Il Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica. D.lgs. 19 agosto 2016, n. 17

Eugenio Tagliasacchi e Chérie Faval[1]

 

Riferimenti normativi.

Legge 7 agosto 2015, n. 124 “Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche”.

Art. 18 Riordino della disciplina delle partecipazioni societarie delle amministrazioni pubbliche.

Art. 19 Riordino della disciplina dei servizi pubblici locali di interesse economico generale.

 

D.lgs. 19 agosto 2016, n. 175 “Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica”

Art. 1 Oggetto

Art. 2 Definizioni

Art. 4 Finalità perseguibili mediante l’acquisizione e la gestione di partecipazioni pubbliche

Art. 16 Società in house

 

D.lgs. 18 aprile 2016, n. 50 “Attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull’aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d’appalto degli enti erogatori nei settori dell’acqua, dell’energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture”

Art. 5 Principi comuni in materia di esclusioni per concessioni, appalti pubblici e accordi tra enti e amministrazioni aggiudicatrici nell’ambito del settore pubblico

Art. 192 Regime speciale degli affidamenti in house

 

D.lgs. 16 giugno 2017, n. 100 “Disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo 19 agosto 2016 n. 175”

 

Con il decreto in esame, il legislatore provvede a dettare una disciplina organica del controverso fenomeno delle società partecipate allo scopo di mettere ordine in un quadro normativo frammentato, riflesso del mutare, nel tempo, della portata e dei contorni dell’intervento pubblico nell’economia. Non si può tacere che in Italia il ricorso a società a partecipazione pubblica si sia talvolta prestato ad abusi. Per questa ragione, il legislatore si preoccupa di chiarire subito, al secondo comma dell’art. 1, che “Le disposizioni contenute nel presente decreto sono applicate avendo riguardo all’efficiente gestione delle partecipazioni pubbliche, alla tutela e promozione della concorrenza e del mercato, nonché alla razionalizzazione e riduzione della spesa pubblica”.

Per la stessa ragione, già l’art. 18, comma 1, della legge delega 7 agosto 2015, n. 124, invitava il legislatore delegato ad introdurre una distinzione tra tipi di società, sulla base di precisi criteri: attività svolte; interessi pubblici di riferimento; misura, qualità e natura (diretta o indiretta) della partecipazione; modalità (diretta o mediante procedura ad evidenza pubblica) dell’affidamento; quotazione in borsa o emissione di strumenti finanziari quotati nei mercati regolamentati[2] Una distinzione utile se si pensa che, come rappresentato dalla Corte dei conti nella sua Relazione 2016, tra i 7.181 organismi partecipati dagli enti territoriali, risultanti a luglio 2016, quasi 5.000 sono organizzati in forma societaria, con tipologie e modalità di partecipazione variabili dal modello totalmente pubblico, con un unico socio, a quello misto, a prevalenza privata[3]. Una distinzione, inoltre, necessaria se si pensa alle ricadute pratiche delle classificazioni di società sui generis quali le in house, in termini, tra l’altro, di riparto giurisdizionale, sottoposizione a fallimento, regime di responsabilità. Ancora, il decreto prevede poi un’articolata regolamentazione dei controlli sulle società e sul procedimento volto alla costituzione e all’acquisizione della partecipazione, nonché un onere di motivazione rafforzata, volto ad esplicitare specificamente e puntualmente le ragioni che rendono opportuno il ricorso allo strumento societario.

 

I. Inquadramento generale: ambito di applicazione e modalità di disciplina.

(Eugenio Tagliasacchi)

 

Sebbene, ormai da anni, fosse pacifica la possibilità, per gli enti pubblici, di ricorrere al modello societario – possibilità confermata, peraltro, dalla sussistenza di svariate disposizioni disciplinanti aspetti puntuali del fenomeno[4]– , muovendo da una prospettiva più ampia, è interessante rammentare come tale opzione non sia sempre stata data per scontata.

In proposito giova, infatti, ricordare come la tesi, poi risultata maggioritaria, volta ad ammettere tali società sia stata, in passato, osteggiata, nonostante la stessa risultasse saldamente giustificata sulla base della capacità generale di diritto privato riconosciuta in capo alla pubblica amministrazione, poi confermata, ormai più di un decennio fa, dall’aggiunta, ad opera della l. 11 febbraio 2005, n. 15, del comma 1bis, all’art. 1 della L. 7 agosto 1990, n. 241.

L’inclusione di tale specificazione in ordine al fatto che la pubblica amministrazione, nell’adozione di atti di natura non autoritativa, debba agire secondo le norme di diritto privato, salvo che la legge disponga diversamente, tra l’altro, è pacificamente ritenuta dotata di portata meramente ricognitiva e non innovativa, atteso che già prima della sua introduzione si riconosceva la sussistenza della capacità generale di diritto privato in capo alla P.A., argomentando a partire dall’art. 11 cod. civ. e dall’art. 41 Cost.. Ne conseguiva che doveva riconoscersi la possibilità di costituire società e di partecipare alle medesime, poiché detta facoltà era riconducibile alla menzionata capacità generale.

Come accennato, tuttavia, non mancarono sostenitori della tesi contraria, i quali focalizzavano, invece, l’attenzione sulla circostanza che la capacità generale di diritto privato, non diversamente dall’attività amministrativa complessivamente considerata, debba comunque pacificamente essere soggetta al vincolo di scopo, essendo dunque preordinata al perseguimento del pubblico interesse. Da tale considerazione costoro ricavavano la conclusione della incompatibilità ontologica tra lo scopo di lucro tipico delle società di diritto privato e il vincolo teso al perseguimento del pubblico interesse[5]. In ogni caso, a dimostrazione della complessità della materia e della profondità della controversia interpretativa che non consente aprioristiche e superficiali prese di posizioni, basta ricordare le sintetiche ma precise considerazioni dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, che ancora recentemente, nella celeberrima sentenza n. 10/2011, affermava perentoriamente la pacifica esistenza di un “principio che si desume dall’ordinamento, ora codificato dall’art. 3 comma 27 l. n. 244 del 2007, secondo il quale in assenza disposizioni normative specifiche, le amministrazioni pubbliche (ivi comprese le università) non possono costituire società commerciali il cui campo di attività esuli dall’ambito delle relative finalità istituzionali”.

Accanto a tale diatriba di carattere ontologico, residuava un altro aspetto controverso, relativo questa volta al modello di disciplina. Sul punto si registrava un contrasto tra una tesi “privatistica”[6], favorevole all’applicazione generalizzata delle norme del codice civile e delle altre norme di diritto privato, e una tesi “pubblicistica”[7], incline a preferire un’adeguata valorizzazione delle specificità derivanti dal vincolo relativo al perseguimento dell’interesse pubblico, che suggerivano di considerare le società partecipate come soggetti ben diversi dalle normali società di diritto privato, qualificabili come “enti pubblici in forma societaria”.

Tradizionale punto di emersione della contrapposizione interpretativa tra i due segnalati orientamenti era quello della fallibilità delle società partecipate.

Il Testo Unico opta per una soluzione organica, fornendo una disciplina di ampio respiro che risolve molti degli aspetti controversi. In questa ottica introduttiva occorre concentrarsi sui profili generali.

Quanto all’ambito applicativo, il Testo Unico ha un oggetto ampio poiché disciplina “la costituzione di società da parte di amministrazioni pubbliche, nonché l’acquisto, il mantenimento e la gestione di partecipazioni da parte di tali amministrazioni, in società a totale o parziale partecipazione pubblica, diretta o indiretta” (art. 1, comma 1).

La disposizione si premura però di precisare che restano tuttavia ferme le disposizioni relative ai SIG e ai SIEG nonché quelle relative agli enti associativi diversi dalla società e alle fondazioni e che le disposizioni non si applicano nemmeno alle società quotate, salvo indicazione diversa del decreto medesimo; l’art. 1 precisa, infatti, che il decreto non incide su “a) le specifiche disposizioni, contenute in leggi o regolamenti governativi o ministeriali, che disciplinano società a partecipazione pubblica di diritto singolare costituite per l’esercizio della gestione di servizi di interesse generale o di interesse economico generale o per il perseguimento di una specifica missione di pubblico interesse; b) le disposizioni di legge riguardanti la partecipazione di amministrazioni pubbliche a enti associativi diversi dalle società e a fondazioni”, nonché “Le disposizioni del presente decreto si applicano, solo se espressamente previsto, alle società quotate, come definite dall’articolo 2, comma 1, lettera p)”.

Circa il profilo della disciplina, si prevede, l’applicazione alle società a partecipazione pubblica, “per tutto quanto non derogato dalle disposizioni del decreto stesso, le norme sulle società contenute nel codice civile e le norme generali di diritto privato”.

Un contemperamento con la teoria pubblicistica deriva dalla disposizione che preclude alle amministrazioni pubbliche di costituire, direttamente o indirettamente, società aventi per oggetto attività di produzione di beni e servizi non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, né acquisire o mantenere partecipazioni, anche di minoranza, in tali società (art. 4 comma 1).

In questo limite è possibile leggere l’emersione di un principio già affermato dall’Adunanza Plenaria, Cons Stato Ad. Plen. 10/2011, relativo alla distinzione tra le società strumentali e le società che operano sul mercato. La libera possibilità di ricorrere al modello societario si riferisce, infatti, soltanto alle prime e non anche alle seconde. L’Adunanza Plenaria aveva infatti affermato che “Le università, aventi finalità di insegnamento e di ricerca, possono dare vita a società, nell’ambito della propria autonomia organizzativa e finanziaria, solo per il perseguimento dei propri fini istituzionali, in virtù di un principio che si desume dall’ordinamento, ora codificato dall’art. 3 comma 27 l. n. 244 del 2007, secondo il quale in assenza di disposizioni normative specifiche, le amministrazioni pubbliche (ivi comprese le università) non possono costituire società commerciali il cui campo di attività esuli dall’ambito delle relative finalità istituzionali, al fine di evitare che soggetti dotati di privilegi operino in mercati concorrenziali. Tale principio è conforme anche alla disciplina comunitaria (art. 106 TFUE già art. 86 TCE) che stabilisce il divieto per gli stati membri di emanare o mantenere, nei confronti delle imprese pubbliche e delle imprese cui riconoscono diritti speciali o esclusivi, misure contrarie alle disposizioni dei trattati, con particolare riguardo a quelle in tema di tutela della concorrenza e divieto di erogazione di aiuti di Stato”.

Oltre ad ammettere soltanto le società strumentali, il Testo Unico prevede altresì una delimitazione ulteriore, poiché stabilisce che le amministrazioni pubbliche possono, direttamente o indirettamente, costituire società e acquisire o mantenere partecipazioni in società esclusivamente per lo svolgimento delle attività specificamente indicate.

Si tratta in particolare dei seguenti settori:

a) produzione di un servizio di interesse generale, ivi inclusa la realizzazione e la gestione delle reti e degli impianti funzionali ai servizi medesimi;

b) progettazione e realizzazione di un’opera pubblica sulla base di un accordo di programma fra amministrazioni pubbliche, ai sensi dell’articolo 193 del decreto legislativo n. 50 del 2016;

c) realizzazione e gestione di un’opera pubblica ovvero organizzazione e gestione di un servizio d’interesse generale attraverso un contratto di partenariato di cui all’articolo 180 del decreto legislativo n. 50 del 2016, con un imprenditore selezionato con le modalità di cui all’articolo 17, commi 1 e 2;

d) autoproduzione di beni o servizi strumentali all’ente o agli enti pubblici partecipanti, nel rispetto delle condizioni stabilite dalle direttive europee in materia di contratti pubblici e della relativa disciplina nazionale di recepimento;

e) servizi di committenza, ivi incluse le attività di committenza ausiliarie, apprestati a supporto di enti senza scopo di lucro e di amministrazioni aggiudicatrici di cui all’articolo 3, comma 1, lettera a), del decreto legislativo n. 50 del 2016.

Va tuttavia precisato che questa è soltanto la disciplina enunciata in via generale e che lo stesso art. 4 contempla diverse eccezioni a questa regola generale.

Con riferimento agli enti locali, si prevede specificamente che “Fatte salve le diverse previsioni di legge regionali adottate nell’esercizio della potestà legislativa in materia di organizzazione amministrativa, è fatto divieto alle società di cui al comma 2, lettera d), controllate da enti locali, di costituire nuove società e di acquisire nuove partecipazioni in società. Il divieto non si applica alle società che hanno come oggetto sociale esclusivo la gestione delle partecipazioni societarie di enti locali, salvo il rispetto degli obblighi previsti in materia di trasparenza dei dati finanziari e di consolidamento del bilancio degli enti partecipanti”.

In questo modo, dunque, il Testo Unico sembra fornire delle risposte ai profili generali in precedenza controversi, concernenti l’ambito di applicazione e la disciplina.

 

II. Conferme e novità per le in house.

(Chérie Faval)

Il terreno di intervento del d.lgs. 175/2016 in tema di in house.

Con specifico riferimento al tentativo di riordino tra tipi societari a partecipazione pubblica, di particolare interesse risulta la disciplina dettata dal d.lgs. 175/2016 in tema di società in house, data, oltretutto, la contemporanea attenzione riservata alla regolazione di tale tipologia societaria da altri rilevanti interventi di riforma, segnatamente, il nuovo “Codice dei contratti pubblici”[8], entrato in vigore ad aprile 2016, e lo schema di decreto legislativo recante “Testo unico sui servizi pubblici locali di interesse economico generale”, che avrebbe dovuto, anch’esso, essere adottato in attuazione della legge delega 124/2015 (art. 19)[9].

La necessità di un intervento del legislatore in tema di società in house appare evidente se si considera il carattere ibrido che caratterizza tale modello societario a partecipazione pubblica[10]. L’instaurazione di rapporti di in house providing, per l’affidamento di servizi in assenza di procedure selettive ad evidenza pubblica, infatti, è caratterizzata dal fatto di derivare da una scelta – operata a monte e in maniera non sempre agevole – che, tra le opzioni del “mercato” e del “non-mercato”, propende per quest’ultimo. Rispetto ai principi di libera concorrenza e parità di trattamento tra imprese pubbliche e private, e conseguente favor per il modello della esternalizzazione, viene fatto prevalere il principio di autorganizzazione delle amministrazioni, in forza del quale le stesse, qualora debbano avvalersi di prestazioni a contenuto negoziale, in alternativa all’esternalizzazione, possono ricorrere a propri enti strumentali, formalmente distinti, ma sostanzialmente loro parte integrante. Peculiarità dei rapporti di in house providing è la sussistenza di una situazione di alterità soggettiva tra affidante e affidataria dalla natura giuridica dubbia. A tale alterità, infatti, non corrisponderebbe un vero rapporto di terzietà, dal momento che la seconda costituisce, nella pratica, una longa manus della prima, tanto da configurarsi quale ipotesi di delegazione interorganica e non intersoggettiva[11].

Al di là della natura giuridica delle in house, la specificità delle stesse ha fatto sì che la relativa disciplina non trovasse esaustiva risposta nelle previsioni codicistiche dettate per i tradizionali tipi societari, ma che la stessa venisse, nel tempo, delineata dalla giurisprudenza, prima fra tutte quella della Corte di giustizia dell’Unione europea. Requisiti fondamentali delle in house – progressivamente tratteggiati dalla Corte del Lussemburgo a partire dalla nota sentenza Teckal[12] – sono la caratterizzazione della società quale società a capitale interamente pubblico; lo svolgimento di attività prevalente per l’ente pubblico; l’esercizio, da parte del socio pubblico, del c.d. “controllo analogo”.

Dal canto suo, il legislatore nostrano, da un lato ha fatto propri tali requisiti[13], dall’altro, anche in ragione di un’aprioristica sfiducia rispetto al fatto che il ricorso a tali tipi di società rimanga immune da abusi, si è orientato verso un progressivo inquadramento dell’in house providing quale modello eccezionale e residuale – e non alternativo e di pari rilevanza – rispetto allo svolgimento di gare ad evidenza pubblica. Si ricorderà, in proposito, che la vicenda referendaria del 2011 sull’acqua – poi seguita dalla nota sentenza della Corte costituzionale n. 199/2012 – aveva, tra l’altro, ad oggetto proprio le modalità di affidamento e di gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica e, in particolare, la caducazione di quelle disposizioni che legittimavano il ricorso alle in house solo ove ricorressero situazioni del tutto eccezionali[14]. Del pari, conducono a ritenere sostanzialmente residuale l’ipotesi in house anche le disposizioni attualmente in vigore (si vedano, sul punto, gli oneri motivazionali previsti per l’affidamento dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, ai fini del rispetto della disciplina europea, della parità tra gli operatori, dell’economicità della gestione e dell’informazione della comunità di riferimento[15]).

Tale indirizzo del legislatore italiano tuttavia, non è pacificamente accolto dalla giurisprudenza, ove non mancano – sulla base della valorizzazione, al pari del principio di libera concorrenza, anche di quello di “libera amministrazione” – pronunce che configurano l’affidamento diretto quale modalità alternativa alla gara, espressione del diritto di auto-organizzazione della pubblica amministrazione[16].

In definitiva, nonostante la fissazione di alcune coordinate, non poche sono state le difficoltà interpretative che hanno portato a conclusioni spesso altalenanti, se non del tutto contrapposte, in relazione a svariati profili (dalla possibilità o meno di sottoporre le in house a fallimento ai profili di responsabilità dei relativi amministratori; dalla sussistenza o meno, in capo agli enti partecipanti, dell’obbligo di ripianare le eventuali perdite societarie alla trasformabilità di società in house in aziende speciali)[17].

Sulla ingente stratificazione giurisprudenziale, sono intervenute, nel 2014, le direttive europee sugli appalti[18], in parte cristallizzando normativamente il portato giurisprudenziale della CGUE, in parte discostandosene in maniera evidente. Se, dal primo punto di vista, le direttive, oltre a sancire la pari rilevanza del modello dell’in house rispetto a quello del partenariato pubblico-privato e dell’esternalizzazione[19], confermano – e, anzi, quantificano – il requisito dell’attività prevalente (sussistente qualora, sulla base del fatturato totale medio della società, risulti che oltre l’80% delle attività sono svolte a favore dell’amministrazione aggiudicatrice) e quello del controllo analogo quale controllo esercitato sui servizi dell’amministrazione, sia in termini di influenza determinante sugli obiettivi strategici che sulle decisioni più importanti della società controllata, dal secondo punto di vista, non mancano rilevanti novità. Da un lato, è ammessa la partecipazione indiretta mediante holding. Dall’altro, viene meno il requisito della totale partecipazione pubblica, essendo ammesse forme di partecipazione di soci privati, seppure in minima entità, che non detengano posizioni di controllo o poteri di veto, prescritte dalle leggi nazionali in conformità dei trattati e che non esercitino un’influenza determinante sulla controllata.

 

Le in house nel d.lgs. 175/2016.

Il d.lgs. n. 175/2016 interviene in materia di società in house, innanzitutto, fornendo una definizione delle stesse (art. 2, comma 2, lett. o), in termini di società sulle quali un’amministrazione esercita il controllo analogo (a sua volta definito, dalla lett. c) del medesimo articolo, “la situazione in cui l’amministrazione esercita su una società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi, esercitando un’influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni significative della società controllata. Tale controllo può anche essere esercitato da una persona giuridica diversa, a sua volta controllata allo stesso modo dall’amministrazione partecipante” o più amministrazioni esercitano un controllo analogo congiunto (la cui nozione è fornita dalla successiva lett. d) come “situazione in cui l’amministrazione esercita congiuntamente con altre amministrazioni su una società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi. Questa situazione si verifica al ricorrere delle condizioni di cui all’articolo 5, comma 5, del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50[20]”).

Inoltre, il decreto delimita l’oggetto sociale alla produzione di un servizio di interesse generale, alla progettazione e realizzazione di un’opera pubblica sulla base di un accordo di programma fra amministrazioni pubbliche, all’autoproduzione di beni o servizi strumentali all’ente o agli enti pubblici partecipanti, nel rispetto delle condizioni stabilite in materia di appalti, ai servizi di committenza (art. 4, comma 4, che richiama le attività elencate dal 2° comma del medesimo articolo, alle lettere a), b), d) ed e)).

Il d.lgs. 175/2016 interviene, poi, all’art. 16, sui tre requisiti identificativi delle in house, in maniera non sempre aderente alla disciplina dell’Unione europea.

Quanto ai soggetti partecipanti, conformemente ai dettami UE, il d.lgs. 175/2016 (art. 16, comma 1) ammette un intervento minoritario da parte di soci privati, subordinando lo stesso alla sussistenza di presupposti formali (la possibile partecipazione dei privati, infatti, non è generalizzata, ma deve essere prescritta da norme di legge)[21] e di requisiti sostanziali (la partecipazione dei privati non deve risultare in poteri di controllo o di veto in capo ai medesimi o nell’esercizio di un’influenza dominante).

In punto controllo analogo, l’art. 16, comma 2, declina – sia con riferimento all’ipotesi di in house S.p.A. che di in house s.r.l. – le deroghe alla disciplina codicistica che gli statuti delle in house possono prevedere al fine di realizzare l’assetto organizzativo loro proprio[22]. Rispetto a tale previsione, formulata in termini di mera facoltà, è interessante rilevare la perplessità espressa dal Consiglio di Stato, nel parere 21 aprile 2016, n. 968, in quanto “il mancato esercizio di tale potere manterrebbe ferma la riserva di gestione in capo agli amministratori in contrasto con la caratterizzazione propria delle modalità di funzionamento del controllo analogo”.

Con riferimento alla definizione della prevalenza dell’attività societaria a favore dell’ente partecipante (o dei più enti partecipanti), il d.lgs. 175/2016, al comma terzo dell’art. 16, ricalca la soglia prevista dall’ordinamento dell’Unione, dell’oltre l’ottanta per cento[23]. Il legislatore italiano, poi, si discosta dal contenuto delle direttive UE, dettando disposizioni ulteriori. Da un lato, il medesimo comma terzo dispone che il 20% di produzione ulteriore è consentito solo se funzionale al conseguimento di economie di scala o altri recuperi di efficienza sul complesso dell’attività societaria principale. Una limitazione, questa, introdotta dal decreto nonostante la sua eliminazione non solo fosse stata suggerita dal Consiglio di Stato, nel citato parere, ma fosse anche stata chiesta dalla Conferenza unificata, poiché “non funzionale al conseguimento di un livello più elevato di efficienza concorrenziale”[24]. Dall’altro, i commi successivi disciplinano il caso di mancato rispetto del limite quantitativo dell’ottanta per cento: il comma quarto qualificando lo stesso quale grave irregolarità, ai sensi dell’art. 2409 del codice civile e dell’art. 15 dello stesso d.lgs. 175/2016; il comma quinto prevedendo la possibilità, entro tre mesi, di sanatoria dell’eventuale irregolarità (nella doppia alternativa dello scioglimento di rapporti contrattuali con i terzi, e di rispristino del regime in house, o di rinuncia agli affidamenti diretti, con riconduzione della società tra le altre società a partecipazione pubblica di cui all’art. 4, diverse dalla in house), con il rischio di incidere su posizioni dei terzi che abbiano instaurato rapporti con la società, nel periodo di irregolarità.

 

Conclusione

È ancora presto per cogliere la portata che l’intervento legislativo in materia di in house avrà sugli enti locali. Si dovranno, infatti, attendere le discipline che i legislatori regionali adotteranno in materia di partecipazioni in società pubbliche[25], nonché gli esiti dell’attesa riduzione delle partecipazioni societarie delle amministrazioni pubbliche che non potrà non riguardare anche le in house[26]. Non sembra, tuttavia, precoce rilevare la conferma del generale sfavore, da parte del legislatore nazionale, verso il modello in esame. Basti considerare che, nel recepire le direttive appalti, il d.lgs. 50/2016 non solo ha integralmente trasposto i requisiti dettati a livello di Unione (art. 5), ma – valorizzando i caratteri della trasparenza e della pubblicità che informano l’intero impianto del nuovo codice dei contratti pubblici – all’art. 192 ha dettato un regime speciale proprio per gli affidamenti in house, imponendo puntuali oneri di pubblicità (iscrizione degli enti aggiudicatori presso apposito elenco tenuto dall’ANAC e pubblicazione e aggiornamento, sul profilo del committente, in formato open data, di tutti gli atti connessi agli affidamenti diretti) e di motivazione in ordine alle ragioni del mancato ricorso al mercato.

 


 


[1] Dottorandi di ricerca nell’Università del Piemonte Orientale. Il lavoro è frutto della collaborazione tra gli Autori; il par. I è di Eugenio Tagliasacchi, il par. II di Chérie Faval.

 

[2] Art. 18, comma 1, lett. a), l. 7 agosto 2015, n. 124.

 

[3] Corte dei conti, Sezione delle Autonomie, Gli organismi partecipati dagli Enti territoriali. Osservatorio sugli organismi partecipati/controllati dai Comuni, Province e Regioni e relative analisi, Relazione 2016, p. 41, consultabile su http://www.corteconti.it .Più in dettaglio, la tipologia di partecipazione societaria (rinvenibile in 4.915 organismi) risulta così ripartita: totalmente pubblica con unico partecipante/socio (998 unità); totalmente pubblica con più partecipanti/soci (698 unità); mista a prevalenza pubblica (1.727 unità); a partecipazione paritaria 50% pubblica e 50% privata (43 unità); mista a prevalenza privata (1.449 unità).

 

[4] Basti pensare, ad esempio, all’articolata disciplina in tema di servizi pubblici locali e, in particolare, alle disposizioni di cui agli artt. 22 della l. 142/1900 e 113 del d.lgs. 267/2000.

 

[5] In tema cfr. Romano, Alb., Relazione di sintesi, in Raimondi, S.-Ursi, R., a cura di, Fondazioni e attività amministrativa, Torino, 2006, 1 ss.. Si segnalano, altresì: N. Irti, L’ordine giuridico del mercato, Laterza, Roma-Bari, 2003, p. 162, il quale si riferisce al «contrasto ontologico» tra fine di lucro e pubblicità; G. Rossi, Gli enti pubblici, Il Mulino, Bologna, 1991, p. 171, che ammette l’incompatibilità astratta tra causa lucrativa ai sensi dell’art. 2247 c.c. e pubblicità. L’Autore si domanda «Come può conciliarsi con la causa lucrativa del contratto di società la rilevanza nell’ambito sociale dell’interesse pubblico?», giungendo alla conclusione, sul piano del diritto societario, di un preteso tramonto della causa lucrativa; M. Renna, Le società per azioni in mano pubblica. Il caso delle S.p.a. derivanti dalla trasformazione di enti pubblici economici ed aziende autonome dello Stato, Giappichelli,Torino, 1997 si pronuncia a favore della neutralizzazione della società di capitali, soffermandosi in particolare sul presupposto dell’evaporazione dello scopo lucrativo nella società in genere, tale che l’istituto diventa «modello organizzativo neutrale», con la conseguenza che assume ampia rilevanza la sostanza (ontologia) pubblicistica delle società in mano pubblica, non oscurabile sotto la forma di una personalità giuridica, (solo) formalmente privatistica (p. 149); M.T. Cirenei, Le società a partecipazione pubblica, in G.E. Colombo-G.B. Portale (diretto da), Trattato delle società per azioni, vol VIII, Utet, Torino, 1992, pp. 3 ss., 103 ss.; P. Pizza, Le società per azioni di diritto singolare tra partecipazioni pubbliche e nuovi modelli organizzativi,Giuffrè,Milano, 2007, spec. p. 649 ss., considera che né il Codice civile né, astrattamente, alcuna altra legge, definirebbero mai espressamente la società come persona giuridica di diritto privato, perciò l’utilizzo della «locuzione società per azioni» non sarebbe di per sé indice di una scelta per il diritto privato, ma, sotto questo profilo, appunto meramente neutra. A tali conclusioni giunge, però, proprio tralasciando di considerare il rilievo tipologico dello scopo di lucro.

 

[6] In tema, cfr. Scoca, Il punto sulle c.d. società pubbliche, Il diritto dell’economia, n. 2/2005.

 

[7] Romano, Alb., Amministrazione, principio di legalità e ordinamenti giuridici, in Dir. amm., 1999, 1 ss.; Renna, Le società in mano pubblica, Torino, 1997, 152.

 

[8] Decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50 (Attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull’aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d’appalto degli enti erogatori nei settori dell’acqua, dell’energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture). Si veda, al riguardo, G. Veltri, L’in house nel nuovo codice dei contratti pubblici, in Giornale di diritto amministrativo, 4/2016, 488.

 

[9] Significativo, in proposito, il monito del Consiglio Stato che – nel proprio parere 1° aprile 2016, n. 855, sullo schema di Codice dei contratti pubblici – aveva esortato il legislatore delegato a verificare “la coerenza, disciplinatoria e terminologica, tra il presente codice e i decreti legislativi in corso di approvazione, relativi alle società pubbliche e ai servizi pubblici locali di interesse economico generale”. Il parere è consultabile su www.giustizia-amministrativa.it. Si segnala, tuttavia, la sopravvenuta scadenza della delega, oltreché l’opportunità di un più complessivo ripensamento, alla luce della pronuncia della Corte costituzionale n. 251, del 25 novembre 2016.

 

[10] Si veda, in proposito, l’interessante approfondimento di G. Passarelli, Le società in house: metamorfosi di un modello nel nuovo quadro normativo europeo e nazionale, Rivista della Corte dei conti – www.rivistacorteconti.it Anno LIX, n. 1-2, gennaio-aprile 2016, 491. Più in generale, sui tratti caratterizzanti le in house, si vedano i contributi di C. Volpe, L’affidamento ‘in house’: situazione attuale e proposte per una disciplina specifica, in GiustAmm.it, 10/2014, 1; L’affidamento ‘in house’ di servizi pubblici locali e strumentali: origine ed evoluzione più recente dell’istituto alla luce della normativa e della giurisprudenza europea e nazionale, in GiustAmm.it, 3/2014, 1, e di C. Ibba, Società ‘in house’: nozione e rilevanza applicativa, in Munus, 1/2015, 1; Società pubbliche e riforma del diritto societario, in Riv. Soc., 2005, 1. Inoltre, tra i tanti, C. Di Marzio, Le società pubbliche e le società ‘in house’, in Rivista amministrativa della Repubblica italiana, 1-2/2015, 5; E. Codazzi, Società in house providing, in Giurisprudenza commerciale, 5/2016, 953; A. Giusti, I requisiti dell’in house fra principi giurisprudenziali e nuove regole codificate, in Giurisprudenza italiana, 2/2017, 439; R. Rordorf, Le società partecipate tra pubblico e privato, in Società, 2013, 1326; M. Casavecchia, O. Cagnasso e M. Quaranta, Le società in house (Parte I). Le società in mano pubblica e la nozione di servizio pubblico, in Il nuovo diritto delle società, 11/2008, 40 e, degli stessi Autori, Le società in house (Parte II). Effetti del fenomeno sulla concorrenza ed ambito di applicazione, in Il nuovo diritto delle società, 12/2008, 55.

 

[11] In questo senso si è espressa la Corte di giustizia dell’Unione europea, tra le altre, nelle cause Amhem (Corte giust., 10 novembre 1998, causa C-360/1996,) e Ri.San. (Corte giust., 9 settembre, causa 1999C-108/1998). A livello nazionale, dalla mancata scissione delle entità affidante e affidataria, la giurisprudenza maggioritaria fa discendere il radicamento della giurisdizione contabile. Nella pronuncia a Sez. Unite n. 26283 del 25 novembre 2013, la Cassazione ha, infatti, affermato che “non essendo possibile configurare un rapporto di alterità tra l’ente pubblico partecipante e la società in house che ad esso fa capo, è giocoforza concludere che anche la distinzione tra il patrimonio dell’ente e quello della società si può porre in termini di separazione patrimoniale, ma non di distinta titolarità. Dal che discende che, in questo caso, il danno eventualmente inferto al patrimonio da atti illegittimi degli amministratori, cui possa aver contribuito un colpevole difetto di vigilanza imputabile agli organi di controllo, è arrecato ad un patrimonio (separato, ma pur sempre) riconducibile all’ente pubblico: è quindi un danno erariale che giustifica l’attribuzione alla Corte dei conti della giurisdizione sulla relativa azione di responsabilità”.

 

[12] Corte giust., Sez. V, 18 novembre 1999, causa C-107/98.

 

[13] Si vedano, in proposito, con riferimento alle partecipazioni degli enti locali, gli art. 113, co. 4, lett. a), d.lgs. n. 267/2000, nel testo modificato dall’art. 14, co. 1, lett. c), d.l. 30 settembre 2003, n. 269, convertito, con modificazioni, dalla l. 24 novembre 2003, n. 326, che prevede che, per la gestione delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni patrimoniali, qualora la stessa sia separata dall’attività di erogazione dei servizi, gli enti locali possono avvalersi “di soggetti allo scopo costituiti, nella forma di società di capitali con la partecipazione totalitaria di capitale pubblico cui può essere affidata direttamente tale attività, a condizione che gli enti pubblici titolari del capitale sociale esercitino sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e che la società realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o gli enti pubblici che la controllano” e l’art. 149-bis, co. 1, secondo periodo d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, sostituito dall’art. 1, co. 615, l. n. 190/2014, a tenore del quale “l’affidamento diretto può avvenire a favore di società interamente pubbliche, in possesso dei requisiti prescritti dall’ordinamento europeo per la gestione in house, comunque partecipate dagli enti locali ricadenti nell’ambito territoriale ottimale”.

 

[14] Per un’analisi degli effetti del referendum e della sentenza 199/2012, cfr, tra i tanti, M. Clarich, G. Urbano, I servizi pubblici locali di “rilevanza economica” dopo la sentenza della Corte costituzionale 199/2012, in F. Pizzetti, A. Rughetti (cur.), Il nuovo sistema degli enti territoriali dopo le recenti riforme, Osservatorio della riforme, Maggioli, 2012 e R. Carpino, Servizi pubblici locali e tentativi di riforma, ibidem.

 

[15] Art. 34, comma 20, d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito con modificazioni dalla l. 17 dicembre 2012, n. 221.

 

[16] Cons. Stato, Sez. V, 22 gennaio 2015, n. 257.

 

[17] Per una completa rassegna dei problemi pratici connessi alle società in house prima della riforma Madia, cfr. M. Casavecchia, Le società in house come “società organo” alla luce della legge Madia, 2016. Inoltre, per concludere sul punto con un quadro – dipinto “con il pennello del giurista” – sui “disorientamenti” giurisprudenziali registrati negli anni, cfr. R. Ursi, Il cammino disorientato delle c.d. società in house, in Il diritto dell’economia, 3/2014, 557.

 

[18] Direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 febbraio 2014 sugli appalti pubblici e che abroga la direttiva 2004/18/CE; direttiva 2014/25/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 febbraio 2014 sulle procedure d’appalto degli enti erogatori nei settori dell’acqua, dell’energia, dei trasporti e dei servizi postali e che abroga la direttiva 2004/17/CE e direttiva 2014/23/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 febbraio 2014 sull’aggiudicazione dei contratti di concessione, sulle quali si vedano C. Volpe, Le nuove direttive sui contratti pubblici e l’in house providing: problemi vecchi e nuovi, in Rivista italiana di diritto pubblico comunitario, 5/2015, 1169; F. Lettera, Liberalizzazioni e gestione ‘in house’ nei servizi pubblici locali: le direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE,2014/25/UE sul controllo analogo, in Rivista amministrativa della Repubblica italiana, 7-8/2014, 347. Un percorso ricognitivo, dalle origini giurisprudenziali dell’in house sino alla codificazione ad opera del d.lgs. 50/2016, è tracciato da D. Andracchio, Lo ‘Stato-Autoproduttore’. Dalle origini giurisprudenziali alla codificazione dell’’in house providing’, in Rassegna avvocatura dello stato, 2/2016, 171.

 

[19] In questo senso depongono il considerando n. 5 della direttiva sui settori ordinari (2014/24/UE), il considerando n. 7 della direttiva sui settori speciali (2014/25/UE) e il considerando n. 5 della direttiva sulle concessioni (2014/23/UE).

 

[20] Vale a dire quando sono soddisfatte tutte le seguenti condizioni: a) gli organi decisionali della persona giuridica controllata sono composti da rappresentanti di tutte le amministrazioni aggiudicatrici o enti aggiudicatori partecipanti. Singoli rappresentanti possono rappresentare varie o tutte le amministrazioni aggiudicatrici o enti aggiudicatori partecipanti; b) tali amministrazioni aggiudicatrici o enti aggiudicatori sono in grado di esercitare congiuntamente un’influenza determinante sugli obiettivi strategici e sulle decisioni significative di detta persona giuridica; c) la persona giuridica controllata non persegue interessi contrari a quelli delle amministrazioni aggiudicatrici o degli enti aggiudicatori controllanti.

 

[21] È interessante notare, in proposito, che la piena aderenza della disposizione in questione alle direttive UE è conseguente all’intervento del Consiglio di Stato, nel suo parere 21 aprile 2016, n. 968: il testo originario, infatti, non si esprimeva in termini di prescrizione, ma di mera previsione di legge, così attenuando il carattere cogente sottostante alla valutazione del legislatore che ritenga necessaria l’integrazione della componente privata nella compagine societaria.

 

[22] In dettaglio, gli statuti delle società per azioni possono contenere clausole in deroga delle disposizioni dell’articolo 2380-bis e dell’articolo 2409-novies del codice civile; gli statuti delle società a responsabilità limitata possono prevedere l’attribuzione all’ente o agli enti pubblici soci di particolari diritti, ai sensi dell’articolo 2468, terzo comma, del codice civile; in ogni caso, i requisiti del controllo analogo possono essere acquisiti anche mediante la conclusione di appositi patti parasociali che, in deroga all’articolo 2341-bis, primo comma, del codice civile possono avere durata superiore a cinque anni.

 

[23] Anche sotto questo profilo, l’aderenza del decreto alle direttive UE è conseguente all’intervento del Consiglio di Stato, poiché il testo della bozza di decreto, anziché l’espressione “oltre l’ottanta per cento”, utilizzava quella di “almeno l’ottanta per cento”.

 

[24] Parere acquisito ai sensi dell’art. 8 del d.lgs. 28 agosto 1997, n. 281 ed espresso nella riunione del 14 aprile 2016.

 

[25] Quale, per la Valle d’Aosta, la l.r. 14 novembre 2016, n. 20, recante “Disposizioni in materia di rafforzamento dei principi di trasparenza, contenimento dei costi e razionalizzazione della spesa nella gestione delle società partecipate dalla Regione”.

 

[26] Per una più generale valutazione del recente intervento normativo sulle in house quale fattore del più ampio intervento del legislatore in tema di società a partecipazione pubblica, nell’ambito della riforma della Pubblica Amministrazione, si vedano i contributi di R. Cavallo Perin, La razionalizzazione dell’amministrazione indiretta: enti strumentali, società ed altri organismi nella prospettiva della riforma della P.A., e di G. Grüner, Le così dette “società pubbliche” tra esercizio dell’impresa pubblica ed elusione dei principi costituzionali, entrambi in F. Mastragostino, G. Piperata, C. Tubertini (cur.), L’amministrazione che cambia. Fonti, regole e percorsi di una nuova stagione di riforme, Quaderni della Spisa, Bononia University Press, 2016.