Esposizione di simboli nazisti fuori dal cancello di casa e diffusione di video negazionisti online (nota a Tribunale di Aosta, sentenza del 3 settembre 2021 n. 249)

 

Anna Costantini [1]

1. Un’introduzione.

Con la sentenza in commento[2], il Tribunale di Aosta ha condannato per il reato di “propaganda razzista” di cui all’art. 604-bis, co. 1, lett. a, c.p. – aggravato dalla circostanza del c.d. negazionismo di cui all’ultimo comma del medesimo articolo – l’autore di una serie di condotte consistenti, per un verso, nell’esposizione sulla pubblica via di simboli riconducibili al regime nazionalsocialista tedesco e, per altro verso, nella condivisione a terzi, tramite social network e messaggi privati, di video a contenuto negazionista.

La pronuncia offre, dunque, l’occasione per formulare alcune riflessioni in tema di rilevanza penale della propaganda del pensiero nazista, in particolare di quella fondata sulla negazione dell’Olocausto. Si tratta di una materia in cui l’intervento penale è particolarmente delicato, perché condizionato da forti premesse valoriali e dalla contrapposizione di differenti esigenze di tutela.

Per un verso, infatti, è noto come il ripudio delle esperienze autoritarie dei fascismi di inizio Novecento – e, ancor più, dell’orrore della Shoah e dei crimini del regime nazista – abbia costituito, dopo la Seconda Guerra Mondiale, la pietra fondativa e l’universo etico-politico condiviso delle democrazie europee[3]; ne fornisce chiara testimonianza, nell’ordinamento italiano, la XII disposizione finale della Costituzione, che nel vietare “la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista” esprime una precisa “scelta di campo”[4] rispetto all’assetto – anche valoriale – della nuova Repubblica, ponendone la definizione in termini di netta opposizione rispetto ai connotati fondativi del regime fascista[5].

Sono, quindi, anzitutto ragioni storiche e culturali a spiegare il ricorso al diritto penale nel contrasto alla diffusione di forme di pensiero fascista o nazista, come avvenuto in particolare attraverso la c.d. Legge Scelba del 1952 (su cui si tornerà a breve). Peraltro, nell’attuale dibattito pubblico si assiste al rafforzamento di istanze politico-criminali favorevoli a un ulteriore ampliamento del controllo penale, invocato a fronte dell’emergere di fenomeni preoccupanti, quali la diffusione di movimenti di matrice neonazista e di correnti ideologiche che, direttamente o indirettamente, si richiamano all’esperienza dei fascismi europei. In questa direzione, si segnala la recente introduzione, a opera della l. n. 115 del 2016, dell’aggravante del c.d. negazionismo (art. 604-bis, co. 3, c.p.) nonché la ricorrente comparsa di proposte legislative dirette a estendere l’incriminazione rispetto a condotte di “propaganda” nazista o fascista (v. infra)[6].

Per altro verso, tuttavia, nel momento in cui la repressione penale si rivolge a forme di manifestazione di un pensiero – per quanto odioso e aberrante, come quello di ispirazione nazista –, si evidenzia inevitabilmente un rapporto conflittuale, tipico di tutti i reati di opinione[7], con la libertà di espressione presidiata dall’art. 21 Cost. (oltreché, a livello sovranazionale, dall’art. 10 CEDU)[8]: la co-essenzialità di tale libertà al sistema democratico, di cui costituisce la “pietra angolare”[9], impone di contenere l’incriminazione delle opinioni devianti nel limite in cui sia strettamente necessario per salvaguardare altri interessi di preminente rilievo costituzionale. Da questo punto di vista, la legittimità del ricorso al diritto penale nel contrasto a esternazioni di ideali nazisti o fascisti risulta legata a doppio filo con la valutazione dei profili di offesa arrecati dalla manifestazione del pensiero e del loro bilanciamento con le contrapposte esigenze sottese alla difesa della libertà d’espressione[10].

2. Il diritto penale di fronte alla propaganda del pensiero nazifascista.

Questo contemperamento risulta particolarmente complesso proprio quando si tratta di considerare la possibile rilevanza penale di condotte di diffusione o “propaganda” dell’ideologia nazista o fascista. Rispetto a queste, può apparire difficile individuare una concreta dimensione offensiva che giustifichi la compressione della libertà di manifestazione del pensiero: una mera diffusione di idee, infatti, non implica di per sé il passaggio a un’azione lesiva o pericolosa[11]; tanto più se si considera che, a differenza dell’istigazione, la propaganda non richiede nemmeno la concreta idoneità a determinare il compimento di atti materialmente offensivi.

Ora, nel diritto positivo, le espressioni di pensiero nazi-fascista si collocano al punto di intersezione tra due distinti settori dell’intervento penale, vale a dire, delle norme contro il fascismo contenute nella Legge Scelba (l. 20 giugno 1952, n. 645) e di quelle in materia di discriminazione razziale, introdotte dalla Legge Reale (l. 22 maggio 1975, n. 152), ampliate e modificate dalla Legge Mancino (l. 25 giugno 1993, n. 205) e, infine, in gran parte confluite nel Codice penale tra i delitti contro l’uguaglianza (artt. 604-bis e 604-ter c.p.).

Nell’ambito del primo provvedimento normativo, in particolare, assumono rilievo (art. 4) le condotte di propaganda “per la costituzione di una associazione, di un movimento o di un gruppo avente le caratteristiche e perseguente le finalità” antidemocratiche proprie del disciolto partito fascista, che l’art. 1 della stessa legge individua, in via alternativa: i) nell’esaltazione, minaccia o uso della violenza quale metodo di lotta politica; ii) nel fatto di propugnare la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione; iii) nella denigrazione della democrazia, delle sue istituzioni e dei valori della Resistenza; iv) nello svolgimento di propaganda antirazzista. Accanto al reato di propaganda, l’art. 4 della legge Scelba incrimina anche l’apologia di fascismo, commessa da “chi pubblicamente esalta esponenti, principi, fatti o metodi del fascismo, oppure le sue finalità antidemocratiche”, stabilendo un’aggravante se il fatto riguarda “idee o metodi razzisti”. L’art. 5, infine, punisce il compimento in pubbliche riunioni di manifestazioni usuali del disciolto partito fascista o di organizzazioni naziste.

Nell’ambito dei delitti contro l’uguaglianza, invece, vengono specificamente punite: i) la propaganda di idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico; ii) l’istigazione a commettere o la commissione di atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi; iii) l’istigazione o la commissione di violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi (art. 604-bis c.p.). L’art. 2 della Legge Mancino punisce, infine, l’esibizione in pubbliche riunioni di emblemi propri di organizzazioni razziste (v. infra).

La rilevanza penale delle manifestazioni di pensiero nazi-fascista è condizionata, quindi, dalla diversa ricostruzione della loro dimensione offensiva: la valorizzazione dell’offesa per l’ordine democratico – secondo l’ambito di tutela della Legge Scelba – e della conseguente natura politica delle manifestazioni in questione (quali pensieri ostili ai valori costituzionali) conduce infatti a richiedere l’accertamento del pericolo concreto di ricostituzione del partito fascista, quale requisito implicito individuato dalla giurisprudenza costituzionale al fine di legittimare la compressione della libertà di opinione; tale presupposto non è richiesto, per altro verso, laddove si accordi prevalenza alla natura personalistica dell’offesa, considerando le espressioni di pensiero nazi-fascista come forme di discorso d’odio (c.d. hate speech), lesive della dignità umana, da cui deriva il loro differente inquadramento nell’art. 604-bis c.p.

Di questo duplice piano di lettura – e delle difficoltà interpretative che ne discendono – è emblematico il caso affrontato dalla pronuncia in commento.

3. La vicenda.

Come anticipato, sono diversi i fatti che hanno portato il Tribunale di Aosta a condannare per il delitto di cui all’art. 604-bis c.p. un cittadino valdostano. Innanzitutto, all’imputato è stato contestato di aver esposto alcuni simboli inequivocabilmente riconducibili al Terzo Reich su due cancelli d’ingresso alla propria abitazione, entrambi affacciantisi su vie pubbliche: sui cancelli, più precisamente, era raffigurata un’aquila stilizzata – che afferra tra gli artigli un serpente che si morde la coda– analoga a quella tratteggiata nello stemma del disciolto partito nazionalsocialista tedesco (NSDAP) e, inoltre, all’emblema della Ordnungspolizei (Polizia dell’Ordine); su una delle due inferriate, inoltre, ai lati dell’aquila erano apposti anche due triangoli equilateri (di cui quello a sinistra con il vertice verso il basso e quello a destra con il vertice verso l’alto), figure utilizzate nei campi di concentramento per identificare e “catalogare” i deportati secondo la nazionalità, il colore della pelle, l’orientamento politico, l’orientamento sessuale e le convinzioni religiose. Secondo il giudice di primo grado, l’accostamento dei triangoli al simbolo dell’aquila nazista sarebbe stato in re ipsa rievocativo dell’Olocausto perpetrato dai nazisti.

In secondo luogo, la condanna ha riguardato la realizzazione da parte dell’imputato di alcune condotte più specificamente diffusive di messaggi correlati al regime nazista: si tratta della pubblicazione sul proprio profilo pubblico Facebook di un’immagine che lo ritrae mentre effettua il saluto romano in un luogo pubblico (una scuola), nonché di due video di un autore negazionista (Robert Faurisson), aventi a oggetto la divulgazione di teorie fondate sulla negazione della Shoah, definita come uno “strumento propagandistico sionista”, e dell’esistenza delle camere a gas. Ulteriori video con contenuti negazionisti erano stati, infine, inviati dall’imputato ad amici e conoscenti tramite la piattaforma WhatsApp, accompagnati da messaggi di sollecitazione a visionarli, al fine di comprendere il reale svolgimento degli accadimenti storici, oltre che dall’espressa negazione dell’esistenza delle camere a gas, definite “bufale” e, in un caso, dall’esaltazione di Adolf Hitler.

Tutti i fatti indicati, come si è detto, sono stati unitariamente ricondotti all’ipotesi criminosa di cui all’art. 604-bis, co. 1 e co. 3 c.p., vale a dire, al reato di “propaganda razzista” aggravato dalla circostanza del negazionismo. La sentenza, pertanto, ritiene integrato un unico reato a fronte di una pluralità di condotte che presentano, tuttavia, profili molto spiccati di eterogeneità, sia dal punto di vista dei contenuti veicolati, sia da quello delle modalità diffusive. Quanto al primo profilo, infatti, viene attribuito rilievo, da un lato, a contenuti simbolici – gli emblemi del Terzo Reich o il gesto del saluto romano – idonei a veicolare l’adesione alle aberranti ideologie dell’esperienza storica nazi-fascista, dall’altro, a contenuti di negazione di una verità storica – quella dell’Olocausto – che di quell’ideologia ha costituito la tragica concretizzazione. Sotto il secondo profilo, la sentenza accomuna tra loro ipotesi che presentano un grado molto diverso di idoneità diffusiva e, quindi, di condizionamento psichico rispetto a terzi: un conto è la “esposizione ostentata” di immagini simboliche in un luogo privato ma visibile dal pubblico; un conto sono le comunicazioni private tramite messaggi personali inviati ad amici; un conto, infine, è la condivisione pubblica di contenuti su un social network.

La riflessione sulla qualificazione giuridica operata dal Tribunale di Aosta impone, pertanto, una valutazione separata dei profili fattuali in considerazione.

4. Rilevanza penale dell’ostentazione di emblemi nazisti: dalla legge Scelba…

In primo luogo, solleva alcune perplessità la scelta di inquadrare le condotte di “esposizione” di simboli nazi-fascisti entro la fattispecie di propaganda razzista di cui all’art. 604-bis, co. 1, lett. a) c.p.

Ci si potrebbe innanzitutto chiedere perché tali fatti non siano stati ricondotti a fattispecie penali specificamente pensate per incriminare condotte di “esibizione” di simboli o immagini legati a ideologie “ostili”.

Sicuramente il caso concreto non avrebbe potuto rientrare nel reato di cui all’art. 5 della l. 20 giugno 1952, n. 645 (c.d. Legge Scelba)[12], che punisce chiunque, “partecipando a pubbliche riunioni, compie manifestazioni usuali del disciolto partito fascista ovvero di organizzazioni naziste”: oltre a mancare il requisito della partecipazione a pubbliche riunioni, non sarebbe stato possibile ravvisare il “concreto pericolo” per la ricostituzione del partito fascista che la giurisprudenza della Corte costituzionale ha richiesto in via interpretativa per salvare la fattispecie in oggetto – come pure la contigua ipotesi di “apologia di fascismo” – dalle censure di illegittimità costituzionale per violazione dell’art. 21 Cost.[13]. La giurisprudenza costituzionale ha infatti escluso che nella sfera di punibilità del delitto di “manifestazioni fasciste (o naziste)” assuma rilievo “qualunque parola o gesto […] che ricordi comunque il regime fascista e gli uomini che lo impersonarono ed esprima semplicemente il pensiero o il sentimento, eventualmente occasionale o transeunte, di un individuo […]”; possono, cioè, rivestire rilevanza penale le sole espressioni prodromiche alla ricostituzione di organizzazioni fasciste, in quanto idonee, per il momento e l’ambiente in cui sono realizzate, “a provocare adesioni e consensi ed a concorrere alla diffusione di concezioni favorevoli” alla riorganizzazione delle stesse, così ponendosi in rapporto strumentale con la fattispecie associativa di cui agli artt. 1 e 2, L. n. 654/1952.

La valorizzazione del requisito del pericolo concreto di ricostituzione del partito fascista – che si correla alla dimensione pubblicistica della tutela propria dei reati contro il fascismo – se per un verso apre a valutazioni fortemente discrezionali da parte dei giudici[14], a causa dell’incertezza legata alla natura prognostica dell’accertamento, per altro verso può, di fatto, tradursi nella disapplicazione della fattispecie in considerazione, in quanto difficilmente una manifestazione del pensiero può influire sulla riorganizzazione del partito fascista[15].

4.1. alla Legge Mancino e ai delitti contro l’uguaglianza.

Proprio queste difficoltà applicative spiegano la tendenza della prevalente giurisprudenza a riportare le “espressioni usuali” del partito fascista (emblematico il caso del saluto romano[16]) nell’ambito applicativo del diverso reato di “esibizionismo razzista” disciplinato dall’art. 2, comma 1, D.L. n. 122/1993 (c.d. Legge Mancino), che a sua volta trova collocazione tra le norme penali in materia di discriminazione razziale[17], sebbene tale reato, a differenza delle altre ipotesi inizialmente disciplinate dalla legge Mancino, non sia confluito tra i “delitti contro l’uguaglianza” inseriti nel Codice penale (artt. 604-bis ss.) in attuazione della c.d. riserva di Codice di cui al d.lgs. 21/2018. La fattispecie in questione punisce “chiunque, in pubbliche riunioni, compia manifestazioni esteriori od ostenti emblemi o simboli propri o usuali delle organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi di cui all’articolo 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654 [ora art. 604 bis, comma 2, c.p.]”, aventi cioè tra i propri scopi “l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi”.

All’art. 2 l. 205/1993 possono essere ricondotte, quindi, anche le condotte di esibizione di emblemi fascisti o nazisti, poiché correlati a ideologie politiche fondate su valori politici di discriminazione razziale, intolleranza e sopraffazione del diverso. Non può mettersi in discussione, infatti, che l’esibizione di emblemi propri del partito nazional-socialista – analogamente alla realizzazione del “saluto romano” – esprimano l’adesione a ideologie “fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico”, e dunque integrino il riferimento alla nozione di “razzismo”, inteso non solo in senso biologico ma anche culturale e, dunque, comprensiva di tutte le dottrine che predicano la discriminazione di chi risulti diverso rispetto a certe caratteristiche assunte come identitarie a un certo gruppo[18].

La parziale sovrapposizione del reato da ultimo richiamato con la fattispecie di cui all’art. 5 L. Scelba viene risolta valorizzando il diverso ambito di tutela in cui si colloca il reato di “esibizionismo razzista”, che l’opinione prevalente ritiene posto a protezione della “dignità” della persona umana (art. 2 Cost.)[19], spesso precisata dal riferimento al principio di “uguaglianza”[20] inteso come diritto all’“eguale rispetto” tra individui: tale valore verrebbe leso da espressioni di carattere razzista, capaci di fomentare un clima di odio verso le minoranze prese di mira, creando inoltre un terreno fertile per il fiorire di violenze e discriminazioni nei confronti dei singoli appartenenti ai gruppi discriminati[21]. Ne consegue che tale reato potrà essere invocato anche in assenza di quel pericolo di ricostituzione del partito fascista richiesto per l’integrazione della fattispecie contro il fascismo[22].

Nel caso di specie, tuttavia, l’esibizione di emblemi riconducibili al partito nazional-socialista non è stata nemmeno inquadrata nel delitto di cui all’art. 2 della legge Mancino: la scelta è condivisibile, in quanto di tale fattispecie non poteva dirsi integrato il requisito della realizzazione della condotta “in pubbliche riunioni”. Di fronte all’impossibilità di ravvisare la sussistenza dei reati specificamente diretti a incriminare l’esposizione di simboli nazi-fascisti, tuttavia, il Tribunale di Aosta non ha ritenuto di dover escludere la rilevanza penale delle condotte dell’imputato, sul presupposto che le stesse fossero comunque riconducibili all’ipotesi criminosa (peraltro, meno gravemente punita) di propaganda razzista disciplinata dall’art. 604-bis c.p.

4.2. Esposizione di simboli e propaganda “razzista”.

Si tratta, allora, di capire se l’esposizione di simbologia nazista in modo tale che la stessa sia resa visibile a terzi (come accaduto nel caso di specie, attraverso l’affissione degli emblemi incriminati sulla porta di casa) possa effettivamente rientrare nel concetto di “propaganda” rilevante ai sensi del delitto di cui all’art. 604-bis c.p.[23].

La sentenza perviene a questa soluzione muovendo dall’inquadramento del delitto di propaganda nel modello del reato di pericolo astratto, sul presupposto che la diffusione di contenuti razzisti possa essere di per sé offensiva della dignità del gruppo minoritario discriminato o dei singoli che vi appartengono[24]: non rileva, dunque, che la propaganda abbia prodotto degli effetti, cioè che sia stata concretamente recepita da terzi, né “il modo o il mezzo con i quali le idee vengono divulgate” né, ancora, “ che i soggetti passivi percepiscano l’espressione come un’offesa alla propria dignità”[25]. Si tratta di un’impostazione che, tuttavia, secondo un’opposta opinione, potrebbe condurre a giustificare un’eccessiva compressione della libertà di manifestazione di pensiero, anche a fronte di lesioni meramente ideali o simboliche di un bene giuridico – quale è la dignità-uguaglianza – altamente spiritualizzato ed evanescente[26].

Pertanto, sebbene la giurisprudenza ravvisi una sostanziale continuità normativa tra la “propaganda” e la “diffusione di idee”, cui la norma faceva riferimento prima della sostituzione lessicale apportata dalla l. 85/2006[27], dovrebbe ritenersi più conforme ai principi costituzionali di offensività e materialità l’orientamento che interpreta la propaganda in termini maggiormente restrittivi. Secondo questo indirizzo, “propagandare” un’idea vorrebbe dire non semplicemente diffonderla ma divulgarla, “al punto da condizionare o influenzare il comportamento e la psicologia di un vasto pubblico, in modo da raccogliere adesioni attorno ad essa”[28]. Solo a queste condizioni, infatti, la trasmissione di idee e di sentimenti d’odio potrebbe considerarsi realmente offensiva per la dignità dei singoli appartenenti al gruppo preso di mira, concretizzando il pericolo di rinsaldare sentimenti sociali di esclusione e disconoscimento o di portare al compimento di atti di discriminazione o violenza nei loro confronti.

Si è obiettato[29] che la lettura da ultimo richiamata, che implicitamente integra lo schema del pericolo concreto, porterebbe a tramutare la fattispecie in esame in un inutile duplicato dell’ipotesi di istigazione alla commissione di atti discriminatori, autonomamente punita dall’art. 604-bis, co. 1 lett. a) c.p. A ciò si aggiunge che lo stesso paradigma del pericolo concreto rischia di non essere decisivo, a causa dell’assenza di una dimostrata (e dimostrabile) relazione causale tra manifestazioni razziste e danni ai singoli o alla società[30].

D’altra parte, anche a voler ammettere la natura di pericolo astratto del reato di propaganda, e dunque la sua identificazione con una mera diffusione di idee (a prescindere dall’effettivo condizionamento di terzi), residuano dubbi sulla possibilità di ricondurre a tale ipotesi condotte di “esposizione di simboli”. La pronuncia pare dare per scontato il carattere propagandistico della condotta, soffermando l’attenzione sulla ricostruzione probatoria delle convinzioni personali dell’imputato, indicative della sua intima adesione all’ideologia nazista. L’ostentazione di emblemi fuori da un’abitazione privata, dunque, sicuramente assume i tratti di una rivendicazione personale di appartenenza ideologica: pare piuttosto forzato, però, sostenere che tramite tale condotta si verifichi una propagazione di ideali razzisti a terzi, mancando un’azione specificamente diffusiva verso l’esterno. In altre parole, non pare condivisibile che la mera “esibizione ostentata” di simboli (in un luogo privato visibile dall’esterno) possa rientrare nei confini lessicali della nozione di “propaganda” penalmente rilevante.

5. Propaganda razzista e aggravante del negazionismo.

Il secondo profilo di riflessione che emerge dalla pronuncia riguarda l’inquadramento delle condotte di diffusione di video e di messaggi a contenuto negazionista: anche tali fatti, come si è visto, sono stati presi in considerazione dal Tribunale di Aosta – unitariamente alle condotte precedentemente esaminate – al fine di ritenere sussistente il reato di propaganda razzista aggravato dal negazionismo.

Senza entrare nel dibattito sulla legittimità dell’incriminazione del c.d. negazionismo[31] – inteso (nel suo significato originario e più ristretto) come negazione della verificazione storica della Shoah – occorre qui evidenziare come il legislatore italiano, al fine di dare attuazione a obblighi di incriminazione imposti a livello unitario (cfr. Decisione Quadro UE del 28 novembre 2008), abbia adottato una soluzione “di compromesso” diretta ad attribuire rilevanza alle condotte negazioniste non sul piano dell’autonoma incriminazione, bensì su quello dell’aggravamento sanzionatorio delle preesistenti fattispecie di propaganda e istigazione di cui all’art. 604-bis c.p.. L’ultimo comma di tale norma, introdotto dalla l. 115/2016, prevede che si applichi la pena della reclusione da due a sei anni “se la propaganda ovvero l’istigazione e l’incitamento, commessi in modo che derivi concreto pericolo di diffusione, si fondano in tutto o in parte sulla negazione, sulla minimizzazione in modo grave o sull’apologia della Shoah o dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra, come definiti dagli artt. 6, 7 e 8 dello statuto della Corte penale internazionale”.

L’introduzione dell’aggravante del negazionismo non ha comportato, quindi, un allargamento dell’area del penalmente illecito, poiché “una circostanza aggravante si iscrive, per definizione, dentro il confine tracciato dalla fattispecie base; incide sul livello sanzionatorio, non sull’estensione del divieto”[32]. Le condotte di negazione, grave minimizzazione o apologia della Shoah, pertanto, possono rilevare penalmente soltanto quando siano già di per sé rilevanti come forme di propaganda razzista o di istigazione al compimento di atti discriminatori, e sempre che vi sia “pericolo concreto di diffusione”.

Ora, secondo il Tribunale, l’aggravante in questione risulterebbe configurata nel caso concreto alla luce della “pubblica esposizione dei simboli del regime che ha fondato sull’odio razziale la sua «politica» di sistematico sterminio di persone”, nonché della “propaganda attraverso Facebook e messaggi Whatsapp di idee che negano la Shoah, ad un tempo tacciando di falsità le realtà storiche universalmente riconosciute ed esaltando la persona di Adolf Hitler […]”. Il punto più controverso del ragionamento seguìto dal giudice, tuttavia, attiene alla considerazione unitaria delle condotte cui viene ricollegato il riconoscimento di tale aggravante, e che rivestono invece connotati differenti.

Quanto all’esposizione di simboli, infatti, se essa già difficilmente – e comunque solo in via di interpretazione estensiva – può essere ricondotta al concetto di “propaganda” di ideali nazi-fascisti, ancor più arduo è riconoscerne l’idoneità a veicolare un messaggio di negazione dell’esistenza storica dell’olocausto, cui si riconnette la sussistenza dell’aggravante.

Il contenuto negazionistico, al contrario, è inequivocabile rispetto ai video pubblicati su Facebook e inviati tramite messaggi privati. Rispetto a queste ultime condotte, piuttosto, si pone il problema (di tipo speculare) di ravvisare la sussistenza del reato “base” di propaganda di ideali razzisti, su cui la fattispecie circostanziale viene a innestarsi: la sentenza non si sofferma, infatti, sulla circostanza che tali video propugnassero, oltre alla tesi di negazione dei fatti storici dell’Olocausto, anche la condivisione di idee “di superiorità e odio razziale o etnico” proprie del pensiero nazista. Questa potrebbe essere implicitamente ravvisata nella circostanza che l’autore dei video in questione, oltre a negare l’Olocausto e l’esistenza delle camere a gas, sostenesse anche che la Shoah fosse “solo una «trovata» propagandistica sionista”, in tal modo veicolando un messaggio d’odio nei confronti del popolo ebraico. Elemento ancor più determinante è la circostanza che in un caso il video – inviato per messaggio a un’amica dell’imputato – fosse accompagnato dall’esaltazione di Hitler, e quindi da un contenuto di effettiva propaganda dell’ideologia nazista.

Le condotte di propaganda negazionista, per altro verso, differiscono tra di loro quanto al grado di diffusività, che assume rilievo ai fini dell’integrazione del requisito del concreto pericolo di diffusione richiesto dalla circostanza aggravante di cui all’art. 604-bis, co. 3, c.p. Tale presupposto è chiaramente integrato dalla pubblicazione dei due video negazionisti sul profilo Facebook dell’imputato, mentre è di più difficile ravvisabilità rispetto alla diffusione dei video tramite messaggi privati inviati singolarmente dall’imputato a propri amici: se è vero che l’art. 604-bis c.p. non richiede il carattere pubblico della condotta, sembra difficile sostenere che singole comunicazioni individuali – come tali destinate a rimanere nella sfera conoscitiva del destinatario – siano tali da rivestire il messaggio propagandato di connotati di concreta capacità diffusiva, richiesti per l’integrazione dell’aggravante del negazionismo.

6. Note conclusive.

Conclusivamente, la pronuncia del Tribunale di Aosta si segnala per il fatto di aderire a una lettura estensiva del reato di propaganda razzista e dell’aggravante del negazionismo previsti dall’art. 604-bis c.p., i cui confini di tipicità sono ampliati in modo da ricomprendervi condotte scarsamente connotate sotto il profilo della capacità diffusiva dei messaggi razzisti dalle stesse veicolati. Quel che non convince nella ricostruzione operata dal Tribunale di Aosta, in particolare, è la possibilità di ravvisare gli estremi della “propaganda” rispetto a una condotta di mera “esposizione” al di fuori di un’abitazione privata – per quanto visibile dalla pubblica via – di simboli riconducibili al partito nazionalsocialista: rispetto a tale fattispecie, infatti, sembrano mancare gli estremi di una condotta effettivamente “diffusiva” dell’ideologia razzista che a quegli emblemi (pur inequivocabilmente) si associa.

D’altra parte, che nell’attuale contesto normativo sia quantomeno dubbia la rilevanza penale della mera “esibizione” di emblemi nazifascisti – al di fuori della sfera di pubblicità espressamente considerata dalle fattispecie di cui agli artt. 5 L. Scelba e 2 L. Mancino – può indirettamente trarsi dal recente fiorire di proposte legislative dirette a estendere l’incriminazione proprio rispetto a tale tipologia di condotte: dette proposte riguardano, più precisamente, l’introduzione di un nuovo reato di propaganda del regime fascista e nazifascista (art. 293-bis c.p.), realizzata “anche solo attraverso la produzione, distribuzione, diffusione o vendita di beni raffiguranti persone, immagini o simboli a essi chiaramente riferiti”, ovvero richiamandone “pubblicamente la simbologia o la gestualità”[33]. Nel quadro di questa fattispecie, l’esibizione di simboli “sulla pubblica via” potrebbe quindi assumere rilievo penale nella misura in cui sia inteso come un richiamo “in pubblico” alla simbologia propria del regime nazifascista.

De iure condito, tuttavia, dovrebbe ritenersi preferibile l’accoglimento di una nozione restrittiva della nozione di “propaganda” rilevante ai sensi dell’art. 604-bis c.p., in quanto maggiormente conforme ai principi di tassatività e di offensività del fatto di reato.

 

  1. Dottoranda in Diritto penale presso l’ Università degli Studi di Torino.
  2. Trib. Aosta, giudice monocratico, ud. 7.7.2021, dep. 3.9.2021, n. 249.
  3. Visconti C. (2008), Aspetti penalistici del discorso pubblico, Torino, Giappichelli, p. 253; Pulitanò D. (2015), Di fronte al negazionismo e al discorso d’odio, in Dir. pen. cont.-Riv. trim., n. 4, p. 326. Sul razzismo e la discriminazione come disvalori condivisi dopo la Seconda guerra mondiale, Pelissero M. (2020), Discriminazione, razzismo e diritto penale fragile, in Dir. pen. proc., n. 8, p. 1018.
  4. Notaro D. (2020), Neofascismo e dintorni: la “resistenza” della dimensione offensiva del tipo criminoso, in Leg. pen., 21.1.2020, p. 1 ss.
  5. Sull’interpretazione della XII disp. Cost. come norma “finale” e non meramente “transitoria”, e sulla conseguente impossibilità di considerare storicamente esaurita la sua portata, cfr. De Siervo U. (1975), Attuazione della Costituzione e legislazione antifascista, in Giur. cost., p. 3269; Pezzini B. (2011), Attualità e attuazione della XII Disposizione finale: la matrice antifascista della Costituzione repubblicana, in Alle frontiere del diritto costituzionale. Scritti in onore di Valerio Onida, Milano, Giuffrè, p. 1379 ss.; Vigevani, E. (2019), Origine e attualità del dibattito sulla XII disposizione finale della Costituzione: i limiti di tutela della democrazia, in Riv. dir. media, fasc. 1, p. 25 ss.
  6. Evidenza il carattere emozionale delle tendenze all’ampliamento della risposta penale nel contrasto ai fascismi, emerse in particolare durante la XVII Legislatura, Piccione D. (2017), L’antifascismo e i limiti alla manifestazione del pensiero tra difesa della Costituzione e diritto penale dell’emotività, in Giur. cost., fasc. 4, p. 1941 ss.; Id. (2018), L’espressione del pensiero ostile alla democrazia, tra diritto penale dell’emotività e psicologia collettiva, in Riv. dir. media, fasc. 3, p. 77 ss.
  7. Secondo la concezione ampia, che vi include tutte le ipotesi aventi a oggetto l’incriminazione di una manifestazione del pensiero, accolta ad esempio da Pelissero M. (2015), La parola pericolosa. Il confine incerto del controllo penale del dissenso, in Quest. giust., n. 4.
  8. In senso contrario rispetto alla prospettiva dell’incriminazione, v. ad es. Pugiotto A. (2013), Le parole sono pietre? I discorsi d’odio e la libertà d’espressione nel diritto costituzionale, in Dir. pen. cont.-Riv. trim., n. 3, p. 71 ss.
  9. C. Cost., 2.4.1969, n. 84. Sui rapporti tra libertà di espressione e reati di opinione, tra i tanti, cfr. Fiore C. (1972), I reati di opinione, Padova, Cedam; più recentemente Spena A. (2007), Libertà di espressione e reati di opinione, in Riv. it. dir. proc. pen., p. 688 ss.; Galluccio A. (2020), Punire la parola pericolosa? Pubblica istigazione, discorso d’odio e libertà di espressione nell’era di internet, Milano, Giuffrè.
  10. Sulla tecnica del bilanciamento, cfr. Tesauro A. (2009), Il bilanciamento degli interessi tra legislatore penale e corte costituzionale: spunti per un’analisi meta-giurisprudenziale, in Riv. it. dir. proc. pen., p. 143 ss.
  11. Da ultimo Bartoli R. (2021), Costituzionalmente illegittimo non è il d.d.l. Zan ma alcuni comportamenti incriminati dall’art. 604-bis c.p., in Sist. pen., 12.7.2021.
  12. Cfr. da ultimo Notaro D. (2020), Neofascismo e dintorni, cit., p. 2; sulla legge Scelba cfr. ex multis, Vinciguerra S. (1967), Sanzioni contro il fascismo, in Enc. dir., XVI, Milano, p. 922 ss.; Manna A., Sanzioni contro il fascismo, in Dig. disc. pen., V, Torino, 1991, p. 146 ss.; Notaro D. (2007), L. 20 giugno 1952, n. 645. Norme di attuazione della XII disposizione transitoria e finale (comma primo) della Costituzione, in Palazzo F.C., Paliero C.E. (a cura di), Commentario breve alle leggi penali complementari, Padova, p. 1349 ss.
  13. Corte cost. n. 1/1957 (apologia di fascismo) e nn. 74/1958 e 15/1973 (manifestazioni fasciste).
  14. Cfr. Pulitanò D. (2019), Legge penale, fascismo, pensiero ostile, in Riv. dir. media, 1, p. 16.
  15. Pelissero M., (2015), La parola pericolosa, cit. In tema si veda anche Nocera A. (2018), Manifestazioni fasciste e apologia del fascismo tra attualità e nuove prospettive incriminatrici, in Dir. pen. cont., 9.5.2018.
  16. Sulla tematica, sia consentito il rinvio a Costantini A. (2020), Il saluto romano nel quadro dei crimini d’odio razziale: dimensione offensiva e rapporti con la libertà di espressione, in Dir. pen. proc., n. 2, p. 216 ss.
  17. Ex multis, cfr. Pavich G., Bonomi A. (2014), Reati in tema di discriminazione: il punto sull’evoluzione normativa recente, sui principi e valori in gioco, sulle prospettive legislative e sulla possibilità di interpretare in senso conforme a Costituzione la normativa vigente, in Dir. pen. cont., 13.10.2014; Stortoni L. (1994), Le nuove norme contro l’intolleranza: legge o proclama?, in Crit. Dir., 1994, p. 14 ss.; Spena A. (2016), La parola (-) odio. Sovraesposizione, criminalizzazione e interpretazione dello hate speech, in Criminalia, 2016, p. 577 ss.; Puglisi G. (2018), La parola acuminata. Contributo allo studio dei delitti contro l’uguaglianza, tra aporie strutturali ed alternative alla pena detentiva, in Riv. it. dir. proc. pen., 3, p. 1325 ss.; Goisis L. (2019), Crimini d’odio. Discriminazioni e giustizia penale, Napoli, Jovene.
  18. Sulla nozione di razzismo, cfr. Leotta D. (2008), voce Razzismo, in Dig. disc. pen., Agg., vol. II, Torino, UTET, p. 850 ss.; Picotti L. (2006), Diffusione di idee “razziste” ed incitamento a commettere atti di discriminazione razziale, in Giur. merito, n. 9, p. 1960 ss.; Vallini A. (2020), Criminalizzare l’hate speech per scongiurare la collective violence? Ipotesi di lavoro intorno al reato di “propaganda razzista”, in Studi quest. crim., n. 1, spec. p. 38 ss.
  19. De Francesco G. (1994), Art. 2, in Commento al d.l. 24/4/1993, conv. con modif. dalla L. 25/6/1993, n. 205, in Leg. pen., 2, p. 179; Picotti L. (2006), Istigazione e propaganda della discriminazione razziale fra offesa dei diritti fondamentali della persona e libertà di manifestazione del pensiero, in Riondato S. (a cura di), Discriminazione razziale, xenofobia, odio religioso. Diritti fondamentali e tutela penale, Padova, p. 134.
  20. Bacco F. (2018), Tra sentimenti ed eguale rispetto. Problemi di legittimazione della tutela penale, Torino, p. 160 ss.; Puglisi G. (2018), La parola acuminata, cit., p. 1331 ss.
  21. Sulla duplice dimensione, generalizzante e individualizzante, delle interpretazioni della dignità, alternativamente intesa in senso oggettivo superindividuale o soggettivo individuale, cfr. Tesauro A. (2013), Riflessioni in tema di dignità umana, bilanciamento e propaganda razzista, Torino, 2013, pp. 53-54.
  22. Sull’irragionevolezza della sovrapposizione tra le due fattispecie, v. da ultimo M. Pelissero (2020), Discriminazione, razzismo, cit., p. 1018.
  23. Su tale fattispecie, oltre alla letteratura già richiamata, cfr. Fronza E. (1997), Riflessioni sull’attività di propaganda razzista, in Riv. int. dir. uomo, 1997, 35; Fornari L. (2007), Discriminazione razziale, in F. Palazzo – C.E. Paliero, Commentario breve alle leggi penali complementari, II, Padova, p. 1034 ss.
  24. In questo senso, De Francesco G. (1994), p. 179.
  25. Cfr. Cass., sez. III, sent. 23.6.205, n. 36906.
  26. In tema, ampiamente, Tesauro A. (2016), La propaganda razzista tra tutela della dignità e danno ad altri, in Riv. it. dir. proc. pen., p. 962 ss.
  27. Cfr. Cass., sez. III, 7.5.2008, n. 37581.
  28. Pavich G., Bonomi A. (2014), Reati in tema di discriminazione, cit., p. 10.
  29. Spena A. (2016), La parola (-) odio, cit., p. 598.
  30. Pino G. (2008), Discorso razzista e libertà di manifestazione del pensiero, in Pol. dir., pp. 287-305. A partire da queste obiezioni, si è recentemente proposto di interpretare la nozione di propaganda penalmente rilevante valorizzando non solo la capacità diffusiva della condotta, ma anche la sua idoneità “ad aggregare consenso intorno a un programma politico di carattere razzista” e, dunque, a favorire una “istituzionalizzazione” del pensiero razzista: si tratta della tesi di Vallini A., Criminalizzare l’hate speech?, cit., p. 45 ss.
  31. Si rimanda alla corposa letteratura sul tema: cfr. C. Roxin (2006), Was darf der Staat unter Strafe stellen? Zur Legitimation von Strafdrohungen, in Studi Marinucci, Milano, Giuffrè, I, p. 731 ss.; Fronza E. (2012), Il negazionismo come reato, Milano, Giuffrè; Del Bo C. (2013), Menzogne che non si possono perdonare ma nemmeno punire. Alcune osservazioni filosofiche sul reato di negazionismo, in Criminalia, p. 285 ss.; Id. (2018), Tollerare l’intollerabile. Il negazionismo tra etica e diritto, in discrimen.it, 28 luglio 2018; Caputo M. (2014), La “menzogna di Auschwitz”, le “verità” del diritto penale. la criminalizzazione del c.d. negazionismo tra ordine pubblico, dignità e senso di umanità, in Forti G., Varraso G. e Caputo M., “Verità” del precetto e della sanzione penale alla prova del processo, Napoli, Jovene, p. 296 ss.; Brunelli D. (2016), Attorno alla punizione del negazionismo, in Riv. it. dir. proc. pen., p. 978; Di Martino A. (2016), Assassini della memoria: strategie argomentative in tema di rilevanza (penale?) del negazionismo, in Cocco G. (a cura di), Per un manifesto del neoilluminismo penale, Assago, p. 193 ss.
  32. Pulitanò D. (2015), Di fronte al negazionismo e al discorso d’odio, in Dir. pen. cont.- Riv. trim., n. 4, p. 326.
  33. Nella passata legislatura, cfr. la proposta di legge Fiano (AC n. 3343) mentre, nella legislatura attuale, la proposta di iniziativa popolare n. 3074.