Il Gender City Manager della Città di Torino: l’ente locale tra gender mainstreaming e tutela dei diritti umani

Antonia Baraggia[1] e Benedetta Vimercati[2]

Sebbene il contributo sia frutto di una riflessione condivisa, Benedetta Vimercati ha redatto i paragrafi 1, 2 e 2.1; Antonia Baraggia i paragrafi 3, 3.1, 3.2 e 4.

1. Il gender mainstreaming nelle realtà locali e la figura del Gender City Manager.

In data 12 luglio 2021, il Consiglio comunale di Torino ha approvato il regolamento per l’istituzione del Gender City Manager (d’ora in avanti GCM). Il Consiglio ha raggiunto tale obiettivo dopo una fase gestazionale durata quattro anni e inaugurata con la mozione n. 43/2017 (mecc. 2017 03507/002), approvata dal Consiglio Comunale in data 3 aprile 2017, attraverso la quale si impegnava la Sindaca e la Giunta Comunale ad istituire la funzione del Gender City Manager, di recente attribuita al Centro Interdisciplinare di Ricerche e Studi delle Donne e di Genere (CIRSDe) dell’Università degli Studi di Torino.

In questo modo, il Comune di Torino – primo tra i Comuni in Italia dopo il tentativo fallito della Giunta Pisapia nel Comune di Milano – si è fatto promotore della nascita di una figura unica nel panorama nazionale, assecondando invece una tendenza che da alcuni anni ha iniziato a trovare concretezza in altre esperienze urbane presenti in Europa e non solo. Esperienze che si muovono dentro la cornice del cd. gender mainstreaming, caldamente sollecitato dal livello internazionale ed europeo[3]. Affermatosi a partire dalla Conferenza di Pechino del 1995, il gender mainstreaming consiste – in sintesi – in una prospettiva valorialmente orientata delle procedure di policy making. Secondo la nota definizione offerta dal Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite, esso rappresenta infatti “il processo di valutazione delle implicazioni per le donne e gli uomini di qualsiasi azione prevista, compresa la legislazione, le politiche o i programmi, in qualsiasi area e a tutti i livelli. È una strategia per includere preoccupazioni ed esperienze di donne e uomini come parte integrante della progettazione, attuazione, monitoraggio e valutazione delle politiche e dei programmi in tutte le sfere politiche, economiche e sociali in modo che le donne e gli uomini possano trarre uguali benefici, senza perpetuare la disuguaglianza”[4].

Recependo gli stimoli offerti dalla Conferenza di Pechino, numerose sono state le istituzioni internazionali che hanno sottolineato la necessità di implementare il gender mainstreaming a tutti i livelli decisionali, spingendo verso l’affermazione e la diffusione di una cultura del metodo di assunzione della decisione pubblica ispirata ad un approccio olistico nella garanzia dell’uguaglianza di genere. Si ricordi, in particolare, la European Charter for Equality of Women and Men in Local Life redatta nel 2006 dal Council of European Municipalities and Regions che, nel punto n. 5 del Preambolo, include l’obiettivo di integrare la prospettiva di genere in tutte le attività del governo locale e regionale: “The gender perspective must be taken into account in the drafting of policies, methods and instruments which affect the daily life of the local population – for example, through the use of “gender mainstreaming” and “gender budgeting” techniques. To this end, women’s experiences in local life, including their living and working conditions, must be analysed and taken into account[5].

Tale intento di raggiungimento di una piena uguaglianza di genere, soprattutto a partire dalla fase di formulazione delle politiche dentro una lettura globale della vita della decisione pubblica (il cd. life cycle approach) trova riflessi anche sul piano europeo. Pur in mancanza di riferimenti espliciti nell’ambito delle procedure di better regulation revisionate nel 2015 grazie all’apposita Agenda[6] e in attesa di verificare se richiami al gender quale parametro di valutazione delle decisioni pubbliche saranno introdotti nelle nuove Guidelines in corso di approvazione[7], non mancano però spinte perché tale approccio vada ad informare non solo l’attività delle istituzioni europee ma altresì quella delle istituzioni nazionali e locali[8]. Parte della dottrina riconduce il gender mainstreaming in chiave europea direttamente agli art. 8, 9 e 10 TFUE che sarebbero indice di un impegno da parte dell’Unione e, di riflesso, degli Stati Membri, verso l’eliminazione delle disuguaglianze. Tali disposizioni richiedono infatti che in tutte le sue attività e in sede di definizione ed attuazione delle proprie politiche l’Unione si faccia promotrice dell’eguaglianza di genere e protagonista nella lotta contro le discriminazioni fondate, tra l’altro, sul sesso. Per dare concretezza a questo protagonismo europeo, la Commissione a guida Von der Leyen ha incoraggiato l’incorporazione di una prospettiva di genere all’interno delle politiche dell’UE sostenendo la reintroduzione della Gender Equality Strategy (2020–2025)[9], nonché la creazione di una Task Force on equality volta a consolidare un approccio intersettoriale tramite la produzione di uno specifico Toolbox destinato ai policy-makers[10].

È questo, dunque, il quadro di riferimento entro cui si è mosso il Comune di Torino che, come affermato nella deliberazione del Consiglio Comunale sul GCM, ha voluto sperimentare l’istituzionalizzazione di uno “strumento di valutazione e di proposta per promuovere un approccio inclusivo delle questioni di genere in tutte le politiche”[11]. Come infatti non sporadicamente accaduto nel nostro ordinamento, è stato proprio il livello locale a costituire un terreno di sperimentazione di nuovi istituti e di soluzioni politico-istituzionali che, su impulso della governance locale stessa o per scelta del Parlamento di “sfruttare” l’ambito locale come banco di prova, hanno fatto ingresso e hanno poi trovato spazio anche in altre amministrazioni pubbliche[12]. Basti pensare, rimanendo nell’ambito della gender equality, all’introduzione con la legge n. 81 del 1993 delle “quote rosa” nelle elezioni dei Consigli comunali e provinciali[13] oppure alle prime sperimentazioni di bilancio di genere che hanno avuto origine a partire da Province e Comuni[14].

Ci si può dunque domandare se il neoistituito GCM possa inserirsi nel solco di questa tendenza che vede negli enti locali un laboratorio di sperimentazione giuridica. Indubbiamente, è ancora prematuro trarre un bilancio utile dalla realtà torinese che permetta di evidenziarne i punti di forza e le criticità pratiche, così ipotizzando un’eventuale mutuazione del modello in altre esperienze di governo locale e non solo. Ciò nonostante, alcune riflessioni possono essere già anticipate e condivise sia analizzando quanto previsto nel regolamento del Comune di Torino sia comparando la fisionomia del GCM torinese con analoghe – ma non del tutto sovrapponibili – figure ormai consolidate in altri ordinamenti.

2. Le funzioni e le competenze del Gender City Manager torinese.

Il regolamento della Città di Torino incarica il GCM di svolgere una molteplicità di funzioni, alcune delle quali potremmo definire obbligatorie e altre eventuali. Ai sensi dell’art. 2, infatti, il GCM deve condurre attività di monitoraggio delle politiche comunali oltre che di affiancamento e di supporto alle attività delle articolazioni locali preposte quali gli Uffici del Servizio Pari Opportunità e i servizi dell’Amministrazione in generale. In ottemperanza a tale primario compito, il GCM deve:

a) prestare la propria collaborazione alla predisposizione e all’aggiornamento periodico di Linee guida per l’uguaglianza di genere, frutto della concertazione con le realtà dell’associazionismo e alla cui stesura deve prestare il proprio supporto il Tavolo sulle politiche di genere, anch’esso in fase di definizione dopo l’istituzione avvenuta a seguito della delibera di Giunta del 24 marzo 2017;

b) monitorare l’attività e le politiche dell’Amministrazione verificandone l’adeguatezza rispetto all’obiettivo della garanzia dell’uguaglianza di genere sulla base, come affermato dal co. 3 dell’art. 2 del Regolamento, della scheda di valutazione preventiva di Impatto di genere di cui si rimanda alla Giunta l’emanazione degli atti necessari all’adozione, con la collaborazione dello stesso GCM;

c) collaborare alla progettazione e implementazione delle attività che, in ottica di gender mainstreaming, l’Amministrazione presenta a bandi di cofinanziamento.

Tra quelle menzionate, una delle principali funzioni è indubbiamente quella di intervenire sulla valutazione dell’impatto di genere che diventa passaggio prodromico alla definizione delle azioni politiche dell’amministrazione locale. Il gender budgeting, infatti, quale declinazione essenziale del gender mainstreaming[15], mira a fornire all’amministrazione pubblica gli strumenti quantitativi e qualitativi necessari per valutare l’impatto delle proprie azioni e dei propri provvedimenti nonché, di conseguenza, per determinare i futuri interventi e i necessari impegni economico-finanziari. Il bilancio di genere, che ha trovato proprio nei Comuni un bacino sperimentale, è stato introdotto per le pubbliche amministrazioni quale parte integrante della relazione sulle performance con il d.lgs. n. 150 del 2009 (art. 10, co. 1, lett. b) ed è stato in seguito confermato con la legge n. 39 del 2011 che ha richiesto l’elaborazione del bilancio di genere “per la valutazione del diverso impatto della politica di bilancio sulle donne e sugli uomini, in termini di denaro, servizi, tempo e lavoro non retribuito”[16]. Nella Regione Piemonte, pochi mesi prima del Dlgs. 150 del 2019, il Consiglio regionale aveva inoltre previsto con la legge n. 8 del 2009, la definizione di linee guida e la redazione di un vademecum volti a incoraggiare l’impegno degli enti locali nell’adozione dei bilanci di genere. Il Comune di Torino, in risposta a questo appello, per diversi anni si è cimentato nella redazione del bilancio di genere comunale che ha però subito una battuta d’arresto, a quanto risulta dai siti istituzionali, nel 2013 e che dovrebbe trovare nuova linfa proprio su impulso della funzione del GCM.

Accanto a queste funzioni necessarie e, in particolare, alla rivitalizzazione del bilancio di genere, il GCM è chiamato a svolgere anche talune funzioni eventuali: esso può infatti partecipare al Tavolo sulle politiche di genere, può ricevere istanze da associazioni e organismi (con particolare riferimento a movimenti femminili, femministi e transfemministi), può coordinarsi e condividere le proprie azioni con GCM di altri comuni sull’intero territorio nazionale (funzione al momento indisponibile per la mancanza di analoghi interlocutori) e può facilitare oltre che promuovere forme di collaborazione tra i molteplici servizi, divisioni e organismi di parità pertinenti all’Amministrazione locale.

Nell’espletamento di tutte queste funzioni, il regolamento prevede, dedicando a questo un articolo del regolamento, strette forme di collaborazione del GCM con altri soggetti istituzionali e non. Segnatamente, oltre al mondo dell’associazionismo con cui il GCM è invitato a dialogare tramite forme istituzionalizzate di confronto e co-progettazione, seguendo la traiettoria dell’implementazione di forme di amministrazione condivisa, il GCM svolge le proprie mansioni in stretta collaborazione – oltre che con il già menzionato Tavolo sulle politiche di genere – con gruppi di lavoro, commissioni o organi di consultazione che, presenti all’interno del Comune, possiedano specifiche competenze tecniche negli ambiti di intervento del GCM.

Quasi nulle invece dice il Regolamento circa i rapporti del GCM con gli organi di indirizzo-politico dell’amministrazione, menzionati solamente quali destinatari dell’attività reportistica riservata al GCM. Quest’ultimo è infatti tenuto ad inviare annualmente al Sindaco, alla Giunta, al Consiglio Comunale, alle Commissioni Consiliari e al C.U.G. un report sull’attività di monitoraggio e valutazione dell’impatto di genere dell’azione dell’Amministrazione. In aggiunta a tale adempimento, è prevista con scadenza quadrimestrale la redazione e l’invio all’Assessore di riferimento e alla Dirigenza Area Giovani e Pari Opportunità di relazioni dalle quali emergano le iniziative assunte, le attività svolte e i problemi insorti, corredate da proposte e richieste di intervento[17].

Proprio l’Area giovani e pari opportunità rappresenta la struttura di appoggio del GCM individuata dalla Giunta all’interno della governance comunale con la quale la funzione del GCM rischia però, se non ulteriormente definita, di sovrapporsi. Quest’ultima, nata sotto l’amministrazione 2001-2006 dalla fusione dei due precedenti settori “Tempi e orari della città” e “Pari opportunità e politiche di genere”, dovrebbe infatti già svolgere – assecondando la prospettiva gender mainstreaming – un intervento trasversale a tutte le politiche cittadine di integrazione nel policy making comunale di obiettivi di genere, promuovendo la produzione di servizi volti alla garanzia della gender equality tramite attività di ricognizione, monitoraggio e ricerca ma anche compiti proattivi di divulgazione, formazione e predisposizione di interventi volti all’eliminazione della disparità di genere e della violenza contro le donne che, almeno in parte, coincidono con le attribuzioni del GCM.

2.1. Una funzione a cavallo tra politica e amministrazione?

Soffermandosi sull’insieme delle competenze di tale soggetto che vengono tratteggiate nel Regolamento, l’impressione che si trae è quella di una figura o di una funzione, come forse più propriamente definita dal Consiglio comunale, che poco si adatta alla qualifica manageriale desumibile dal nomen proposto. Tale denominazione avrebbe infatti potuto condurre a supporre l’istituzione di una figura di stampo manageriale, in linea con quel processo di riforma che ha coinvolto gli enti locali a partire dagli anni ‘90 e che, sollevando problematiche di non poco momento sulla necessaria distinzione tra politica e amministrazione, ha portato tali enti verso una lettura aziendale dei profili organizzativi, di gestione, di organizzazione, di programmazione e di decisione. Dentro l’oscillare tra questi due poli – politica e amministrazione – che ha contrassegnato la storia delle realtà locali italiane, proprio le critiche sulla difficile linea di demarcazione tracciabile tra soggetti autenticamente politici e soggetti dotati di competenze più propriamente tecnico-manageriali hanno colpito la figura principe del processo di aziendalizzazione da cui il GCM sembra trovare ispirazione per il proprio nome e, segnatamente, quella del City manager o del direttore generale[18]. Tale figura, mutuata dall’ordinamento statunitense, era stata introdotta nella governance locale in forma edulcorata rispetto all’omonimo statunitense, in “una posizione di snodo tra il ruolo degli organi e ruolo di gestione dei dirigenti”[19] assumendo tratti caratteristici che poco si adattano alla peculiarità del neoistituito GCM che sembra più assimilabile ad altre figure latamente manageriali come quella del Disability Manager[20].

Trascendendo le qualifiche formali, il Regolamento consegna infatti, anzitutto, l’immagine di una funzione poco implicata sul fronte gestionale (amministrativo, finanziario e tecnico), ad eccezione del minimale richiamo contenuto all’art. 3 del Regolamento. In tale disposizione si prevede infatti solo un marginale intervento del GCM che viene ammesso a partecipare ai processi di eventuale riorganizzazione dei gruppi di lavoro, delle commissioni, degli organi interni al Comune o del Tavolo sulle politiche di genere.

A ciò si aggiunga che, per come configurato, il GCM non viene propriamente incardinato nella struttura di governo e di gestione dell’ente locale facendo apparire, quella seguita dal Comune di Torino, una strada di istituzionalizzazione incompleta. Essa consegna una figura di comprovata competenza tecnica che, proprio in virtù di tale expertise, dovrebbe supportare e facilitare il processo di definizione delle politiche pubbliche a livello locale, rimanendo però al contempo soggetto esterno all’amministrazione. Scelto dalla Giunta sulla base di candidature spontanee da parte di soggetti (privati o organizzazioni/enti) dotati di una alta competenza tecnica, il GCM agisce al di fuori della struttura dell’ente e, per di più, a titolo completamente gratuito[21].

Senza tralasciare il dato del problematico coordinamento e, a tratti, della sovrapposizione non sciolta dal Regolamento con le articolazioni politiche (tra cui, in primis, gli assessorati) presenti nell’amministrazione locale che, in ragione della loro collocazione nella struttura dell’ente e della loro legittimazione, sono deputati ad intervenire in misura evidentemente più significativa sulla definizione e sull’implementazione delle politiche. Soggetti che, attraverso un idoneo coordinamento orientato da una comune sensibilità rispetto a problematiche interne alla dimensione comunale, potrebbero essere – con l’appoggio delle strutture di cui usufruiscono – capaci di incidere concretamente sugli eterogenei ed interconnessi aspetti della vita della cittadinanza globalmente considerata. A condizione vi sia la volontà di dar corso a determinati interventi e azioni di cui gli amministratori saranno chiamati a rispondere politicamente.

Tutti questi elementi rischiano quindi di concorrere a delineare per il GCM una posizione inevitabilmente recessiva e di probabile debolezza nel confronto con i vertici del sistema politico locale, intitolando tale soggetto di una funzione che può rimanere ultimamente non incisiva rispetto all’indirizzo politico-amministrativo e alla sfera di discrezionalità entro cui esso si orienta.

Come affermato in dottrina, “The institutionalisation of gender mainstreaming is itself a process that will result in changes to both formal institutions (structures, rules and practices) and informal institutions (culture and ways of doing). An institutionalised practice is one that has become a normalised and stable part of the institution’s functioning, with the quality of this practice being maintained through the investment of resources (human and financial) and consistent monitoring[22]. La direzione che segue il neoistituito GCM, pur aspirando e seguendo un percorso di istituzionalizzazione, potrebbe però incorrere nell’ostacolo di avvicinarsi solo formalmente a tale esito, riverberandosi solo superficialmente sulle strutture, sulle regole e sulle prassi. La creazione di una struttura para-amministrativa, che ibridamente assume tratti più vicini a forme di amministrazione condivisa e di partecipazione inclusiva nel processo decisionale, potrebbe limitarsi a rispondere ad una operazione promozionale di una certa impronta politico-valoriale o, al più, risolversi in un orpello burocratico piuttosto che giungere a rappresentare un tassello di una reale implementazione di gender mainstreaming nella governance comunale, come si mostrerà nei paragrafi seguenti alla luce del quadro comparato.

3. Il Gender City Manager nel contesto internazionale e comparato.

L’istituzione del Gender City Manager torinese può anche essere valutata in ottica comparata, da un lato alla luce del fenomeno del gender mainstreaming, che ha informato lo sviluppo urbano di rilevanti realtà come Vienna e Berlino, e dall’altro della più ampia tendenza che vede il livello urbano sempre più attivo nell’ambito della tutela dei diritti fondamentali, anche a fronte delle sollecitazioni che vengono dal livello internazionale e sovranazionale.

Si tratta di prospettive diverse – la prima focalizzata sullo sviluppo di policies che tengano in considerazione il fattore sesso, la seconda focalizzata su un generale impegno del livello urbano alla tutela dei diritti umani presenti nei trattati internazionali firmati dallo Stato cui appartengono – ma che tuttavia presentano punti di connessione e che in generale aprono interessanti spunti di riflessione circa l’evoluzione del ruolo delle città nel contesto costituzionale, quali gangli fondamentali dello spazio costituzionale post-westfaliano[23].

Un ruolo, quello delle città nell’ambito dei diritti fondamentali, che sembra per altro rispondere a una delle più forti tensioni presenti nella tutela internazionale dei diritti umani: la tensione tra universalismo e globalizzazione e tra particolarismo e localismo nella sfera stessa dei diritti fondamentali. In questo quadro in continua evoluzione le città possono svolgere quella funzione di attori chiave del principio di sussidiarietà che permette di conciliare l’afflato universale e il radicamento locale nella tutela dei diritti umani: “situating human rights implementation at the local level where governamental policies are implemented provides a welcome concreteness. While human rights commitments often embody a lofty tone, city governments must figure out how reconcile sometimes conflicting commitments with the day-to-day pressure of service delivery, budgets and politics. Institutionally, they are better equipped to develop policies that are designed to ensure human rights than are national and regional governments or courts[24]”.

Concorrono a questa tendenza una serie di fattori: il ruolo del livello urbano riconosciuto a livello internazionale (tanto nell’ambito dell’Unione Europea che in ambito internazionale, come per esempio nell’Agenda 2030 sullo sviluppo sostenibile[25]); la crescita stessa del fenomeno urbano e conseguentemente la crescita delle istanze sociali che la città è tenuta ad affrontare; la sempre più rilevante presenza di forme di organizzazione della società civile a livello locale e il moltiplicarsi delle funzioni e dei servizi offerti dalle città.

Come si colloca in questo quadro generale l’istituzione del Gender City Manager? A quali logiche e aspirazioni risponde? Può considerarsi una manifestazione del processo di gender mainstreaming o più in generale espressione dell’impegno della città di Torino a porsi come “città dei diritti umani”?

3.1 Il Gender City Manager nell’ambito del gender mainstreaming.

Il gender mainstreaming[26], come già accennato, è una pratica affermatasi a partire dalla fine degli anni Ottanta alla luce della quale le politiche pubbliche e la legislazione ad ogni livello vengono valutate alla luce del loro impatto su diversi gruppi sociali ed in particolare sulla condizione femminile. Tale valutazione conduce poi alla definizione di politiche e programmi mirati per favorire l’uguaglianza e per rispondere alle peculiari esigenze “gender oriented”. Sebbene il concetto stesso sconti alcune criticità[27], identificate dalla dottrina nello specifico con la sua generale indeterminatezza e la complessità dei fattori che concorrono a determinare situazione di ineguaglianza sociale, difficilmente isolabili nella sola variabile di genere, esso è diventato un approccio estremamente diffuso nei processi di policy-making.

In questo contesto, l’Unione Europea[28] ha svolto e svolge tutt’ora un ruolo di primo piano: in particolare la Commissione Europea, già a partire dal 1996 attraverso il Fourth Medium Term Community Action Programme for Equal Opportunities for Women and Men[29] (1996–2000) ha iniziato a finanziare progetti di ricerca in tema di mainstreaminig. In questo solco si colloca per esempio lo studio sul mainstreaming nelle strutture di governo locale, elaborato, su input della Commissione Europea, dalla UK Equal Opportunities Commission nel 1997[30].

Anche il Consiglio d’ Europa è stato tra le prime istituzioni internazionali a favorire lo sviluppo di un approccio gender mainstreamining, a partire, in particolare, dall’elaborazione nel 1998 del rapporto “Gender Mainstreaming, Conceptual framework, methodology and presentation of good practices[31], nel quale non solo si definisce il concetto di gender mainstreaming, ma si identificano gli strumenti e le metodologie di implementazione di tale approccio. Questi risultati hanno informato e sviluppato la concettualizzazione del mainstreaming da parte della Commissione europea e il gender mainstreaming è stato inserito nel processo di allargamento dell’Unione[32] e dal 2000 è stato incorporato nei regolamenti di finanziamento per i Fondi strutturali e altri strumenti finanziari dell’Unione[33]. Il regolamento n. 1303/2013 che stabilisce le disposizioni comuni per tutti i fondi dell’Unione prevede, infatti, all’art. 7 l’inclusione di una prospettiva di genere durante la preparazione, l’attuazione, il monitoraggio e la valutazione di tutti i programmi finanziati dall’Unione. In particolare, il regolamento include specifici strumenti per supportare l’integrazione di genere in ciascuna fase della programmazione come, per esempio, la previsione di una condizionalità generale ex ante sulla parità di genere, l’introduzione di procedure e criteri di selezione dei progetti e relazioni annuali di attuazione dei programmi specifici, al fine di valutare l’impatto sulla parità di genere.

Guardando poi nello specifico alle politiche di coesione rivolte allo sviluppo urbano si ha un interessante ambito di studio costituito dall’intersecarsi delle politiche di sviluppo urbano dell’Unione con il trasversale approccio gender mainstreaming. Come è stato osservato “urban development initiatives and projects represent an explicit effort to integrate both policy frames of the Cohesion Policy into urban areas providing an opportunity to learn about the integration of the policy frame based on gender mainstreaming with the policy frame for integrated urban development. These initiatives would reflect the integration between two policies that, in turn, explicitly adopt integration strategies between different policy sectors[34].

Fin da subito, dunque, il livello di governo locale è stato particolarmente interessato da questo tipo di approccio[35], come dimostrano gli esempi della città di Umeå (nell’ambito del programma URBACT finanziato dall’European Regional Development Fund), Vienna e Nantes, tra le prime realtà ad adottare una vera e proprio agenda gender mainstreaming in tema di sicurezza pubblica, lavoro, istruzione.

Il caso di Vienna[36] è particolarmente interessante, essendo una esperienza pionieristica nell’ambito dell’adozione di una prospettiva di genere nella pianificazione urbana: già nel 1992, nell’ambito dell’amministrazione locale venne istituito il “Women Office”, con il compito di affrontare le questioni relative al gender nell’ambito della pianificazione urbana. Tale struttura è stata poi incorporata nella direzione per i servizi tecnici nella città e divenne il “Co-ordination Office for Planning and Construction Geared to the Requirements of Daily Life and Specific Needs of Women”, dotato di un proprio budget e proprie strutture. Nel 2010, infine, il Co-ordination Office è stato inserito nel gruppo “Urban Planning, Public Works and Building Construction” al fine da renderlo parte integrante del processo decisionale in materia di pianificazione urbana della città di Vienna. Sin dalla sua istituzione, il Co-ordination office è stata la chiave di volta dello sviluppo urbano gender-sentive della città Vienna: non è possibile in questa sede menzionare nel dettaglio i programmi realizzati[37], che spaziano dell’housing sociale (il programma Frauen-Werk Stadt I del 1997-98, il Frauen-Werk Stadt II Living in old age del 2004 e il Frauenwohnprojeckt (ro*sa) Donaustadt del 2009), alla definizione degli spazi pubblici come i parchi (Einsiedlerpark e Brubo-Kreisky Park), alle politiche per i trasporti (per esempio il programma Gender Mainstreaming Model Districts” del 2001). Come è stato osservato, il successo del Co-ordination Office “was due to the ability to work with continuity over 11 years, equipped with technical and financial support. The elevated formal position of the Co-ordination Office in the authority’s hierarchy also helped. (…) The potential direct impact and the amount of money was rather modest, but nevertheless to be embedded formally in a “power structure” was sometimes helpful, especially for negotiating with technical departments[38].

L’esempio di Vienna, sebbene del tutto peculiare, mette in luce le sfide per lo sviluppo di una strategia di policy-making informata al gender mainstreaming: ovvero la necessità di identificare gli elementi necessari della strategia in termini di risorse e strutture organizzative necessarie e le condizioni che possano indurre a cambiamenti formali e informali all’interno dell’organizzazione dell’ente locale[39].

Ci si può chiedere se l’introduzione del Gender City Manager risponda – in tutto o almeno in parte – a queste sfide. Come già accennato la natura ibrida dell’istituzione, non incardinata formalmente nella struttura dell’amministrazione, ma investita di funzioni trasversali di supporto all’azione della amministrazione, sembra costituire un punto di criticità per l’effettiva incisività dell’azione del Gender City manager.

Il Gender City manager così configurato sembra essere una mera figura di consulenza, senza poter ambire ad ottenere quel cambiamento strutturale nel decision-making process che una autentica strategia gender mainstreaming intende facilitare. Le stesse criticità possono essere estese alla natura “generalista” e trasversale delle funzioni del Gender City Manager pensato per operare in tutte le aree dell’amministrazione locale: ci si può chiedere se tale trasversalità, insieme alla natura “esterna” all’amministrazione, non si riduca ultimamente nell’incapacità introdurre in maniera effettiva i principi del gender mainstreaming nella definizione e implementazione delle molteplici politiche urbane.

3.2. Il Gender City Manager nell’ambito delle c.d. Human Rights Cities.

Il secondo fenomeno alla luce del quale è possibile guardare il caso dell’istituzione del Gender City Manager torinese è definito dall’emergere nel panorama comparato delle cd. “Human Rights Cities[40].

Una Human Rights City è una città che afferma l’impegno a rispettare, proteggere, realizzare e promuovere i diritti e la dignità di tutti coloro che vi abitano, attraverso l’adozione di un approccio basato sui diritti umani nelle politiche e nelle misure adottate a livello urbano. In questo contesto, la città agisce come custode e difensore dei diritti umani, assicurando che i diritti di tutti siano ugualmente rispettati e tutelati, con particolare riferimento alle persone più vulnerabili (appartenenti a minoranze, migranti, rifugiati, persone con disabilità, bambini e giovani, anziani, donne e senzatetto). Si tratta di un nuovo interessante fenomeno che scardina le tradizionali dinamiche top-down del diritto internazionale classico[41] e riflette, invece, un approccio bottom-up in cui le comunità locali elaborano un proprio programma di tutela dei diritti umani e decidono come implementarlo nella comunità stessa.

La loro azione trascende, tuttavia, i meri confini della polity di riferimento: “cities, as natural crossroads for new ideas, are uniquely situated to be involved in trans-national discussion about fundamental rights[42].

Non vi è una procedura formale per il riconoscimento di una Human Rights Cities: generalmente, è la città stessa che si autodefinisce tale, sulla base dell’impegno formale a garantire il rispetto dei diritti umani internazionali che lo Stato membro ha ratificato e in ambito europeo latamente inteso, della CEDU, della Carta Sociale Europea e della Carta dei diritti fondamentali dell’UE. A ciò concorre anche l’impegno a contribuire ai meccanismi di monitoraggio dei principali trattati internazionali sui diritti umani e a realizzare gli obiettivi dall’Agenda 2030 in materia di sviluppo sostenibile. Questo è, in particolare, un aspetto essenziale della Nuova Agenda Urbana promossa dalle Nazioni Unite nell’ambito degli obiettivi di sviluppo sostenibile che includono l’eguaglianza di genere da realizzare in modo integrato attraverso azioni in diversi settori della pubblica amministrazione, con particolare riguardo alle politiche urbane[43].

Tra le esperienze pionieristiche nell’ambito dell’uguaglianza di genere si colloca la città di San Francisco che, già a partire dal 1998, ha incorporato la Convenzione per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (CEDAW) nel sistema delle fonti locali, predisponendo anche un meccanismo per assicurarne l’implementazione. In particolare, la città di San Francisco ha istituito una task force per l’implementazione della CEDAW a livello locale e ha stanziato dei fondi per lo sviluppo di un protocollo gender mainstreaming ad uso delle diverse articolazioni dell’amministrazione urbana. Le funzioni della task force sono state poi assunte dal “San Francisco Department on the Status of Women”, una struttura incardinata stabilmente nell’amministrazione e dunque capace di “support long-range local human rights goals[44].

Volgendo lo sguardo al contesto europeo, diverse sono le città che si sono auto-dichiarate formalmente come città dei diritti umani: tra queste si possono menzionare Graz, Salisburgo, Vienna, Barcellona, York, Utrecht, Lund. Vienna, ancora una volta, rappresenta uno degli esempi più avanzati in tema di sviluppo di politiche urbane e tutela dei diritti fondamentali. Nel 2014 la città, che – come abbiamo visto – già in passato si era distinta per una particolare sensibilità nella pianificazione urbana gender-oriented, ha approvato la Dichiarazione che riconosce Vienna come città dei diritti umani. Tale dichiarazione, che sancisce l’impegno della città al rispetto dei diritti umani contenuti in diversi trattati internazionali, prevede anche una corrispondente riorganizzazione interna dell’amministrazione cittadina. È in particolare alla luce di questa riorganizzazione che viene istituito nel 2015 l’Ufficio per i diritti umani che fa parte dell’amministrazione comunale e funge da anello di collegamento tra i diversi dipartimenti della città e le diverse articolazioni della società civile. La crescente rilevanza delle human rights cities è tale nel contesto europeo che recentemente l’Agenzia dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europa (FRA) ha elaborato delle linee guida per lo sviluppo e la formalizzazione delle human rights cities[45], partendo dalle best practices già in atto.

In particolare, la FRA evidenzia tre principali passaggi che portano alla definizione di una human rights city: la dichiarazione formale, la predisposizione di strutture interne all’amministrazione centrale e la predisposizione di meccanismi di implementazione e monitoraggio delle misure adottate per la protezione dei diritti umani a livello locale.

Con particolare riferimento ai meccanismi di implementazione, la FRA identifica tra le best practices l’istituzione di una struttura/ufficio per i diritti umani all’interno dell’amministrazione cittadina per aiutare a coordinare le attività, aumentare la consapevolezza sui diritti umani e supportare le attività di sensibilizzazione e partecipazione. Accanto ad esso vi è poi l’istituzione di un organo o consiglio partecipativo consultivo sui diritti umani con i principali attori locali, comprese le imprese, i gruppi giovanili, le associazioni sportive e culturali, i rappresentanti della società civile. Infine, tra le pratiche suggerite vi è anche l’istituzione di un ufficio antidiscriminazione o un soggetto di mediazione con competenze in materia di diritti umani, che possa anche fornire sostegno alle vittime di reato.

Volgendo ancora lo sguardo al Gender City Manager, oltre ovviamente a scontare una definizione più ristretta rispetto a quella di una istituzione generalista in materia di diritti umani, esso non sembra di facile collocazione in alcuna delle best practices proposte: da un lato ancora una volta emerge la ultima dualità rispetto all’amministrazione; dall’altro esso non sembra avere funzioni di mediazione delle istanze conflittuali che possono emergere in tema di diritti delle donne. Inoltre, come già notato, non è chiaro quale possa essere il contributo specifico del Gender City Manager rispetto alla già esistente struttura dell’amministrazione comunale in tema di pari opportunità, la Commissione Pari Opportunità, istituita nel 2001[46] con l’obiettivo di integrare nelle scelte amministrative la consapevolezza di genere, secondo una logica mainstreaming.

In definitiva, anche alla luce di questa breve analisi nell’ottica del framework delle human rights cities, l’esperienza torinese si colloca in una terra di mezzo, avanzando certamente l’aspirazione verso la tutela dei diritti delle donne in ambito urbano, ma non riuscendo a dare a tale aspirazione una veste organica, istituzionale e ultimamente efficacie.

4. Conclusioni.

L’istituzione del Gender City Manager ci ha permesso di ragionare a più ampio spettro circa la crescente aspirazione del livello locale di divenire attore fondamentale nella protezione dei diritti umani a livello globale. Il caso torinese ci ha offerto anche un interessante esempio di come, al di là delle aspirazioni, sia ancora difficile indurre un cambiamento strutturale dell’apparato amministrativo che possa incidere concretamente nell’ambito della tutela dei diritti umani.

Questa discrasia, del resto, non riguarda solo il caso qui in esame, ma in fondo attiene al generale status che il livello urbano ricopre ancora oggi nel contesto del diritto costituzionale e sovranazionale. Basti pensare che nella recente Comunicazione che lancia la “Gender equality strategy 2020-2025” a livello europeo[47] non solo non viene riconosciuto, ma nemmeno menzionato il ruolo delle città come attori chiave nelle misure per l’uguaglianza di genere.

Hirschl e Shachar colgono bene questa persistente condizione di debolezza del livello urbano: “The stark gap between city centrality and the virtual constitutional silence on urban power pushes ambitious cities and city leaders to advance notions such as international city networks, human rights cities, and environmentally friendly cities or to adopt right to the city charters. For the most part, such initiatives have a socially progressive undercurrent to them, addressing policy areas such as air quality and energy-efficient construction, “smart cities” (cities that implement new technologies), affordable housing, enhanced community representation, or accommodating policies toward refugees and asylum seekers. However, with few exceptions, such initiatives live beside the formal constitutional or international law frameworks that govern national jurisdictions, but are not included in them. Such initiatives, meaningful as they may be at the practical or symbolic level, remain rather toothless inasmuch as constitutional institutions, litigation, or jurisprudence is involved[48].

L’istituzione del Gender City Manager sembra, in definitiva, porsi nel solco di queste iniziative, talvolta innovative e anticipatrici di tendenze che suscettibili di svilupparsi su scala nazionale, ma ultimamente confinate ad un piano simbolico e ideale, senza avere una reale portata trasformatrice della realtà locale.

  1. Professoressa associata di Diritto Pubblico Comparato presso l’Università degli Studi di Milano.
  2. Ricercatrice di tipo B in Diritto Costituzionale presso l’Università degli Studi di Milano.
  3. In dottrina, per una panoramica dello sviluppo del gender mainstreaming a livello internazionale, si rimanda a P. Degani, Nazioni Unite e “genere”: il sistema di protezione internazionale dei diritti umani delle donne, Centro di studi e di formazione sui diritti della persona e dei popoli, Università di Padova, 2001.
  4. Cfr. Ecosoc Agreed Conclusion 1997/2 e A/52/3 Chapter IV, par. 4.
  5. Sempre nell’ambito del Council of European Municipalities and Regions, si ricordi anche la Dichiarazione di Pisa del febbraio 2008; si ricordi inoltre il Toolkit for Mainstreaming and Implementing Gender Equality, prodotto nel 2018 dal OECD e diretto ad implementare le Recommendation on Gender Equality in Public Life del 2015. Importanti spinte nel senso di una diffusione del gender mainistreaming provengono altresì dal Comitato europeo dei diritti sociali (cfr. R. Lugarà, A. Pertici, Parità retributiva tra uomini e donne: brevi spunti di riflessione alla luce delle recenti decisioni del Comitato europeo dei diritti sociali, in Osservatorio costituzionale, 1, 2021, pp. 26-60.
  6. Comunicazione della Commissione europea, Better regulation for better results – An EU agenda del 19 maggio 2015, COM(2015) 215 final. Cfr. R. Minto, L. Mergaert, M. Bustelo, Policy evaluation and gender mainstreaming in the European Union: the perfect (mis)match?, in European Journal of Politics and Gender, 3(2), 2020, p. 277-294.
  7. Nella recente Communicazione della Commissione europea, Better regulation: Joining forces to make better laws COM(2021) 219 final, la Commissione dichiara di voler prestare “maggiore attenzione alla dimensione della parità di genere e all’uguaglianza per tutti, al fine di tenerne conto in modo coerente in tutte le fasi dell’elaborazione delle politiche”.
  8. P. Profeta, Gender Equality and Public Policy. Measuring Progress in Europe, Cambridge University Press, 2020; F. Rescigno, Il gender mainstreaming europeo e l’approccio internazionale alla questione della parità di genere, in F. Rescigno (a cura di), Percorsi di eguaglianza, Giappichelli, Torino, 2016, p. 195-216; J. Shaw, The European Union and gender mainstreaming: Constitutionally embedded or comprehensively marginalised?, in Feminist Legal Studies, 10, 2002, p. 213-226; M.A. Pollack, E. Hafner-Burton, Mainstreaming Gender in the European Union, in Journal of European Public Policy, 7(3), 2000, p. 432-456.
  9. Comunicazione della Commissione, A Union of Equality: Gender Equality Strategy 2020-2025 COM(2020) 152 final.
  10. E. González Gago, Evaluation of the strengths and weaknesses of the Strategic Engagement for Gender Equality 2016–2019, Brussels, European Commission, 2019.
  11. Per un riferimento in dottrina sui passi compiuti e incompiuti nel nostro ordinamento verso la gender equality si rimanda, ex multis, a M. D’Amico, Una parità ambigua. Costituzione e diritti delle donne, Raffaello Cortina, Milano, 2020; B. Pezzini (a cura di), La costruzione del genere: norme e regole, Sestante, Bergamo, 2012. Cfr. altresì il Dossier Legislazione e politiche di genere a cura della Camera dei deputati, Servizio Studi, Dipartimento Istituzioni, n. 62/3, marzo 2021.
  12. Cfr. G. Gardini, La dirigenza locale in bilico tra uniformità e specialità. Una riflessione alla luce della proposta di riforma Madia, in Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, 19(1-2), 2016, p. 157-174.
  13. Nello specifico, l’art. 5 co. 2 della legge n. 81 del 1993 – prima di incorrere nella dichiarazione di incostituzionalità da parte della Corte costituzionale con sent. n. 422 del 1995 – prevedeva che, nelle elezioni in Comuni con meno di 15 mila abitanti, nelle liste dei candidati nessuno dei due sessi potesse di norma essere rappresentato in misura superiore ai due terzi. Cfr. L. Lorello, Quote rosa e parità tra i sessi: la storia di un lungo cammino, in Osservatorio costituzionale, 2, 2017; A. Apostoli, La parità di genere nel campo “minato” della rappresentanza politica, in Rivista AIC, 4, 2016; G. Brunelli, Donne e politica, Il Mulino, Bologna, 2006.
  14. Anche uscendo dall’ambito delle tematiche di genere numerose sono le “pratiche di governance” e gli istituti fioriti a livello locale. Basti pensare alla rivoluzione portata dalla legge n. 81 del 1993 che ha modificato i sistemi elettorali concernenti le elezioni di sindaco e Presidente della Provincia introducendone l’elezione diretta, successivamente espiantata a livello regionale. Cfr. L. Bobbio, Il sistema degli enti locali, in Treccani, 2015, secondo il quale nelle realtà locali, soprattutto come reazione antipartitica, si è assistito ad una “fioritura di pratiche di governance: i patti per lo sviluppo locale, i piani strategici, i piani di zona per i servizi sociali, gli accordi di programma e la miriade di politiche pattizie che tendono a risolvere consensualmente i problemi posti dalla complessità istituzionale attraverso un rapporto con il mondo professionale, imprenditoriale e associativo”.
  15. Secondo la definizione offerta da S. Quinn, Gender Budgeting: Practical Implementation, Council of Europe, Directorate General of Human Rights and Legal Affairs, 2009, “Gender budgeting is an application of gender mainstreaming in the budgetary process. It means a gender-based assessment of budgets, incorporating a gender perspective at all levels of the budgetary process and restructuring revenues and expenditures in order to promote gender equality”. Si vedano in dottrina, tra i numerosi Autori, A. O’Hagan, Conceptual and Institutional Origins of Gender Budgeting, in A. O’Hagan, E. Klatzer (eds), Gender Budgeting in Europe, Palgrave Macmillan, 2018, p. 19-42; R. Sharp, Budgeting for Equity: Gender Budget Initiatives within a Framework of Performance Oriented Budgeting, United Nations Development Fund for Women, New York, 2003.
  16. L’introduzione della previsione del bilancio di genere per il bilancio dello Stato avviene, tramite l’art. 38 septies della legge n. 39 del 2011, in forma sperimentale in sede di rendicontazione. Essa ha trovato poi una più puntuale attuazione a seguito del DPCM 16 giugno 2017 e della successiva Circolare del 16 aprile 2020, n. 7 Bilancio di genere. Linee guida e avvio delle attività relative al Rendiconto generale dello Stato 2019.
  17. Il GCM può altresì decidere di inviare tali relazioni, al di là della scadenza quadrimestrale, ogni qual volta lo ritenga opportuno.
  18. Introdotto con la legge n. 127 del 1997 (legge Bassanini bis), oggi il City manager trova riferimento normativo nell’art. 108 TUEL benché l’art. 2, co. 186, lett. d) della legge n. 191 del 2009 abbia disposto, per ragioni di contenimento della spesa pubblica, la soppressione del direttore generale a cui ha fatto seguito il temperamento, previsto dal d.l. n. 2 del 2010 che ha limitato l’obbligo di sopprimere la figura del dirigente generale ai Comuni con popolazione inferiore a 100.000 abitanti.
  19. L. Vandelli, Il sistema delle autonomie locali, Il Mulino, Bologna, 2019.
  20. Il GDM trova forse maggiori punti di assonanza con il Disability manager, ovverosia “un professionista che grazie alle sue competenze altamente specializzate acquisite sul campo della disabilità e della accessibilità si propone come interlocutore tra i bisogni delle persone disabili e i vari altri soggetti istituzionali per rendere più funzionale il rapporto tra la persona con disabilità e il suo contesto di vita”. Cfr. Regolamento Disability manager della Città di Torino, approvato con deliberazione del Consiglio Comunale in data 10 dicembre 2018 (mecc. 2018 00827/130) e modificato con deliberazione del Consiglio Comunale in data 9 novembre 2020 (mecc. 2020 01882/049). Accanto alla problematica figura del City manager e a quella più similare del Disability manager vi sono però anche altri soggetti che hanno trovato spazio nella governance degli enti locali a cui si attribuisce questa etichetta manageriale. Basti pensare al Mobility manager che presenta però alcune differenze di fondo con la recente figura del Gender city manager, a partire dal fatto che il Mobility manager è stato normativamente introdotto con il d.l. n. 34 del 19 maggio 2020, ove si prevede il cd. Mobility manager che deve essere individuato dai Comuni e dalle pubbliche amministrazioni tra il personale in ruolo.
  21. Salvo un rimborso delle spese sostenute in caso di missioni e trasferte necessarie per l’espletamento della funzione, purché preventivamente autorizzate dall’Amministrazione e nei limiti di un apposito fondo individuato nel P.E.G. Come anticipato, proprio seguendo tale procedura, la Giunta ha attribuito la funzione di GCM al Centro Interdisciplinare di Ricerche e Studi delle Donne e di Genere (CIRSDe) dell’Università degli Studi di Torino che, ai sensi dell’art. 2 del proprio Regolamento, ha come obiettivo la promozione dello “sviluppo della ricerca multidisciplinare in riferimento alle differenze di genere e la sua diffusione nella comunità scientifica e nella società civile” (https://www.cirsde.unito.it/it/il-centro/regolamenti). Il CIRSDe, soggetto con qualificate competenze tecniche sviluppate in un trentennio di attività (iniziata nel 1991), ha altresì contribuito al dibattito sull’istituzione della funzione di GCM, come risulta dall’estratto del verbale della seduta del Consiglio comunale del 12 Luglio 2021.
  22. Cfr. L. Mergaert, R. Minto, Gender mainstreaming in the European Commission, Swedish Institut for European Policy Studies, 2021: “An institutionalised practice is one that has become a normalised and stable part of the institution’s functioning, with the quality of this practice being maintained through the investment of resources (human and financial) and consistent monitoring”.
  23. R. Hirschl, A. Shachar, Spatial Statism, in International Journal of Constitutional Law 17, 2019, 387-438. Gli autori sottolineano l’anacronismo del “silenzio costituzionale” che ancora interessa le città: “The near-absolute constitutional silence on cities amid unprecedented levels of urbanization worldwide points to a methodological nationalism embedded in modern constitutionalism. National constitutions have an inherently centralizing, statist outlook to them. They reflect a “seeing like a state” vision of the territory they govern and, more often than not, a dated conceptualization of that territory’s geographical organization and demographic composition. Just as modern states—conquerors of the city—would not entertain the possibility of seriously re-emancipating cities unless they are set to benefit from it, so do their constitutional orders with their subordination of the local and general disregard for urban autonomy”.
  24. C. Soohoo, C., Human rights cities: Challenges and possibilities, in B. Oomen, M. Davis, & M. Grigolo (eds.), Global Urban Justice: The Rise of Human Rights Cities, Cambridge University Press, Cambridge, 2016, p. 257.
  25. In particolare il Goal 5 dell’Agenda è specificatamente dedicato all’uguaglianza di genere e uno dei target prevede proprio l’adozione di un approccio gender mainstreaming: Target 5.c – “Adopt and strengthen sound policies and enforceable legislation for the promotion of gender equality and the empowerment of all women and girls at all levels”.
  26. T. Rees, The Politics of ‘Mainstreaming’ Gender Equality, E. Breitenbach, A. Brown, F. Mackay, J. Webb (eds) The Changing Politics of Gender Equality in Britain, Palgrave Macmillan, London, 2002; D. Reeves, Mainstreaming Gender Equality: An Examination of the Gender Sensitivity of Strategic Planning in Great Britain, in The Town Planning Review, 73(2), Liverpool University Press, 2002, pp. 197-214.
  27. J. O’Connor, Gender mainstreaming in the European Union: Broadening the possibilities for gender equality and/or an inherently constrained exercise?, in Journal of International and Comparative Social Policy, 30(1), 2014, pp. 69-78.
  28. J. Shaw, The European Union and gender mainstreaming: Constitutionally embedded or comprehensively marginalised?, cit.
  29. COM(1995)381 – Decision Fourth medium- term Community action programme on equal opportunities for women and men (1996-2000).
  30. Si veda in particolare C. Booth, C. Bennett, Gender Mainstreaming in the European Union: Towards a New Conception and Practice of Equal Opportunities?, in European Journal of Women’s Studies, 9(4), 2002, pp. 430-446.
  31. Final report of Activities of the Group of Specialists on Mainstreaming (EG-S-MS), Strasbourg 1998.
  32. I. van der Molen, I. Novikova, Mainstreaming gender in the EU-accession process: the case of the Baltic Republics, in Journal of European Social Policy, 15(2), 2005, pp. 139-156.
  33. Si tratta in particolare dell’European Regional Development Fund (ERDF), dell’European Social Fund (ESF), del Cohesion Fund (CF) e dell’European Agricultural Fund for Rural. Tutti questi fondi ancora incorporato previsioni relative al gender mainstreaming. Si veda in proposito il documento dell’European Court of Auditors, Gender mainstreaming in the EU budget, Febbraio 2020.
  34. M.J Rodríguez-García, F. Donati, European Integral Urban Policies from a Gender Perspective. Gender-Sensitive Measures, Transversality and Gender Approaches. Sustainability, 13, 2021, p. 9543.
  35. L. Horelli, S. Wallin, Gender-Sensitive E-Planning for Sustaining Everyday Life, in I.S de Madariaga, R. Marion (eds.), Fair Shared Cities. The Impact of Gender Planning in Europe, Routledge, London-New York, 2016, pp. 231-248.
  36. E. Irschik, E. Kail, Vienna: Progress Towards a Fair Shared City, in I.S de Madariaga, R. Marion (eds.), Fair Shared Cities. The Impact of Gender Planning in Europe, Routledge, London-New York, 2016, p. 193.
  37. Ibidem.
  38. Ibidem, p. 225.
  39. C. Booth, C. Bennett, Gender Mainstreaming in the European Union: Towards a New Conception and Practice of Equal Opportunities?, cit.
  40. B. Oomen, Human Rights Cities: The Politics of Bringing Human Rights Home to the Local Level, in J. Handmaker & K. Arts (eds.), Mobilising International Law for ‘Global Justice’, Cambridge University Press, Cambridge, 2018, pp. 208-232; B. Oomen, M. Davis, M. Grigolo, (eds.), Global Urban Justice: The Rise of Human Rights Cities, Cambridge University Press, Cambridge, 2016.
  41. G. Tieghi, Human Rights Cities: lo Human Rights-Based Approach per la governance locale, in DPCE Online, [S.l.], v. 40, n. 3, sep. 2019.
  42. B. Oomen, M. Davis, M. Grigolo, (eds.), Global Urban Justice: The Rise of Human Rights Cities, cit., p. 257.
  43. UN-Habitat. The New Urban Agenda. 2017. Available online: http://habitat3.org/the-newurban-agenda/
  44. M. F. Davis, Cities, Human Rights and Accountability, in B. Oomen, M. Davis, M. Grigolo, (eds.), Global Urban Justice: The Rise of Human Rights Cities, cit., p. 29.
  45. Fundamental Rights Agency, Human rights cities in the EU: a framework for reinforcing rights locally, 2021.
  46. Art. 30 dello Statuto della Città e art. 22 del regolamento del Consiglio Comunale.
  47. Comunicazione della Commissione, A Union of Equality: Gender Equality Strategy 2020-2025 COM(2020) 152 final.
  48. R. Hirschl, A. Shachar, Spatial Statism, in International Journal of Constitutional Law, 17, 2019, p. 418.