La Provincia rivisitata

Mario Rey[1]

E’ intenzione di queste note proporre alcune riflessioni sulla Provincia, intesa come ente territoriale elettivo multifunzionale di area vasta. Darei per scontate le linee generali di un lungo dibattito, e soprattutto le caratteristiche della cd riforma Delrio del 2015, che ha conferito a queste istituzioni una connotazione di associazione intercomunale. Per semplificazione includerei le città metropolitane, pur tenendo conto delle loro specificità di essere enti di area vasta con al cuore un grande comune. Il quesito che viene riproposto è quello di un ritorno alla elezione diretta degli organi di governo di queste istituzioni. Riecheggiando il quesito del film “Il ponte delle spie”, ci si chiede “servirebbe”? A cosa? A quali condizioni?

Mi parrebbe pragmaticamente utile partire da due assunti: primo, quello di addivenire a riforme che intacchino il meno possibile altri livelli istituzionali di governo del territorio. Cioè che lascino i comuni così come sono, e le regioni così come sono. Rimettere in discussione anche questi livelli istituzionali sarebbe impresa ciclopica. Secondo, impresa ardita, è possibile addivenire a soluzioni istituzionalmente differenziate, come cercherò di suggerire? La realtà nazionale è molto variegata: Regioni e Province grandi, medie, piccole per territorio, popolazione, numero di comuni, dai grandi ai micro borghi. E’ possibile avere un unico schema avente validità nazionale? Non necessariamente, forse.

Prendiamo atto di una complessità di partenza di questo tema. Intervengono competenze multiple a dire la loro. I geografi e gli economisti del territorio per cercare di definire il concetto di “area vasta”. Gli economisti pubblici per verificare le soluzioni in base a criteri di efficacia (a cosa serve?) e di efficienza (minori costi, a parità di efficacia). I giuspubblicisti per individuare le soluzioni istituzionali e normative più consone. Nel caso del Piemonte, l’IRES ha scandagliato a fondo questi temi.

Con rischio di essere sommario, partirei da uno dei concetti più accettati di “area vasta”: si tratterebbe dell’area che in prevalenza interclude i pendolarismi quotidiani casa lavoro. Di qui un tentativo di differenziare nell’ambito dei servizi pubblici quelli strettamente locali (es. una scuola primaria) da quelli di area vasta (es un ospedale dotato di ampio quadro di specializzazioni). Non posso non ricordare un contributo risalente a anni or sono, ma metodologicamente molto illuminante, prodotto dalla statunitense ACIR (Advisory Commission on Intergovernmental Relations), dedicato appunto a “Local vs Areawide Public Services”. Qui il tema diventa terreno di esplorazione soprattutto degli studiosi del diritto pubblico, in concorso con gli economisti pubblici, come si è detto, preoccupati del binomio efficacia/efficienza. Infatti il cuore del tema oggetto di queste riflessioni è: quale strumento istituzionale per il governo di area vasta?

La prima soluzione è quella della associazione tra i comuni, che siano 27 della Provincia di Rimini, o 316 della Provincia o Città metropolitana di Torino, poco importa (secondo taluno). Con elezione di secondo grado degli organi di governo. Che si tratti di una Comunità montana o dell’Unione europea, questo è lo strumento istituzionale. Facile da costruire. Debolissimo nell’efficacia della sua azione. Forse con una qualche validità nella gestione dell’esistente, ma sterile nella configurazione di vasti orizzonti, insomma privo di vista lunga. Tenderanno a prevalere le singole individualità associate, specie se dovesse valere la decisione solo per voto unanime. Insomma la perpetuazione della esperienza dello storico Parlamento polacco. Questa è la situazione attuale della Provincia in Italia. Insomma un modello di palese inadeguatezza.

La seconda soluzione è quella dell’ente strumentale monofunzionale. L’esempio più significativo è quello delle Aziende sanitarie locali (guarda caso trasmigrate a questa configurazione dopo essere nate nel 1978 come associazioni intercomunali, le Unità sanitarie o sociosanitarie locali, le c.d. USSL). La caratteristica della monofunzionalità è sempre vista con sospetto dagli economisti pubblici, che ritengono più efficienti le istituzioni multifunzionali, per una molteplicità di motivi. Ma la monofunzionalità può essere vincente in termini di efficacia, in ragione delle specificità del settore, come è ad esempio quello della sanità pubblica, che nel frattempo è stato alleggerito dalle attività socioassistenziali, rimaste in capo ai comuni o a loro associazioni.

La terza soluzione è quella configurata all’inizio: ente territoriale elettivo multifunzionale di area vasta. Come erano le vecchie Province? In parte sì, ma con alcune precisazioni, che sono al cuore delle mie riflessioni, e che rischiano di rendere dubbia una riforma che intendesse rieditare le Province elettive tutte così come erano e quante erano. Infatti non bisogna dimenticare che nel corso dei decenni passati non è stato possibile resistere alla tentazione della proliferazione e ahimè della frammentazione delle Province. Ogni centro di medie dimensioni ha voluto la sua Provincia, creando istituzioni scarsamente efficaci, a causa delle ridotte dimensioni territoriali, e inefficienti e molto costose a causa della moltiplicazione degli apparati. La storica Unione delle Province italiane ha con questo decretato il suo suicidio.

Allora la risposta al “servirebbe”, richiede alcune ipotesi. In primo luogo le azioni pubbliche che rientrerebbero nel campo di azione della Provincia non riguarderebbero ovviamente ambiti che nel tempo hanno avuto un passaggio ormai consolidato alla competenza di altri soggetti (Servizi psichiatrici e assistenziali). La Provincia potrebbe continuare ad avere ruoli importanti nei tradizionali servizi infrastrutturali (edilizia dell’istruzione superiore; viabilità sovracomunale; servizi ambientali). In secondo luogo la Provincia potrebbe avere un ruolo importante nel sostegno in termini di effettiva sussidiarietà nelle realtà, come quella piemontese, connotate da molti comuni piccoli o medio piccoli. Certo sono una grande ricchezza e un forte supporto a identità preziose. Ma al tempo stesso sono una grande debolezza sotto il profilo della efficacia e della efficienza.

Ma vi è un ambito su cui si gioca il ruolo della Provincia, non facile da spiegare ed identificare. E’ quello prima richiamato della visione lunga. Un ente capace di esibire capacità di programmazione, progettazione, gestione di joint venture con Università, mondo delle imprese, Fondazioni, su temi quali infrastrutture, trasporti, servizi a rete, ambiente, trasferimento tecnologico, cultura. Capace di reperire fondi e gestirli per progetti sostenibili. In tal senso dotato di un “massa critica” demografica e territoriale. L’assenza del dispiegamento di questo ruolo forse non si evidenzia in termini di servizi più carenti, qualche strada meno asfaltata, qualche istituto scolastico mal mantenuto. Il prezzo pagato è assenza di crescita, di sviluppo. Il prezzo pagato lo si misura in termini di marginalità e declino, in termini di assenza o ritardo nel disegno di grandi infrastrutture del territorio.

Si potrà obiettare che questo terzo ruolo dovrebbe fare capo tipicamente alle Regioni, dotate in più della loro competenza legislativa. Ma qui soccorre la diversa situazione nazionale. Le Regioni piccole, quindi con una relativa omogeneità e compattezza territoriale, hanno più facilità a dispiegare questo ruolo programmatorio. In qualche caso, come la Valle d’Aosta, ruolo regionale e ruolo provinciale sono fusi. Nel caso del Piemonte, è pensabile che la Regione possa governare la programmazione territoriale di situazioni così differenziate?

Riassumendo, la risposta al “servirebbe” concerne tre ambiti di competenza: 1) Funzione di gestione amministrativa di servizi territoriali. 2) Funzione di sussidiarietà per le istituzioni comunali. 3) Funzione di programmazione territoriale. Ma a proposito di questo terzo ruolo è giocoforza constatare che esso esige una istituzione forte per massa critica dimensionale (territorio, popolazione, numero dei comuni) e per elettività diretta, e che non sia sovrapponibile con la Regione di riferimento. In altre parole questo modello è realisticamente configurabile con grandi Province in grandi Regioni. Grandi Province in piccole Regioni sfocerebbero necessariamente in una sovrapposizione di tipo valdostano. Piccole Province si configurerebbero, come ora sono, come istituzioni intercomunali.

Di qui una possibile mediazione di flessibilità e fantasia istituzionale rappresentata dal creare due modelli di Provincia: in primo luogo la Provincia di tipo A, strutturalmente nella forma di associazione intercomunale secondo la riforma Delrio, e con compiti soprattutto del primo tipo (gestione amministrativa) e del secondo tipo (funzioni di sussidiarietà). In tal caso i compiti di programmazione territoriale di area vasta fanno capo alla Regione di riferimento. Soprattutto questo modello si adatta per piccole Province in piccole Regioni. In secondo luogo la Provincia di tipo B, strutturalmente ad elezione diretta, chiamata a svolgere altresì compiti di programmazione territoriale di area vasta, oltre a quelli di gestione e di sussidiarietà. Soprattutto questo modello si adatta per grandi Province in grandi Regioni. Nel caso specifico del nostro Piemonte, potrebbero sussistere quattro Province: 1) Nord Est, con accorpamento di Biella, Novara, VCO, Vercelli. 2) Sud Est, con accorpamento di Alessandria e Asti. 3) Cuneo. 4) Torino.

In questa ipotesi le Città metropolitane rientrerebbero nella seconda fascia ad elettività diretta. A tutti gli effetti esse sono Province metropolitane: non risulta vi siano casi in cui la creazione delle Città metropolitane abbia determinato fusioni o accorpamenti tra comuni preesistenti, meno che mai coinvolgenti il Comune centrale.

P.S. Resta il problema dei rapporti tra Provincia elettiva e la Città centrale. Questo in particolare può presentare elementi di criticità di una certa entità nel caso della Città/Provincia metropolitana, dato il “peso” che tende a svolgere la Città centrale. Questa situazione assume particolari connotati di natura psico-antropologica nel caso di Torino e del resto della Provincia: la reciproca ignoranza è quasi totale. Mi sia consentita una digressione aneddotica. Quando ricoprivo l’incarico di Vicepresidente della Provincia di Torino, mi veniva spesso richiesto di assicurare la rappresentanza dell’Ente in varie manifestazioni pubbliche (Carabinieri; Finanzieri; Alpini; Bersaglieri, Avis). In tali circostanze mi era dato incontrare il caro amico Domenico Carpanini, Vicesindaco di Torino, cui era affidato analogo ruolo. A me, provinciale canavesano, toccava il compito di descrivere a Domenico il mondo della Provincia. Dove sono Nomaglio, Frassinetto, Cumiana? A lui toccava il compito di descrivermi Torino. Anche perché per me Campidoglio è qualcosa che ha a che fare con Roma o con Washington, e Parella è un comune canavesano. Concludevamo che a piazza Massaua, in uscita e in entrata da e per Torino, sarebbe stato utile affiggere in entrambi i sensi la nota scritta del limes romano “HIC SUNT LEONES”.

  1. Già docente di Scienza delle Finanze dell’Università degli Studi di Torino. Ha ricoperto l’incarico di Sindaco di Ivrea e di Vicepresidente della Provincia di Torino (in formato ante Delrio).