Per una cittadinanza della lingua: promuovere la parità di genere nel linguaggio amministrativo

Rachele Raus[1]

 

L’autrice, Rachele Raus, titolare esclusiva dei diritti sull’articolo dal titolo Per una cittadinanza della lingua: promuovere la parità di genere nel linguaggio amministrativo, che garantisce inedito, liberamente disponibile e lecito, manlevando l’editore da ogni eventuale danno o spesa, riconosce all’editore i diritti alla pubblicazione nella rivista Il Piemonte delle Autonomie autorizza l’editore a farne uso in siti, newsletter, raccolte e ogni altro strumento istituzionale di divulgazione online e cartaceo per renderlo disponibile al più ampio pubblico. L’autrice s’impegna a non effettuare o consentire la pubblicazione e/o la traduzione in altro contesto prima che siano trascorsi 18 mesi dalla pubblicazione in questa rivista. Fanno eccezione soltanto il sito web personale o quello istituzionale dell’ente di appartenenza dell’autore, purché la rivista sia espressamente linkata o almeno indicata come fonte.

 

(Abstract)

Essere cittadini della lingua vuol dire appropriarsi consapevolmente di essa per poterne esercitare un uso cosciente. In tal senso, anche le politiche linguistiche volontaristiche volte a promuovere la parità di genere nel linguaggio amministrativo, con i suoi termini e le strategie di riscrittura che esse comportano, devono essere intese dal singolo cittadino che ne rimane reale fruitore e a sua volta promotore. Un excursus storico su quanto già effettuato in Italia in merito alla tematica in questione servirà a chiarire i concetti utilizzati e a esporre gli approcci principali di intervento linguistico operati. Alla descrizione delle tendenze delle iniziative volontaristiche più recenti seguiranno dei suggerimenti sulla base di quanto si sta attualmente discutendo a livello istituzionale per realizzare la parità di genere nel linguaggio amministrativo. I tempi sembrano infatti maturi, tanto a livello centrale che locale, per un’azione congiunta che permetta di conseguire in questo ambito un’effettiva cittadinanza della lingua.

 

Being “citizens in their own language” means that everyone must be made aware of his/her own effective use of language. So every citizen should understand and share terms and linguistic strategies planned by the voluntary language policies, especially when these policies intend to promote gender equality in bureaucratic language. In order to raise gender awaraness in language, we offer a brief overview of the main approaches and linguistic intervention concerning gender and language in Italy since the 1980s to the latest voluntary Institutional policies. Then, we’ll give some suggestions on how to reformulate a sentence according to the current trends in the Italian language policies promoted by Institutions, Media and Universities. In fact, both the centralised and localised initiatives are contributing to a common effort and it would appear that time is ripe for a real achievement of the full “citizenship in language”, at least for what concerns gender and language.

 

1. Premessa.

Essere cittadini della lingua non vuol dire solo poter accedere alla lingua grazie all’istruzione e, tramite essa, accedere a dei valori democratici, intendendo quindi la lingua come lingua-cultura che veicola una certa cultura e visione del mondo (Galisson, 1988), ma anche e soprattutto che il modo in cui la lingua permette l’accesso al reale deve essere in sé democratico e perciò trasparente il più possibile al singolo cittadino, consentendogli di intendere al meglio e di comprendere le dinamiche del sociale per esercitare le proprie scelte con cognizione di causa. Non è un caso se, in tal senso, il linguaggio politico moderno si è forgiato nella riflessione francese del periodo rivoluzionario, quando il popolo, per il tramite di portavoce e rappresentanti, lascia intendere di aver preso coscienza che la lingua è “il principale elemento di mediazione nell’ambito dello spazio pubblico” (Guilhaumou, 1989: 9) e si oppone all’abuso di parole dell’aristocrazia con un’antiretorica che, ispirandosi ai Lumi, torna ad un uso trasparente di esse, ridefinendole sulla base dei diritti. In quest’ottica, il popolo si riappropria dell’uso della lingua, nonché della sua normazione, ispirandosi ai principi democratici. È con tale spirito che occorre avvicinare, a nostro avviso, la tematica della parità di genere negli usi linguistici, e in primis nel linguaggio amministrativo, nonché in quello politico e giuridico. Acquisire consapevolezza dei termini del discorso, capire a cosa ci riferiamo e dare una maggior trasparenza ai concetti che utilizziamo è ciò che permette di maturare consapevolezza ed effettuare scelte di politica linguistica, cioè di intervento istituzionale sulla lingua, mature e corrette.

A tal fine, ci proponiamo in questa sede di presentare un breve excursus storico su quanto già effettuato in Italia in merito alla tematica in questione per cominciare a chiarire meglio i concetti utilizzati ed esporre poi gli approcci principali di intervento linguistico operati. Dopo aver descritto le tendenze delle iniziative volontaristiche passate e presenti, suggeriremo infine delle linee di condotta futura sulla base di quanto si sta attualmente discutendo a livello istituzionale per realizzare la parità di genere nel linguaggio.

 

2. Dalla lotta all’uso sessista della lingua alla valorizzazione delle differenze di genere.

Già a partire dagli anni 1970, si apre un vero e proprio dibattito a livello internazionale sulla questione del sessismo linguistico, che diventa sempre più pubblico sino a divenire istituzionale negli anni 1980. Molti e molte intellettuali cominciarono a produrre materiale che nel seguito si sarebbe rivelato fondatore quanto alla lotta al sessismo nel linguaggio, come il testo di Marine Yaguello su Les mots et les femmes del 1978. Tale dibattito, che in Italia si espliciterà negli anni 1980, era infatti stato inaugurato precedentemente nei paesi anglofoni e francofoni in particolare. Vecchiato (2004: 15) cita l’esempio chebecchese della ministra Lise Payette che nel 1977 si faceva chiamare “madame la ministre” sancendo il successo della declinazione al femminile del titolo in questione. Il Quebec si faceva così promotore di una serie di interventi sulla lingua che di lì a poco avrebbero caratterizzato il mondo francofono (particolarmente in Belgio, nella Svizzera francese e in Francia), nel tentativo di “femminilizzare” la lingua.

Non va dimenticato, peraltro, che nel mondo francofono le politiche linguistiche possono avere carattere vincolante, e questo a differenza dell’Italia. Dagli anni 1970, vere e proprie leggi regolamentano in Francia la norma e l’uso della lingua quanto ad alcuni particolari aspetti. Diversamente, l’Italia ha per lo più politiche di tipo volontaristico in campo linguistico. È nota l’iniziativa, portata avanti da diversi anni ormai dall’Accademia della Crusca,volta ad inserire l’italiano come lingua di Stato nella Costituzione. In reazione probabilmente alle politiche linguistiche del periodo mussoliniano, infatti, i padri della Costituzione italiana hanno preferito non esprimersi esplicitamente su una lingua di Stato, ma semmai solo sulla tutela delle lingue minoritarie (all’art. 6), dando per implicito che la lingua della Repubblica fosse appunto l’italiano e questo diversamente da altri paesi che invece hanno reso esplicita la presenza di una o più lingue di Stato già nel proprio testo fondatore (cfr. anche Franchini, 2012).

Nell’ambito della lotta al sessismo linguistico, il testo fondatore del dibattito italiano sulla questione è quello di Alma Sabatini, pubblicato nel 1987 dalla Presidenza del consiglio dei Ministri, che peraltro ha svolto spesso un ruolo d’iniziativa importante in quest’ambito. Il testo, dal titolo Il Sessismo nella lingua italiana si articolava in tre sezioni, delle quali la terza, dal titolo Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana è divenuta un vero e proprio estratto, assumendo funzione di linee guida sulle formulazioni da evitare e sulle alternative da adottare. Nel testo di Sabatini si parla quindi di “sessismo”, partendo dall’assunto che il linguaggio è strettamente legato al sociale e che la lingua, o meglio l’uso che di essa viene fatto, può generare, e di fatto genera almeno nell’italiano, delle dissimmetrie evidenti tra gli uomini e le donne. Tali dissimmetrie, di ordine sia grammaticale che semantico, mostrano la presenza di stereotipi legati ai due sessi, generalmente a connotazione spregiativa per la donna. Inoltre, rifacendosi alla lessicologa americana Alma Graham (Sabatini, 1987: 21), l’uso del femminile, come pure il non uso e l’inclusione del genere grammaticale femminile nel maschile “generico”, portava Sabatini a definire l’uomo come “specie” e la donna come “sottospecie”, devianza, della quale non si parla e che perciò è invisibile.

Sabatini parla quindi di eliminare il sessismo accennando solo due volte al “genere sociale” nel suo testo, dato che per genere si intende ancora e anzitutto quello grammaticale nel periodo in cui scrive:

(p. 21) Non si vuole, sia ben chiaro, negare né abolire le differenze tra maschio e femmina, sia di genere grammaticale che di sesso e di genere sociale[2]. […] Il problema non sono le differenze, ma le valenze che esse esprimono: o nozioni stereotipate, riduttive e restrittive della immagine della donna, o il reiterato e pervasivo concetto base della centralità e universalità dell’uomo e della marginalità e parzialità della donna.

(p. 24) Il principio base è sempre quello che il maschile (genere grammaticale) è superiore così come lo è il maschile (genere sociale) nella società.

Dai due estratti, si evince che Sabatini intende il “genere” nel senso di gender, cioè nei termini di un costrutto sociale, differenziandolo dal “sesso”. Notiamo, inoltre, la necessità di marcare il genere come “sociale”, e quindi di non parlare semplicemente di “genere”, per differenziarlo da quello grammaticale. Tuttavia, resta la volontà di eliminare le dissimmetrie rimarcate nell’uso dei generi grammaticali che creano stereotipia, negativizzando la donna, o che finiscono per negare l’esistenza stessa della donna includendola nel maschile generico.

A partire dagli anni 1990, l’insistenza su nuove politiche – prima a livello mondiale, grazie soprattutto alla Conferenza mondiale sulle donne a Pechino del 1995, e poi a livello europeo – hanno cominciato a diffondere un nuovo concetto, quello di “genere” inteso anzitutto come costrutto sociale legato alle differenze, come evinciamo anche dalla ricostruzione fatta da Cecilia Robustelli (2012: 5).

 

Proprio in quel periodo, tuttavia, il concetto di parità subiva una profonda rilettura (Robustelli 2000) grazie all’introduzione anche in Italia del concetto di gender, elaborato negli USA: con gender ‘genere’ si intende l’insieme della caratteristiche socioculturali che si accompagnano alla appartenenza all’uno o all’altro sesso. Per ottenere la parità di diritti fra uomini e donne non era più necessario cancellare le differenze tra uomo e donna e rendere la donna “uguale” all’uomo ma, al contrario, si chiedeva di riconoscere le differenze di genere e di impegnarsi per la costruzione dell’identità di genere.

 

In effetti, nel Glossario delle 100 parole per la parità, redatto nel 1998 per la Commissione europea, il “genere” è definito come “concetto che esprime le differenze sociali tra le donne e gli uomini che sono state apprese. Esse variano col tempo e variano all’interno delle singole culture”. In tale ottica, la parità è intesa come l’insieme di misure atte a discriminare positivamente la donna per darle visibilità e, citando ancora Robustelli (idem), “per poter poi riconoscere le differenze di genere”. In tale spirito, le Raccomandazioni di Sabatini non potevano se non finire per essere intese nel senso predominante del marcare la differenza per dare visibilità alla donna.

 

3. Il “genere”: un concetto complesso e la sua “neutralizzazione” nel linguaggio.

Il concetto di “genere”, che pure è stato inteso specialmente negli anni 1990 come rinviante alle differenze sociali tra uomo e donna, è di fatto molto complesso e si è evoluto in particolare negli anni 2000, anche e soprattutto a seguito di politiche europee volte a promuovere il mainstreaming di genere accanto alle politiche di parità (Raus, 2015). Sostanzialmente, si coglie il fatto che, per realizzare l’uguaglianza, non ci si può limitare solo a politiche di discriminazione positiva nei confronti del genere negativizzato, di solito le donne, ma occorre rimuovere le cause strutturali di tale discriminazione. Il concetto di “genere” passa perciò a includere le relazioni sociali, come si evince anche dalla riformulazione datane sempre dalla Commissione europea nel 2010:

 

Commissione europea (glossario 1998)

Commissione europea (glossario 1998) Commissione europea(Annesso alla Strategia del 2010)[3]
Sex: The biological characteristics which distinguish human beings as female or male.

Gender: A concept that refers to the social differences between women and men that have been learned, are changeable over time and have wide variations both within and between cultures

Sex identifies the biological differences between men and women, such as women can give birth, and men provide sperm. Sex roles are universal.

Gender identifies the social relations between men and women. It refers to the relationship between men and women, boys and girls, and how this is socially constructed. Gender roles are dynamic and change over time.

Tab. 1:Definizioni inglesi di “sex” e “gender” nel 1998 e nel 2010 (fonte: Commissione europea).

Dal punto di vista dell’intervento sulla lingua, si cominciano a proporre soluzioni alternative, anche in base all’approccio che s’intende promuovere. Tra di esse, segnaliamo la pubblicazione, nel 2008, dell’opuscolo sulla Neutralità di genere nel linguaggio usato al Parlamento europeo. In apertura, l’allora segretario generale danese Harald Rømer parlava del Parlamento europeo come “la prima istituzione a fornire delle linee guida specifiche sul linguaggio neutro dal punto di vista di genere in tutte le lingue di lavoro comunitarie”. Il testo è peraltro divenuto, almeno per la lingua italiana, una delle guide di riferimento per l’uso corretto della lingua, tanto da essere inserito anche nel sito della Rete per l’eccellenza dell’italiano istituzionale (Rete REI)[4]. Ci accorgiamo però di quanto l’impostazione del documento sia diversa da quella data da Sabatini vent’anni prima. Leggiamo infatti formulazioni come:

(p. 7) Per motivi pratici, dato il contesto multilingue in cui opera il Parlamento europeo, si raccomanda di evitare la duplicazione delle forme (ad esempio: il/la) e di utilizzare invece termini neutri, quando si fa riferimento ai titoli inerenti alle funzioni professionali. Termini specifici per genere dovranno essere usati soltanto se il genere della persona è importante ai fini della discussione.

(p. 8) Si raccomanda pertanto di ricorrere ad espressioni alternative veramente neutre ed inclusive e di tralasciare espressioni che di per sé possano dar luogo a contestazioni.

Si capisce quindi che, dal punto di vista dell’intervento, non si dà più peso alla differenza quanto al superamento di essa per il tramite di strategie di neutralizzazione che mirino a rispettare tutte le identità di genere. Va detto che la tipologia di documenti da redigere o da tradurre implica anche politiche di intervento diverse in base alle finalità e alle persone destinarie del messaggio. La Confederazione svizzera decide così di evitare gli sdoppiamenti nell’italiano degli atti normativi per “evitare ambiguità e per non appesantire periodi a volte già complessi” (Cancelleria federale, 2012: 33), nonché di utilizzare il maschile inclusivo anche nei documenti descrittivi sempre per ragioni di leggibilità. D’altronde, nel linguaggio giuridico, come pure in quello amministrativo, la chiarezza e la leggibilità sono certamente due requisiti imprescindibili.

Quello che però va sottolineato è che approcci più orientati alla neutralizzazione e approcci mirati alla differenziazione e/o al non sessismo, finiscono per fornire una serie di tecniche di riformulazione che, usate in modo corretto in relazione al tipo di documento specifico, finiscono per essere efficaci e permettere effettivamente di acquisire un habitus redazionale conforme agli obiettivi prefissati.  

 

4. Strategie di riscrittura del testo.

Già Alma Sabatini rimarcava la dissimmetria nell’utilizzare parole al femminile laddove la lingua italiana ne prevedesse a livello normativo. Se cioè è indiscusso che i sostantivi maschili in –o diventano in –a al femminile, tuttavia forme come “sindaca, ministra…” restano ancora difficilmente accettate, persino, in molti casi, dalle stesse donne. Spesso si è parlato infatti di maschile “estensivo” o “di prestigio” proprio per quei casi in cui sono le donne a privilegiare la forma maschile per designare la propria carica. Persino nell’uso di parole epicene, che cioè restano invariate al maschile e al femminile ma che richiedono poi di accordare al genere grammaticale gli eventuali determinanti, ovvero gli articoli e/o aggettivi (es. la/il Presidente), si è notata la tendenza delle donne all’utilizzo del maschile nel caso dei nomi di mestiere o di titoli. In tal senso, Sabatini sottolineava la necessità di diffondere una consapevolezza linguistica e di scardinare usi sessisti anche grazie alla capacità dell’uso linguistico, se non addirittura del sistema linguistico nel complesso, di evolvere assieme al sociale. La prima soluzione proposta quindi dalle raccomandazioni era di femminilizzare le forme maschili laddove ci si rivolgesse alle donne, ovvero di usare termini come la vigile, la medica, la tecnica, la politica, la questrice / questora… L’uso reiterato di tali forme ne avrebbe determinato il successo e l’utilizzo nel tempo. Venivano inoltre suggerite anche prime forme di riformulazione come l’utilizzo di “persona” o “individuo” a sostituzione di “uomo”-“uomini” (es. “Caccia alla persona” invece di “Caccia all’uomo”), forme di “sdoppiamento” come “le bambini e i bambini” invece del maschile inclusivo “bambini”…

Tuttavia, a queste prime forme di intervento di riscrittura, se ne sono andate affiancando altre. Ad esempio, il Parlamento europeo, nel documento citato poc’anzi, sottolineava l’importanza di ricorrere a parole epicene, come pure di riformulare la frase in modo impersonale, e più raramenente al passivo per evitare ambiguità. Nel 2011, un gruppo di lavoro promosso dall’Istituto di Teoria e Tecniche dell’Informazione Giuridica (ITTIG) e dall’Accademia della Crusca proponeva nella Guida alla redazione degli atti amministrativi di usare

(p. 28) il genere grammaticale maschile o femminile pertinente alla persona alla quale si fa riferimento.

Nel caso di destinatari non definiti usare possibilmente formulazioni che non specificano il genere (la persona responsabile anziché il/la responsabile), nomi che fanno riferimento alla carica (la direzione anziché il direttore/la direttrice), perifrasi con chi/coloro + verbo alla terza persona singolare o plurale (chi è incaricato di…, coloro che hanno l’incarico di…). Se il riferimento è a più persone di genere maschile e femminile si può usare soltanto la forma maschile per i riferimenti interni al fine di non appesantire il testo (i cittadini, gli elettori). Si cerchi comunque ogni volta che è possibile di usare la forma maschile e femminile quando il riferimento è a persone determinate.

 

Cominciamo quindi a familiarizzare con vari tipi di intervento di riformulazione che possiamo sintetizzare di seguito:

– lo sdoppiamento della forma maschile o femminile, evitando per quanto possibile l’uso della barra per motivi di leggibilità (preferire perciò “i colleghi e le colleghe”, oppure laddove non possibile, l’utilizzo di forme per esteso come “il sindaco / la sindaca” piuttosto che “il/la sindaco/a”);

– l’utilizzo di epiceni ;

– la riformulazione con pronomi relativi o indefiniti (es. “chi opera” / “chiunque operi” invece di “operatore”);

– l’uso di termini collettivi (es. “personale tecnico”, “personale amministrativo”…);

– l’uso di sostantivi neutri[5] come “persona, individuo, singolo…”;

– l’utilizzo di strutture impersonali e/o passive (es. “si deve”; “le candidature dovranno pervenire entro e non oltre”);

– altri tipi di riformulazione o perifrasi neutralizzanti (es. “Contratto di Ricerca” invece di “Contratto di Ricercatore”).

Certamente, tali strategie vanno utilizzate e adattate in base all’utenza e alla tipologia di documenti. Ad esempio, alcune riformulazioni, come pure l’utilizzo della struttura passiva, non sono permesse in ambito giuridico qualora creino eventuali ambiguità. Altro caso è quello della modulistica che può tollerare maggiormente l’utilizzo di forme di sdoppiamento con le barre che creerebbero invece più facilmente problemi di leggibilità in documenti di altra natura.

Quanto ai testi giuridici, va segnalato che l’utilizzo del maschile “neutro” come rinviante a categorie astratte resta uno dei problemi di più difficile risoluzione, anche perché risulta la forma più usata in questo tipo di documenti. Si tratta, infatti, di una prassi ormai consolidata che peraltro è solitamente raccomandata nelle guide di redazione, le quali invitano eventualmente a esplicitare in nota di apertura che il maschile si riferisce alle persone di entrambe i sessi (cfr. la guida già citata della Confederazione svizzera). Tuttavia, questo uso risulta problematico per per due ragioni. La prima è che già Sabatini faceva notare come di fatto le donne abbiano “maggior difficoltà dei maschi ad identificarsi con pronomi maschili” (Sabatini, 1987: 23); la seconda è che la necessità di marcare in nota il rinvio a entrambe i sessi indica la difficoltà a differenziare l’astrazione dalla persona, ovvero a non poter fare a meno di rivolgersi di fatto a individui reali. A tal fine, riportiamo di seguito un esempio per chiarire ulteriormente questo punto. L’esempio è tratto da un modulo messo a disposizione on line dalla Provincia di Torino :

 

A cura del Richiedente

Il Richiedente, presa visione dell’informativa allegata (ai sensi dell’art. 13 del D.lg. 196/03), fornisce i seguenti dati personali necessari per l’abilitazione al servizio e per corrispondere con quanto prescritto dalla legge n. 155/05 […]

Il Richiedente inoltre è informato che all’acquisizione delle credenziali di accesso al servizio, contestuale alla presentazione di questo modulo, sono associati i seguenti oneri e responsabilità:

  • Il Richiedente si obbliga a non divulgare password e/o login e si assume ogni conseguente onere e responsabilità in ordine al traffico generato ed immesso sulla Piattaforma tramite la propria utenza.
  • Il Richiedente con la login e la password assegnatagli non potrà effettuare più collegamenti contemporaneamente.
  • Il Richiedente deve altresì adottare tutte le precauzioni possibili e necessarie affinchè le attività svolte avvengano nel rispetto della legge e dei regolamenti in materia di reati informatici, di diritto d’autore/copyright e altre privative.

Nel caso citato, è indiscusso che il maschile a valenza “neutra”, che cioè rinvia alla categoria del “richiedente”, divenga già dalla prima riga la persona che concretamente prende visione dell’informativa e fornisce i propri dati, dando perciò luogo a un maschile “inclusivo” che cioè include sia l’uomo sia la donna. È perciò davvero difficile stabilire, dal punto di vista linguistico, dove possa parlarsi di categoria e dove si passi alla persona specifica. Nell’esempio, era possibile ovviare al problema riformulando eventualmente “richiedente” con “chi richiede” o con “la persona richiedente”[6].   

Meno controverso e più intuitivo da risolvere è il caso dove, invece, è esplicitata da subito la persona alla quale ci si riferisce, come nell’esempio seguente, tratto da un contratto di lavoro redatto in modo incoerente all’Università di Torino:

La Dott.ssa (…) nata (…)
risultata vincitrice (…) viene assunta in prova (…) il dipendente si intende confermato in servizio e gli viene riconosciuta l’anzianità struttura presso la quale sarà assegnato il lavoratore (…)

Il contraente  (Dott.ssa …)

In questo caso la riformulazione si limita a intervenire sulla mancata femminilizzazione per rettificare correttamente (“la dipendente… confermata… sarà assegnata la lavoratrice… la contraente”).

Più sottile il caso incontrato invece a livello di un recente disegno di legge regionale, dove si legge:

L’equipe è formata da ginecologa, pediatra, ostetrica, psicologa, assistente sociale, infermiera, medico… e di altre figure ritenute utili alla presa in carico e garantisce la reperibilità H24 di almeno un operatore con competenze anche nell’attivazione immediata dei servizi di tutela del proprio riferimento territoriale

Sebbene, infatti, in questo caso si potesse ovviare al problema dell’evidente dissimmetria legata a stereotipi di genere peraltro piuttosto diffusi (la donna infermiera vs l’uomo medico), ricorrendo a riformulazioni neutre come “personale specializzato in ginecologia, pediatria…”, tuttavia il testo non è stato corretto perché di fatto nel tipo di contesto specifico, concernente l’ambito della violenza di genere, e specificatamente alle donne, l’equipe è formata volutamente da personale femminile avente determinate funzioni. Questa scelta ingenera ancor più il paradosso legato all’interpretazione del “medico” in chiusura dell’enunciato, se cioè vada inteso come maschile marcato, rinviante al medico uomo, o se debba intendersi come maschile inclusivo, rinviante a entrambi i sessi.

Per ultimo, è bene notare che nel proporre le varie tecniche di riformulazione, la tentazione è forte di confondere il concetto di “genere” con quello di “sesso”. Ciò avviene perché la storia del concetto, anche e non solo nell’ambito degli sforzi legati alle politiche linguistiche volontaristiche condotte in Italia, ha fatto sì che spesso esso fosse usato come sinonimo di “donna” o di “sesso” [7], sebbene fosse stato definito da subito diversamente in relazione a quest’ultimo (cfr. le definizioni in tab. 1). Tuttavia, “genere” è un concetto che, soprattutto recentemente, è divenuto sempre più olistico finendo per correlarsi all’identità stessa della persona. Per cogliere appieno questa nuova estensione del concetto, riportiamo l’esempio tratto da un’affissione diffusa recentemente in un’università  belga:

L’affisso ci permette di valutare come il concetto d’identità di genere decostruisca la dicotomia sessuale tradizionalmente intesa, rinviando a identità fluide, agender, transgender, intersessuali… In tal senso, ci rendiamo allora conto di quanto le politiche di neutralizzazione siano da intendersi potenzialmente come realmente inclusive rispetto ad altre scelte, senza per questo occultare nessun tipo di differenza.

 

5. Quali prospettive, in guisa di conclusione.

L’iniziativa presa recentemente con un decreto del febbraio 2015 dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri di istituire un gruppo di esperti ed esperte con il mandato di “analizzare i linguaggi correnti utilizzati in ambito politico, sociale, lavorativo, culturale ed economico; offrire una rilettura dei linguaggi in un’ottica di genere; elaborare una proposta operativa” sia per la Pubblica Amministrazione sia per i Media, è sicuramente sintomo del fatto che i tempi sono ormai maturi per agire realmente e congiuntamente sugli usi linguistici al fine di realizzare la parità di genere nel linguaggio, intendendo per essa la capacità di rispettare tutte le differenze di genere e le sensibilità. Va segnalato il fatto che a questa iniziativa ne sono seguite diverse altre sul territorio.

Da parte dei media, segnaliamo la recente pubblicazione del volume Tutt’altro Genere d’Informazione, disponibile in CD-rom, rilasciato dal Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti il 13 settembre 2015 e nel quale si denuncia la presenza di stereotipi legati ai ruoli di genere reiterati nella stampa nazionale. Il volume si aggiunge a quello pubblicato on line dalla rete nazionale delle Giornaliste Unite LIbere Autonome (GIULIA) nel 2014 dal titolo Donne, grammatiche e media[8].

A livello locale, alle molte ricerche e azioni effettuate in varie Regioni, soprattutto in Toscana, si sono aggiunte, più recentemente, iniziative congiunte da parte degli enti locali e di altre realtà territoriali. È il caso del Piemonte dove, su iniziativa del Comune di Torino, si è costituito nel giugno 2015 un tavolo di lavoro dedicato alla redazione della carta di intenti dal titolo “Io parlo, non discrimino”, volta a creare sinergie tra gli enti locali, le associazioni territoriali, l’Università di Torino, il Politecnico e i media locali per effettuare azioni congiunte di sensibilizzazione alla parità di genere nel linguaggio e di prevenzione delle discriminazioni legate a eventuali usi sessisti o omofobi della lingua. Tra le prime ricadute di questa iniziativa, citiamo la riscrittura dello Statuto della Città di Torino in un linguaggio che non risulti discriminatorio dal punto di vista di genere. Parallelamente, l’Università di Torino, oltre a partecipare al tavolo di lavoro suddetto[9], ha presentato l’8 marzo 2016 le Linee Guida Per un approccio di genere al linguaggio amministrativo, redatte su iniziativa della Consigliera di Fiducia con il supporto del Comitato Unico di Garanzia per le pari opportunità dell’Ateneo (CUG) e del Centro Interdisciplinare di Ricerche e Studi delle Donne e di genere (CIRSDE).

Per concludere, va detto quindi che esistono raccomandazioni ormai abbastanza omogenee quanto agli interventi da operare sugli “ab-usi” linguistici, da dover calibrare certamente in relazione alle diverse tipologie di documenti e di destinatari del testo. È evidente, infine, che stiamo assistendo all’invio di segnali forti, tanto a livello istituzionale quanto a livello mediatico e culturale, che, partendo sia centralmente sia localmente, stanno diffondendosi, permettendo conseguentemente di creare le precondizioni necessarie alla presa di coscienza metalinguistica, cioè di riflessione consapevole sulla lingua, che è fondamentale per l’acquisizione di una reale cittadinanza della lingua.In fondo, è al singolo individuo, in quanto cittadino, che spetta, ci sia permesso il gioco di parole, “fare la differenza”.

 

Bibliografia.

Cancelleria federale della Confederazione svizzera (2012), Pari trattamento linguistico. Guida al pari trattamento linguistico di donna e uomo nei testi ufficiali della Confederazione, Berna.

Commissione europea (1998), 100 parole per la parità. Glossario di termini sulla parità tra le donne e gli uomini, in http://www.regione.piemonte.it/pariopportunita/dwd3/100-parole-per-la-parita.pdf. Consultato il 30 dicembre 2015.

Commissione europea (2010), Strategy for equality between women and men 2010-2015, in http://ec.europa.eu/justice/gender-equality/files/strategy_equality_women_men_en.pdf. Consultato il 30 dicembre 2015.

Franchini M. (2012), “Costituzionalizzare l’italiano”: lingua ufficiale o lingua culturale ?, in Rivista AIC, 3/2012, in http://www.rivistaaic.it/costituzionalizzare-l-italiano-lingua-ufficiale-o-lingua-culturale.html. Consultato il 30 dicembre 2015.

Galisson R. (1988), « Culture et lexiculture partagées : les mots comme lieux d’observation des faits culturels », in Études de linguistique appliquée, n. 69, pp. 74-90.

Guida alla redazione degli atti amministrativi (2011), Firenze, Ittig e Accademia della Crusca.

Guilhaumou J. (1989), La langue politique et la révolution française, Parigi, Klinckieck.

Parlamento europeo (2008), La neutralità di genere nel linguaggio usato al Parlamento europeo, in http://ec.europa.eu/translation/italian/rei/drafting/documents/neutralita_genere_it.pdf.

Consultato il 30 dicembre 2015.

Raus R. (2015), La traduzione del termine inglese gender e dei sintagmi derivati nel francese e nell’italiano del Parlamento europeo (2004-2009), in Carpi E. (a cura di), Prospettive plurilingui e interdisciplinari nel discorso specialistico, Pisa, Pisa University Press, pp. 7-31.

Robustelli C. (2012), Linee guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo, in

http://aiccre.it/wp-content/uploads/Robustelli-Linee-guida-per-luso-del-genere-nel-linguaggio-amministrativo.pdf.Consultato il 30 dicembre 2015.

Sabatini A. (1987), Il Sessismo nella lingua italiana, Presidenza del Consiglio dei Ministri, ed. del 1993  in  http://www.funzionepubblica.gov.it/sites/funzionepubblica.gov.it/files/documenti/Normativa%20e%20Documentazione/Dossier%20Pari%20opportunit%C3%A0/linguaggio_non_sessista.pdf. Consultato il 30 dicembre 2015.

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Vecchiato S. (2004), Le sexisme dans le langage. Notes sur l’italien et le français, in Raus R. (a cura di), Linguaggi e discriminazioni, Torino, CIRSDe, in http://www.cirsde.unito.it.Consultato il 30 dicembre 2015.

Yaguello M. (1978), Les mots et les femmes, Parigi, Payot.


 


[1] Professoressa Associata di Linguistica francese presso l’Università di Torino.

 

[2] I corsivi sono i nostri.

 

[3] L’annesso, pubblicato di fatto nel 2011, è tratto dal documento di lavoro della Commissione europea (background document) correlato alla Strategia del 2010 ed è disponibile nella sola versione inglese. Le definizioni sono state in seguito integrate al glossario online della Commissione europea Cfr. URL: http://ec.europa.eu/justice/gender-equality/files/strategy_equality_women_men_en.pdf.

 

[5] Come nell’esempio citato del Parlamento europeo, per “neutro” intendiamo il termine realmente inclusivo dal punto di vista semantico, e non le parole di genere grammaticale neutro, dato che, come ben noto, la lingua italiana, a differenza della latina, distingue solo i generi grammaticali maschile e femminile.

 

[6] Va ribadito, però, che i meccanismi sinonimici e le riformulazioni tipiche della lingua possono non essere accettabili nel caso del linguaggio giuridico. È il caso, ad esempio, della riformulazione con “persona” che potrebbe ingenerare confusione rispetto alla persona giuridica, nonché della struttura “persona + aggettivo qualificativo” che potrebbe appesantire testi già complessi, come fa notare la Confederazione svizzera (Cancelleria federale, 2012: 27).

 

[7] È questa una questione che di fatto non concerne la sola lingua italiana, ma anche l’inglese, ovvero la lingua dalla quale proviene il neologismo gender, come già faceva notare l’UNESCO nel 1999 (UNESCO, 1999: 5).

 

[9] La Consigliera di fiducia, la Presidente del CUG e una rappresentante del Centro Interdisciplinare di Ricerche e di Studi delle Donne e di Genere (CIRSDe) hanno infatti partecipato ai lavori, presentando anche la propria esperienza sulle linee guida allora in corso d’opera.