L’autonomia finanziaria degli enti territoriali. Riflessioni alla vigilia dei quindici anni dalla riforma del Titolo V della Costituzione

Giorgia Casalone[1]

  

1. Introduzione.

Il decentramento fiscale consiste nell’assegnazione agli enti decentrati di responsabilità di spesa e di autonomia finanziaria con due obiettivi principali: da un lato rispondere ad esigenze (e quindi a domande) dei territori potenzialmente eterogenee che, quindi, non troverebbero piena soddisfazione in una fornitura uniforme definita a livello centrale; dall’altro, consentire ai cittadini un più efficace controllo delle azioni dei decisori pubblici, le cui scelte a livello locale sono più visibili rispetto a quelle compiute a livello centrale. La corrispondenza tra responsabilità di spesa degli enti decentrati ed autonomia nel reperimento delle risorse necessarie per finanziarla è di cruciale importanza per delineare un sistema equilibrato di finanza locale. In Italia, tuttavia, a fronte di un progressivo ampliamento delle responsabilità di spesa di Regioni ed enti locali, si è registrato negli ultimi decenni un rafforzamento solo parziale ed altalenante della loro capacità di reperire autonomamente risorse sul territorio.

Il presente saggio analizza la questione dell’autonomia di entrata degli enti territoriali, in particolare Regioni e Comuni[2], a quasi tre lustri dalla riforma del Titolo V della Costituzione che, nel nuovo articolo 119, ha sancito esplicitamente il principio dell’autonomia finanziaria di tali enti. Dopo un breve inquadramento del tema del decentramento fiscale dal punto di vista della teoria dell’economia pubblica, si presenterà una sintesi dei principali provvedimenti legislativi successivi alla riforma costituzionale del 2001 e si valuteranno tali provvedimenti attraverso l’analisi degli indici sintetici di autonomia di entrata elaborati sulla base dei dati di bilancio degli enti.

 

2. Cenni alla letteratura teorica sul decentramento.

Secondo quello che viene denominato “approccio di prima generazione” all’economia pubblica della decentralizzazione (Oates, 1999; Vo, 2010), i pilastri del decentramento fiscale sono quattro[3]. In primo luogo, dati i tre ambiti di intervento pubblico rappresentati dalla ricerca dell’allocazione efficiente delle risorse, dalla stabilizzazione economica e dalla redistribuzione del reddito (Musgrave, 1959), in un sistema di governo multi-livello gli enti decentrati dovrebbero occuparsi unicamente del primo, mentre gli altri due dovrebbero rimanere di competenza esclusiva dei governi centrali. In secondo luogo, la fornitura efficiente dei beni e servizi collettivi locali (cosiddetti beni pubblici “impuri”) dovrebbe avvenire sulla base del cosiddetto principio di equivalenza fiscale (Olson, 1969), ovvero perseguendo la coincidenza tra coloro che sopportano i costi di un bene/servizio collettivo e coloro che ne beneficiano; la diretta conseguenza di tale prescrizione teorica è che i “confini” territoriali entro cui avviene la fornitura dei beni e servizi collettivi locali dovrebbero essere differenziati, in funzione della tipologia di bene/servizio offerto. In terzo luogo, la mobilità territoriale dei cittadini (votanti e contribuenti) tra i diversi enti, rappresenta una forte spinta al raggiungimento dell’efficiente allocazione delle risorse (Tiebout, 1956), dal momento che essi rivelano attraverso i loro spostamenti le proprie preferenze per i diversi mix disponibili di tassazione e offerta di servizi locali. Cruciale al fine di innescare questo processo di mobilità territoriale virtuosa è che vi sia una sufficiente differenziazione dei livelli dei servizi offerti a livello locale (quarto pilastro); tale differenziazione deriva dal fatto che ciascun ente locale sarebbe in grado, secondo il cosiddetto “teorema della decentralizzazione” (Oates, 1972) di determinare il livello ottimale (Pareto-efficiente) dei servizi locali offerti nel proprio territorio, obiettivo che non può essere raggiunto dal governo centrale che deve garantire uniformità dei servizi a livello nazionale. Sintetizzando, secondo i contributi seminali della teoria della federalismo fiscale, un sistema di governo decentrato disegnato in modo corretto riuscirebbe a produrre in condizioni di efficienza beni e servizi collettivi locali in quantità e qualità corrispondenti ai gusti e alle preferenze dei cittadini residenti nei vari territori, riuscendo a far coincidere, attraverso un’opportuna organizzazione degli enti territoriali, soggetti beneficiari e soggetti finanziatori.

Per ciò che concerne l’organizzazione della tassazione su più livelli di governo, in un contributo tra i più influenti della teoria della tassazione, Musgrave (1983) afferma che le imposte attribuite agli enti locali dovrebbero soddisfare tre criteri: essere poco (per nulla) sensibili ai cicli economici; essere applicate su basi imponibili poco mobili; colpire basi imponibili distribuite in modo non diseguale sul territorio. Secondo Musgrave, la stabilità del gettito sarebbe necessaria al fine garantire continuità di fornitura pubblica ad enti che hanno dimensioni fiscali ridotte e scarsa autonomia tributaria; la non mobilità della base imponibile eviterebbe ovvi fenomeni di concorrenza fiscale tra enti locali; l’applicazione a basi imponibili distribuite in modo relativamente uniforme, infine, garantirebbe, almeno dal punto di vista teorico, una maggiore uniformità nei servizi locali. Se le prescrizioni teoriche risultano intuitive e facilmente condivisibili, appare del tutto evidente come il soddisfacimento contemporaneo dei tre criteri sopra delineati risulti alquanto complesso. Solo per citare un esempio, le imposte sugli immobili che soddisfano primi due criteri e che, per questo motivo, sono centrali nei sistema di finanziamento degli enti locali, non necessariamente soddisfano il criterio di uniformità della base imponibile sul territorio.

 

3. Dalla riforma del Titolo V della Costituzione a oggi.

La riforma del Titolo V della Costituzione del 2001, che introdusse in modo esplicito il principio dell’autonomia finanziaria degli enti territoriali nel nuovo articolo 119, apparve all’epoca come il culmine del complesso processo di decentramento amministrativo e conseguente devoluzione fiscale avviato dalla seconda metà degli anni ’90 e che, secondo Brosio e Piperno (2013) sarebbe stato il risultato di un mix di fattori economici (la crisi economico-finanziaria del 1992-1994 con le conseguenti pressioni sulla finanza pubblica), politici (tangentopoli e la crisi dei partiti) e istituzionali (elezione diretta di sindaci, presidenti di provincia e di regione).  Tale processo aveva portato all’introduzione di una serie di tributi propri e addizionali su imposte erariali che tuttora costituiscono, anche se con alcune modifiche, l’ossatura del sistema di finanziamento con risorse proprie degli enti decentrati: Imposta Comunale sugli Immobili (ICI) per Comuni, Imposta Regionale sulle Attività Produttive (IRAP) e tasse automobilistiche per le Regioni, addizionale IRPEF per entrambi gli enti.

Gli anni successivi alla riforma costituzionale del 2001 che, come sopra ricordato, avrebbero dovuto portare al consolidamento del processo di devoluzione fiscale iniziato nel decennio precedente, furono invece caratterizzati da un atteggiamento da parte del legislatore assai altalenante nei confronti dell’autonomia tributaria degli enti territoriali. Esemplificative di questo atteggiamento sono le vicende che hanno caratterizzato ICI e IRAP. L’ICI, la cui abolizione sull’abitazione principale fu oggetto di una controversa promessa elettorale nel 2006, venne successivamente depotenziata dal governo Prodi (Legge Finanziaria 2008) per poi essere abolita sull’abitazione principale nel 2008 e sostituita con trasferimenti statali; la tassazione patrimoniale dell’abitazione principale venne poi ripristinata con l’Imposta Municipale Unica (IMU) nel 2011 cui si aggiunse nel 2014 la Tassa sui Servizi Indivisibili (TASI).  L’IRAP, con la cui introduzione vennero aboliti diversi tributi tra cui i contributi per il servizio sanitario nazionale, venne fissata inizialmente con un’aliquota ordinaria del 4,25% modificabile dalle regioni di un punto percentuale.  Già pochi anni dopo la sua introduzione, il legislatore tuttavia introdusse una serie di vincoli all’autonomia regionale sull’imposta, da un lato sospendendo la possibilità di variazione delle aliquote (dal 2003 al 2006, nel 2009 e nel 2011), dall’altro obbligando le regioni (dal 2006) ad aumentare l’aliquota (di un punto percentuale) per ripianare il disavanzo di gestione del servizio sanitario. Diversi interventi sulla base imponibile IRAP, volti in particolare a ridurre il costo del lavoro (totalmente indeducibile nella versione originaria dell’imposta), accompagnati dalla riduzione dell’aliquota ordinaria al 3,9%, hanno infine ridotto nel tempo il gettito complessivo dell’imposta che resta tuttavia centrale per il finanziamento del sistema sanitario[4].  A conferma della tendenza ad una progressiva riduzione dell’autonomia tributaria degli enti decentrati, la legge delega 42/2009 per l’attuazione dell’art. 119 della Costituzione, ha infine prospettato la sostituzione dell’IRAP con altri tributi (art. 8 comma 1, lettera d)) e ha previsto esplicitamente la non tassazione immobiliare della prima casa da parte dei Comuni[5] (art. 12 comma 1, lettera b)). L’impianto legislativo scaturito dalla legge delega 42/2009 e dai successivi decreti attuativi ha delineato un sistema di finanziamento degli enti decentrati fondato – ad oggi – sui seguenti tributi propri[6]: per le Regioni IRAP, tasse automobilistiche e addizionale IRPEF potenziata per sostituire la compartecipazione alle accise sulla benzina, abolita; per i Comuni IUC[7] (Imposta Unica Comunale) e addizionale IRPEF.

Le limitazioni all’autonoma determinazione delle aliquote IRAP, la contrazione della sua base imponibile, l’abolizione (salvo rare eccezioni) dell’applicazione di IMU e TASI alle abitazioni principali, rendono tuttavia in prospettiva la finanza degli enti decentrati sempre meno autonoma e sempre più dipendente dai trasferimenti statali perequativi, tanto da poter parlare di una “singolare forma di “representation without taxation” per gli enti locali italiani (Antonini, 2014). Questa scelta del legislatore deriva, del resto, dall’oggettiva disomogeneità delle basi imponibili a livello territoriale che, in assenza di un sistema massiccio di trasferimenti, non consentirebbe la copertura delle spese inerenti le funzioni fondamentali per i Comuni e i cosiddetti livelli essenziali di prestazione e di assistenza (LEP e LEA) per le Regioni in tutte le aree del Paese. Alle risorse reperibili attraverso i tributi propri da parte delle Regioni e dei Comuni, si sommano infatti le risorse derivanti da un complesso sistema di trasferimenti perequativi incentivanti lo sforzo fiscale: perequativi perché consentono di finanziare la somma dei costi standard dei servizi offerti a livello regionale e comunale; incentivanti lo sforzo fiscale, perché lo Stato fissa il trasferimento all’ente sulla base del gettito ottenibile dai tributi propri applicando le aliquote ordinarie[8].

 

4. L’andamento dell’autonomia di entrata di Regioni e Comuni dai dati di bilancio.

L’andamento del grado di autonomia di entrata degli enti decentrati in Italia può essere meglio illustrato affiancando alla descrizione dei provvedimenti legislativi l’analisi degli indicatori di entrata derivanti dai bilanci consuntivi di Comuni, Regioni e Province autonome (Istat, vari anni). Dai dati di bilancio è possibile, in particolare, calcolare due indicatori che consentono di quantificare il grado di autonomia di entrata degli enti e gli effetti delle modifiche legislative intervenute. Il primo indicatore prende il nome di Autonomia Impositiva e consiste nel rapporto tra il totale delle entrate tributarie dell’ente e il totale delle entrate correnti.  Il secondo indicatore, denominato Autonomia Finanziaria,è dato dal rapporto tra la somma delle entrate tributarie ed extra tributarie e le entrate correnti[9]. Il periodo coperto dall’analisi di seguito proposta è quello più recente, ovvero quello successivo alla riforma costituzionale del 2001. Gli indicatori sono calcolati, come da prassi, sulla base delle entrate accertate in ciascun anno.

La figura 1 rappresenta il grado di Autonomia Impositiva dell’insieme delle Regioni a Statuto Ordinario e dell’insieme delle Regioni a Statuto Speciale per il periodo dal 2002 al 2013, ultimo anno disponibile anche se tuttora provvisorio.  

Figura 1: Autonomia impositiva Regioni a Statuto Ordinario e Regioni a Statuto Speciale.

 

Fonte: Istat (vari anni), Bilanci Consuntivi delle Regioni e delle Province autonome.Autonomia impositiva: rapporto tra le entrate tributarie e le entrate correnti dell’ente.

 

In entrambi i casi si osserva una riduzione complessiva del peso delle entrate tributarie sulle entrate correnti che passa, nel caso delle RSO dal 62,1% del 2002 al 51,4% del 2013 (anche se con un picco prossimo al 60% nel 2011) e per le RSS dal 45,5% al 27,7%.  Analoga dinamica si riscontra tenendo conto della somma di entrate tributarie ed extra tributarie (Figura 2) il cui peso scende dall’86% al 69% per le Regioni a Statuto Ordinario e dal 64,7% al 45,5% per le Regioni a Statuto Speciale. Per entrambi gli indicatori si osserva una riduzione drastica tra il 2002 e il 2003, dovuta all’incremento della componente di compartecipazione ai tributi erariali, quasi raddoppiata nel giro di un anno (da circa 13 mld. di euro a circa 23.5 mld. di euro), a fronte di una corrispondente contrazione delle entrate proprie delle Regioni[10].

Figura 2: Autonomia finanziaria Regioni a Statuto Ordinario e Regioni a Statuto Speciale.

Fonte: Istat (vari anni), Bilanci Consuntivi delle Regioni e delle Province autonome. Autonomia finanziaria: rapporto tra la somma delle entrate tributarie ed extra tributarie e le entrate correnti dell’ente.

 

L’analisi della dinamica aggregata non consente tuttavia di far emergere la notevole eterogeneità a livello regionale dei due indicatori. Nell’ultimo anno disponibile (2013), il grado di autonomia impositiva delle Regioni a Statuto Ordinario italiane va da un minimo del 21% per la Basilicata ad un massimo pari al 93% per il Lazio (Figura 3). 

Figura 3: Autonomia impositiva delle Regioni anni – 2003 e 2013.

 

Nota: RSO (Regioni a Statuto Ordinario), RSS (Regioni a Statuto Speciale). Fonte: Istat (vari anni), Bilanci Consuntivi delle Regioni e delle Province autonome.

 

Lazio e Lombardia sono poi le uniche due regioni ad avere un’autonomia finanziaria piena (Figura 4), dal momento che tra le entrate correnti non figurano quelle derivanti dalle compartecipazioni ai tributi erariali. Generalmente si osserva un maggiore grado di autonomia delle Regioni a Statuto Ordinario del Centro Nord rispetto a quelle del Sud, anche se molta della differenza è dovuta alle due regioni sopra citate.

Anche l’evoluzione dei due indicatori nel decennio indagato[11] è molto differenziata a livello regionale: a fronte di una riduzione media del grado di autonomia impositiva e finanziaria rispettivamente di tre e sei punti percentuali su scala nazionale, le Regioni Emilia Romagna, Marche e Veneto hanno registrato riduzioni a doppia cifra (rispettivamente 37.5, 14.3 e 12 punti percentuali), mentre il Lazio è la regione che in assoluto ha aumentato di più il suo grado di autonomia impositiva e finanziaria.

Figura 4: Autonomia finanziaria delle Regioni – anni 2003 e 2013.

 

Nota: RSO (Regioni a Statuto Ordinario), RSS (Regioni a Statuto Speciale). Fonte: Istat (vari anni), Bilanci Consuntivi delle Regioni e delle Province autonome.

 

Per le Amministrazioni Comunali nel complesso l’altalenante evoluzione della normativa, in particolare quella relativa alla tassazione degli immobili, appare evidente osservando la figura 5: ad un incremento di circa 10 punti percentuali del grado di autonomia impositiva e finanziaria tra il 2002 e il 2006 è seguita una fase di flessione fino al 2010, con una successiva ripresa nel 2011. Nel 2013, ultimo anno per cui i dati sono disponibili, la quota di entrate tributarie ed extra tributarie sul totale delle entrate correnti raggiugeva quasi l’80%, a fronte di un valore intorno al 65% nel 2002, segnalando quindi nel complesso un notevole incremento del grado di autonomia finanziaria dei Comuni.

Figura 5 Autonomia impositiva e finanziaria delle amministrazioni comunali

Fonte: Istat (vari anni), Bilanci Consuntivi delle Amministrazioni comunali.

 

Anche in questo caso, il dato aggregato cela tuttavia una forte eterogeneità nella composizione delle entrate tra amministrazioni comunali. In particolare, la dimensione regionale pare essere particolarmente rilevante (Figure 6), dal momento che, rimanendo nell’ambito delle Regioni a Statuto Ordinario, nel 2013 si va da una quota di entrate tributarie sulle entrate correnti pari al 51,6% (Comuni del Lazio) ad una quota superiore al 70% (Comuni di Campania e Puglia). 

Figura 6 Autonomia impositiva delle amministrazioni comunali per regione – anni 2002-2013.

 

Fonte: Istat (vari anni), Bilanci Consuntivi delle Amministrazioni comunali.

 

Figura 7 Autonomia finanziaria delle amministrazioni comunali per regione – anni 2002-2013.

 

Un ruolo di perequazione delle risorse prelevate su territori comunali sembra essere svolto dai trasferimenti extra tributari, dal momento che l’indicatore di autonomia finanziaria risulta meno disperso di quello di autonomia impositiva[12] (Figura 7).  Occorre poi registrare che, nell’arco del decennio analizzato, si è verificato un processo di omogeneizzazione finanziaria delle amministrazioni comunali a livello territoriale: mentre nel 2002 le amministrazioni comunali delle Regioni a Statuto Ordinario delle regioni meridionali registravano un’autonomia impositiva media inferiore al 37%, a fronte di un valore superiore al 54% nelle RSO del Nord Italia, nel 2013 tali valori risultano pari rispettivamente al 64% e al 61,5%, segnalando addirittura il “sorpasso” dei Comuni del Sud su quelli del Nord; analoga dinamica si registra considerando anche le entrate extra tributarie, anche se in questo caso il grado di autonomia finanziaria dei Comuni settentrionali risulta ancora (leggermente) maggiore di quello delle amministrazioni meridionali. In modo analogo, anche se meno accentuato, questo fenomeno di omogeneizzazione finanziaria ha riguardato un’altra variabile rilevante nel determinare l’eterogeneità dell’autonomia impositiva e finanziaria dei Comuni, ovvero la classe dimensionale. Anche se si conferma un andamento a U rovesciata del grado di autonomia impositiva e finanziaria dei comuni, con un picco per quelli di dimensione compresa tra i 10.000 e i 60.000 abitanti, nel 2013 la differenza registrata tra i Comuni con minore grado di autonomia impositiva (sotto i 5.000 abitanti) e quelli con maggiore autonomia impositiva (tra i 20.000 e i 60.000 abitanti) è pari ai due terzi di quella registrata nel 2002 (Figura 8).

 

Figura 8 Autonomia impositiva delle amministrazioni comunali per dimensione Comune – anni 2002-2013.

 

Fonte: Istat (vari anni), Bilanci Consuntivi delle Amministrazioni comunali.

 

La riduzione complessiva del grado di autonomia impositiva e finanziaria delle Regioni e l’omogeneizzazione degli indicatori a livello delle amministrazioni comunali mettono in dubbio l’effettiva applicazione principio di autonomia finanziaria enunciato nell’art. 119 della Costituzione (e ribadito nella successiva legge delega 42/2009), a favore del tentativo da parte del legislatore di coniugare un’omogenea distribuzione delle risorse a livello locale ad una maggiore attenzione alla ricerca dell’efficienza nell’erogazione dei servizi locali.

 

Riferimenti bibliografici.

Antonini L. (2014) “L’autonomia finanziaria delle regioni tra riforme tentate, crisi economica e prospettive”, Rivista Associazione Italiana dei Costituzionalisti, 4/2014.

Brosio, G. e Piperno, S. (2013) “Il difficile cammino dell’autonomia tributaria regionale e locale in Italia: un modello interpretativo”, Rivista Italiana di Politiche Pubbliche, 2, 249-279.

Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome (2011), Federalismo fiscale. Legge n.42/2009 e decreti attuativi, Centro interregionale studi e documentazione.

Istat (vari anni) I bilanci consuntivi delle amministrazioni comunali, Istat, Roma.

Istat (vari anni) I bilanci consuntivi delle regioni e province autonome, Istat, Roma.

Istat (2011) L’Italia in 150 anni, Istat, Roma.

Istat (2012) I bilanci consuntivi delle amministrazioni provinciali, Istat, Roma.

Musgrave, R.A. (1959) The Theory of Public Finance – A Study in Public Economy, McGraw-Hill, New York.

Musgrave, R.A. (1983) Who should tax, where, and what? In C.E. McLure Jr (ed), Tax Assignment in Federal Countries, Australian National University Press, Canberra.

Oates, W.E. (1972) Fiscal Federalism, Harcourt Brace Jovanovich, New York.

Oates, W.E. (1999) “An essay on fiscal federalism”, Journal of Economic Literature,37,1120–1149.

Oates, W.E. (2005) “Toward a Second-Generation Theory of Fiscal Federalism”, International Tax and Public Finance, 12, 349-373.

Olson, M. (1969) “The principle of ‘fiscal equivalence’: the division of responsibilities among different levels of government”, American Economic Review,59, 479–487.

Pellegrino, S. e Piperno, S. (2012) L’autonomia tributaria delle Regioni e degli Enti locali alla luce dei più recenti provvedimenti: “l’albero è più dritto”?, Centro Studi sul Federalismo Research Paper Luglio 2012.

Tiebout, C.M. (1956) “A pure theory of local expenditures”, Journal of Political Economy,64, 416–424.

Vo, D. H. (2010) “The Economics of Fiscal Decentralization”, Journal of Economic Surveys, 24(4), 657-679.


 


[1] Ricercatrice e Professoressa aggregata di Scienza delle finanze presso Università degli Studi del Piemonte Orientale.

 

[2] L’analisi delle Province è stata volutamente omessa da questo saggio sia a causa delle complesse (e non ancora concluse) vicende istituzionali che hanno interessato tali enti dal 2011 ad oggi, sia in virtù della loro scarsa rilevanza dal punto di vista dell’entità delle entrate totali che ammontavano nel 2012 a meno del 4% delle entrate degli enti locali (Istat, 2012).

 

[3] A tale approccio ha fatto seguito, a partire dalla metà degli anni 2000, quello che viene denominato di “seconda generazione” che applica all’analisi del federalismo fiscale e dei governi multi-livello le questioni sollevate dall’economia dell’informazione, dalla teoria dei contratti, e dai modelli principale-agente (Oates, 2005). 

 

[4] Secondo le serie storiche delle dichiarazioni fiscali fornite dal MEF, il gettito complessivo dell’IRAP è passato da circa 37 mld. di euro nel 2007 a 30,5 mld. nel 2013. Naturalmente su questa variazione di gettito ha inciso anche la contrazione dell’attività produttiva dovuta alla crisi economica degli ultimi anni.

 

[5] La tassazione immobiliare della prima casa da parte dei Comuni è stata ripristinata nel 2011, per rispondere ad una fase di emergenza finanziaria e, successivamente, abolita con la Legge di Stabilità 2016.

 

[6] Per un elenco dettagliato di tutti i tributi propri degli enti decentrati, con specificazione del grado di autonomia dell’ente, si veda Pellegrino e Piperno, 2012.

 

[7] La IUC composta da tre distinti tributi: IMU (Imposta Municipale Unica), TASI (Tributo per i Servizi Indivisibili) e TARI (Tassa sui Rifiuti).

 

[8]L’art.9 comma 1 lettera b) della Legge delega 42/2009 cita esplicitamente tra i principi e i criteri alla base del fondo perequativo statale a favore delle Regioni “Applicazione del principio di perequazione delle differenze delle capacità fiscali in modo tale da ridurre adeguatamente le differenze tra i territori con diverse capacità fiscali per abitante senza alterarne l’ordine e senza impedirne la modifica nel tempo conseguente all’evoluzione del quadro economico-territoriale”.

 

[9] Le entrate correnti sono date dalla somma delle entrate tributarie, delle entrate extra tributarie e delle compartecipazioni ai tributi regionali (per le Regioni) e dai contributi e trasferimenti correnti (per i Comuni).

 

[10] Occorre precisare che l’anno 2002 è quello in cui si è registrato di gran lunga il maggior grado di autonomia impositiva della storia delle RSO italiane. Per quel che concerne l’autonomia finanziaria, invece, i valori più elevati si sono registrati alla fine degli anni ’90, quando le compartecipazioni a tributi erariali hanno toccato i livelli più bassi (Istat, 2011).

 

[11] Le informazioni per il 2002 dei bilanci consuntivi delle Regioni italiane non risultano disponibili (mentre lo sono per gli anni antecedenti). Si fa dunque riferimento al 2003 come primo anno di analisi.

 

[12] A fronte di un valore medio nazionale dell’indicatore di autonomia impositiva e finanziaria comunale rispettivamente pari a 0,58 e 0,79 nel 2013, le deviazioni standard sono rispettivamente pari a 0,16 e 0,12.