Nobili e re nel Piemonte altomedievale

Luigi Provero[1]

Prosegue in questo numero della rivista la rassegna che intende illustrare le diverse fasi storiche dell’organizzazione politica, istituzionale e amministrativa del territorio piemontese. Dopo l’età romana e l’età tardo-antica, di cui si è parlato negli scorsi numeri de “Il Piemonte delle Autonomie”, Luigi Provero, docente di Storia medievale nell’Università di Torino, ci presenta la realtà complessa, per molti versi confusa ma per altri fondativa del Piemonte nell’epoca altomedievale, dal V all’XI secolo.

 

I duchi longobardi.

La creazione delle sedi diocesane, tra IV e V secolo, definì e cristallizzò la rete urbana del Piemonte medievale. Fu una brusca selezione rispetto all’urbanesimo romano, poiché di tutti i municipia, fora od oppida attestati nei secoli precedenti, nell’alto medioevo troviamo solo 8 civitates: Torino, Ivrea, Alba, Tortona, Asti, Novara, Vercelli e Acqui. La definizione delle diocesi sancì quindi un processo di selezione dei centri urbani che si era avviato in seguito a un calo demografico e a una progressiva crisi delle funzioni che in età romana le città avevano assolto nei confronti del territorio. Ma proprio la definizione delle diocesi fu al contempo effetto e causa di questa selezione: effetto, perché si scelsero come sedi vescovili i centri urbani che meglio avevano saputo conservare la propria consistenza demica, la struttura urbanistica e il sistema di relazioni con il territorio circostante; causa, perché nei secoli seguenti la presenza del vescovo determinò un consolidamento della centralità delle città nei confronti del territorio, accentuando la differenza tra le città e gli altri insediamenti, e quindi perfezionando e cristallizzando la selezione.

La rete delle sedi diocesane piemontesi fu quindi espressione di un parziale fallimento dell’urbanesimo romano, drasticamente ridimensionato nella transizione all’alto medioevo; ma fu una rete dotata di una grande efficacia e soprattutto di una straordinaria durata. Il quadro diocesano restò infatti stabile lungo tutto il medioevo: nessuna di queste città perdette in seguito la funzione di centro diocesano, e nessuna nuova diocesi fu istituita, fino al 1388, con l’erezione della diocesi di Mondovì. Esistevano però delle polarità alternative: se era forte il suggerimento costituito dalle città, dalle diocesi e dalla tradizione distrettuale romana, le dominazioni germaniche dei primi secoli del medioevo dimostrarono di saper usare il suggerimento con grande elasticità. Per l’età gota disponiamo solo di frammenti di notizie, che non ci permettono di leggere pienamente le forme della presenza regia nel territorio piemontese; ma qualcosa di più possiamo dire per il regno longobardo.

Nell’attuale Piemonte abbiamo tre sedi ducali certe (Torino, Asti e Ivrea), mentre isolata e più incerta è la notizia di un duca insediato sull’isola di San Giulio nel lago d’Orta, per cui possiamo far riferimento solo a un accenno in Paolo Diacono, che ricorda come il re Agilulfo avesse ucciso “Milonem ducem de insula Santi Iuliani”, passo in cui non è chiaro se il riferimento a San Giulio sia da intendere come centro del potere del duca o sua residenza più o meno occasionale. La sede ducale non cittadina rappresenterebbe un’anomalia nel quadro regionale piemontese, ma trova riscontro in altre zone d’Italia, e potrebbe essere stata suggerita dalla sua collocazione e dalla sua difendibilità; la rilevanza di San Giulio sembra peraltro trovare riscontro negli scavi archeologici, che hanno accertato un’importante presenza longobarda sull’isola.

Ovviamente questa lista di sedi ducali non può essere letta in termini di semplice continuità con la rete di municipia di età romana, sia perché una drastica selezione di questi centri si era già realizzata nel tardoantico, sia perché le sedi ducali rappresentano l’esito di un’ulteriore selezione, erano molto meno numerose delle sedi episcopali. Un dato, quest’ultimo, che deve essere letto in relazione alle peculiarità del potere ducale: il duca non era un funzionario delegato dal regno, ma piuttosto un potente per molti versi autonomo, che stringeva con il potere regio un patto di sottomissione mai completa. I ducati rappresentavano quindi la proiezione sul territorio di un potere personale, il controllo del duca sul proprio seguito armato, che si insediava nel territorio a controllare la più numerosa ma inerme popolazione latina. Così, più che di “ducati”, è probabilmente corretto parlare di “sedi ducali”, ovvero di luoghi in cui concretamente i duchi risiedevano e gestivano il proprio potere, attorno a cui solo lentamente si definirono confini territoriali precisi. Il basso numero di sedi ducali non è quindi l’esito di una programmazione amministrativa dei re, di una progettazione del territorio; derivava piuttosto dalle concrete e non programmate forme di insediamento dei duchi e dei loro seguaci.

Le sedi ducali piemontesi hanno un carattere ben preciso: se si eccettua l’incerta notizia relativa a San Giulio d’Orta, ci troviamo di fronte a tre città, tre sedi episcopali. Non sono però né le città più grandi, né le sedi più antiche e prestigiose (ad esempio Vercelli era probabilmente superiore da entrambi i punti di vista). Altri fattori sembrano pesare nella scelta, e si tratta prima di tutto di esigenze di natura militare: in particolare Ivrea e Torino erano città di confine, poste nelle immediate prossimità del regno franco, che dal VI secolo, dopo l’invasione longobarda d’Italia, aveva affermato il proprio controllo sulle valli d’Aosta e di Susa, cosicché il confine era posto alle chiuse di Bard e a quelle della val di Susa, nelle immediate vicinanze di Ivrea e Torino.

La ricorrente tensione tra i regni longobardo e franco faceva di quest’area un confine delicato, probabilmente anche in relazione all’interesse per le due grandi strade che da Torino e da Ivrea permettevano di superare le Alpi, attraverso due valichi – il Moncenisio e il Gran San Bernardo – posti sotto il controllo franco. Possiamo ritenere che l’attenzione per il confine e per le strade abbia determinato una concentrazione di armati in queste sedi ducali, fino a costituire dei nuclei di potere politico-militare che potevano divenire minacciosi per lo stesso potere regio, anche per la vicinanza di Pavia, la capitale del regno. Non è probabilmente casuale se, dei quattro duchi di Torino di cui si ha notizia, tre (Agilulfo, Arioaldo e Ragimperto) divennero re, mentre il quarto (Garipaldo) ebbe un ruolo fondamentale nelle lotte per il controllo del regno.

 

Conti e città in età carolingia.

Tra IX e X secolo, la carta delle sedi comitali carolingie e postcarolingie ci mostra un quadro assai diverso dalle sedi ducali di età longobarda. Deve però essere analizzata considerando che le fonti più ricche iniziano a comparire soprattutto dalla fine del IX secolo: possiamo quindi ricostruire con discreta sicurezza un quadro relativo all’età postcarolingia, che però non può essere applicato indiscriminatamente alla piena età carolingia, anche e soprattutto perché il comitato (ben più delle diocesi) era sempre una struttura mobile, che si modellava e si adeguava ai mutamenti degli equilibri territoriali locali. Quindi la carta dei comitati non può essere letta come un dato stabile e strutturale di tutto il medioevo, come è invece per le sedi diocesane; è piuttosto la fotografia di un momento all’interno di una dinamica di continuo riassestamento.

Constatiamo in particolare una serie di mutamenti concentrati nel secolo X: lo spostamento della sede comitale da Diano ad Alba; la creazione del comitato di Santhià alla fine del secolo; l’attenuarsi delle concrete funzioni comitali di centri minori (e ora scomparsi) come Bredulo e Auriate, rispettivamente connessi in modo strutturale ai comitati di Asti e Torino. La mobilità dei distretti comitali in questa fase è un sintomo della loro vitalità: erano effettive strutture di governo e di controllo, che si adeguavano ai mutamenti delle esigenze e degli equilibri locali.

Tenendo presente questa mobilità delle sedi e dei distretti, è però possibile proporre alcune osservazioni sull’insieme dei centri usati in questo periodo come sedi del potere comitale. Le strutture territoriali e insediative preesistenti offrivano ai nuovi dominatori franchi diverse possibilità per organizzare il territorio e individuarvi dei centri di potere; in questo caso, diversamente dalla prima età longobarda, possiamo ragionare in termini di organizzazione del territorio e di progettazione regia: anche se il peso dell’aristocrazia era indubbiamente altissimo, l’egemonia regia nella prima età carolingia fu tale da garantire al regno la possibilità di organizzare il territorio prima di tutto in base alle proprie esigenze.

Il suggerimento più efficace fu sicuramente quello offerto dalle sedi diocesane: nell’Italia nord-occidentale, da Luni ad Aosta, pressoché tutte le città vescovili (con l’unica eccezione di Novara) diventarono sedi comitali. La potenzialità di questi centri come sedi dei funzionari regi è evidente: l’ormai consolidato potere vescovile aveva fatto delle città non solo le sedi del governo ecclesiastico, ma luoghi di regolare convergenza della popolazione del territorio. Si faceva capo alla città per incontrare il proprio vescovo, ma anche per una serie di altre funzioni (di giustizia, di mercato etc.) che la rendevano un luogo centrale del territorio in senso lato. Questa tendenza era ovviamente accentuata per le città di Ivrea, Torino e Asti, dove il potere ducale longobardo aveva garantito la continuità delle funzioni politiche cittadine.

Tuttavia nella serie di centri comitali di questa età vediamo comparire altri insediamenti, che in precedenza non erano stati sedi né ducali né vescovili: è il caso di Pombia (a nord di Novara) e di Auriate e Bredulo (nell’attuale Cuneese); a questo stesso ambito possiamo ricondurre due casi di distretti comitali privi di un centro ben riconosciuto, ovvero i comitati di Ossola e di Bulgària, all’estremo nord-est della regione. Non si può proporre una spiegazione unica per tutti questi casi, e di certo quello che appare più anomalo è quello di Pombia (insediamento risalente all’età longobarda, attestato come castello nel X secolo), cui sono attribuite funzioni di centro comitale che – in un modello per così dire “normale” – sarebbero andate al centro diocesano di Novara.

I casi di Auriate e Bredulo sono invece da connettere all’esigenza di affermare un controllo capillare del territorio, definendo una serie di distretti comitali non eccessivamente ampi. Questo tipo di organizzazione nel sud-ovest della regione non sarebbe stata possibile appoggiandosi unicamente ai centri urbani: a sud di Torino e a ovest di Alba l’alto medioevo era stato segnato in larga misura da un fallimento dell’urbanesimo tardoantico, che aveva lasciato spazio a insediamenti di rilievo minore – esito del declino dei centri romani (Pollentia, Pedona, Augusta Bagiennorum) – e a villaggi e castelli documentati in modo discontinuo nelle fonti scritte (come appunto Auriate e Bredulo) o identificabili  solo per via archeologica (come il Castelvecchio di Peveragno). In assenza di città, assunsero funzioni politico-amministrative i castelli di Auriate e Bredulo, che pure non divennero mai centri demici importanti.

 

Il vescovo Claudio e la centralità di Torino.

Disponiamo di alcuni dati che possono suggerire che nel secolo IX la centralità territoriale di Torino si estendesse al di là sia dei confini del comitato sia di quelli, ben  più ampi, della diocesi. È soprattutto interessante una lettera del vescovo Claudio di Torino a Teodemiro, abate di Psalmody, dell’819-820, in cui il vescovo si lamenta degli impegni che gli impediscono di dedicarsi agli studi:

Mentre mi procuro il vitto con la fatica e i soldi, i miei pensieri con maggior piacere si volgono alle scritture divine. Dedicandomi alla cura della diocesi, quante questioni nascono, tanto più si sviluppano le preoccupazioni. In inverno, calpestando le strade palatine [romane] all’andata e al ritorno, ben poco mi è possibile soddisfare questo amore. Dopo la metà della primavera, indossando la corazza e portando le armi, mi dirigo alle guardie marittime, sorvegliando con paura contro gli Agareni e i Mori; di notte tenendo la spada e di giorno i libri e la penna, cerco di soddisfare il mio desiderio.

Dobbiamo prima di tutto notare che Claudio non si lamenta perché costretto a un servizio non dovuto, ma piuttosto perché questo servizio (che sembra ritenere del tutto legittimo e connesso alla funzione vescovile) gli sottrae tempo che vorrebbe occupare altrimenti. Ma perché Claudio era impegnato in questi servizi di vigilanza armata delle coste? E’ stato supposto che il vescovo avesse ricevuto un incarico di missus regio, ovvero di rappresentante incaricato di sorvegliare per conto del regno l’attività degli ufficiali territoriali (i conti). Ma non c’è alcun vero elemento per affermarlo, e dobbiamo piuttosto ritenere che questa sorveglianza – da ritenere non un intervento occasionale, ma una regolare e consueta attività di difesa sulla costa – derivasse piuttosto dai consueti obblighi dei vescovi nei confronti del regno: Claudio era tenuto alla sorveglianza a mare proprio in quanto vescovo, non perché avesse ricevuto altri poteri.

Occorre allora chiedersi perché il vescovo di Torino dovesse estendere la propria azione militare fino alle aree costiere, presumibilmente quindi all’interno delle diocesi di Savona, Albenga e Ventimiglia. Dobbiamo vedere in questo la manifestazione di una tendenza di lungo periodo a integrare le risorse della costa e dell’entroterra, facendo convergere le forze dell’attuale Piemonte nella tutela di aree costiere particolarmente delicate e minacciate dalle incursioni Saracene. Questa tendenza darà vita, dalla fine del secolo, alla costituzione di alcuni grandi distretti (le marche) che uniranno settori della costa con ampie fasce dell’entroterra. Non abbiamo elementi per pensare che già in età carolingia l’area tra Piemonte e Liguria fosse coordinata in un grande distretto, ma dalla vicenda di Claudio emerge che l’integrazione delle risorse di aree diverse è un fatto di lungo periodo, precedente all’effettiva unione sul piano amministrativo. In questo contesto di integrazione di aree lontane (e probabilmente di fluidità della struttura comitale), Torino assume una certa importanza: il suo vescovo, in particolare, appare impegnato a organizzare le forze dell’area e coordinarle nell’azione sulla costa.

 

La marca di Ivrea.

Il Piemonte del X e XI secolo presenta un insieme di casi piuttosto diversificati di sviluppi politici da parte di grandi dinastie di ufficiali regi, ed è quindi un territorio prezioso per comprendere complessivamente i funzionamenti e le ambiguità del potere in questo periodo. Tuttavia l’età postcarolingia in area piemontese riveste un particolare interesse anche per un’altra ragione: il X e XI secolo rappresentano infatti per il Piemonte una fase generativa di equilibri di lunga durata, rappresentati dal coordinamento di ampi quadri territoriali in dominazioni di matrice dinastica. I principati territoriali del XII e XIII secolo (Savoia, Saluzzo, Monferrato) non sono una diretta continuazione delle marche costituite nel secolo X, dato che, nonostante una parziale continuità dinastica, i mutamenti di configurazione territoriale sono radicali. Tuttavia si coglie un elemento di continuità nei modelli di funzionamento, nel coordinamento di ampie regioni sotto l’egemonia di una dinastia dominante, secondo modelli ben attestati in altre regioni d’Europa, ma molto meno rintracciabili in Italia, dove prevale l’egemonia territoriale dei comuni cittadini.

Per comprendere le riorganizzazioni distrettuali del X secolo, è necessario ragionare in termini non puramente territoriali, ma dinastici. Dobbiamo infatti pensare prima di tutto alle persone e alle dinastie dei marchesi per comprendere i meccanismi politici che trasformarono l’organizzazione del territorio piemontese. Se quindi constatiamo che dalla fine del IX secolo il Piemonte e la Liguria furono compresi nella grande marca anscarica di Ivrea, dobbiamo interrogarci su chi fossero i marchesi, ovvero seguire la vicenda della dinastia anscarica.

Anscario era membro di una famiglia attiva nel regno di Borgogna nella seconda metà del IX secolo, probabilmente già con funzioni comitali. Scese in Italia al seguito del re Guido di Spoleto, e da questi ottenne il titolo di marchese, attestato per la prima volta nell’891, a indicare probabilmente funzioni militari eminenti all’interno della corte regia; ma presto il titolo assunse connotati territoriali e Anscario divenne marchese di un ampio territorio, a comprendere pressoché interamente Piemonte e Liguria. Si tratta quindi di un potere immenso, diretta espressione del rilievo che gli Anscarici ebbero nel regno italico nella prima metà del secolo X, fino ad assumere direttamente la corona con Berengario II nel 950. Tuttavia il radicamento territoriale degli Anscarici fu sempre incompleto, e proprio negli stessi anni dell’ascesa al trono subirono – in sede regionale – la crescente concorrenza di altre dinastie (gli Arduinici, gli Aleramici e gli Obertenghi), la cui affermazione ridusse in modo drastico la circoscrizione da loro controllata. Alla fine del secolo X, forse di fronte alla chiusura di spazi politici e all’impossibilità di nuovi rafforzamenti, gli Anscarici scelsero di tornare nel regno di Borgogna, dove assunsero le funzioni comitali nell’area di Mâcon.

Torneremo tra poco sulla fase di declino del potere anscarico, nel contesto dello sviluppo dei nuovi poteri marchionali. Ma occorre prima di tutto comprendere perché il potere di Anscario abbia assunto le forme di una marca, di una circoscrizione enorme, tale da inglobare una quindicina di comitati. Nelle strutture dell’impero carolingio, le marche non costituivano semplicemente le circoscrizioni di confine, ma erano piuttosto forme di organizzazione territoriale destinate a controllare aree che per ragioni diverse apparivano militarmente a rischio. Nello specifico caso della marca di Ivrea, ebbe probabilmente un peso relativo la sua posizione sul confine tra i regni di Italia e Borgogna, che raramente in questa fase furono in conflitto; è invece importante notare come in questo periodo di alta conflittualità, con il succedersi tra 888 e 962 di molti re diversi sul trono italico, il Piemonte sia stato il teatro di molti episodi bellici, forse anche per il suo rilievo dal punto di vista del controllo di strade e valichi. Inoltre la marca fu anche un modo per riproporre in forme più strutturate quell’integrazione tra costa ed entroterra che già in età carolingia aveva garantito una più efficace difesa marittima.

Questione diversa è la scelta di Ivrea come centro della marca: la città – sede ducale in età longobarda, sede comitale e diocesi di qualche prestigio in età carolingia – fu probabilmente scelta per la sua vicinanza al confine con il regno di Borgogna, che da questo punto di vista ebbe un certo peso per due ordini di motivi: da un lato si trattava in ogni caso, nonostante la debole conflittualità, di un confine che richiedeva un attento controllo; dall’altro si può vedere qui una volontà regia di assecondare spontanei orientamenti politico-territoriali degli Anscarici, probabilmente interessati in prima persona all’area di Ivrea, la cui vicinanza al regno di Borgogna (area del loro primo radicamento politico e patrimoniale) poteva permettere alla dinastia di costituire poli di azione politica non troppo separati.

Quest’ultimo è un dato importante: la formazione di una nuova circoscrizione non era semplicemente l’espressione di un progetto regio, ma piuttosto l’incontro tra le esigenze del regno e quelle del potente posto a capo della circoscrizione. Progressivamente, lungo il X secolo, la grande aristocrazia fu sempre più in grado di condizionare le scelte regie anche per quanto riguarda le forme locali di organizzazione del territorio e della giurisdizione.

 

Uomini nuovi e nuove marche nel secolo X.

Attorno alla metà del secolo X si realizzò una complessiva ristrutturazione dei quadri amministrativi del territorio piemontese e ligure: considerando il rapido succedersi di re e la discontinuità delle fonti a nostra disposizione, non è facile attribuire con sicurezza la riforma a un singolo sovrano. Probabilmente le nuove marche furono promosse da Ugo, tollerate da Berengario II (membro della dinastia anscarica, pesantemente danneggiata in questa fase) e infine riconosciute e solennizzate da Ottone I, il re di Germania che nel 962 impose l’unità dei regni di Germania e Italia sotto la propria dominazione, con titolo imperiale.

Si tratta sostanzialmente della divisione della grande marca di Ivrea in quattro circoscrizioni più piccole: la marca di Ivrea, limitata al Piemonte settentrionale, tra Ivrea, Vercelli e Novara, che restò nelle mani degli Anscarici; la marca di Torino, comprendente l’ampio territorio tra Torino, Asti, Albenga e Ventimiglia (riunendo sette comitati diversi), che fu affidata alla dinastia degli Arduinici; la piccola marca affidata agli Aleramici, tra Acqui e Savona; la marca degli Obertenghi, tra Milano, Genova e la Lunigiana, che comprendeva il territorio di Tortona.

Possiamo prima di tutto constatare come dal punto di vista della configurazione territoriale le tre circoscrizioni nuove (Arduinica, Aleramica e Obertenga), per quanto molto diverse per dimensioni, fossero strutturate in modo analogo, poiché ognuna di esse univa un tratto della costa ligure con un settore dell’oltregiogo. Non è un dato casuale, ma una manifestazione di quella tendenza – già accertata sia per l’attività militare di Claudio di Torino sulla costa, sia per la marca anscarica – a integrare le risorse e le popolazioni dell’entroterra con le esigenze soprattutto militari della costa, area preziosa per i commerci ma sempre minacciata. Non bisogna dimenticare che, nel momento in cui vennero istituite queste nuove marche, era ancora attiva e minacciosa la base saracena di Fraxinetum, in Provenza, che fu poi distrutta nel 972.

Tuttavia la formazione di queste nuove marche non può assolutamente essere letta come una pura riforma regia, un intervento dall’alto svincolato dalla volontà dei poteri locali: si tratta invece dell’incontro tra la rapida crescita di alcuni grandi aristocratici e le esigenze militari e politiche del regno. Arduino, Aleramo e Oberto (insieme con Adalberto-Atto, capostipite dei Canossa) rappresentano una generazione che realizzò una rapida ascesa sociale, si affermò ai vertici del regno e rinnovò profondamente i funzionamenti del potere. Le dinastie discese da questi ufficiali regi saranno le principali protagoniste dei mutamenti territoriali nel Piemonte dell’XI secolo.

Queste dinastie rinunciarono a un’azione politica su tutto il territorio del regno, per assumere presto una fisionomia che in alcuni casi possiamo definire regionale e in altri fu più limitata, prettamente locale. A questo è connesso un nuovo rapporto tra possesso e potere, cosicché il primo determinava il secondo in modo più diretto: il potere, per quanto delegato dal regno, tendeva a modellarsi sulle concrete aree di egemonia patrimoniale delle dinastie. L’intervento regio non segnò quindi l’origine del potere di queste famiglie, ma fu piuttosto una constatazione delle loro concrete forme di eminenza e di predominio locale, che nascevano da un’intensa iniziativa politica, patrimoniale e militare. Il regno legò a sé questi poteri, li incrementò, diede loro forma e legittimità con la costituzione delle marche. Questi distretti furono i quadri di riferimento al cui interno, lungo l’XI secolo, si costruirono in nuovi poteri locali, nelle mani di dinastie, chiese e comunità cittadine.


 


[1]Professore associato di Storia medievale presso l’Università di Torino, Dipartimento di Studi storici.