Le menzioni geografiche nella disciplina dei vini: osservazioni a margine della vicenda Cannubi

Edoardo Ferrero[1]

Sommario: 1. Introduzione. 2. Il quadro normativo di riferimento. 3. Il giudizio di primo grado. 4. Il giudizio di appello. 5. Osservazioni critiche.

 
1. Le menzioni geografiche rappresentano un punto delicato della disciplina vitivinicola, a causa soprattutto della rilevanza degli interessi sottesi alla materia, che mai come oggi, in un momento di massima espansione del mercato di settore, sono apparsi così polarizzati. L’argomento[2], infatti, seppure in apparenza specifico e di dettaglio, involge questioni di più ampio respiro, quali gli strumenti di regolazione della concorrenza, le modalità di tutela dei consumatori e la promozione dei prodotti di qualità. In questa prospettiva, la materia delle indicazioni geografiche presenta una spiccata connotazione interdisciplinare, dal momento che attraversa varie aree di studio, dal diritto agrario al diritto commerciale (e precisamente industriale), dal diritto dell’unione europea al diritto amministrativo tradizionale. Con specifico riguardo a quest’ultimo profilo, va segnalato come la questione delle menzioni geografiche sia in grado di interferire sull’esercizio dei poteri amministrativi degli enti locali, ed in particolare su quelli relativi alla pianificazione territoriale ed all’individuazione dei toponimi storici delle aree geografiche interessate dalla produzione del vino. Ne costituisce un esempio paradigmatico la vicenda, conclusasi da poco, dei Cannubi, ovvero quelle colline piemontesi situate nel territorio del Comune di Barolo, tradizionalmente note e rinomate per l’elevata qualità del vino che viene prodotto. Negli ultimi anni, questa zona vinicola è stata al centro di un lungo contenzioso, instaurato nel 2011 innanzi al TAR Lazio e definito dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con sentenza n. 23395 del 17 novembre 2016. La vertenza concerneva la legittimità delle modifiche introdotte al disciplinare di produzione dei vini ad origine controllata e garantita “Barolo”, in base alle quali si estendeva l’utilizzo della menzione geografica aggiuntiva “Cannubi” anche a determinate zone limitrofe, che nulla avevano a che vedere con il nucleo storico delle colline Cannubi se non la vicinanza geografica e la parziale comunanza del nome[3].
 
 
2. Prima di passare ad esaminare, nello specifico, la fattispecie piemontese, pare utile ripercorrere, sia pur brevemente, la normativa italiana in materia di ambiti territoriali, che tende, almeno nelle intenzioni, a riprodurre la più fortunata esperienza dei cru[4] francesi.  

La disciplina vigente si rinviene nella legge 12 dicembre 2016, n. 238, e precisamente nell’art. 29[5], collocato nel titolo III dedicato alla “tutela delle denominazioni di origine, delle indicazioni geografiche e delle menzioni tradizionali[6]

Tale norma distingue tra “sottozone” e “indicazioni geografiche aggiuntive”, definendo le prime come aree ristrette “aventi specifiche caratteristiche ambientali o tradizionalmente note, designate con specifico nome geografico o storico-geografico, anche con rilevanza amministrativa, purché espressamente previste e più rigidamente disciplinate nel disciplinare di produzione e purché vengano associate alla relativa denominazione di origine” (comma 2). 

Le indicazioni geografiche aggiuntive sono invece sottoposte ad un regime meno stringente, posto che “possono essere utilizzati per contraddistinguere i vini derivanti da zone di produzione, anche comprendenti le aree a DOCG o DOC, designate con il nome geografico relativo o comunque indicativo della zona, in conformità della normativa nazionale e dell’Unione europea sui vini a IGP” (comma 3). 

Entrambe le menzioni geografiche condividono la funzione di indicare in maniera più precisa il luogo di produzione, consentendo così una più precisa qualificazione del luogo, con la differenza che le sottozone, al contrario delle indicazioni geografiche aggiuntive, esprimono anche una diversa modalità produttiva del vino, in conformità al disciplinare di produzione, così da determinare una più precisa caratterizzazione del prodotto. 

L’impiego di entrambe le menzioni geografiche trova un limite generale nel decreto legislativo 10 febbraio 2005, n. 30 (Codice della proprietà industriale), il cui art. 30[7] stabilisce che “è vietato, quando sia idoneo ad ingannare il pubblico o quando comporti uno sfruttamento indebito della reputazione della denominazione protetta, l’uso di indicazioni geografiche e di denominazioni di origine, nonché l’uso di qualsiasi mezzo nella designazione o presentazione di un prodotto che indichino o suggeriscano che il prodotto stesso proviene da una località diversa dal vero luogo di origine, oppure che il prodotto presenta le qualità che sono proprie dei prodotti che provengono da una località designata da un’indicazione geografica”. 

Altra prescrizione che rileva è quella contenuta nell’art. 92 del Regolamento UE 17 dicembre 2013, n. 1308[8], che, in materia di denominazioni di origine ed indicazioni geografiche, pone l’accento sugli interessi dei consumatori e dei produttori nonché sul buon funzionamento del mercato comune dei prodotti interessati e sulla promozione della produzione di prodotti di qualità. 

Fin da questa sommaria ricostruzione del quadro normativo è agevole rilevare come l’utilizzo delle menzioni geografiche, siano queste delle sottozone oppure delle indicazioni geografiche aggiuntive, comporti delle conseguenze sul regime di libera concorrenza tra gli operatori del settore – potendo alcuni ritrarre un vantaggio competitivo dallo sfruttamento di un simile asset – nonché sulla tutela dei consumatori, i quali potrebbero risultare sviati circa l’effettivo livello di qualità del prodotto.

 

 

3.Ricostruito il contesto normativo di riferimento, è ora possibile passare ad esaminare il percorso fattuale e giudiziale della fattispecie in esame.

Con decreto del 30 settembre 2010[9], il Mipaaf modificava il disciplinare di produzione dei vini a denominazione di origine controllata e garantita Barolo ed il relativo Allegato delle menzioni geografiche, prevedendo la possibilità di utilizzare la dicitura “Cannubi” anche con riferimento a zone ulteriori rispetto a quella storica[10]. Tale decisione comportava un evidente vantaggio economico per i produttori di vino ricadenti nelle altre zone della collina Cannubi, i quali si trovavano così nella posizione di poter beneficiare della prestigiosa menzione geografica, prima di quel momento riservata ad un ambito circoscritto di produttori. Questi ultimi, dopo aver vanamente espresso le proprie controdeduzioni alla richiesta presentata dal Consorzio locale[11] ed al parere favorevole del Comitato nazionale[12], impugnavano il decreto ministeriale dinanzi al TAR Lazio, chiedendone l’annullamento. I ricorrenti, partendo dal presupposto che l’intera normativa nazionale ed europea è volta ad evitare qualunque possibilità di confusione nei consumatori nell’individuazione dei prodotti, censuravano l’irragionevolezza della decisione di estendere la menzione “Cannubi” a zone aventi caratteristiche differenti di qualità e tipicità del luogo (per esposizione al sole, composizione del terreno, etc.). Inoltre, tale decisione si poneva in contrasto con l’assegnazione, da parte del Comune[13], della denominazione “Cannubi” soltanto ad una zona di produzione e non all’intera collina. Si costituiva in qualità di controinteressata una delle imprese concorrenti beneficiarie della modifica al disciplinare, la quale evidenziava come l’utilizzo del nome geografico “Muscatel”, in via autonoma o in associazione con la sottozona “Cannubi”, potesse ingenerare un rischio di confusione nei consumatori, che in tale nome avrebbero potuto identificare una forma dialettale di un’altra varietà di vite, ovvero il “moscato”. Il TAR Lazio accoglieva il primo motivo, ritenendo che il punto centrale della questione fosse l’esistenza di “una sostanziale differenza tra il Barolo prodotto nell’area “Cannubi” tout court e quello prodotto con uve cresciute sulla stessa collina, ma nelle diverse sottozone[14]. Ad avviso del TAR Lazio, dunque, tra le zone della stessa collina vi era una differenza qualitativa, sia in termini storico-culturali sia in termini sensoriali[15]. Nessun rilievo, invece, veniva dato alle argomentazioni della controinteressata in relazione alla potenziale confusone dei consumatori. A tale riguardo, dopo aver ricordato che la menzione geografica aggiuntiva ha lo scopo di esaltare maggiormente il legame tra prodotto e territorio, indicando in etichetta informazioni più chiare per il consumatore, il TAR Lazio evidenziava come il problema riguardasse soltanto una delle sottozone in discorso e quindi avrebbe potuto essere risolto modificando il nome della singola sottozona, senza stravolgere l’intero impianto.

 

4.Contro questa sentenza ricorreva l’Amministrazione ministeriale, al cui appello principale si aggiungeva quello incidentale dell’impresa concorrente già beneficiaria della modifica al disciplinare.

In secondo grado, la questione veniva decisa diversamente in ragione di una diversa qualificazione giuridica della menzione geografica “Cannubi”. Se infatti il TAR Lazio era ricorso al concetto di sottozona, il Consiglio di Stato mutava direzione, richiamandosi alla diversa categoria delle indicazioni geografiche aggiuntive. La differenza tra questi concetti, già scolpita dalla normativa, è stata rimarcata dallo stesso Collegio, per cui “le sottozone, oltre ad essere caratterizzate da determinate peculiarità, devono essere espressamente previste nel disciplinare di produzione e devono essere più rigidamente disciplinate”, mentre le indicazioni geografiche aggiuntive possono essere utilizzate “per contraddistinguere i vini derivanti da determinate aree di produzione anche in assenza di una particolare e più rigida regolamentazione contenuta nel disciplinare”. Da tale diversa qualificazione, motivata in base al fatto che “il disciplinare di produzione del vino barolo, oggetto del D.M. impugnato, non prevede differenze fra le produzioni nelle diverse aree in questione”, discendevano quindi diversi “effetti legali”. In assenza di una differenza qualitativa del vino prodotto in tale aree, si riteneva non giustificato il vantaggio, riconosciuto ai soli produttori della zona “Cannubi tout court”, di fregiarsi, in via esclusiva, di tale menzione geografica, a maggiore ragione alla luce del rischio di confusione tra i consumatori provocato dalla “forte somiglianza fonetica con “Muscadelle”, una varietà di uva bianca coltivata nelle regioni francesi Bordeaux e Bergerac, per la produzione di vini bianchi, sia dolci che secchi” e con alcuni sinonimi delle varietà di vino moscato[16]. A tale proposito veniva invocato il concetto di “gran massa di consumatori”, ovvero quelle persone che, contrariamente alla nicchia di esperti, avrebbero potuto essere indotti a ritenere che la bottiglia di barolo recante l’indicazione “Cannubi Muscatel” potesse avere caratteristiche assimilabili alla categoria dei vini moscati. In riforma della sentenza di primo grado, veniva quindi giudicato esente da vizi l’esercizio del potere discrezionale del Mipaaf, avendo dato luogo ad un corretto bilanciamento di poteri, atteso che “il vantaggio per i produttori (e per i consumatori) determinato dall’indicazione geografica aggiuntiva non poteva, infatti, causare anche un danno (per alcuni produttori e per gran parte dei consumatori) per la possibile confusione determinata dall’utilizzo di un nome che avrebbe potuto ingenerare confusione[17].

 

5.Come anticipato, la sentenza di appello veniva impugnata per eccesso di potere giurisdizionale presso la Corte di Cassazione, le cui Sezioni Unite hanno poi dichiarato l’inammissibilità del ricorso.

Ad oggi, quindi, la vicenda “Cannubi” può dirsi conclusa, perlomeno da un punto di vista processuale interno. Ancora aperte rimangono, però, alcune delle questioni sottese all’intera vicenda, dal momento che il nuovo Testo Unico – la legge 12 dicembre 2016, n. 238 – non ha innovato la materia ma si è limitato a riprodurre la disciplina previgente. Del resto appare complicato, oltre che inverosimile, evitare in via generale ed astratta ogni potenziale conflitto tra le ragioni dei produttori e quelle dei consumatori, che spesso – come il caso in esame dimostra – sono sostenute dai produttori concorrenti al fine di evitare pregiudizi e quindi ampliare la propria rete di vendite. L’interesse alla tutela dei consumatori, peraltro, risulta astrattamente compatibile con quello relativo alla promozione dei prodotti alimentari di qualità, ovvero con i vini che presentano caratteristiche tipiche dovute primariamente o esclusivamente ad un particolare ambiente geografico comprensivo di fattori materiali ed umani. Un contrasto tra questi interessi può talvolta sorgere per effetto dell’iniziativa di imprese concorrenti del settore, le quali, facendosi portatrici degli interessi dei consumatori, tendono ad ottenere il medesimo vantaggio competitivo. La sede elettiva per la rilevazione, misurazione e composizione di questi interessi è il procedimento amministrativo, all’interno del quale possono partecipare ed esprimere il proprio punto di vista non solo gli organi tecnici ma anche e soprattutto gli operatori privati, diretti destinatari delle decisioni adottate nell’ambito di queste complesse procedure. Sul punto, la vicenda in esame – al di là dell’esito del giudizio – denota una carenza di fondo nell’istruttoria condotta nel procedimento di approvazione delle modifiche al disciplinare, posto che, in quella sede, pare che non sia stata attribuita rilevanza alle esigenze della “gran massa dei consumatori”, che invece sono risultate decisive nel corso del secondo grado di giudizio. Questo concetto, altamente generico ed indeterminato, viene richiamato con sempre maggiore frequenza allorquando si discute di qualità dei prodotti agroalimentari, in conformità agli orientamenti giurisprudenziali della Corte di Giustizia. Nel caso di specie, nondimeno, si discuteva di un aspetto specifico di un prodotto di asseverata qualità, le cui conseguenze si rivelano apprezzabili su un piano strettamente concorrenziale. In questo contesto, il richiamo al concetto di “gran massa dei consumatori” rischia di dequotare il carattere essenzialmente concorrenziale della qualità di un prodotto alimentare[18] a favore dell’esigenza, certamente avvertita dall’ ordinamento ma non in misura così incisiva, di fornire informazioni inequivocabili sulle caratteristiche del prodotto medesimo. Da una visione meno paternalistica della categoria dei consumatori, invece, potrebbe derivare uno stimolo per la concorrenza ed al contempo un’occasione di valorizzazione del territorio, attraverso la salvaguardia delle sue specificità agroalimentari e, al contempo, storico-culturali.


 


[1] Dottorando di ricerca in Diritti e Istituzioni (XXX ciclo) presso l’Università degli Studi di Torino.

 

[2] Per uno sguardo d’insieme della materia si rimanda a L. Costato, P. Borghi, S. Rizzioli, V. Paganizza, L. Salvi, Compendio di diritto alimentare, Padova, 2015, p. 164.

 

[3] Cannubi Boschis, Cannubi Muscatel, Cannubi San Lorenzo e Cannubi Valletta.

 

[4] Il concetto di cru – che deriva dal verbo “croitre” (crescere) – porta all’identificazione con un luogo specifico di produzione, nel quale alcuni fattori, naturali e non, conferiscono al vino caratteristiche uniche e specifiche, diverse da quelle presenti in altri vini prodotti in luoghi anche vicini.

 

[5] Rubricato, per l’appunto, “Ambiti territoriali”.

 

[6] Si tratta pressoché della medesima disciplina presente, prima, nella legge 10 febbraio 1992, n. 164 e, poi, nel decreto legislativo 8 aprile 2010, n. 61, emanato in attuazione dell’art. 15 della legge 7 luglio 2009, n. 88, con la differenza che, per l’identificazione di una menzione geografica aggiuntiva ai sensi degli artt. 4 e 7 della legge n. 164/1992, non occorreva che questa corrispondesse ad una circoscrizione amministrativa predefinita, risultando purtuttavia necessaria la sussistenza di un preciso collegamento con il territorio di riferimento.

 

[7] Nella versione modificata dall’art. 16, comma 1 del decreto legislativo 13 agosto 2010, n. 131.

 

[8] Tale norma ha preso il posto dell’abrogato art. 118-bis del Regolamento CE 22 ottobre 2007, n. 1234.

 

[9] Pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 241 del 14 ottobre 2010.

 

[10] Per l’elenco delle zone, comunque ricomprese nella medesima collina, si rimanda alla nota 2.

 

[11] Consorzio tutela Barolo Barbaresco Alba Langhe e Roero.

 

[12] Comitato nazionale per la tutela e la valorizzazione delle denominazioni di origine e delle indicazioni geografiche tipiche dei vini.

 

[13] Che, nel corso del primo grado di giudizio, ha spiegato un intervento ad adiuvandum.

 

[14] A tale riguardo era stato chiarito che “ove tali sottozone dovessero presentare caratteristiche del tutto analoghe, quanto ad esposizione al sole, composizione del terreno ed altri elementi rilevanti ai fini della vinificazione, non vi sarebbe alcuna ragione per ritenere illegittima la possibilità di avvalersi della menzione geografica aggiuntiva Cannubi tout court, mentre ove le caratteristiche fossero, almeno in parte diverse, l’apposizione di tale menzione aggiuntiva potrebbe rivelarsi idonea a violare la ratio della normativa comunitaria e nazionale in materia suggerendo al consumatore che il prodotto abbia una qualità ed una provenienza diversa dal vero luogo d’origine”.

 

[15] Si ravvisava “un effetto ‘suolo’ su uve e vini”, ritenuto comunque non significativo giacché attenuato dagli altri fattori in gioco.

 

[16] Sinonimi che erano stati inclusi nel regolamento CEE 3201/90: “moscatello”, “muscat” e “muskateller”.

 

[17] Sempre nell’ambito di una proporzionata comparazione degli interessi, il Consiglio di Stato ha poi proposto una serie di alternative, come ad esempio quella di prevedere per chi “non produce, in prevalenza, nell’area Cannubi in senso stretto, di utilizzare una denominazione più generica (come Collina dei Cannubi)”.

 

[18] Soprattutto per quel che riguarda la qualità ““immateriale” ed “evocativa” che non si esaurisce in requisiti tecnici”, come osservato da F. Albisinni, Marchi e indicazioni geografiche: una coesistenza difficile, in Rivista di diritto agrario, 2015, IV, p. 464.