Nota a Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, Sentenza 7 dicembre 2016, n. 24

Jessica Rampone[1]

 

1. L’abuso del diritto (da parte dell’amministrazione comunale). 2. La buona fede quale espressione dei principi generali dell’ordinamento giuridico.  3. Commento.  3.1. Premessa. – 3.2. La questione controversa.  3.3. Il caso.  3.4. Gli orientamenti giurisprudenziali.  3.5. La decisione dell’Adunanza plenaria.  4. Conclusioni.

 

 

1. L’abuso del diritto.

La sentenza 7 dicembre 2016, n. 24, adottata dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato,  oggetto del presente commento, è occasione per approfondire la tematica dell’abuso del diritto.

Il legislatore del ‘42 non ha inserito nel codice civile una norma che definisce e, in pari tempo, sanziona, in via generale, l’abuso del diritto. Ciò non significa che il nostro ordinamento giuridico ne ignori l’esistenza[2].

Per abuso si intende l’esercizio di un diritto (o potere privato) che, pur essendo apparentemente conforme al suo contenuto, è in realtà funzionale al conseguimento di un’utilità inaccettabile secondo la comune coscienza sociale[3].

Il carattere peculiare della figura dell’abuso del diritto è l’apparente conformità del comportamento del soggetto al contenuto del suo diritto, onde abusare del diritto dovrebbe significare coprire dell’apparenza del diritto un atto che si avrebbe il dovere di non compiere[4].

In questa tendenza ricostruttiva, i parametri normativi di riferimento sono costituiti dall’art. 2 Cost.[5], che enuncia il principio fondamentale di solidarietà, dall’art. 833 cod. civ., che detta il divieto del compimento di atti emulativi e, da ultimo, dall’art. 10 bis della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto del Contribuente)[6].

La tematica dell’abuso del diritto è, inoltre, strettamente correlata al concetto di buona fede oggettiva, richiamato all’art. 1175 c.c., inteso come limite funzionale all’esercizio del diritto. A mente della summenzionata disposizione, sia il creditore, sia il debitore, per tutta la durata del rapporto obbligatorio, devono comportarsi secondo correttezza. Detta disposizione si collega, in materia contrattuale, all’art. 1375 cod. civ., che prevede l’obbligo per il soggetto chiamato a dare esecuzione al rapporto contrattuale di comportarsi secondo buona fede, all’art. 1336 cod. civ., in tema di interpretazione del contratto e, all’art. 1337 cod. civ., quale comportamento che le parti devono tenere durante lo svolgimento delle trattative[7]

Il codice civile prevede poi alcune specifiche disposizioni che consentono di sanzionare l’abuso del diritto in relazione a particolari categorie di diritti[8].

L’ordinamento giuridico si attiva nei casi di esercizio abusivo di un diritto, in modo da impedire che possano essere conseguiti o conservati i vantaggi ottenuti attraverso un esercizio scorretto del diritto stesso.

In particolare, se gli effetti dell’abuso si sono consolidati, la parte danneggiata potrà esperire l’azione volta a ottenere il risarcimento del danno[9], mentre se gli effetti si sono riprodotti, ma non sono irreversibili, l’ordinamento appresta una tutela o una reintegrazione in forma specifica, mediante il ripristino dello status quo ante. Qualora gli effetti dell’abuso non si siano ancora riprodotti è invece possibile paralizzarli mediante l’esercizio dell’exceptio doli generalis.[10]

Quello dell’exceptio doli è un rimedio generale, che non trova fondamento in alcuna norma di diritto positivo[11], e corrisponde a una reazione all’abuso del diritto o alla violazione delle regole di correttezza e buona fede. In specie, lo strumento viene adoperato allorquando il diritto è esercitato al fine di conseguire scopi illeciti o fraudolenti, ovvero nei casi in cui il nocumento deriva dal venire contra factum proprium del titolare del diritto[12].

Attraverso l’exceptio doli generalis si attribuisce all’agente la possibilità di opporsi a un’altrui pretesa o eccezione, astrattamente fondata ma che, in realtà, costituisce espressione di uno scorretto esercizio di un diritto, volto al soddisfacimento di interessi non meritevoli di tutela per l’ordinamento giuridico[13].

La predetta azione ha rappresentato nel diritto romano lo strumento processuale utilizzato dal pretore al fine di correggere lo ius civile e tutelare interessi e rapporti che apparivano irrilevanti o in contrasto con lo stesso diritto[14].

L’exceptio doli generalis, quale strumento volto a limitare le altrui pretese e a non fornire tutela a diritti esercitati in modo abusivo, ha generato una casistica applicativa molto ampia e di particolare interesse[15]. La giurisprudenza ha affrontato in diverse occasioni la tematica dell’abuso del diritto, analizzando anche profili ulteriori e problematici[16], tra i quali merita specifica menzione la peculiare fattispecie di abuso del processo. Secondo consolidata giurisprudenza, infatti, il più ampio concetto di abuso del diritto ricomprende la nozione di abuso del processo, in quanto la richiesta dell’intervento dell’attività giudiziaria è considerata fase patologica del rapporto di cui ne rappresenta pur sempre parte integrante, con la conseguenza che anche in pendenza del giudizio debbono essere rispettate le regole di correttezza comportamentale[17].

 

2. La buona fede quale espressione dei principi generali dell’ordinamento giuridico.

L’abuso del diritto si presenta strettamente correlato ai principi di buona fede e di correttezza, così conformando il sistema alla concezione celsiana per cui il diritto era ars boni et equi e il suo oggetto avrebbe necessariamente dovuto tendere all’aequitas, ossia al raggiungimento della migliore soluzione possibile in concreto[18].

L’operatività della buona fede oggettiva, inteso come generale dovere di correttezza e di reciproca lealtà di condotta nei rapporti tra i soggetti, quale principio generale dell’ordinamento civile è ormai pacifica.

In dottrina si è messo in evidenza che la buona fede oggettiva trova il suo fondamento nel principio di solidarietà, contenuto nell’art. 1175 cod. civ. e costituisce espressione dello stesso valore costituzionale di cui all’art. 2 Cost.[19]

La giurisprudenza più recente, al riguardo, ha sostenuto che la violazione dell’obbligo di buona fede oggettiva esprime un generale principio di solidarietà sociale che, in ambito contrattuale, fa sorgere un dovere di reciproca lealtà di condotta che deve presiedere sia all’esecuzione del contratto, sia alla sua formazione e interpretazione, a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da norme di legge[20].

La Corte di cassazione ha affermato che la violazione dei predetti obblighi di correttezza e buona fede «costituisce di per sé inadempimento e genera responsabilità contrattuale, senza che sia necessario il proposito doloso di recare pregiudizio alla controparte»[21].

Appurata la natura generale della buona fede oggettiva, si deve concludere nel senso dell’applicazione del predetto principio nei confronti di tutti i soggetti operanti nell’ordinamento giuridico, tra cui anche gli enti di diritto pubblico, quanto meno ogniqualvolta essi operino avvalendosi degli strumenti di diritto privato.

A corroborare l’assunto secondo cui anche la pubblica amministrazione deve conformare la propria attività al principio generale di buona fede viene in supporto il dato normativo. Con l’introduzione dell’art. 1 bis della L. 7 agosto 1990, n. 241, si asserisce che la pubblica amministrazione, nell’adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato, salvo che la legge disponga diversamente.

Sul punto non sembrano ravvisarsi criticità in quanto l’amministrazione viene a trovarsi in una posizione tendenzialmente paritetica a quella del privato e pertanto è destinataria della normativa civilistica[22].

Diverse considerazioni vengono in rilievo nei casi in cui l’amministrazione esercita poteri di imperio. Il principio di imparzialità dell’attività amministrativa, nella sua accezione negativa, esprime il dovere dell’amministrazione di non discriminare la posizione di soggetti coinvolti dalla sua azione nel perseguimento degli interessi affidati alla sua cura[23]. Nell’esercizio delle sue funzioni, l’amministrazione deve effettuare una ponderazione tra gli interessi coinvolti nel procedimento amministrativo, in ossequio ai principi di proporzionalità e ragionevolezza, così da non escludere o comprimere eccessivamente gli interessi pubblici secondari ovvero individuali, contrapposti al generale interesse perseguito.

In altri termini, anche qualora l’amministrazione agisca iure imperii, la sua azione deve comportare la minor limitazione possibile agli interessi del privato, essendo contrario ai principi di imparzialità e di leale collaborazione qualsiasi atto che sacrifichi eccessivamente la sua sfera giuridica.

Tanto premesso in merito, è consentito fare applicazione delle esposte coordinate per ritenere ravvisabile una significativa analogia tra il modus operandi della pubblica amministrazione, che nell’esercizio di un’attività autoritativa non può prescindere dall’esistenza degli interessi privati coinvolti, e la regola immanente della leale collaborazione, che nel diritto privato ha trovato ampia applicazione.

Nei rapporti negoziali, ciascun contraente deve porre in essere un comportamento onesto e leale, diretto a proteggere l’altro contraente affinché questi possa ottenere l’utilità effettiva prevista nel contratto, fino al limite in cui il comportamento dovuto a vantaggio dell’altra parte non rappresenti un sensibile sacrificio del proprio interesse. Perciò si può immaginare che, secondo le varie circostanze, nascano obblighi accessori non espressamente previsti, come quello di avviso e di informazione per evitare un danno alla controparte e, più in generale, obblighi di collaborazione che non comportino un eccessivo sacrificio[24].

Ciò osservato, può concludersi che il comportamento tenuto dall’amministrazione, che nel corso del procedimento o nell’adozione di atti di natura non autoritativa ha dovuto necessariamente rapportarsi con il privato, deve essere improntato alla lealtà e alla salvaguardia della sfera giuridica del privato stesso.

 

3. Commento.

 

3.1. Premessa.

L’Adunanza Plenaria, con sentenza 7 dicembre 2016, n. 24, concernente la facoltà del Comune di Ayas (AO) di applicare le sanzioni pecuniarie a seguito del tardivo pagamento degli oneri relativi al contributo di costruzione, si è frattempo occupata della trasversale tematica dell’abuso del diritto.

 

3.2. La questione controversa.

Il caso sottoposto all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato attiene alla configurabilità, o meno, di una condotta integrante abuso del diritto da parte dell’amministrazione comunale.

Precisamente, l’Adunanza Plenaria ha dovuto chiarire se, nel caso di specie, l’Amministrazione comunale fosse legittimata a sanzionare il ritardo nel pagamento dei contributi di costruzione, una volta che la stessa non si fosse resa parte attiva nel richiedere al debitore principale ovvero al fideiussore, alle scadenze prestabilite, il pagamento delle rate scadute.

 

3.3. Il caso.

Il Comune di Ayas vantava un credito per il contributo di costruzione nei confronti del titolare di una concessione edilizia, assistito da garanzia fideiussoria. La suddetta obbligazione di garanzia era però priva della clausola del beneficium excussionis e l’ente locale aveva così proceduto a sanzionare il ritardo nel pagamento dei contributi di costruzione, senza essersi preventivamente resa parte attiva nel richiedere al debitore principale, ovvero al fideiussore, alle scadenze prestabilite, il pagamento delle rate scadute.

 

3.4. Gli orientamenti giurisprudenziali.

In tale contesto si è posta la questione relativa all’applicabilità, o meno, delle sanzioni previste dall’ordinamento per il ritardato versamento delle rate del “contributo di costruzione” (art. 16 D.P.R. 380/01) nel caso di omessa, preventiva escussione della relativa garanzia fideiussoria dal parte del Comune.

Il tema è oggetto di un annoso dibattito giurisprudenziale.

È, in particolare, controverso se, alla scadenza dei termini previsti per il pagamento rateale del contributo di costruzione, sia o meno individuabile un onere collaborativo in capo alla Amministrazione,desumibile dai principi generali in tema di buona fede e correttezza nei rapporti obbligatori di matrice civilistica ovvero dal principio di leale collaborazione proprio dei rapporti intersoggettivi di diritto pubblico, che si spinga fino al punto di ritenere che l’Amministrazione stessa sia obbligata alla sollecita escussione della garanzia fideiussoria, al fine di non aggravare la posizione del soggetto obbligato, tenuto altrimenti al pagamento – oltre che delle rate non corrisposte – delle sanzioni di legge per omesso o ritardato pagamento.

La sentenza in commento muove dall’analisi degli argomenti che depongono a favore e contro l’ammissione di un generale onere di collaborazione in capo all’amministrazione comunale con il debitore, nella finalizzazione del pagamento del contributo di costruzione.

In particolare, sul punto, si registrano tre distinti orientamenti maturati in seno alla giurisprudenza amministrativa.

 I.

Secondo un primo orientamento, nel caso di ritardato pagamento dei suddetti oneri, l’ente locale creditore è tenuto ad escutere la garanzia rilasciata per l’ipotesi di inadempimento dal privato, ciò al fine di evitare che quest’ultimo incorra nelle prescritte sanzioni. Solo in tal modo il comune conseguirebbe il pronto soddisfacimento del proprio credito salvaguardando, al contempo, l’interesse del debitore al contenimento delle somme da corrispondere a quel titolo[25].

L’ordinanza di rimessione dà conto dell’ esistenza di un risalente orientamento giurisprudenziale del Consiglio di Stato, radicatosi con la pronuncia n. 1001 del 1995 della V Sezione, secondo cui, allorché il credito vantato dal comune per il contributo di costruzione nei confronti del titolare di una concessione edilizia sia assistito da garanzia fideiussoria, una siffatta obbligazione di garanzia, priva di beneficium excussionis ed al di là della solidarietà tra debitore principale e fideiussore, esclude che il comune stesso possa far legittimamente ricorso alle sanzioni ai sensi dell’art. 3 l. 28 febbraio 1985 n. 47 (oggi art. 42 D.P.R. cit.), salvo che l’amministrazione creditrice abbia previamente escusso infruttuosamente il fideiussore.

Seguendo questa linea interpretativa, in epoca più recente[26] è stato affermato che, qualora il titolare di una concessione edilizia abbia stipulato, a garanzia del versamento dei contributi, una polizza fideiussoria, non possono essere applicate le sanzioni previste dall’art. 3 della l. 28 febbraio 1985, n. 47, per il caso di omesso o ritardato versamento dei contributi, ove l’amministrazione creditrice, violando i doveri di correttezza e buona fede, non si sia attivata per tempo nel chiedere al garante il pagamento delle somme dovute.

A sostegno di tale indirizzo è stato tra l’altro addotto il rilievo che l’ente locale avrebbe in tal caso uno specifico dovere, ai sensi degli artt. 1175, 1375 e 1227, comma 2, cod. civ., di richiedere quanto dovutogli al garante, con la conseguenza che, ove l’ente stesso ometta tale (ben esigibile) adempimento, violerebbe appunto l’obbligo per il creditore di non aggravare inutilmente la posizione del debitore.

La suddetta tesi è legittimata dallo specifico dovere in capo alla pubblica amministrazione, deducibile dagli artt. 1175, 1375 e 1227, comma 2, cod. civ., di escussione preventiva del fideiussore, anche nell’ipotesi in cui non sussista alcun accordo convenzionale in tal senso da parte dell’ente creditizio.

Attraverso l’immediata escussione del fideiussore, il comune avrebbe conseguito il pronto soddisfacimento del proprio credito, salvaguardando altresì l’interesse del debitore al contenimento delle somme da corrispondere. Omettendo tale adempimento, l’ente comunale avrebbe violato il divieto imposto al creditore di non aggravare inutilmente la posizione del debitore. Dalle predette osservazioni si ricava un ulteriore argomento a sostegno della “tesi privatistica” cioè quello secondo cui la previsione legislativa delle sanzioni per il mancato pagamento degli oneri concessori trova ragione nella necessità per l’amministrazione di disporre tempestivamente delle somme dovute dai privati, onde poter procedere alla realizzazione delle necessarie infrastrutture di urbanizzazione. In tale contesto, un ente locale che sceglie di non incamerare subito la fideiussione non persegue la finalità di interesse pubblico per cui la sanzione è predisposta (e cioè assicurare la tempestiva disponibilità delle somme per l’urbanizzazione), bensì altro scopo, ossia attendere che per effetto della scadenza dei termini di pagamento possano essere applicate le sanzioni con conseguente maggiorazione degli introiti.

Alla luce di tali considerazioni, la condotta tenuta dall’amministrazione comunale nel caso de quo potrebbe configurare un’ipotesi di abuso del diritto avendo il Comune esercitato i diritti che gli derivano dalla legge per realizzare uno scopo diverso da quello cui questi diritti sono preordinati[27].

 II.

Queste argomentazioni sono confutate, però, dalla giurisprudenza maggioritaria, che inquadra la fattispecie in esame in una prospettiva asseritamente pubblicistica, significativamente caratterizzata dalla presenza di strumenti – le sanzioni e la riscossione coattiva – tipici di un procedimento autoritativo e non paritetico.

L’orientamento prevalente afferma che la garanzia fideiussoria non si estende anche all’obbligazione sanzionatoria scaturente dal tardivo pagamento del contributo, poiché la fonte di quest’ultima non è data dal titolo ad edificare, ma dalla distinta ingiunzione conseguentemente emessa dall’amministrazione, la quale non è obbligata ma solo facoltizzata ad escutere la fideiussione prestata a copertura del pagamento degli oneri concessori[28].

In sostanza, la garanzia sussidiaria costituirebbe una garanzia personale prestata unicamente nell’interesse dell’amministrazione e finalizzata a evitare che il Comune possa irrimediabilmente perdere un’entrata di diritto pubblico. La fideiussione non avrebbe pertanto alcuna finalità di agevolazione dell’adempimento del privato, né attenuerebbe le conseguenze previste nel caso di un eventuale suo inadempimento[29]. Non sussisterebbe pertanto alcun obbligo giuridico di preventiva escussione del fideiussore.

Tale maggioritario orientamento[30] si sarebbe peraltro fatto carico di precisare che la soluzione non cambierebbe quand’anche si volessero applicare alla fattispecie i principi desumibili dal diritto delle obbligazioni tra privati; ed invero, in materia di obbligazione portable, quale appunto quella pecuniaria, e con termine di adempimento che esonera dalla costituzione in mora del debitore, il creditore è soltanto facultato ad attivare la solidale responsabilità del fideiussore, senza che possa invece ritenersi tenuto ad escutere la fideiussione piuttosto che attendere il pagamento – ancorché tardivo – dell’obbligato principale, salva l’esistenza di apposita clausola in tal senso accettata dal creditore stesso.

Sempre secondo tale orientamento, non sarebbe pertinente il richiamo all’art. 1227, comma 2, cod. civ. – che riguarda l’esonero di responsabilità per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza – in primo luogo perché l’obbligazione relativa alle sanzioni pecuniarie di cui all’art. 3 della legge 28 febbraio 1985 n. 47 non avrebbe natura risarcitoria, configurandosi come obbligazione legale, con finalità chiaramente e univocamente sanzionatorie.

In secondo luogo, in ragione del fatto che l’onere di diligenza che l’art. 1227, comma 2, fa gravare sul creditore non si estende alla sollecitudine nell’agire a tutela del proprio credito onde evitare maggiori danni, i quali sono viceversa da imputare esclusivamente alla condotta del debitore, tenuto al tempestivo adempimento della sua obbligazione (in tal senso, Corte cost. n. 308 del 1999 in tema di maggiorazione delle sanzioni amministrative per ritardato pagamento).

 III.

Secondo un ulteriore e più recente indirizzo giurisprudenziale[31], che potrebbe definirsi intermedio rispetto ai precedenti, sussisterebbe nelle fattispecie all’esame un preciso onere collaborativo a carico dell’ente locale, desumibile dal principio di leale collaborazione tra cittadino e comune e il cui inadempimento dovrebbe condurre, se non all’abdicazione dal potere sanzionatorio, quantomeno ad un suo calmieramento attraverso l’applicazione di una sanzione pecuniaria minima.

Nello specifico, il detto onere avrebbe un duplice fondamento normativo, discendendo dal dovere di origine civilistica di correttezza nell’attuazione del rapporto obbligatorio sancito dall’art. 1175 cod. civ., in forza del quale il creditore ha il dovere di cooperare con il debitore per il puntuale adempimento dell’obbligazione, e dal principio costituzionale di imparzialità dell’azione amministrativa (art. 97 Cost.). Secondo tale indirizzo, il ritardo con cui il comune agisce per riscuotere le somme a titolo di contributi dovuti, se non può impedire del tutto l’applicazione delle sanzioni, atteso il carattere automatico e legislativamente obbligatorio delle stesse, ne impedisce tuttavia l’applicazione nella misura massima.

In questa prospettiva, risulterebbe compatibile con l’interesse pubblico azionato e con i principi costituzionali che ispirano i rapporti tra cittadino e pubblica amministrazione che l’ente locale provveda alla riscossione della sanzione, ma soltanto nella misura minima, conseguente all’accertamento del ritardo protrattosi per i primi 120 giorni (ai sensi dell’ art. 42, comma 2, lett. a) del D.P.R. n. 380 del 2001).

Per converso, sarebbero inapplicabili le maggiori sanzioni previste per ritardi superiori nella misura in cui l’amministrazione, con un comportamento improntato a diligenza e buona fede avrebbe potuto evitare, a mezzo della tempestiva escussione della garanzia fideiussoria, di aggravare la posizione debitoria dell’intestatario del titolo edilizio.

 

3.5. La decisione dell’Adunanza plenaria.

Proprio in ragione dell’eterogeneità delle posizioni che si riscontrano sull’argomento nella giurisprudenza amministrativa, la V sezione del Consiglio di Stato, con ordinanza n. 2766 del 22 giugno 2016, ha rimesso la soluzione della questione interpretativa all’Adunanza plenaria.

Nella sentenza in commento il massimo Consesso ha ritenuto di aderire all’orientamento maggioritario.

L’ordinanza prende le mosse dalla disciplina legislativa vigente in materia.

L’art. 1 della legge n. 10 del 1977 ha introdotto nell’ordinamento il principio dell’onerosità del permesso di costruire, secondo cui ogni attività comportante trasformazione urbanistico-edilizia del territorio partecipa agli oneri da essa derivanti mediante la corresponsione, da parte del destinatario del titolo edilizio, di un contributo in danaro all’amministrazione.

Il suddetto contributo ha natura di prestazione patrimoniale imposta, di carattere non tributario, e rappresenta una compartecipazione del privato alla spesa pubblica occorrente alla realizzazione delle opere di urbanizzazione.

Il pagamento del contributo prescinde delle singole opere di urbanizzazione che devono in concreto eseguirsi e viene altresì determinato nel suo ammontare indipendentemente sia dall’utilità che il concessionario ritrae dal titolo edificatorio, sia dalle spese effettivamente occorrenti per realizzare dette opere.

Consegue che l’amministrazione è tenuta a eseguire le opere di urbanizzazione e a dotare degli indispensabili standard il comparto ove viene allocato il nuovo insediamento edilizio senza che rilevi se sia avvenuto il puntuale pagamento del contributo di costruzione da parte del soggetto che abbia ottenuto il titolo edilizio; per parte sua, questi è tenuto alla corresponsione del contributo senza poter pretendere la previa realizzazione delle opere di urbanizzazione.

Il principio dell’onerosità del permesso di costruire è enunciato dall’art. 11, comma 2, del D.P.R.. n. 380 del 2001 (recante il Testo unico in materia edilizia), il quale precisa, all’art. 16, comma 1, che il relativo contributo è costituito da due quote commisurate rispettivamente all’incidenza delle spese di urbanizzazione e al costo di costruzione dell’edificio assentito. Ai sensi dell’art. 16, comma 2, la quota di contributo relativa agli oneri di urbanizzazione è, di norma, salvo eventuale rateizzazione a richiesta dell’interessato e corrisposta all’atto del rilascio del permesso, mentre la quota relativa al costo di costruzione è corrisposta in corso d’opera, con le modalità e le garanzie stabilite dal comune, non oltre sessanta giorni dall’ultimazione della costruzione.

A completamento del quadro normativo applicabile alla fattispecie, ai sensi dell’art. 16, comma 3, D.P.R. cit., al momento della quantificazione e della rateizzazione del contributo di costruzione gli enti locali richiedano all’intestatario del titolo edilizio la prestazione di una garanzia, nei modi indicati dall’art. 2 della legge n. 348 del 1982. Nel caso di ritardato od omesso pagamento del contributo di costruzione, l’art. 42 del D.P.R. (il quale riproduce sostanzialmente le previsioni già contenute nell’art. 3 della legge n. 47 del 1985) prevede che siano applicate delle sanzioni pecuniarie, la cui determinazione in concreto è rimessa, sia pur nel rispetto di alcune soglie minime e massime fissate dalla legislazione nazionale, alla legislazione regionale.

Il sistema di pagamento del contributo è, quindi, caratterizzato dalla compresenza di una garanzia rilasciata per l’adempimento del debito principale e di un parallelo strumento sanzionatorio progressivo a carico del debitore che resti inadempiente, cosicché il Comune allo scadere del termine originario di pagamento della rata può alternativamente rivalersi sul fideiussore e ottenere il soddisfacimento del suo credito oppure insistere per riscuotere, anche in via coattiva, dal debitore principale il contributo da questi non pagato e le sanzioni commisurate al ritardo.

L’Adunanza plenaria ha ritenuto che, nell’ambito dei contrastanti orientamenti giurisprudenziali, sia senz’altro condivisibile l’orientamento maggioritario maturato in seno al Consiglio di Stato.

Il principale giudice amministrativo afferma che il quadro delle diposizioni normative applicabili al caso in esame non consente di individuare, a carico della Amministrazione comunale, un onere di collaborazione con il debitore nella finalizzazione del pagamento del contributo di costruzione tale per cui la sua violazione possa tradursi in una decadenza della stessa Amministrazione dal potere di sanzionare il ritardo nel pagamento.

L’amministrazione comunale conserva il potere-dovere di applicare le sanzioni pecuniarie per il ritardo nel pagamento dei contributi di costruzione al semplice verificarsi delle condizioni previste dalla legge.

Per pervenire a tale conclusione l’Adunanza plenaria muove le mosse dalla natura giuridica del contributo di costruzione dovuto dal soggetto che intraprende un’iniziativa edificatoria.

Il contributo di costruzione, quale prestazione patrimoniale imposta, funzionale a remunerare l’esecuzione di opere pubbliche, si colloca pacificamente nell’alveo dei rapporti di diritto pubblico. Ne è ulteriore riprova il fatto che il suo mancato pagamento legittima l’amministrazione all’applicazione di sanzioni pecuniarie crescenti in rapporto all’entità del ritardo (art. 42 D.P.R.) e, in caso di persistenza dell’inadempimento, alla riscossione del contributo e delle sanzioni secondo le norme vigenti in materia di riscossione coattiva delle entrate (art. 43 D.P.R.).

L’esclusione del dovere collaborativo viene ricavato, innanzi tutto, da valutazioni che si fondano sull’applicazione propria della disciplina di diritto pubblico. 

Qualificando l’istituto del contributo di costruzione dovuto dal soggetto che intraprende un’iniziativa edificatoria in termini di prestazione patrimoniale imposta, i giudici amministrativi finiscono per attribuirgli un carattere prettamente pubblicistico.

I contributi di costruzione costituiscono una compartecipazione comunale all’incremento di valore della proprietà immobiliare del costruttore e non rappresentano un tributo in senso proprio[32].

5.5 L’Adunanza plenaria richiama sia la disposizione (art. 16 D.P.R. cit.) che prevede il meccanismo della prestazione della garanzia per il caso di pagamento rateale del contributo di costruzione, sia la disposizione (art 42 D.P.R. cit.) che disciplina le sanzioni per l’omesso o ritardato pagamento.

Orbene, nessuna di tali disposizioni consentirebbe di enucleare elementi letterali da cui desumere, anche indirettamente, la sussistenza di un onere collaborativo, o soltanto sollecitatorio dell’adempimento, a carico della amministrazione creditrice del contributo, una volta che siano venuti a scadenza i termini per il pagamento.
In particolare, l’art. 16, comma 2, del D.P.R. n. 380 del 2001, la cui rubrica reca contributo di costruzione prevede che il Comune possa rateizzare, su richiesta dell’interessato, la quota di contributo relativa agli oneri di urbanizzazione mentre, per ciò che attiene alla quota di contributo relativa al costo di costruzione, la norma (art. 16, comma 3) dispone che la stessa sia corrisposta in corso d’opera, con le modalità e le garanzie previste dal Comune.

Pertanto, la fonte normativa che attribuisce al Comune la facoltà di richiedere garanzia all’intestatario di un titolo edilizio cui sia stato accordato il beneficio della rateizzazione del contributo di costruzione, nulla prevede riguardo all’ipotizzato dovere dell’amministrazione di attivarsi al più presto per la escussione della garanzia fideiussoria.

Ancor più significativo in tal senso il dettato letterale della disposizione che regola l’applicazione delle sanzioni.

L’art.42 del D.P.R. n. 380 del 2001 ( che riproduce il contenuto dell’art. 47 della legge 28 febbraio 1985 n. 47) prevede che «le regioni determinano le sanzioni per il ritardato o mancato versamento del contributo di costruzione in misura non inferiore a quanto previsto nel presente articolo e non superiore al doppio. Dispone più nel dettaglio la norma che il mancato versamento, nei termini stabiliti, del contributo di costruzione di cui all’articolo 16 comporta:

a) l’aumento del contributo in misura pari al 10 per cento qualora il versamento del contributo sia effettuato nei successivi centoventi giorni;

b) l’aumento del contributo in misura pari al 20 per cento quando, superato il termine di cui alla lettera a), il ritardo si protrae non oltre i successivi sessanta giorni;
c) l’aumento del contributo in misura pari al 40 per cento quando, superato il termine di cui alla lettera b), il ritardo si protrae non oltre i successivi sessanta giorni.
Recita ancora la disposizione che le misure di cui alle lettere precedenti non si cumulano e che, nel caso di pagamento rateizzato, le norme di cui al secondo comma si applicano ai ritardi nei pagamenti delle singole rate.

Infine, la norma stabilisce che, decorso inutilmente il termine di cui alla lettera c) del comma 2, il comune provvede alla riscossione coattiva del complessivo credito nei modi previsti dall’articolo 43. E che, in mancanza di leggi regionali che determinino la misura delle sanzioni di cui al presente articolo, queste saranno applicate nelle misure indicate nel comma 2».

Di contenuto sostanzialmente analogo la legge regionale della Valle d’Aosta 6 aprile 1998 n. 11 (adottata sulla base della legge 28 febbraio 1985, n. 47 art. 3), applicabile alla fattispecie di causa, che tuttavia ha graduato diversamente (in misura più consistente) gli aumenti del contributo dovuti in relazione al ritardo nel pagamento, determinandoli nella misura minima del 20% (per il caso di ritardo contenuto entro il termine di 120 gg dalla scadenza del primo termine), nella misura intermedia del 40% (per il caso di ritardo contenuto entro gli ulteriori 60 gg) fino a giungere al 100% del contributo (per ritardi ancora superiori).
Orbene, anche dalla portata letterale delle disposizioni che integrano il regime sanzionatorio, si evince come l’applicazione dell’aumento di contributo sia correlata al fatto in sé del suo mancato o non puntuale pagamento da parte dell’obbligato, senza distinzione alcuna, sul piano delle conseguenze del meccanismo sanzionatorio, tra l’ipotesi dell’obbligazione del solo debitore e quella in cui sia stata prestata una garanzia fideiussoria accessoria per il pagamento del suddetto contributo.

E soprattutto, ciò che appare davvero dirimente, è che la norma sanzionatoria (nazionale o regionale) non riconnette rilevanza alcuna ai comportamenti delle parti diverse dal debitore principale (e cioè della amministrazione e del fideiussore) antecedenti al fatto-inadempimento. Ciò che unicamente rileva, nella logica della norma sanzionatoria, è il semplice mancato pagamento della rata di contributo imputabile al debitore principale.
L’argomento esegetico-letterale deporrebbe pertanto per l’insussistenza di un dovere di “soccorso” dell’amministrazione comunale nei confronti del beneficiario di un titolo edilizio in ritardo nel pagamento del contributo di costruzione. Per contro, sempre sulla base del tenore letterale delle richiamate disposizioni, l’amministrazione è tenuta, trattandosi di attività vincolata prevista direttamente dalla fonte normativa di rango primario (che trova applicazione ove la regione non abbia diversamente articolato l’entità delle sanzioni nel rispetto dei parametri fissati dalla legge nazionale), all’applicazione delle sanzioni alla scadenza dei termini di pagamento, senza potersi sottrarre al potere-dovere di aumentare, in funzione sanzionatoria, l’importo del contributo dovuto.

Da quanto appena detto discende che risulta sfornita di base normativa ogni opzione interpretativa che correli il potere sanzionatorio del comune al previo esercizio dell’onere di sollecitazione del pagamento presso il debitore principale ovvero presso il fideiussore.

In tale sistema, l’amministrazione comunale, allo scadere del termine originario di pagamento della rata, ha solo la facoltà di escutere immediatamente il fideiussore onde ottenere il soddisfacimento del suo credito; ma ove ciò non accada, l’amministrazione avrà comunque il dovere/potere di sanzionare il ritardo nel pagamento con la maggiorazione del contributo a percentuali crescenti all’aumentare del ritardo. Peraltro, solo alla scadenza di tutti termini fissati al debitore per l’adempimento (e quindi dopo aver applicato le massime maggiorazioni di legge), l’Amministrazione avrà il potere di agire nelle forme della riscossione coattiva del credito nei confronti del debitore principale (art. 43 D.P.R. n. 380 del 2001).

La stretta osservanza del principio di legalità, imposta dalla rigorosa applicazione del canone interpretativo-letterale delle disposizioni richiamate, comporta pertanto che vada ritenuta legittima l’applicazione delle sanzioni per il ritardo, a prescindere da richieste di pagamento che siano potute venire all’interessato o al suo fideiussore dalla amministrazione concedente il titolo edilizio. In definitiva, la facoltà per l’amministrazione di escutere direttamente il fideiussore (nei casi, quali quello di specie, in cui non è stato convenuto il beneficium excussionis) non può tradursi, in difetto di espressa previsione normativa, in una decadenza dell’amministrazione dal potere di sanzionare il pagamento tardivo dell’obbligato, essendo tale potere incondizionatamente previsto (allo stato attuale della legislazione) dall’art. 42 D.P.R. cit. e dall’art.72 della legge 6 aprile 1998 n.11 della Regione Valle d’Aosta.

Il prelievo del contributo viene individuato e applicato dalla legge, in modo che non possano esservi arbitrii nella loro riscossione da parte degli enti preposti.

A suffragare la tesi del carattere pubblicistico del contributo viene in rilievo la considerazione che la pubblica amministrazione non è libera nel determinare se irrogare o meno la sanzione. Il mancato pagamento legittima l’amministrazione all’applicazione di sanzioni pecuniarie crescenti in rapporto all’entità del ritardo e, in caso di persistenza dell’inadempimento, alla riscossione del contributo e delle sanzioni secondo le norme vigenti in materia di riscossione coattiva delle entrate.

Si precisa che il potere amministrativo è subordinato al principio di legalità. Una volta attribuito il potere, comunque, la pubblica amministrazione non può esercitarlo indiscriminatamente, dovendo pur sempre perseguire un interesse generale.

Evidente è quindi come gli spazi di scelta dell’amministrazione incontrino limiti ben maggiori rispetto a quelli posti all’autonomia privata.

Il legislatore ben potrebbe non lasciare alcun margine di apprezzamento all’amministrazione, come avviene quando la legge stabilisce ex ante tutti gli elementi da acquisire e da valutare nell’adozione della decisione amministrativa, lasciando all’autorità pubblica solo il potere di verificare la sussistenza in concreto dei presupposti di esercizio dell’attività[33]

L’attività della pubblica amministrazione è in tal senso vincolata per cui il soggetto pubblico non ha la possibilità di sottrarsi all’esercizio del potere/dovere determinato e imposto ex lege come avviene, nel caso in esame.

Tali conclusioni risultano coerenti con l’affermazione secondo cui il principio di legalità che connota l’azione dei pubblici poteri va letto in una duplice declinazione: in senso proprio, secondo cui non può darsi esercizio legittimo di potere senza che sussista una specifica fonte legislativa legittimante; ma anche nel senso che, ove detta fonte legislativa sussista e, come nella fattispecie oggetto di causa, l’esercizio del potere (sanzionatorio) sia vincolato al verificarsi di taluni presupposti fattuali, l’amministrazione non potrebbe, dopo aver riscontrato la ricorrenza delle condizioni previste dalla legge, sottrarsi legittimamente al suo esercizio.

L’Adunanza plenaria non condivide pertanto la tesi secondo la quale al Comune è preclusa la possibilità di irrogare le sanzioni in caso di asserita violazione dei principi di leale collaborazione, perché trattasi pacificamente di un’attività vincolata la cui previsione discende direttamente dalla legge e non ammette alcun margine di apprezzamento in capo alla pubblica amministrazione.

Così opinando può concludersi anche nel senso di non ritenere condivisibili le argomentazioni sostenute dalla recente tesi intermedia per cui l’ente comunale avrebbe dovuto irrogare la sanzione contenuta nel minimo edittale senza la possibilità di avanzare pretese relative alla loro maggiorazione legate al ritardo.

Difatti, il solo verificarsi delle condizioni legali richieste, connesse alla durata del ritardo dell’inadempimento, giustificano e anzi, rendono doverosa, da parte del comune la comminazione del più gravoso importo sanzionatorio.

Ciò posto, l’Adunanza plenaria afferma che gli argomenti utilizzati dalla giurisprudenza minoritaria del Consiglio di Stato risultano tuttavia non utili a ricostruire la sussistenza del predetto onere collaborativo a carico della Amministrazione anche sulla base dei principi desumibili dal diritto civile.

Ed invero, anche nei rapporti interprivati, il mancato pagamento, alla scadenza del termine convenuto, di un’obbligazione portable da eseguirsi al domicilio del creditore (nel cui genus rientra pacificamente l’obbligazione pecuniaria ai sensi dell’art. 1182, comma 2, cod. civ.) determina ipso facto l’inadempimento del debitore, il quale è costituito in mora senza necessità di intimazione o richiesta fatta per iscritto (art. 1219 cod. civ.).

Non è pertanto esigibile, neanche secondo i canoni del diritto civile, un onere collaborativo a carico dell’amministrazione creditrice tale per cui la stessa possa essere giuridicamente tenuta a sollecitare il pagamento del credito alla scadenza del termine ovvero ad escutere tempestivamente (e necessariamente) l’obbligazione fideiussoria prestata in suo favore.

E, d’altra parte, anche secondo i canoni civilistici, il creditore non è onerato, e ancor meno obbligato, ad escutere preventivamente il fideiussore prima di agire nei confronti del debitore (salvo che non si rinvenga una clausola contrattuale in tal senso).

Il principale plesso amministrativo osserva, infatti, che nel diritto civile non sussiste alcun obbligo in capo al creditore di escutere direttamente il fideiussore, salvo nei casi in cui sia stato convenuto il beneficium excussionis.

Ai sensi dell’art. 1944 cod. civ., fideiussore e debitore principale sono obbligati in solido; il creditore può chiedere il pagamento all’uno o all’altro, senza alcun obbligo di rivolgersi prima al debitore principale, tranne sia convenuto diversamente[34].

Da quanto appena detto discende che risulta sfornita di base normativa ogni opzione interpretativa che correli il potere sanzionatorio del comune al previo esercizio dell’onere di sollecitazione del pagamento presso il debitore principale ovvero presso il fideiussore.

In tale sistema, l’amministrazione comunale, allo scadere del termine originario di pagamento della rata, ha solo la facoltà di escutere immediatamente il fideiussore onde ottenere il soddisfacimento del suo credito; ma ove ciò non accada, l’amministrazione avrà comunque il dovere-potere di sanzionare il ritardo nel pagamento con la maggiorazione del contributo a percentuali crescenti all’aumentare del ritardo.

Per tutte le ragioni enunciate l’Adunanza plenaria esclude che un siffatto onere sussista e parimenti esclude che la sua ipotizzata genesi possa ricondursi al dovere di correttezza (art. 1175 cod. civ.) cui devono ispirare il comportamento il debitore e il creditore nello svolgimento del rapporto obbligatorio.

Anche il principio relativo all’esecuzione del contratto secondo buona fede (art. 1375 cod. civ.) non risulterebbe correttamente evocato nella fattispecie posto che, se il debitore è inadempiente alla scadenza del termine fissato per il pagamento e se, sul piano civilistico, egli subisce tutte le conseguenze negative derivanti dalla mora ex re a prescindere dall’eventuale inerzia del creditore, non sarebbe giuridicamente corretto assimilare tale semplice inerzia della amministrazione ad un atteggiamento addirittura contrario a buona fede, in quanto funzionale all’arricchimento derivante dalle maggiorazioni del contributo dovuto in applicazione delle sanzioni.

Anche il richiamo al capoverso dell’art. 1227 cod. civ., a giudizio dell’Adunanza plenaria, è fuorviante e non vale a costituire una valida base giuridica per l’individuazione di un onere collaborativo della amministrazione comunale nell’immediata attuazione del rapporto obbligatorio onde non aggravare la posizione del debitore.

Ed invero viene qui facile osservare come la maggiorazione del contributo di costruzione in ragione del ritardo nel pagamento prevista dal richiamato art. 42 D.P.R. n. 380 del 2001 (e dalle analoghe disposizioni normative precedenti) non ha natura risarcitoria o corrispettiva, bensì di sanzione pecuniaria nascente al momento in cui diviene esigibile la sanzione principale.
Orbene, l’onere di diligenza che la appena richiamata disposizione del codice civile, ispirata a principi di solidarietà sociale, fa gravare sul creditore si inscrive nella ben distinta fattispecie del concorso del fatto colposo del creditore nella causazione di un danno.

Peraltro, l’Adunanza plenaria osserva come il principio costituzionale del buon andamento, cardine nel diritto amministrativo, sarebbe necessariamente compromesso attese le difficoltà oggettive cui andrebbero incontro i comuni (specie quelli di grandi dimensioni) nell’attivare tempestivamente le attività propedeutiche alla sollecitazione dei pagamenti dei contributi di costruzione alla scadenza delle singole rate.

In definitiva, per tutte le suesposte ragioni, l’Adunanza plenaria conclude con l’affermazione del seguente principio di diritto secondo la quale “un’amministrazione comunale ha il pieno potere di applicare, nei confronti dell’intestatario di un titolo edilizio, la sanzione pecuniaria prescritta dalla legge per il caso di ritardo ovvero di omesso pagamento degli oneri relativi al contributo di costruzione anche ove, in caso di pagamento dilazionato di detto contributo, abbia omesso di escutere la garanzia fideiussoria in esito alla infruttuosa scadenza dei singoli ratei di pagamento ovvero abbia comunque omesso di svolgere attività sollecitatoria del pagamento presso il debitore principale”.

 

4. Conclusioni.

La conclusione alla quale è giunta l’Adunanza plenaria si presta ad alcune osservazioni critiche.

Il principio della buona fede contrattuale, intesa come reciproca lealtà di condotta e fondamentale canone di correttezza, obbliga ciascuna delle parti del rapporto ad agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, nei limiti di un apprezzabile sacrificio, così da garantire il giusto equilibrio tra interessi opposti[35].

Secondo la dottrina maggioritaria, il comportamento di lealtà e buona fede deve essere adottato a prescindere dagli specifichi obblighi contrattuali e di quanto espressamente stabilito dalle singole norme o dal dovere extracontrattuale che si sostanzia nel principio del neminem laedere[36].

La buona fede non impone un comportamento avente contenuto prestabilito, ma, diversamente, richiede condotte diverse, adattate alle concrete circostanze.

Evidente è che l’indeterminatezza che ne caratterizza il contenuto faccia della buona fede una clausola generale[37].

L’obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale[38].

La Suprema Corte, con la sentenza n. 20106 del 2009 ha sottolineato come la mancanza della buona fede in senso oggettivo, espressamente richiesta dagli artt. 1175 e 1375 c.c. nella formazione e nell’esecuzione del contratto, possa rivelare un abuso del diritto, quando tenda a conseguire fini diversi da quelli per i quali il diritto stesso è stato conferito.

Tutto ciò premesso, si osserva come pacificamente la normativa civilistica escluda il dovere in capo al creditore di escutere prima il fideiussore, salva la pattuizione del beneficium excussionis, sia di sollecitare il debitore prima della scadenza del termine utile al pagamento di una obbligazione pecuniaria e liquida.

Da questa considerazione l’Adunanza plenaria trae argomenti favorevoli alla tesi dell’impossibilità di assimilare la semplice inerzia della amministrazione a un atteggiamento contrario a buona fede e abusivo del diritto.

A ben vedere, però, non pare sufficiente la mera considerazione che la legge non preveda alcun obbligo in capo al creditore, ed anzi lo dispensa, per poter escludere la configurabilità di una fattispecie abusiva. Presupposto dell’abuso del diritto è infatti proprio l’esercizio di un diritto legittimo e attraverso le modalità formalmente indicate dalla legge, che però persegue sostanzialmente uno scopo immeritevole di tutela e non previsto dall’ordinamento giuridico[39].

La Corte di cassazione ha individuato gli elementi costitutivi dell’abuso del diritto nella titolarità di un diritto in capo a un soggetto; nella possibilità che l’esercizio di quel diritto possa effettuarsi secondo modalità non predeterminate dal legislatore; nel fatto che il concreto esercizio del diritto, pur muovendosi all’interno della cornice formale prevista dalla legge, si svolga secondo modalità censurabili da un punto di vista giuridico o extragiuridico; nella circostanza che, per l’effetto della modalità di esercizio, si manifesti una sproporzione tra il beneficio del titolare del diritto e “l’alterazione” della situazione giuridica che subisce controparte[40].

Alla luce del quadro normativo di diritto privato, non v’è dubbio alcuno sull’esistenza di un diritto in capo all’amministrazione comunale di riscuotere il contributo di costruzione da parte debitrice.

Altrettanto pacifico è che il comune abbia agito nel rispetto delle disposizioni di legge in materia, ma al contempo si osserva che la sua condotta parrebbe essere reprensibile dal punto di vista, quantomeno, extragiuridico. Invero, di fatto, il comportamento dell’amministrazione ha provocato un beneficio a vantaggio dello stesso comune, consistente nell’arricchimento derivante dalle maggiorazioni del contributo dovuto in applicazione delle sanzioni, e, al contempo, una situazione pregiudizievole a discapito della controparte: situazione di svantaggio che si sarebbe potuta evitare attraverso l’esercizio di una semplice condotta informativa-sollecitatoria da parte dell’ente territoriale o mediante la preventiva escussione del fideiussore.

Si può verosimilmente sostenere che, se il comune avesse prontamente dato comunicazione al debitore principale o al fideiussore della prossimità delle scadenze per la corresponsione dei contributi di costruzione o avesse escusso subito il garante, la società non avrebbe subito alcun depauperamento delle proprie sostanze patrimoniali ulteriore rispetto al pagamento dell’imposizione di compartecipazione alla spesa pubblica.

L’onere informativo e quello di escussione preventiva del fideiussore sussistenti in capo al comune non si ricavano da alcuna disposizione di legge. Al contrario, da una lettura sistematica delle normative di settore – come si è detto – si deduce che il creditore sia esonerato da qualsiasi obbligo di agire, per cui la sua inerzia non dovrebbe considerarsi reprensibile.

Se non che, si osserva, non potrebbe escludersi del tutto l’espletamento di un’attività di soccorso in capo al creditore, in ossequio al principio della buona fede contrattuale, che impone una condotta collaborativa anche a carico di colui che ricopre una posizione contrattuale di vantaggio, col sol limite del sacrificio apprezzabile.

La buona fede permette di estendere gli obblighi gravanti sulle parti anche a quegli adempimenti non dedotti direttamente nel regolamento contrattuale né individuati specificamente dalla legge, ma che sono funzionali e necessari a equilibrare interessi contrastanti.

Dunque nessun rilievo dovrebbe assumere la circostanza per cui il diritto privato non impone al creditore né la preventiva escussione del fideiussore, né di costituire in mora il debitore poiché il comportamento delle parti prescinde da obblighi positivizzati (cristallizzati in una legge ovvero in un contratto), ma dovrebbe tendere all’aequitas, cioè al conseguimento della più conveniente soluzione attuabile in concreto, senza che sia loro richiesto uno sforzo eccessivo.

Sebbene non vi sia alcun dovere imperativo in capo all’amministrazione, se la stessa avesse agito informando il debitore della scadenza del rateo e delle relative conseguenze, da una parte avrebbe probabilmente conseguito tempestivamente la somma di denaro dovuta, senza però ottenere la maggior somma quale conseguenza dell’irrogazione delle sanzioni per il ritardo, dall’altra il debitore non avrebbe subito gli esiti pregiudizievoli dell’applicazione delle suddette sanzioni.

Attraverso l’immediata escussione del fideiussore o il mero sollecitamento del debitore principale al pagamento, prima della scadenza del rateo, il comune avrebbe ottenuto il pronto soddisfacimento del proprio credito, tutelando altresì l’interesse del debitore al contenimento delle somme da corrispondere. L’inerzia dell’ente comunale, secondo questo ragionamento, lungi dall’essere un comportamento neutro e irrilevante, sarebbe invece lesivo del divieto imposto al creditore di non aggravare inutilmente la posizione del debitore.

Così atteggiandosi, l’amministrazione territoriale avrebbe esercitato in maniera abusiva un diritto attribuitogli dalla legge, perseguendo una finalità distorta e differente rispetto a quella predeterminata dall’ordinamento, ovverosia quella di conseguire una maggior entrata proporzionata al trascorrere del tempo durante il quale, senza alcun avvertimento, la controparte si è resa inadempiente.

Ed invero, si potrebbe sostenere che, sebbene il creditore, secondo le disposizioni civili, non debba costituire in mora il debitore allorquando l’oggetto del negozio sia un’obbligazione portable, operando la mora e gli effetti che da essa derivano in via automatica, a ben vedere dovrebbe comunque ritenersi contrario al principio della buona fede oggettiva la condotta del creditore che deliberatamente e consapevolmente ritarda la domanda giudiziale allo scopo di percepire in seguito una maggior somma derivante dalla maturazione degli interessi moratori per un tempo maggiore.

Anche l’argomentazione secondo la quale il principio costituzionale del buon andamento sarebbe compromesso attese le difficoltà oggettive cui andrebbero incontro i comuni, specie quelli di grandi dimensioni, nell’attivare tempestivamente le attività propedeutiche alla sollecitazione dei pagamenti dei contributi di costruzione alla scadenza delle singole rate non pare una tesi pregevole, quantomeno nel caso di specie.

Se astrattamente l’osservazione dell’Adunanza plenaria è pienamente condivisibile, si rende pur sempre necessaria una verifica caso per caso, al fine di accertare se in concreto (e non in astratto) i criteri (rectius principi)di efficienza, efficacia ed economicità siano compromessi o meno.

Pare dubbia la lesione del principio del buon andamento dell’azione amministrativa nella vicenda de qua, attese le ridotte dimensioni del comune di Ayass, ed in specie della sua frazione Champoluc, considerando anche il non eccessivo sacrificio che l’amministrazione comunale avrebbe potuto sopportare mediante una mera sollecitazione al pagamento, senza attendere, quanto meno, la massimizzazione dell’importo sanzionatorio.  

Dovrebbe essere la pubblica amministrazione, in sede di contenzioso giudiziale, ad eccepire l’aggravio eccessivo alla quale sarebbe sottoposta nell’effettuare le comunicazioni necessarie ai contraenti, senza che operi sulla questione alcun genere di presunzione.

Ed ancora, con riferimento al non opportuno richiamo – secondo l’Adunanza plenaria – al disposto di cui all’art. 1227 cod. civ., si osserva che sebbene, correttamente, il giudice amministrativo riconduce la normativa alla fattispecie del concorso del fatto colposo del creditore nella causazione di un danno, non può escludersi un’applicazione analogica della disciplina anche a ipotesi di natura sanzionatoria.

Difatti, anche nella vicenda in esame, se l’amministrazione comunale si fosse tempestivamente e diligentemente attivata, seppur non avendo alcun obbligo imperativo in tal senso, avrebbe presumibilmente evitato di subire un pregiudizio o comunque, probabilmente, lo avrebbe subito in maniera minore, procedendo alla puntuale riscossione del contributo di costruzione, e rendendo così superflua l’irrogazione delle sanzioni.

Ciò posto, l’Adunanza plenaria non si è limitata a confutare le argomentazioni della tesi privatistica, ma ha anche – e preventivamente – inquadrato la vicenda assoggettandola alla disciplina pubblicistica.

Questo non pare essere un’argomentazione decisiva ad escludere tout court un obbligo di lealtà e cooperazione in capo all’amministrazione.

Innanzi tutto si osserva che nella logica generale del sistema costituzionale – che include in sé sia il diritto privato sia quello pubblico – il principio di solidarietà, positivizzato nell’art. 2 Cost., e dal quale si ricava il divieto generale di abuso del diritto, acquista un valore fortemente espansivo, tale da poter essere declinato, in forme diverse, sia nei rapporti tra singoli o tra gruppi all’interno della cosiddetta società civile, sia nei rapporti tra i cittadini e il potere pubblico[41], sia infine nei rapporti tra i poteri dello Stato.

In questa prospettiva, il principio della buona fede contrattuale si atteggia a condotta di leale collaborazione tra pubblica amministrazione e privato cittadino.

A maggior ragione, si potrebbe sostenere che, in virtù del ruolo di premazia e di tutrici e promotrici della cura dell’interesse pubblico, le amministrazioni sono tenute a una condotta maggiormente cauta e orientata anche alla protezione degli interessi dei singoli – in ossequio ai principi di imparzialità e non discriminazione –, in maniera ancor più pregnante rispetto agli obblighi ai quali è tenuto il privato, seppur sempre nel rispetto dei principi cardine della materia amministrativa.

Qualora la pubblica amministrazione abbia esercitato un diritto ad essa spettante, ma in maniera distorta rispetto alla finalità stabilita dalla legge e al fine di perseguire un risultato non meritevole di tutela per l’ordinamento giuridico, il privato leso nella sua sfera di interesse ha a disposizione lo strumento “paralizzante” dell’actio doli generalis. Si tratta di un istituto avente in prevalenza natura difensiva poiché determina la disapplicazione delle norme che vengono invocate in maniera illecita con la conseguente reiezione della domanda[42].

Il presupposto dell’illegittimità della richiesta della pubblica amministrazione di riscuotere la somma di denaro a titolo di sanzione si traduce in un diniego da parte del privato di ottemperare alla richiesta di pagamento.

Come condivisibilmente affermato dall’Adunanza plenaria, la richiesta e la successiva e relativa riscossione sono obbligazioni imposte dalla legge, alle quali pertanto l’ente territoriale non può sottrarsi. Diversamente opinando, si renderebbe autore della violazione del principio generale di legalità, che impone all’amministrazione destinataria di un precetto legislativo di osservarlo.

Qualora pertanto si realizzino le condizioni che le disposizioni di legge stabiliscono per l’irrogazione delle sanzioni, come è accaduto nel caso di specie, l’amministrazione non può sottrarsi dal compimento dell’attività sanzionatoria, in quanto vincolata.

Tuttavia il destinatario della sanzione in sede giudiziale sarebbe legittimato a opporre l’azione atta a neutralizzare le pretese dell’amministrazione.

Come evidenziato da parte della dottrina, per proporre l’exceptio doli generalis non deve necessariamente ricorrere in capo al titolare del diritto una finalità fraudolenta o dolosa, ma è sufficiente sia posta in essere una condotta sleale[43]. Il carattere di slealtà sembra ravvisabile nella scelta dell’ente locale di non incassare immediatamente la fideiussione, attendendo che, per effetto della scadenza dei termini di pagamento, possa farsi luogo all’applicazione delle sanzioni, con conseguente maggiorazione delle entrate.

Perseguendo siffatto risultato, l’ente comunale esercita un diritto che gli è proprio in maniera distorta rispetto alla finalità propria del diritto. La previsione legislativa delle sanzioni per il mancato pagamento degli oneri concessori trova, infatti, ragione nella necessità per l’amministrazione di disporre tempestivamente delle somme dovute dai privati, onde poter procedere alla realizzazione delle necessarie infrastrutture di urbanizzazione.

In tale contesto, un ente locale che decide di non incamerare subito la fideiussione non persegue la finalità di interesse pubblico per cui la sanzione è predisposta.

Nonostante l’intervento interpretativo dell’Adunanza plenaria, lungi dal ritenersi il dibattito sopito, alcune questioni paiono ancora non aver trovato una soluzione definitiva.

 

 

 

 

 


 


[1]  Dottoranda di ricerca in autonomie locali, servizi pubblici e diritti presso l’Università del Piemonte Orientale.

 

[2] La cultura giuridica degli anni Trenta riteneva che l’abuso del diritto, più che essere una nozione giuridica, fosse un concetto di natura etico-morale, con la conseguenza che colui che ne abusava veniva considerato meritevole di biasimo, ma non di sanzione giuridica. Tale contesto culturale, unitamente alla preoccupazione per la certezza del diritto, attesa la grande discrezionalità che una clausola generale, come quella dell’abuso del diritto, avrebbe attribuito al giudice, impedì che venisse trasfusa nella stesura definitiva del codice civile italiano del 1942 quella norma del progetto preliminare che proclamava, in termini generali, che nessuno può esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per il quale il diritto medesimo gli è stato riconosciuto. Il codice italiano si differenziava dalla legislazione di altri ordinamenti, in particolare tedesco e svizzero, contenenti, per contro, una norma repressiva dell’abuso del diritto.

 

[3] F. Caringella – G. De Marzo, Manuale di diritto civile, Vol I persone, famiglia, successioni e proprietà, Giuffrè editore, Milano, 2007, p. 7.

 

[4] U. Natoli, Note preliminari a una teoria dell’abuso del diritto nell’ordinamento giuridico italiani, in Riv. Trim. dir. Proc. Civ., 1958, n. 37,

 

[5] Si veda Corte di Cassazione civile, sentenza 5 marzo 2009, n. 5348 secondo la quale «Il principio di buona fede è un autonomo dovere giuridico espressione di un generale principio di solidarietà sociale – la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica, proprio per il suo rapporto sinergico con il dovere inderogabile di solidarietà di cui all’art. 2 della Cost., che a quella clausola generale attribuisce forza normativa e ricchezza di contenuti, applicabile sia in ambito contrattuale sia in quello extracontrattuale». E, ancora si richiama Corte di Cassazione civile, sez. I, 22 gennaio 2009, n. 1618 secondo la quale «il principio di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto, espressione del dovere di solidarietà, fondato sull’art. 2 Cost., impone a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra e costituisce un dovere giuridico autonomo a carico delle parti contrattuali, a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da norme di legge; ne consegue che la sua violazione costituisce di per sè inadempimento e può comportare l’obbligo di risarcire il danno che ne sia derivato (Cass. 6.8.2008, n. 21250; Cass. 27.10.2006, n. 23273)».

 

[6] Tale ultima disposizione codifica in via generale l’istituto dell’abuso del diritto nella misura in cui preclude al cliente di conseguire vantaggi fiscali che non presentano un’apprezzabile ragione economica, se non quella di conseguire un vantaggio fiscale. La norma non è innovativa, ma ricognitiva del sistema. La portata generale del principio di divieto di abuso del diritto nel rapporto tra contribuente e fisco trova conferma anche nel generale divieto di abuso del diritto elaborato dal diritto comunitario in materia fiscale, dalla sentenza della Corte di Giustizia, Halifax, Causa C-255/02 del 21 febbraio 2006 ove si è chiarito che va considerata fiscalmente abusiva un’operazione che non abbia alcuna giustificazione economica diversa dal conseguimento, in via esclusiva, di un vantaggio fiscale. La Corte di Lussemburgo ha poi precisato, con la sentenza C-425 del 21 febbraio 2008, che l’abuso può ricorrere anche quando lo scopo di conseguire un vantaggio fiscale sia essenziale, e cioè non esclusivo. Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, sempre in materia fiscale, con le sentenze gemelle nn. 30055, 30056 e 30057 del 23 dicembre 2008 hanno riconosciuto l’esistenza di un generale principio antielusivo.

 

[7] F. Caringella – V. Carbone, I principi del diritto civile, Dike editore, Roma, 2016, p. 3. 

 

[8] Possono rinvenirsi espresse indicazioni di fattispecie abusive come gli artt. 330 cod. civ., relativo all’abuso della potestà genitoriale; 1015 cod. civ., relativo all’abuso del diritto di usufrutto; 2793 cod. civ., relativo all’abuso della cosa da parte del creditore pignoratizio; nonché disposizioni sanzionatrici di alcuni atti, la cui ratio è ravvisabile nella esigenza di repressione di un abuso del diritto. Si pensi agli artt. 1059, comma secondo, cod. civ. in tema di servitù; all’art. 1993, comma secondo, cod. civ. in tema di titoli di credito, cui vanno aggiunti gli artt. 21 l. camb. e 65 l. ass.

 

[9] F. Caringella, Studi di Diritto civile, II, Giuffrè editore, Milano, 2005, p. 1984.

 

[10] L’azione era già presente nel diritto romano ed era utilizzata al fine di risolvere lo iato tra lo ius civile e l’aequitas, ovvero tra il diritto formale e quello pretorio. Con l’exceptio si consentiva di paralizzare, respingendone le domande, le azioni di chi teneva un comportamento autorizzato in base al diritto civile, ma con finalità sostanzialmente fraudolente.

 

[11] Si deve dare atto, però, che la legge prevede il danno punitivo di cui all’art. 96, terzo comma, c.p.c., nel caso di lite temeraria, ovvero quando l’attore agisce o il convenuto resiste in mala fede.

 

[12] Per contra factum proprium si intende il comportamento di chi esercita il diritto dopo aver tenuto una condotta univoca che abbia ingenerato l’affidamento della controparte in ordine alla sua volontà di non esercitarlo.

 

[13] G. Meruzzi, L’exceptio doli dal diritto civile al commerciale, Cedam, Padova, 2005, p. 429.

 

[14] A. Torrente, Eccezione di dolo, in Enc. del diritto, XIV, Milano, 1965, p. 218.

 

[15] In tema di exceptio doli si citano Cass. Civ., sez. II, 20 marzo 2009, n. 6896, Cass. Civ. sez I, 11 febbraio 2008, n. 3179, Cass. Civ., sez. III, 8 aprile 2014, n. 8152.

 

[16] In tema di abuso del diritto e tutela del terzo si veda Cass. Civ. sez. III, 11 maggio 2009, n. 10741; in tema di pagamento con assegno e buona fede si vedano: Cass. Civ. Sezioni Unite, 18 dicembre 2007, n. 26617; Cass. Civ., Sezioni Unite, 4 giugno 2010 , n. 13658. In tema di concessione abusiva del credito, si ricordano: Cass. Civ. Sezioni Unite, 28 marzo 2006, n. 7030. Per ciò che riguarda la violazione degli obblighi informativi si vedano: Cass. Civ. 8 aprile 2011, n. 8034, Cass. Civ. Sezioni Unite 19 dicembre 2007, n. 26724. In tema di abuso del diritto e contratti tipici si vedano: Cass. Civ., sez. III, 18 settembre 2009, n. 20106, Cass. Civ., sez. III, 31 maggio 2010, n. 13208; Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 23 febbraio 2012, n. 969. Sulla possibilità o meno di utilizzare l’istituto comunitario dell’avvalimento ex art. 49 del codice dei contratti pubblici facendo riferimento ai requisiti posseduti da una impresa extracomunitaria.

 

[17] In tema di abuso del diritto e processo, si citano: Cass. Civ., Sezioni Unite, 15 novembre 2007, n. 23726; Cass. Civ. sez. I, 3 maggio 2010, n. 10634; Cass. Civ., sez. III, 22 dicembre 2011, n. 28286.

La quinta sezione del Consiglio di Stato ha affermato, con la sentenza 7 febbraio 2012, n. 656, che integra un’ipotesi di abuso del diritto la condotta della parte che, dopo aver incardinato la controversia innanzi al giudice amministrativo con l’atto introduttivo di primo grado, ne contesta la relativa giurisdizione nel ricorso in appello. Si veda anche: Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 20 febbraio 2012, n. 904, sui presupposti per l’adozione delle ordinanze contingibili ed urgenti e sul soggetto legittimato passivo a resistere all’azione annullatoria e a proporre appello in caso di soccombenza in primo grado.

 

[18] A. Scialoja – G. Branca – F. Galgano, Commentario del Codice Civile e codici collegati, a cura di G. De Nova, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea a cura di P. Gianniti, I diritti fondamentali nell’Unione Europea, la carta di Nizza dopo il Trattato di Lisbona, Zanichelli, Roma 2013, p. 1515.

 

[19] S. Rodotà, Le fonti di integrazione del contratto, Giuffrè editore, Milano, 1969, p. 115.

 

[20] Corte di Cassazione civile, sez. III, sentenza 18 settembre 2009, n. 20106.

 

[21] Corte di cassazione civile., sez. II, sentenza 29 agosto 2011, n. 17716.

 

[22] Corte Costituzionale, sentenze nn. 53 e 43 del 2011.

 

[23] E. Casetta, Manuale di diritto amministrativo, Giuffrè Editore, Milano, 2009, p. 48.

 

[24] A. Checchini – G. Amadio, Lezioni di diritto privato, nona edizione, Giappichelli editore, Torino,  2014, p. 216.

 

[25] Si veda Consiglio di Stato, sez. V, sentenza n. 1001 del 1995.

 

[26] Si richiamano: Consiglio di Stato, sez. V , n. 32 del 2003; Consiglio di Stato, sez. V, n. 571 del 2003; Consiglio di Stato, sez. I, parere 17 maggio 2013 n. 11663.

 

[27] F. Galgano, Il dovere di buona fede e l’abuso del diritto, Relazione svolta all’incontro di studio tenutosi a Tivoli dal 6 al 10 giugno 1994, p. 30.

 

[28] Consiglio di Stato, Sez. IV, 17 febbraio 2014, n. 731.

 

[29] Consiglio di Stato, IV Sez., n. 5818 del 2012.

 

[30] Consiglio di Stato, sez. IV, n. 4320 del 2012; Consiglio di Stato, sez. VI, n. 5884 del 2014; Consiglio di Stato, sez. V, n. 777 del 2016.

 

[31] Consiglio di Stato, sez. V, sentenza n. 5734 del 21 novembre 2014 e Consiglio di Stato, n. 5287 del 2015.

 

[32] L’art. 23 Cost. detta una disciplina generale degli obblighi e dei doveri specifici di prestazione personale o patrimoniale, prevedendo una riserva di legge che, per di più, è considerata relativa. L’applicazione della disposizione de quo tende a confondersi con le prestazioni tributarie, perché i tributi, disciplinati dalla norma “speciale” dell’art. 53 Cost., costituiscono la categoria di gran lunga principale delle “prestazioni” disciplinate, in via “generale” dall’art. 23 Cost. Di conseguenza, quando le prestazioni sono di natura tributaria, la riserva di legge dell’art. 23 si “rafforza” per i “contenuti” (il principio di proporzionalità e di progressività) dell’art. 53 (R. Bin – G. Petruzzella, Diritto pubblico, Giappichelli editore, Torino, 2016, p. 496).

 

[33] F. Caringella – S. Mazzamuto – G. Moridelli, Manuale di diritto amministrativo, VIII edizione, Dike Giuridica editrice, Barletta, 2015, p. 1152.

 

[34] P. Trimarchi, Istituzioni di diritto privato, diciottesima edizione, Giuffrè editore, Milano 2009, p. 443.

 

[35] V. Roppo, Il contratto, Giuffrè editore, Milano, 2001, pp. 497 ss.

 

[36] Si veda Corte di Cassazione, sentenza 11 gennaio 2006, n. 264.

 

[37] Si registrano opinioni divergenti; la categoria generale dell’abuso del diritto è stata contestata da autorevole dottrina. C. Salvi, Abuso del diritto (Diritto civile), in Enc. giur. Treccani, I, Roma, 1998, p. 5; R. Sacco, L’esercizio e l’abuso del diritto, in G. Alpa, M. Graziadei, A. Guarnieri, U. Mattei, P.G. Monateri, R. Sacco (a cura di), Il diritto soggettivo, Trattato di diritto civile, Utet, Torino 2001, p. 373. A. Gambaro, Abuso del diritto (Diritto comparato e straniero), in Enc. giur. Treccani, I, Roma 1998, p. 2.

 

[38] In questo senso, tra le altre, si cita Cassazione Civile, 15 febbraio 2017, n. 3462.

 

[39] La Corte di Cassazione Civile, sez. III, con sentenza 18 settembre 2009, n. 20106 ha affermato che: «si ha abuso del diritto quando il titolare di un diritto soggettivo, pur in assenza di divieti formali, lo eserciti con modalità non necessarie ed irrispettose del dovere di correttezza e buona fede, causando uno sproporzionato ed ingiustificato sacrificio della controparte contrattuale, ed al fine di conseguire risultati diversi ed ulteriori rispetto a quelli per i quali quei poteri o facoltà furono attribuiti. Ricorrendo tali presupposti, è consentito al giudice di merito sindacare e dichiarare inefficaci gli atti compiuti in violazione del divieto di abuso del diritto, oppure condannare colui il quale ha abusato del proprio diritto al risarcimento del danno in favore della controparte contrattuale, a prescindere dall’esistenza di una specifica volontà di nuocere, senza che ciò costituisca una ingerenza nelle scelte economiche dell’individuo o dell’imprenditore, giacché ciò che è censurato in tal caso non è l’atto di autonomia negoziale, ma l’abuso di esso».

 

[40] Corte di Cassazione civile, sez. III, sentenza 18 settembre 2009, n. 20106.

 

[41] L’unità della categoria, al di là della distinzione tra diritto privato e diritto pubblico, era già stata magistralmente affermata da S. Romano, Diritto e morale, in Frammenti di un dizionario giuridico, Giuffrè editore, Milano, 1947, pp. 71 ss.

 

[42] F. Caringella – G. De Marzo, Manuale di diritto civile, II, Le obbligazioni, Dike, Milano, 2006, p. 88.

 

[43] In tal senso G. Meruzzi, Il fondamento sistematico dell’exceptio doli e gli obiter dicta della Cassazione, in Contr. e impr., 2007, p. 1379.