è in presenza di una proposta innovativa che, attraverso “un’operazione di ritaglio sulle parole e il conseguente stravolgimento dell’originaria ratio e struttura della disposizione” [27], vada a sostituire la disciplina che si intende abrogare.

Diverse dai profili connessi alla manipolazione consentita, sono le questioni legate all’immediata applicabilità della normativa di risulta; stante, come detto, la necessità di assicurare la permanenza di una legislazione elettorale che consenta, in ogni momento e in tutte le sue fasi[28] –  a garanzia della sovranità popolare – il rinnovo periodico degli organi rappresentativi[29], tale criterio diventa, in questo modo, elemento di valutazione del rischio abrogativo.

È risultata, pertanto, ammissibile, in base a questo requisito, una proposta referendaria[30] finalizzata all’abrogazione delle disposizioni della legge 6 febbraio 1948, n. 29, recante “Norme per la elezione del Senato della Repubblica”, nella parte in cui prevedevano che l’elezione dei senatori nel collegio uninominale scattasse solo al superamento del 65% dei voti; ciò, poiché  i collegi uninominali, per quanto di fatto inoperanti a causa di tale soglia, erano già stati definiti dal legislatore[31]; sulla base del medesimo profilo, invece, è stata considerata inammissibile[32] la richiesta di svolgimento di un referendum abrogativo avente a oggetto il 25% dei seggi assegnati, con metodo proporzionale, dalle leggi 4 agosto 1993, n. 276 e 277: la normativa elettorale risultante da un esito positivo del referendum, infatti, non sarebbe stata direttamente applicabile, dal momento che avrebbe permesso la sola l’elezione di un numero di parlamentari inferiore – 475 per la Camera dei Deputati, 232 per il Senato della Repubblica – a quello previsto dalla Costituzione, con la conseguente inidoneità a consentire la formazione dell’organo. La normativa risultante dal quesito così formulato, pertanto, non si sarebbe limitata a incidere sul solo “modo di operare”[33] del sistema elettorale, ma avrebbe rischiato di produrre, nel complesso quadro del meccanismo elettorale, effetti paralizzanti tali da impedire, in mancanza di un intervento integrativo di revisione dei collegi – da rimettersi all’esclusiva discrezionalità del legislatore – un successivo ricorso alle elezioni.

I medesimi quesiti, oggetto della sentenza n. 5 del 1995, sono stati ripresentati, peraltro con formulazione pressoché identica, due anni dopo e, di nuovo, con sentenza n. 26 del 1997, dichiarati inammissibili; in tale pronuncia, i giudici costituzionali colgono l’occasione per riaffermare il proprio orientamento: la ridefinizione dei collegi elettorali (imprescindibile nel caso loro sottoposto dal momento che la ripartizione del territorio in collegi uninominali ne prevedeva un numero pari ai soli ¾ del totale dei parlamentari[34]), non può essere superata né attraverso la normazione secondaria, né, tantomeno (come invero sostenuto dai promotori di entrambi i referendum), per mezzo del riconoscimento, da un lato, di un obbligo, in capo al Parlamento di cooperazione al fine di dar seguito alla volontà referendaria e, dall’altro, di un principio di ultrattività della legislazione elettorale delle Camere. Se per un verso, infatti, l’imprescindibile costante operatività del Parlamento costituisce un nodo ordinamentale di cui tutti i soggetti istituzionali devono farsi carico, non può certo essere invocato un obbligo di collaborazione – che comunque non considererebbe il rischio di una non rimediabile inosservanza – in capo alle Assemblee elettive (e, in generale, agli organi costituzionali) a cui, per dar seguito alla volontà referendaria, sia imposto di rivedere la “mappa” dei collegi, rimpicciolendoli e aumentandoli di numero. Allo stesso modo, peraltro, affermare che esista un principio di continuità funzionale degli organi costituzionali, non consente di far automaticamente discendere da ciò “l’ultrattività della normativa elettorale degli organi costituzionali, in deroga ai principi che regolano la successione di leggi nel tempo”[35].

 

4. Il Piemonte e la richiesta di Referendum della legge elettorale. L’ammissibilità del quesito.

Descritte, così, se pur brevemente le direttrici lungo cui si muove la giurisprudenza costituzionale in tema di ammissibilità dei referendum abrogativi in materia elettorale, è a esse che si deve guardare per comprendere se il quesito deliberato dalla Regione Piemonte (e dagli altri sette Consigli regionali) possa superare il vaglio della Corte costituzionale.

In primo luogo, nessuna questione pare potersi porre rispetto al profilo dell’omogeneità.

Per quanto, infatti, il quesito referendario, formulato con riferimento a quattro diversi testi normativi, riguardi una pluralità di disposizioni differenti, esse, tuttavia, si presentano come intimamente tra loro connesse; “obiettivamente considerate nella loro struttura e nelle loro finalità”, è possibile rinvenire un comune principio, la cui eliminazione dall’ordinamento attraverso l’abrogazione referendaria” [36], dipende dalla sola risposta che il corpo elettorale fornirà a una domanda che è, nel suo complesso, volta ad abrogare le disposizioni relative “all’attribuzione dei seggi con metodo proporzionale nei collegi plurinominali per l’elezione della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica”, modificando il sistema elettorale in senso unicamente maggioritario.

Esclusa la presenza di profili critici relativamente al criterio dell’omogeneità, allo stesso modo appaiono superabili i dubbi – che, invero, legittimamente potrebbero sorgere – in relazione all’univocità del quesito e che troverebbero fondamento nel fatto che un’unica proposta referendaria si riferisce alla legislazione elettorale tanto della Camera dei Deputati, quanto del Senato della Repubblica, impedendo, quindi, una differenziazione nell’esercizio del voto[37].

Se è vero, infatti, che una formulazione di tal genere, imponendo all’elettore una scelta univoca, potrebbe far ritenere non soddisfatto il requisito in discussione, appare in realtà difficile sostenere che ciò si riverberi, ledendole, per il sol fatto dell’impossibilità di mantenere distinti i meccanismi di elezione di ciascun ramo del Parlamento, sulla libertà del voto referendario[38]: continua, invero, a essere riscontrabile una matrice razionalmente unitaria.

In tal senso, peraltro, ferma la tendenza, da parte della Corte costituzionale, di ritenere che il giudizio di ammissibilità del referendum abrogativo non possa tradursi anche in una valutazione anticipata della costituzionalità dell’eventuale normativa di risulta[39], non ci si può esimere dal sottolineare gli effetti distorsivi sul sistema rappresentativo che, al contrario, avrebbe una richiesta referendaria (o, in caso di due domande, un esito referendario) che, per solo una delle due Camere determini la modifica del sistema elettorale in senso esclusivamente maggioritario, lasciando permanere, rispetto all’altra, una normativa che preveda un criterio di assegnazione dei 2/3 dei seggi di tipo proporzionale.

Invero, all’interno del nostro ordinamento, la parità di funzioni e posizioni delle due Camere elettive, pur non imponendo al legislatore di introdurre sistemi elettorali identici[40] esige che, al fine di non compromettere il corretto funzionamento della forma di governo parlamentare, i sistemi adottati, pur se differenti, non debbano ostacolare, all’esito delle elezioni, la formazione di maggioranze parlamentari omogenee[41].

Un unico quesito per entrambe le Camere, quindi, in tal senso, risponde altresì alla necessità di evitare risultati elettorali così nettamente diversi, che, con ogni probabilità, avrebbero ripercussioni sulla stessa operatività dell’organo.

Rispetto ai profili dell’omogeneità e univocità del quesito, merita maggiore attenzione, ai fini della valutazione dell’ammissibilità dello stesso, l’analisi del rispetto dei criteri della manipolatività – e dei limiti a essa sottesi perché possa essere considerata legittima – e, soprattutto, della immediata applicabilità della normativa di risulta.

I referendum manipolativi, si è detto, sono ammissibili solo in quanto la normativa di risulta si configuri come svolgimento e prosecuzione logica di principi intrinseci e desumibili dal contesto normativo dell’atto legislativo che si intende sottoporre a referendum. Particolarmente chiara, sul punto, risulta essere la sentenza n. 36 del 1997 – relativa a referendum sul sistema radiotelevisivo, ma richiamata successivamente anche nella sentenza n. 13 del 1999 con riferimento alla materia elettorale – che espressamente indica tre principi cui devono attenersi i promotori di referendum, ai fini dell’ammissibilità del quesito.

Prescrivono, infatti, i giudici costituzionali, in questo caso: a) che la manipolazione non è ammissibile se essa non corrisponde ad una “fisiologica espansione” della normativa esistente; b) che il ritaglio operato dai promotori non può ridursi alla “soppressione di mere locuzioni verbali, peraltro inespressive di qualsiasi significato normativo”; c) che il quesito referendario non deve risolversi in una “nuova statuizione”, ossia in una proposta all’elettore “non ricavabile ex se dall’ordinamento”.

Non tutte queste condizioni sembrerebbero soddisfatte nel caso in esame: al vaglio della Corte costituzionale è, infatti, sottoposta una domanda referendaria che si propone l’abrogazione del criterio di riparto di 2/3 dei seggi totali di ciascuna Camera, con la conseguente estensione di un meccanismo maggioritario di assegnazione degli stessi, che diventerebbe, così, esclusivo.

Alla luce di ciò, se è astrattamente possibile sostenere, in favore dell’ammissibilità del quesito, come, nell’ambito del complessivo sistema elettorale sia già presente, sebbene minoritaria, un’ispirazione maggioritaria di tal genere, improntata a una logica uninominalistica, non può non rilevarsi come l’introduzione di un sistema integralmente di questo tipo (a partire da uno misto a prevalenza proporzionale) andrebbe, nei fatti, a finalizzare un assetto normativo sostanzialmente nuovo, che stravolgerebbe, attraverso la manipolazione delle modalità con cui le norme sono state formulate, il senso della legge elettorale vigente e del relativo sistema di partiti[42].

Se già alcuni dubbi in ordine all’ammissibilità del quesito possono emergere in base ai profili appena considerati, è avendo riguardo al requisito dell’autoapplicatività della disciplina di risulta che sorgono le problematiche più rilevanti.

In base alla normativa elettorale vigente, con riferimento alla Camera dei Deputati, il territorio risulta suddiviso in 232 collegi uninominali e in 63 collegi plurinominali – che, a loro volta, consentono l’elezione di 386 deputati, con metodo proporzionale -; con riferimento al Senato, invece, si rinvengono 116 collegi uninominali e 34 collegi plurinominali – che, a loro volta, consentono l’assegnazione dei restanti 193 seggi, con metodo proporzionale – [43]

Diventa, quindi, di immediata evidenza che l’abrogazione della quota proporzionale della legge elettorale vigente e la conseguente estensione di un meccanismo fondato sui soli collegi uninominali consenta di eleggere un numero di parlamentari inferiore a quello previsto dalla Costituzione; ciò, anche avendo riguardo all’entrata in vigore della legge di revisione costituzionale – proposta di legge A.C. 1585-B cost. – pubblicata in G.U. il 12 ottobre 2019, che prevede una riduzione del numero di Deputati a 400 e di Senatori a 200.

Tale considerazione non muta nemmeno nel caso in cui si consideri persistente la vigenza di un duplice livello di suddivisione territoriale[44] (in collegi uninominali e collegi plurinominali); anche in questa seconda ipotesi, infatti, sommando ai 232 collegi uninominali, i 63 plurinominali (che andrebbero a eleggere un solo deputato), si arriverebbe ad assegnare 295 seggi (su un totale di 400); allo stesso modo, aggiungendo ai 116 collegi uninominali, i 34 plurinominali (che, di nuovo, andrebbero a eleggere un solo senatore), si otterrebbe un totale assegnato di 150 seggi (su 200).

Si pone nuovamente, quindi, il tema della imprescindibile necessità, rimessa alla discrezionalità del legislatore rappresentativo[45], di una revisione dei collegi elettorali, in assenza della quale la normativa di risulta non potrebbe consentire la rinnovazione delle Assemblee elettive; di ciò sembrerebbero consapevoli anche gli stessi promotori, che si propongono di intervenire, attraverso il quesito, sia sull’art. 3 della legge 3 Novembre 2017, n. 165, avente ad oggetto la delega al governo per la ridefinizione dei collegi, e sull’art. 3 della legge 27 maggio 2019, n. 51, riguardante “Disposizioni per assicurare l’applicabilità delle leggi elettorali indipendentemente dal numero dei parlamentari” e contenente, a sua volta, una delega per una ridefinizione dei collegi resasi necessaria in seguito all’approvazione della legge di revisione costituzionale volta alla riduzione del numero dei parlamentari.

È tuttavia, quella prospettata, una soluzione che non appare risolutiva per il tema che qui interessa: se, infatti, i dubbi inerenti la legittimità costituzionale, da un lato, della nuova creazione, per via referendaria e in assenza del sinallagma delegante/Parlamento  delegato/Governo  di una delegazione legislativa già esercitata e, dall’altro, di una delega da cui verrebbe espunto qualunque riferimento al termine di 24 mesi per l’adozione del relativo decreto legislativo (con conseguente contrasto con l’art. 76 della Costituzione), riguardano più che altro una valutazione, che comunque non può essere omessa, della costituzionalità della normativa di risulta, ciò che non viene in alcun modo considerato è il permanere del rischio, già evidenziato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 26 del 1997, di una non rimediabile inosservanza della delega legislativa e, quindi, stante la non immediata applicabilità della normativa di risulta, di una paralisi dell’organo rappresentativo.

È un esito, questo, che, alla luce dello statuto delle leggi elettorali come leggi costituzionalmente necessarie rende problematica, in riferimento a questo criterio, l’ammissibilità del quesito referendario deliberato dalle Regioni.

 


[1] Dottoressa di Ricerca in Diritti e Istituzioni. Università degli Studi di Torino.

 

[2] Il testo della delibera è consultabile a partire dal sito del Consiglio regionale, http://serviziweb.csi.it/solverweb/IndexDocumentServlet?id=57065; il Consiglio regionale, con delibera del 06.11.2019 ha poi integrato tale delibera su indicazione della Corte di Cassazione.

 

[3] Olivito E. (2016), Le inesauste ragioni e gli stridenti paradossi della governabilità, in Costituzionalismo.it, pp. 58 ss.

 

[4] Rescigno G.U. (1994), Democrazia e principio maggioritario, in Quaderni costituzionali, pp. 221; si veda altresì De Fiores C. (2007), Rappresentanza politica e sistema dei partiti in Italia, Costituzionalismo.it, pp.19; Olivito E.(2016), Le inesauste ragioni e gli stridenti paradossi della governabilità, cit., p. 58; Pasquino G., (1994), Governabilità (voce), in Enciclopedia delle scienze sociali, vol. 4, pp. 400 ss; secondo l’autore, “la stabilità politica può essere una precondizione importante dell’efficacia decisionale. Ma è soprattutto una componente autonoma della governabilità. Dal canto suo, l’efficacia decisionale può derivare o no dalla stabilità politica. Ma anch’essa è una componente autonoma della governabilità.

 

[5] Olivito E. (2016), Le inesauste ragioni e gli stridenti paradossi della governabilità, in costituzionalismo.it, pp. 59 ss.

 

[6] Burdeau G. (1956), La démocratie gouvernante, son assise sociale et sa philosophie politique, in Traité de science politique, Librairie générale de droit et de jurisprudence, Parigi, Vol. VI, pp. 235 ss.

 

[7] Violante L. (2001), Il futuro dei parlamenti, in AA.VV., Storia d’Italia. Annali, pp. XLIV ss.

 

[8] Lombardia, Veneto, Friuli, Liguria, Abruzzo, Sardegna e Basilicata

 

[9] La Corte di Cassazione ha chiesto agli otto Consigli regionali, Piemonte compreso, che il 30 settembre avevano presentato istanza di referendum abrogativo riguardante la legge elettorale, un’integrazione del quesito referendario e ha concesso tempo fino all’8 novembre. Nello specifico, l’integrazione richiesta consiste nella formulazione integrale dei testi delle disposizioni di cui si chiede l’abrogazione; inoltre, la denominazione del quesito dovrà essere ‘Abolizione del metodo proporzionale nell’attribuzione dei seggi in collegi plurinominali, nel sistema elettorale della Camera dei Deputati e nel Senato della Repubblica’. Il Piemonte ha deliberato in tal senso in data 6 Novembre 2019.

 

[10] In data 21 Novembre, l’Ufficio centrale per il referendum ha depositato un’ordinanza in cui ha dichiarato conforme alle “norme di legge” la richiesta di referendum.

 

[11] Data, come noto, dall’art. 75 della Costituzione e dall’art. 29 della l. 25 maggio 1970, n. 352.

 

[12] È interessante considerare come risulti, dagli atti dell’ultima seduta dei lavori preparatori, in data 16 ottobre 1947, quando l’Assemblea costituente si è occupata dell’art. 75 – 72 in sede preparatoria – che alcuni deputati avessero presentato un emendamento finalizzato a escludere la possibilità di svolgere un referendum abrogativo sulle leggi elettorali. Nonostante l’opposizione di Ruini, in conseguenza delle votazioni sugli emendamenti presentati nel corso della seduta, le leggi elettorali erano state incluse nei limiti referendari. Tuttavia, nel testo sottoposto al voto definitivo dell’Assemblea, il 23 dicembre 1947, il riferimento alle leggi elettorali scompare. La Corte costituzionale, chiamata a esprimersi sul punto (si veda Corte costituzionale, n. 47 del 1991), ha negato la propria competenza a pronunciarsi trattandosi di interna corporis dell’Assemblea costituente. Si veda, per una ricostruzione, Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea costituente, Camera dei Deputati, IV, Roma, 1970, pp. 3224 ss. La Corte costituzionale, chiamata a esprimersi sul punto (si veda Corte costituzionale, n. 47 del 1991), ha negato la propria competenza a pronunciarsi trattandosi di interna corporis dell’Assemblea costituente.

 

[13] Corte costituzionale, n. 47 del 1991.

 

[14] Corte costituzionale, n. 15 del 2008.

 

[15] Corte costituzionale, n. 29 del 1987; in questo caso, il quesito referendario aveva a oggetto la richiesta di referendum abrogativo della legge elettorale del Consiglio Superiore della magistratura.

 

[16] Corte costituzionale, n. 378 del 1996.

 

[17] Corte costituzionale, n. 13 del 2012 e in termini più generali Corte costituzionale, n. 12 del 2014 e n. 5 del 2015.

 

[18] Corte costituzionale, n. 33 del 1993 (ammissibilità); Corte costituzionale, n. 5 del 1995 (inammissibilità); Corte costituzionale, n. 10 del 1995 (ammissibilità); Corte costituzionale, n. 26 e 28 del 1997 (inammissibilità); Corte costituzionale, n. 13 del 1999 (ammissibilità); Corte costituzionale, n. 33 e 34 del 2000 (ammissibilità); Corte costituzionale n. 15,16 e 17 del 2008 che, appunto, dichiararono l’ammissibilità di alcuni quesiti di abrogazione parziale della stessa l. n. 270/2005, confermando come “l’ammissibilità di un referendum su norme contenute in una legge elettorale relativa ad organi costituzionali o a rilevanza costituzionale è […] assoggettata “alla duplice condizione che i quesiti siano omogenei e riconducibili a una matrice razionalmente unitaria, e ne risulti una coerente normativa residua, immediatamente applicabile, in guisa da garantire, pur nell’eventualità di inerzia legislativa, la costante operatività dell’organo”. Sui requisiti di ammissibilità del referendum abrogativo, si veda ex multiis Pertici A. (2010), Il giudice delle leggi e il giudizio di ammissibilità del referendum abrogativo, Torino, Giappichelli; AA.VV., (2007), Le questioni di ammissibilità dei referendum elettorali, Seminario organizzato dall’Associazione Astrid, 11 giugno 2007; Carnevale P. (1992), Il referendum abrogativo e i limiti alla sua ammissibilità nella giurisprudenza costituzionale, Padova, Cedam; Modugno F., Zagrebelsky G. (a cura di) (2001), Le tortuose vie dell’ammissibilità referendaria, Torino, Giappichelli; Giorgis A. (1991), I referendum elettorali. Il “compromesso” n. 47/91, Torino, Giappichelli, 1991.

 

[19] Corte costituzionale, n. 16 del 1978.

 

[20] Corte costituzionale, n. 16 del 1978; Corte costituzionale, n. 24, 28 e 29 del 1981; Corte costituzionale, n. 27 del 1982; Corte costituzionale, n. 29 del 1987; Corte costituzionale, n. 47 del 1991; Corte costituzionale, n. 29 del 1993 e Corte costituzionale, n. 6 del 1995.

 

[21] Corte costituzionale, n. 47 del 1991; Corte costituzionale, n. 15 e 17 del 2008; Corte costituzionale, n. 32 del 1993. 

 

[22] Corte costituzionale n. 47 del 1991.

 

[23] Corte costituzionale, n. 13 del 1999.

 

[24] Ruotolo M. (1999), La Reggia di Minosse. E’ possibile e razionale la distinzione tra espansione e manipolazione nel giudizio di ammissibilità del referendum abrogativo?, in Giurisprudenza italiana, pp. 1137.

 

[25] Corte costituzionale, n. 26 del 1997; n. 36 del 1997; n. 32 del 1993; si veda altresì Pizzorusso A. (1998), Anomalie e incongruenze della normativa costituzionale e ordinaria in tema di referendum abrogativo, in AA.VV., Il giudizio di ammissibilità del referendum abrogativo, pp.126.

 

[26] Corte costituzionale, n. 13 del 1999.

 

[27] Corte costituzionale, n. 36 del 1997. Con argomentazioni del tutto analoghe è stata dichiarata l’inammissibilità del referendum abrogativo sul c.d. Jobs Act, la cui normativa di risulta avrebbe esteso l’applicabilità della reintegrazione nel posto di lavoro a tutti i lavoratori di aziende con più di cinque occupati, mutuando tale soglia dalla disciplina residuale dell’impresa agricola; Corte costituzionale, n. 26 del 2017. Si veda altresì Gigliotti A. (2009), L’ammissibilità dei referendum in materia elettorale, Milano, Giuffrè, p. 234; e A. Pertici, Il giudice delle leggi e il giudizio di ammissibilità del referendum abrogativo, cit. p. 10.

 

[28] Corte costituzionale, n. 29 del 1987; Corte costituzionale, n. 47 del 1991; Corte costituzionale, n. 32 e 33 del 1993; Corte costituzionale, n. 5 e 10 del 1995; Corte costituzionale, n. 26 e 28 del 1997; Corte costituzionale, n. 13 del 1999; Corte costituzionale, n. 33 e 34 del 2000; Corte costituzionale, n. 15, 16 e 17 del 2008.

 

[29] Corte costituzionale, n. 15 e 16 del 2008. Si tratta di una posizione differente da quella inizialmente assunta dalla Corte costituzionale che, nella sentenza n. 26 del 1981, afferma che “per negare che determinate richieste referendarie siano ammissibili, non rileva che l’approvazione di esse darebbe luogo a effetti incostituzionali: sia nel senso di determinare vuoti, suscettibili di ripercuotersi sull’operatività di qualche parte della Costituzione; sia nel senso di privare della necessaria garanzia situazioni costituzionalmente protette”.

 

[30] Corte costituzionale, n. 32 del 1993.

 

[31] In realtà, nel caso in esame, la Corte costituzionale non prende in alcun modo in considerazioni che i collegi elettorali, comunque, non sarebbero stati sufficienti a eleggere 315 senatori: essi, infatti, erano solo 232. 

 

[32] Corte costituzionale, n. 5 del 1995.

 

[33] La Corte costituzionale, in altre pronunce, aveva già ritenuto la plausibilità di “inconvenienti” delle norme di risulta, a condizione che essi non incidano “sull’operatività del sistema elettorale” e sulla “funzionalità dell’organo”; Corte costituzionale, n. 32 del 1993 e n. 33 del 1993. 

 

[34] Pertici A. (2010), Il giudice delle leggi e il giudizio di ammissibilità del referendum abrogativo, cit. p. 206; si veda anche Stroppiana L. (2002), Seggi vacanti: si può lasciare la Camera senza il plenum?, in www.forumcostituzionale.it.

 

[35] Gemma G. (1997), Referendum, leggi elettorali, leggi costituzionalmente necessarie: un sempre valido no della Corte, in Giurisprudenza costituzionale, pp. 214 ss. Cfr. altresì A. Gigliotti, l’ammissibilità dei referendum in materia elettorale, cit., p. 232.

 

[36] Corte costituzionale, n. 16 del 1997.

 

[37] Trucco L.(2019), La richiesta referendaria regionale in materia elettorale (vista dalla Liguria), in Consulta online, n. 3, pp. 514 ss.

 

[38] Corte costituzionale, n. 16 del 1978;  Corte costituzionale n. 47 del 1991.

 

[39] Corte costituzionale, n. 15 e 16 del 2008; n. 17 del 2016; in dottrina si veda, ad esempio, Modugno F. (2008), Sull’inammissibilità dei referendum elettorali, in Modugno F., Azzariti G., Ferrara G., Guarino G., La resistibile ascesa del referendum elettorale: l’ammissibilità contesa, in costituzionalismo.it.

 

[40] Che, invero, non sussistono neanche ad oggi. Tre tornate elettorali (1994, 1996 e 2001) sono state invece regolate dalle leggi 276 e 277/1993, che prevedevano un sistema misto che assegnava il 75% dei seggi su base maggioritaria uninominale e il restante 25% su base proporzionale. Per la Camera erano previste due schede. Per il Senato, invece, tutto veniva regolato da una scheda unica con obbligo di collegamento dei candidati alle liste. La differenza principale tra i due sistemi risiedeva nella regola dello “scorporo”: al Senato, infatti, tutti i voti del candidato vincente non erano conteggiati come voti alla lista proporzionale collegata (scorporo totale); alla Camera venivano decurtati solo quelli necessari a ottenere il seggio (scorporo parziale). Altre tre tornate elettorali (2006, 2008 e 2103), poi, sono state disciplinate dalla legge n. 270/2005,  una legge proporzionale con premio di maggioranza. La principale differenza tra Camera e Senato risiedeva nel fatto che il premio di maggioranza venisse assegnato, per la Camera, alla coalizione o partito che avesse conseguito più voti su base nazionale, mentre, per il Senato, alla coalizione o partito che avesse conseguito più voti in ciascuna regione.

 

[41] Corte costituzionale, n. 35 del 2017.

 

[42] Con la sentenza n. 13 del 1999, con una la Corte costituzionale aveva dichiarato l’ammissibilità del quesito sottoposto al suo vaglio, la situazione era, invero, invertita: la richiesta di referendum, infatti, riguardava la quota proporzionale delle leggi Mattarella, pari ad ¼ dei seggi, ed era diretta a estendere l’applicabilità delle disposizioni che già disciplinavano l’elezione di ben ¾ dei parlamentari.  Cfr. Giorgis A. (1991), I referendum elettorali. Il “compromesso” n. 47/91, cit., passim; ed i vari interrogativi posti da Bettinelli E. (1994), Le nuove regole del gioco, in Pozzi E., Rattazzi S. (a cura di), Farsi eleggere. La campagna elettorale nella Seconda Repubblica, Milano, Giuffrè.

 

[43] Rimangono, in ogni caso, esclusi i seggi (6 per il Senato e 12 per la Camera) relativi alla circoscrizione estero e attribuiti con metodo proporzionale che rimarrebbe invariato.

 

[44] Del resto, che, anche nel caso di successo dell’ipotesi referendaria, la sussistenza di un duplice livello di definizione dei collegi resterebbe vigente, è dato di ricavarlo dalla perdurante vigenza di vari disposti che ne presupporrebbero la sussistenza: basti qui richiamare la previsione che vuole che “nel caso in cui sia dichiarata non valida la candidatura in un collegio uninominale”, resti “valida la presentazione della lista negli altri collegi uninominali della circoscrizione” (art. 22 T.U. Cam.), e quella in base alla quale l’elezione avviene “sulla base dei voti espressi nelle circoscrizioni regionali, suddivise in collegi uninominali” (art. 2 T.U. Sen.).  Si veda Trucco L.(2019), La richiesta referendaria regionale in materia elettorale (vista dalla Liguria), cit. p. 516 ss.

 

[45] Peraltro, in quel caso, i promotori individuavano il fondamento di tale obbligo di cooperazione sulla base di una superiorità del referendum rispetto alla legge, contrastante con la stessa giurisprudenza costituzionale; si veda in tal senso Corte costituzionale, n. 16 del 1978; Corte costituzionale, n. 29 del 1987 e Corte costituzionale, n. 64 del 1990.