Gli stretti confini tra potestà legislativa regionale e potere normativo comunale in materia di patrimonio edilizio dismesso con criticità. Nota all’ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale del T.A.R. Lombardia, sez. II, 10 febbraio 2021, n. 371

Sophie Vigna[1]

(ABSTRACT) ITA

Ancora dopo vent’anni dalla riforma costituzionale, l. n. 3 del 2001, il riparto di competenze legislative fra Stato e Regioni genera in concreto delle difficoltà. Il sistema dell’allocazione dei poteri accolto dalla Costituzione è però ben più articolato e attribuisce un ruolo non trascurabile anche agli enti locali. In relazione a questi, le maggiori perplessità si originano intorno all’attività di pianificazione territoriale, dove sono coinvolti almeno tre livelli di governo, ognuno con un ruolo specifico. Invero, il modello astratto delineato in Costituzione dev’essere calato nella realtà concreta ed in questo processo sbiadiscono le linee nette di demarcazione fra le competenze dei vari enti, rendendo frequenti gli sconfinamenti o i tentativi, più o meno consapevoli, di estendere le proprie prerogative a svantaggio degli altri soggetti istituzionali. Proprio questo è l’oggetto dell’ordinanza di rimessione riguardante l’40 bis della l.r. Lombardia n. 12/2005 in rapporto agli artt. 3, 5, 97, 114, c. 2, 117, c. 2, lett. p), 117, c. 3 e 6, e 118 della Costituzione.

(ABSTRACT) ENG

Even after several years from the constitutional reform n. 3 in 2001, the split of power between the central State and the Region is still generating practical troubles. This situation gets worse when the local authorities are included in the equation of the power allocation provided by the Constitution. One of the major doubts arise about the territorial planning activity. There are at least three levels of governance involved, each with a specific defined sphere of competence. Hence, it is challenging to outline the boundaries of power in this matter, so that authority overflowing can occur. Consequently, it is required a statement of the Constitutional Court on the issue, in order to guarantee the respect of the constitutional system.

Sommario:

1. Il caso oggetto di ricorso. – 2. I dubbi di incostituzionalità della legge regionale rispetto all’art. 117 Cost. – 3. Funzioni amministrative, potestà regolamentare e principio di sussidiarietà. – 4. I profili di criticità delle disposizioni della cui incostituzionalità si dubita rispetto ai criteri elaborati dalla giurisprudenza costituzionale. – 5. Considerazioni conclusive.

1. Il caso oggetto di ricorso.

La vicenda da cui trae origine la questione di legittimità costituzionale ha ad oggetto la qualificazione di un immobile come “edificio abbandonato e degradato” da parte del Piano delle Regole (P.d.R.) del Piano di Governo del Territorio (P.G.T.)[2] del Comune di Milano, per quanto attiene alla consequenziale sottoposizione del bene al regime previsto dall’art. 11 delle Norme di Attuazione (N.d.A.) del medesimo Piano. La proprietaria dell’immobile così qualificato ha impugnato la deliberazione del Consiglio comunale di Milano n. 34 del 14 ottobre 2019[3], che aveva approvato il nuovo P.G.T., e ne ha domandato l’annullamento, lamentando, fra i vari motivi, il contrasto dell’art. 11 N.d.A. con l’art. 40 bis[4] della legge regionale della Lombardia n. 12 dell’11 marzo 2005, recante «Legge per il governo del territorio».

L’art. 40-bis costituisce norma gerarchicamente sovraordinata rispetto all’art. 11 delle N.d.A. del P.d.R. del Comune di Milano; tuttavia, le due disposizioni, pur avendo il medesimo ambito applicativo, delineano regimi giuridici fra loro incompatibili in materia di recupero degli immobili degradati. La legge regionale è estremamente dettagliata e prevede un termine pari a tre anni dalla qualificazione del bene come dismesso[5] per la presentazione di progetti di recupero, riconoscendo ai Comuni la facoltà di fissare un diverso limite temporale, che deve, comunque, essere compreso fra ventiquattro mesi e cinque anni; in ogni caso (comma 5) in favore degli interventi di recupero è garantita l’attribuzione di un incremento dei diritti edificatori in una misura compresa fra il 10 ed il 25%, ma, in assenza di una deliberazione comunale sul punto, viene riconosciuto un aumento fisso del 20%, a cui deve aggiungersi poi un ulteriore 5% al ricorrere di talune condizioni (comma 6). È inoltre disposta una limitazione alla prerogativa dei Comuni di richiedere la dotazione di aree per servizi e attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale.

Quelli descritti costituiscono peraltro i punti di maggiore dissonanza con le N.d.A. del P.d.R. sugli edifici in stato di degrado, posto che l’art. 11 N.d.A. stabilisce, invece, un termine di diciotto mesi dall’individuazione degli immobili per avviare i lavori di recupero, senza assicurare premi sui diritti edificatori, e dispone che, in via alternativa, si proceda senza indugi alla demolizione, soluzione che l’art. 40-bis, invece, contempla solo come residuale, qualora ogni tentativo di incentivare il proprietario ad interventi di recupero sia stato vano.

La difesa comunale, preso atto dell’impossibilità di far coesistere le due disposizioni senza dar vita a situazioni giuridiche incoerenti, ha eccepito l’incostituzionalità dell’art. 40-bis della l.r. n. 12/2005, in quanto lesivo delle prerogative pianificatorie comunali, e il T.A.R. Lombardia ha ritenuto la questione rilevante e non manifestamente infondata in relazione agli artt. 3, 5, 97, 114, secondo comma, 117, secondo comma, lett. p), terzo e sesto comma, e 118 della Costituzione, rimettendo dunque gli atti alla Corte costituzionale.

2. I dubbi di incostituzionalità della legge regionale rispetto all’art. 117 Cost.

Uno dei profili che il giudice amministrativo lombardo mette in maggior risalto è il contrasto della disposizione censurata con l’art. 117 Cost., nelle parti in cui assume rilievo la materia dell’urbanistica (c. 3). Invero, tale articolo riveste un ruolo nevralgico nello stabilire le direttrici dell’ordinamento costituzionale, così come riformato dalla l. cost. n. 3 del 2001, in merito al riparto dei poteri legislativo e regolamentare, consentendo perciò di definire le posizioni reciproche su cui si attestano i diversi enti territoriali rispetto alle prerogative a loro spettanti.

Restringendo l’analisi alla disciplina delineata dall’art. 117 Cost. in relazione al solo ambito urbanistico, l’ideale punto di partenza per operare una sistematizzazione è costituito dall’art. 117, c. 3 Cost., il quale annovera il “governo del territorio” fra le materie di competenza concorrente fra Stato e Regioni. È ormai pacifico, infatti, che l’urbanistica rientri nel campo del “governo del territorio”[6] e di conseguenza sarà compito del legislatore statale fissare i principi fondamentali nel cui rispetto le Regioni potranno esercitare la propria potestà legislativa[7].

Si deve poi considerare che allo Stato è rimesso in via esclusiva il potere di determinare le «funzioni fondamentali di Comuni, Province, e Città metropolitane» (art. 117, c. 2, lett. p), Cost.), nel cui ambito è stata per l’appunto ricompresa la pianificazione urbanistica (l. 30 luglio 2010, n. 122)[8] quale «tradizionale prerogativa dei Comuni» (C. Cost. sent. 16 luglio 2019, n. 179),[9] sebbene non si possa trascurare che questa tematica presenta molteplici punti di contatto anche con altre materie, quali la tutela del paesaggio e dei beni culturali, richiedendo in tali casi un approccio sinergico fra i vari enti coinvolti, in ossequio al principio di leale collaborazione[10].

Il riconoscimento di “funzioni fondamentali” degli enti locali porta in luce la discussa problematica circa la significatività del discrimine tra funzioni attribuite, conferite e proprie, che si ricava dalla lettera dell’art. 118 Cost. Sulla rilevanza di questa distinzione si attestano posizioni discordanti[11], tuttavia si riscontra una certa uniformità di vedute su come le funzioni fondamentali incidano sul sistema dettato dall’art. 118 Cost.

Si deve, anzitutto, premettere che la dottrina unanime ritiene che l’art. 118 Cost. non costituisca una norma direttamente attributiva di funzioni[12], ragion per cui non sarebbe possibile asserire che i Comuni siano titolari naturali dell’universalità delle funzioni amministrative. D’altronde, il superamento di qualsivoglia criterio aprioristico di titolarità dei poteri amministrativi è considerato uno degli elementi di maggior discontinuità con la disciplina dell’art. 118 Cost. anteriforma del Titolo V, a favore di un meccanismo dinamico d’individuazione fondato sui principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza[13].

Pertanto, nel sistema costituzionale vigente le funzioni amministrative «sono di tutti e di nessuno»[14], nondimeno, la natura non auto-applicativa della disposizione non toglie che il comma 1 dell’art. 118 Cost. riconosca una preferenza, costituzionalmente garantita, per il livello territoriale più prossimo ai cittadini; non v’è dubbio che questo, unitamente al necessario rispetto dei principi anzidetti, rappresenti un vincolo per il legislatore regionale/statale nel momento in cui deve valutare l’allocazione ideale per l’esercizio delle funzioni amministrative.

Le “funzioni fondamentali” vanno ad influire proprio su tale ambito di discrezionalità riservato al legislatore. Questo in ragione del fatto che sono considerate “funzioni fondamentali” quelle connaturate ad una certa tipologia di ente[15], perciò spettanti indistintamente a tutti gli enti locali rientranti in quel livello, in quanto godono della medesima natura; sarebbe contrario al principio di uguaglianza prevederne, invece, una titolarità differenziata[16].

Invero, quando lo Stato riconosce la natura fondamentale di una funzione rispetto agli enti di un certo livello, come nel caso della pianificazione territoriale per i Comuni, aziona un meccanismo di inibizione che impedisce alle Regioni di compiere valutazioni ulteriori circa la necessità di attribuire l’esercizio di quella funzione in modo differenziato fra enti dello stesso livello[17], ad esempio con un discrimine basato sul numero di abitanti.

3. Funzioni amministrative, potestà regolamentare e principio di sussidiarietà.

Tutto quanto anzidetto costituisce la premessa necessaria per comprendere come la legge regionale lombarda n. 12/2005 avrebbe leso le prerogative del Comune, rendendo così doveroso per il giudice amministrativo sollevare questione di legittimità costituzionale.

Si deve considerare, infatti, che l’art. 117, c. 6 Cost.[18], al terzo periodo stabilisce che: « I Comuni, le Province e le Città metropolitane hanno potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite»; peraltro, lo stesso comma riconosce una potestà regolamentare generale rispettivamente in capo allo Stato per le materie di legislazione esclusiva ed in capo alle Regioni in ogni altra materia.

La formulazione non esattamente cristallina della disposizione ha dato adito a molteplici dubbi interpretativi, a cui la dottrina ha tentato di dare risposta. In questa sede le questioni che vengono in rilievo sono principalmente due: a) determinare quale relazione sussista tra potestà normativa comunale e funzioni amministrative, in specie quelle fondamentali; b) comprendere se la potestà regolamentare comunale costituisca un limite verso il basso per la legge regionale.

In merito alla prima problematica, è stato asserito che l’art. 117, c. 6 Cost., superato il parallelismo anteriforma fra potere legislativo e potere amministrativo, abbia instaurato un nuovo parallelismo fra potestà amministrativa e potestà regolamentare; conseguentemente, dall’attribuzione al Comune di funzioni da parte della legge discenderebbe, per il disposto costituzionale, anche il potere di regolamentarne la disciplina e l’organizzazione[19].

Invero, la norma parla di funzioni “attribuite” e riapre quindi l’annosa questione sulla riconducibilità delle funzioni “fondamentali” e quelle “attribuite”. Nondimeno, se si prendono le mosse dall’impostazione che ritiene tutte le funzioni siano ad oggi “attribuite”, essendo comunque imprescindibile un intervento legislativo che ne definisca la titolarità, allora le funzioni “fondamentali” non sarebbero altro che un tipo particolare di funzioni “attribuite”, perciò anche per queste dev’essere assicurata la rispettiva potestà normativa. Ad analoga conclusione si giunge valorizzando la nozione di funzioni “fondamentali” quale nucleo primigenio di funzioni amministrative di un determinato livello di ente; infatti, se l’art. 117, c. 6 Cost. ritiene indispensabile che il Comune eserciti la potestà regolamentare rispetto a funzioni che, pur non essendo ad esso connaturate, gli sono state attribuite, a fortiori dovrà essergli garantita la facoltà di regolamentare funzioni che concorrono a definire l’essenza stessa dell’ente.

Peraltro, la chiave interpretativa del parallelismo, ossia della funzionalizzazione del potere regolamentare a quello amministrativo, sembra essere anche la più coerente con il principio di sussidiarietà[20], qui inteso nella sua componente statica di “non ingerenza” da parte delle istituzioni sovraordinate nella gestione di quelle inferiori[21], e con la valorizzazione delle autonomie locali (artt. 5 e 114 Cost.), punti cardinali della riforma costituzionale del 2001[22].

Da ciò sorge il secondo interrogativo, ovvero quali siano le posizioni reciproche su cui si attestano legge regionale e potestà regolamentare comunale.

Ebbene, sul punto sono state prospettate diverse teorie. Una di queste vede nell’art. 117, c. 6 Cost. il riconoscimento di una riserva di competenza regolamentare locale assoluta, stando alla quale la norma comunale, trovando legittimazione direttamente in Costituzione, prescinde da qualsivoglia fonte legislativa e acquisisce così rango di fonte primaria rispetto alla disciplina e organizzazione delle funzioni, scardinando così il tradizionale criterio gerarchico a favore di un criterio fondato sul riparto tra materie e funzioni[23].

In posizione diversa si attesta, invece, chi rinviene nel comma in questione una riserva di competenza regolamentare “mitigata” e valorizza il principio del “non c’è amministrazione senza governo”, ma senza negare la natura di fonte secondaria dei regolamenti locali e ammettendo che la legge attributiva delle funzioni amministrative sia in realtà anche la fonte primaria da cui discende implicitamente il potere regolamentare[24].

Quest’ultima prospettazione è a sua volta criticata da chi sostiene che non si possa comunque parlare di riserva regolamentare a favore degli enti locali, in quanto si trascurerebbe il ruolo della sussidiarietà nella sua dimensione dinamica[25], quale potere/dovere degli organi sovraordinati d’intervenire laddove lo richiedano esigenze di unitarietà. Nondimeno questa lettura è anche quella che valorizza maggiormente il dettato dell’art. 4, c. 4 della l. 5 giugno 2003, n. 131, recante «Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3» (cd. legge La Loggia), che, sull’attuazione degli artt. 114, c. 2, e 117, c. 6 Cost. in merito all’organizzazione delle funzioni, stabilisce che «è riservata alla potestà regolamentare dell’ente locale, nell’ambito della legislazione dello Stato o della Regione, che ne assicura i requisiti minimi di uniformità, secondo le rispettive competenze». Sul punto la Corte costituzionale, con sent. n. 372 del 2 dicembre 2003, si è poi espressa, enfatizzando il ruolo del principio di sussidiarietà, in virtù del quale, in presenza di esigenze di unitarietà, il legislatore regionale non può che essere legittimato ad erodere spazi del potere normativo dei Comuni, purché nella misura il meno possibile lesiva dell’autonomia degli enti locali[26].

Per questo insieme di ragioni, la dottrina da ultimo citata ritiene più corretto parlare di «un semi-vincolo di astensione per il legislatore statale o regionale»[27] per quanto attiene alla disciplina e all’organizzazione delle funzioni. In questo senso si attesta anche la più recente giurisprudenza costituzionale, che, in una vicenda riguardante proprio la pianificazione territoriale, ha riaffermato la centralità della normativa comunale nella valutazione degli interessi coinvolti nell’attività urbanistica e edilizia, escludendo però «che il sistema della pianificazione assurga a principio così assoluto e stringente da impedire alla legge regionale – che è fonte normativa primaria sovraordinata rispetto agli strumenti urbanistici locali – di prevedere interventi in deroga a tali strumenti» (C. Cost. sent. 27 dicembre 2018, n. 245); nondimeno, affinché i Comuni non vengano esautorati dalle loro competenze in tema di pianificazione urbanistica, tali interventi legislativi in deroga, per essere legittimi, non possono che essere «quantitativamente, qualitativamente e temporalmente circoscritti» (C. Cost. sent. 13 marzo 2014, n. 46).

La dottrina è giunta alle medesime conclusioni asserendo che leggi statali o regionali precise e analitiche al punto da privare gli enti della potestà regolamentare dovrebbero essere dichiarate incostituzionali, facendo così prevalere le disposizioni regolamentari su quelle legislative[28].

Non sbagliava, però, chi sosteneva che la soluzione non sarebbe stata così tranchant, ma al contrario foriera di grande conflittualità, perché «cosa debba o possa essere regolato dal livello più alto [Stato/Regioni, n.d.r.] e che cosa debba o possa essere regolato dal livello più basso [Comuni, n.d.r.] è uno degli aspetti che vanno determinati ragionando in termini di sussidiarietà, e non attraverso categorie precostituite»[29].

Invero, la Corte costituzionale ha recentemente ribadito che la legittimità della menomazione della potestà normativa degli enti locali dev’essere valutata in base ai principi di sussidiarietà, proporzionalità e adeguatezza, tenendo dunque in considerazione, nell’ambito della fondamentale funzione pianificatoria comunale, «quanto la legge regionale toglie all’autonomia comunale e quanto di questa residua, in nome di quali interessi sovracomunali attua questa sottrazione, quali compensazioni procedurali essa prevede e per quale periodo temporale la dispone» (C. Cost. sent. 12 giugno 2019, n. 179, così come ripresa in C. Cost. sent. 23 giugno 2020, n. 119).

È quindi sotto questi profili che dev’essere vagliata la costituzionalità dell’art. 40-bis della legge regionale della Lombardia n. 12 dell’11 marzo 2005.

4. I profili di criticità delle disposizioni della cui incostituzionalità si dubita rispetto ai criteri elaborati dalla giurisprudenza costituzionale.

Fra le censure che l’ordinanza di rimessione in oggetto muove all’articolo contestato, quella che viene maggiormente enfatizzata è l’eccessiva analiticità della disposizione regionale, a cui consegue pressoché l’azzeramento della potestà organizzativa comunale. I giudici del T.A.R. Lombardia rilevano che «con riguardo al trattamento giuridico da riservare agli immobili abbandonati e degradati, residuano in capo ai Comuni compiti meramente attuativi ed esecutivi» e che «la normativa regionale risulta particolarmente analitica sia nell’individuazione dei presupposti di operatività, che nel procedimento da seguire e non si presta ad interpretazioni che salvaguardino il potere di pianificazione comunale».

Tali constatazioni, tuttavia, non sono di per sé sufficienti per ritenere incostituzionale la disposizione, ma assumono rilievo nella ponderazione complessiva della proporzionalità dell’intervento regionale; infatti, è dalla proporzione fra gli interessi che muovono il legislatore regionale e gli interessi comunali sacrificati che dipende l’esito del giudizio di costituzionalità[30].

Nel caso di specie, la prospettiva teleologica in cui si colloca nello specifico l’art. 40-bis non viene esplicitata, ma è possibile comprenderla nell’ottica sistematica della legge che l’ha introdotto, la l.r. Lombardia 26 novembre 2019, n. 18, recante «Misure di semplificazione e incentivazione per la rigenerazione urbana e territoriale, nonché per il recupero del patrimonio edilizio esistente. Modifiche e integrazioni alla legge regionale 11 marzo 2005, n. 12». Le finalità generali di questa novella (art. 1)[31] trovano corrispondenza con gli obiettivi che si prefigge la l.r. n. 12/2005, ovvero «la riduzione del consumo di suolo e la rigenerazione urbana e territoriale per realizzare (…) un modello di sviluppo territoriale sostenibile»[32] (art. 1, c. 3-bis). Non a caso questo comma è stato così da ultimo sostituito proprio dalla l.r. n. 18/2019, art. 3, c. 1, lett. a), tramite cui è stato rafforzato[33] il contrasto al consumo di suolo[34], inteso come la necessità di diminuire la pressione antropica sulle risorse naturali, fra gli obiettivi da perseguire nel governo del territorio, in linea con la Comunicazione della Commissione europea del 22 settembre 2006, «Verso una strategia tematica per la protezione del suolo»[35].

In relazione al consumo di suolo, nella sentenza n. 179/2019 la Corte costituzionale ha asserito che tale finalità rientra fra quelle esigenze unitarie la cui uniforme attuazione è in grado di giustificare il ricorso alla sussidiarietà verticale da parte della Regione anche in relazione alla funzione di pianificazione[36], in ogni caso con il minor sacrificio possibile delle correlate prerogative comunali. Perciò, deve ritenersi che il perseguimento di questo interesse sia in astratto idoneo a legittimare la compressione, da parte della Regione, dell’autonomia pianificatoria comunale e, con essa, dell’interesse ad un assetto ordinato del territorio.

Tuttavia, i giudici a quibus constatano che nell’art. 40-bis il contrasto al consumo di suolo non assume un ruolo nevralgico, perché la stessa disposizione prevede la concessione di incrementi dei diritti edificatori in misura compresa tra il 10 ed il 25% (commi 5 e 6), senza dar troppo peso al fatto che questo comporta un inevitabile aumento del carico urbanistico e di conseguenza, appunto, un maggiore consumo di suolo. Infatti, è pur vero che un aumento dei diritti edificatori di un immobile non implica di per sé un aumento del suolo consumato, tuttavia, la facoltà di incrementare la cubatura va ad incidere direttamente sul carico urbanistico dell’immobile, il quale a sua volta accresce il bisogno di infrastrutture e opere di urbanizzazione, la cui realizzazione va comunque ricompresa fra le coperture artificiali che determinano ulteriore consumo di suolo[37].

Dunque, stando alla ricostruzione dei giudici rimettenti, non sussisterebbe un interesse in grado di giustificare la limitazione della potestà pianificatoria comunale; se così fosse, verrebbe meno il requisito della proporzionalità e con esso la legittimità della norma regionale in oggetto, inteso che «il giudizio di proporzionalità deve svolgersi, dapprima, in astratto sulla legittimità dello scopo perseguito dal legislatore regionale e quindi in concreto con riguardo alla necessità, alla adeguatezza e al corretto bilanciamento degli interessi coinvolti» (C. Cost. sent. 23 giugno 2020, n. 119).

Si ha ragione di dubitare almeno in parte della conclusione a cui giungono i giudici del T.A.R. Lombardia. In primis, con riguardo alla totale irrilevanza del contrasto al consumo di suolo nella previsione dell’art. 40-bis, si deve rilevare che la politica del “consumo di suolo zero”[38] si muove sulla base di due direttrici: l’evidente disincentivo al consumo ulteriore di suolo e la promozione di uno sviluppo “in verticale”; infatti, per combattere il consumo di suolo, ma prevenire al contempo un’emergenza abitativa, è imprescindibile la densificazione abitativa del suolo occupato[39].

In secondo luogo, la concessione di un incremento dei diritti edificatori potrebbe essere inquadrata come misura volta a favorire l’iniziativa privata nella rigenerazione urbana. Ciò non costituirebbe una novità nel panorama giuridico del governo del territorio, dato che è la stessa l.r. n. 12/2005 a contemplare la possibilità per i Comuni di riconoscere incentivi e premi edificatori a vantaggio degli interventi che perseguono determinate finalità, fra cui appunto la rigenerazione urbana, come si evince dagli artt. 8, c. 2, lett. e quinquies), 8 bis, c. 1, e 11, c. 5.

È però necessario ribadire che ciò di cui si duole l’Amministrazione comunale non è di per sé la previsione di un incentivo di natura edificatoria, ma il fatto che nel caso dell’art. 40-bis il legislatore regionale si sia arrogato ogni più ampia facoltà sulla questione, riducendo il Comune ad un esecutore passivo della propria volontà. La censura comunale cade perciò sull’assenza di un fine che in astratto legittimi il ricorso della Regione alla sussidiarietà verticale rispetto a tale fattispecie.

Per il vero, si deve considerare che l’art. 40-bis si rivolge non agli immobili degradati in genere, quali possibili oggetto d’intervento di rigenerazione urbana, bensì solo a quelli fra di essi che pongono delle criticità sotto uno o più dei seguenti profili: «salute, sicurezza idraulica, problemi strutturali che ne pregiudicano la sicurezza, inquinamento, degrado ambientale, urbanistico-edilizio e sociale».

È ragionevole supporre che l’ordine pubblico, la sicurezza, la salubrità dell’ambiente e la salute della persona possano essere riconosciute come esigenze il cui soddisfacimento costituisce un interesse generale superiore in grado di giustificare l’intromissione del legislatore regionale nell’ambito dell’autonomia pianificatoria comunale[40].

In un’ottica di incentivo per il privato che intende contribuire al recupero del patrimonio edilizio dismesso con criticità, si potrebbe inquadrare anche l’art. 40-bis, c. 5 nella parte in cui pone vincoli molto stringenti rispetto alle opere di urbanizzazione che il Comune può esigere; viene precisato, infatti, che quest’ultimo potrà chiedere «attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale» non sulla base del carico urbanistico complessivamente risultante dalla riqualificazione dell’immobile, bensì in funzione della sola quota d’incremento dei diritti edificatori che la norma stessa concede in un intervallo compreso tra il 10 ed il 25%. Tuttavia, a prescindere dai fini perseguiti dal legislatore regionale con questa disposizione, è evidente che essa non solo pregiudica oltremodo i Comuni, facendo ricadere su questi i costi di realizzazione delle suddette opere in relazione all’aumento di carico urbanistico eccedente le soglie fissate al comma 5, ma ne limita irragionevolmente anche la possibilità di autodeterminarsi in relazione alle esigenze del proprio territorio. Dunque, in merito a questo punto, pare ragionevolmente fondata la censura della carenza di proporzionalità, in ragione della definitiva ed inderogabile compressione dell’autonomia locale in relazione all’esercizio di una delle funzioni fondamentali attribuite ai Comuni.

Peraltro, il giudice rimettente sostiene che la previsione dell’art. 40-bis, c. 5 contrasti anche con il D.M. 2 aprile 1968, n. 1444[41], recante «Limiti inderogabili (…) ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti», il quale si pone come principio fondamentale di derivazione statale in materia di governo del territorio a cui la Regione deve sottostare nell’esercizio della propria potestà legislativa concorrente, in virtù dell’art. 117, c. 3 Cost. In altre parole, la lesione dell’autonomia comunale da parte della Regione deriverebbe, altresì, dal mancato rispetto dei criteri stabiliti a livello statale.

Emerge, poi, a latere un profilo ulteriore di sospetta incostituzionalità. L’art. 40-bis, c. 1, ultimo periodo, sancisce, infatti, solo a favore dei Comuni con popolazione inferiore a ventimila abitanti la facoltà di prevedere aree all’interno del proprio territorio a cui non si applicano le disposizioni contenute al comma 5, che si ricorderà essere uno di quelli che solleva maggiori perplessità. Tralasciando le (comunque opportune) questioni sulla ragionevolezza di questo discrimine, deve rammentarsi che la pianificazione territoriale costituisce per i Comuni funzione fondamentale, che perciò, diversamente dalle funzioni conferite o delegate dalle Regioni, non tollera la subordinazione al principio di differenziazione.

Ordunque, sorge il seguente interrogativo: nel caso in cui una Regione ritenga di far uso del principio di sussidiarietà per perseguire esigenze generali e garantire l’uniformità normativa sul proprio territorio, avrà il potere di differenziare fra i Comuni il quantum di funzioni a loro sottratte, ovvero di prevedere una differente compressione delle prerogative comunali in relazione ad un criterio quale il numero di abitanti? La logica suggerisce che laddove il legislatore ritenga che possano coesistere situazioni eterogenee sul territorio, allora non sussistono esigenze di uniformità generale e a maggior ragione non vi sono motivi che giustifichino il ricorso alla sussidiarietà, di conseguenza dovrebbe potersi riespandere il regime garantito alle funzioni fondamentali, ovvero la parità di prerogative fra enti dello stesso livello.

5. Considerazione conclusive.

In conclusione, si deve riportare che il 24 giugno 2021 è stata approvata la legge regionale lombarda n. 11, con cui sono state apportate diverse modifiche all’art. 40-bis; fra queste si sottolinea anzitutto l’eliminazione del criterio dei ventimila abitanti quale elemento di discrimine rispetto al riconoscimento della possibilità di derogare ad alcune disposizioni dell’articolo. Ne consegue che, limitatamente alla questione della configurabilità di un ricorso differenziato alla sussidiarietà verticale nell’ambito delle funzioni fondamentali comunali, la Corte costituzionale non potrà che accertare la cessazione della materia del contendere.

D’altronde, l’estensione a tutti i Comuni di tale facoltà non è sufficiente per considerare la norma regionale ridimensionata a mera disciplina residuale, ovvero applicabile solo ove non diversamente disposto da parte dei regolamenti comunali. Infatti, al Comune è concesso d’invocare la deroga limitatamente alle previsioni dei commi 5, 6 e 10 dell’art. 40-bis e non in modo generalizzato per l’interezza del territorio comunale, bensì rispetto a parti specifiche dello stesso, a condizione che per queste sussistano «motivate ragioni di tutela paesaggistica, comunque ulteriori rispetto a eventuali regole morfologiche previste negli strumenti urbanistici, che nel concreto dimostrino l’insostenibilità degli impatti generati da tali disposizioni rispetto al contesto urbanistico ed edilizio in cui si collocano gli interventi» (art. 40-bis, c. 1).

È dunque improbabile che la Corte costituzionale ritenga che l’autonomia normativa comunale in materia di pianificazione urbanistica possa dirsi ristabilita in virtù dell’introduzione di questa circoscritta finestra d’intervento. Si ha quindi ragione di affermare che, per quanto attiene ai restanti profili dell’art. 40-bis su cui è stata sollevata la questione di legittimità costituzionale, la novella legislativa non ha determinato mutamenti significativi e non ha quindi inficiato i rilievi mossi dal T.A.R. Lombardia nell’ordinanza di rimessione.

La Corte costituzionale sarà chiamata a valutare in prima istanza l’esistenza in astratto di un fine che giustifichi l’esercizio da parte del legislatore regionale delle prerogative normative costituzionalmente attribuite agli enti locali[42]. Nell’interpretazione data dai giudici rimettenti sembra non sussistere tale interesse preminente, ma ciò non toglie che la Corte possa fornire un’altra chiave di lettura della norma, facendo emergere l’esigenza unitaria al cui soddisfacimento è sottesa la previsione puntuale e dettagliata dell’art. 40-bis, in modo da restituire un’interpretazione della norma conforme a Costituzione.

Solo una volta superato il primo vaglio nel senso della sussistenza di un interesse in astratto, la Corte giudicherà la rispondenza della disposizione regionale ai principi che essa stessa ha elaborato a partire dal dettato costituzionale, in particolare la proporzionalità, da intendersi come imposizione del minor sacrificio possibile a fronte dell’obiettivo che si mira a raggiungere. Su questo profilo si annidano le maggiori perplessità, soprattutto considerando che la disciplina dell’art. 40-bis è estremamente minuziosa e che la suddetta non sembra ammettere contemperamenti con le prerogative comunali lese, ad esempio, mediante limiti applicativi di natura quantitativa, qualitativa o temporale.

Il ventaglio dei possibili esiti del giudizio di costituzionalità è talmente vario da rendere arduo un pronostico, anche in ragione del fatto che in casi analoghi la Corte è giunta a conclusioni differenti, pur ricorrendo sempre al medesimo processo argomentativo, come dimostrano le sentenze n. 179 del 16 luglio 2019 e n. 119 del 23 giugno 2020.

Con riguardo alla prima, la Corte costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità rispetto agli artt. 5, 117, c. 2, lett. p), e 118 Cost. della art. 5, c. 4, ultimo periodo della l.r. Lombardia n. 31 del 28 novembre 2014, laddove impediva ai Comuni di apportare modifiche ai documenti di piano vigenti fino al momento in cui la Regione non avesse approvato l’adeguamento del piano territoriale regionale (PTR) al principio della riduzione del consumo di suolo, introdotto dalla stessa legge.

La rigidità della norma, la limitazione temporalmente indeterminata della potestas variandi comunale e la mancata previsione di forme di interlocuzione[43] a favore dei Comuni con la Regione hanno portato i giudici costituzionali a ritenere che la potestà pianificatoria venisse paralizzata al di là di quanto strettamente necessario a perseguire il legittimo obiettivo del contrasto al consumo di suolo.

La Corte non ha quindi contestato la proporzionalità in astratto della disposizione, ovvero la bontà dello scopo perseguito dal legislatore regionale, bensì la carenza di proporzionalità in concreto, a cui consegue l’illegittimità del ricorso al principio di sussidiarietà verticale[44].

Le affinità con l’ordinanza di rimessione in oggetto sono molteplici e si ha fondato motivo di credere che l’art. 40-bis potrebbe essere censurato sotto i medesimi profili, cioè per la rigidità, l’assenza di limiti al regime giuridico delineato a livello regionale, la mancanza di forme di leale collaborazione fra i due enti e il conseguente ridursi del Comune a mero esecutore materiale, in sintesi per la sproporzione fra la lesione arrecata all’autonomia comunale rispetto al fine a cui si mira.

Nella sentenza n. 119/2020, invece, la Corte costituzionale statuisce la non fondatezza della questione di legittimità costituzionale in relazione agli artt. 5, 114, c. 2, 117, c. 6, e 118 Cost. dell’art. 64 della l.r. Veneto 30 dicembre 2016, n. 30, nella parte in cui consente di derogare alle distanze fra i confini fissate dagli strumenti urbanistici e dai regolamenti comunali. I giudici costituzionali hanno ritenuto superato positivamente il vaglio di proporzionalità sia in astratto, visto che la norma si colloca all’interno della legge veneta per il “piano casa”[45], sia in concreto, dato che la possibilità di deroga alle distanze di fonte comunale risulta essere riservata ai soli interventi sugli edifici esistenti (non le nuove costruzioni) e limitata alla durata del suddetto “piano”[46]. In questo senso, si potrebbe ritenere che anche l’art. 40-bis della l.r. Lombardia n. 12/2005 contenga un limite oggettivo, dato che si rivolge solo a particolari categorie di beni immobili degradati e dismessi.

In ultima analisi, alla luce dei precedenti sopra riportati, è possibile asserire che il risultato del vaglio di proporzionalità da parte della Corte può mutare a seconda dei profili della disposizione che verranno maggiormente enfatizzati, perciò l’esito del giudizio di costituzionalità rispetto all’art. 40-bis non può ad oggi dirsi scontato.

  1. Laureata in Giurisprudenza e Specializzanda alla Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali di Torino.
  2. La l.r. Lombardia 11 marzo 2005, n. 12 ha previsto tre strumenti di governo del territorio, rispettivamente a livello comunale, provinciale e regionale. La pianificazione territoriale comunale (artt. 6 ss.) si articola in un piano di governo del territorio (PGT) e in piani attuativi, che danno appunto attuazione agli interventi contemplati dal PGT, questi ultimi «hanno carattere vincolante e producono effetti diretti sul regime giuridico dei suoli» (art. 12). Il PGT si compone a sua volta di: a) un documento di piano, contente le linee di sviluppo che l’amministrazione comunale intende perseguire; b) un piano dei servizi, inerente alla predisposizione di attrezzature di interesse pubblico o generale; c) un piano delle regole, che contiene la regolamentazione dell’insediamento urbano. È poi previsto il piano territoriale di coordinamento provinciale (PTCP), attraverso cui la provincia definisce «gli obiettivi generali relativi all’assetto e alla tutela del proprio territorio connessi ad interessi di rango provinciale o sovracomunale o costituenti attuazione della pianificazione regionale» (art. 15). In ultimo vi è poi il piano territoriale regionale (PTR) che «costituisce atto fondamentale (…) di orientamento della programmazione e pianificazione territoriale dei comuni e delle province». La procedura di approvazione del PGT consente di comprendere in che rapporto stanno tra loro i diversi piani, è stabilito, infatti, che i documenti di cui si compone il PGT siano trasmessi alla provincia affinché ne valuti la compatibilità con il proprio piano, che non a caso costituisce attuazione degli indirizzi di politica territoriale regionale. All’art. 13, c. 8 è altresì previsto che: «Qualora nel piano territoriale regionale vi siano determinazioni che devono obbligatoriamente essere recepite da parte del comune nel documento di piano, lo stesso è tenuto nei confronti della Regione a quanto previsto nei commi 5, primo periodo», ovvero a trasmettere i documenti del PGT per ricevere l’approvazione; da questo si deduce che il PTR in via generale ha contenuto orientativo e d’indirizzo, saranno solo una minima parte le previsioni a carattere imperativo, ragionevolmente quelle che rivestono un ruolo nevralgico nell’ambito della politica territoriale portata avanti dalla Regione.
  3. Deliberazione del Consiglio comunale di Milano, n. 34 del 14 ottobre 2019 recante «Controdeduzioni alle osservazioni e approvazione definitiva del nuovo documento di piano, della variante del piano dei servizi, comprensivo del piano per le attrezzature religiose, e della variante del piano delle regole, costituenti il piano di governo del territorio, ai sensi e per gli effetti dell’art. 13 della l.r. 11 marzo 2005 n. 12 e smi». Il suddetto è entrato in vigore in data 5 febbraio 2020, in seguito alla pubblicazione sul Bollettino Ufficiale Regione Lombardia (BURL) n. 6.
  4. L’art. 40 bis della l.r. 12/2005 è stato introdotto dalla l.r. Lombardia n. 18 del 26 novembre 2019, art. 4, comma 1, lett. a). Esso prevede quanto segue: «
    1. I comuni, con deliberazione consiliare, anche sulla base di segnalazioni motivate e documentate, individuano entro sei mesi dall’entrata in vigore della legge regionale recante ‘Misure di semplificazione e incentivazione per la rigenerazione urbana e territoriale, nonché per il recupero del patrimonio edilizio esistente. Modifiche e integrazioni alla legge regionale 11 marzo 2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) e ad altre leggi regionali’ gli immobili di qualsiasi destinazione d’uso, dismessi da oltre cinque anni, che causano criticità per uno o più dei seguenti aspetti: salute, sicurezza idraulica, problemi strutturali che ne pregiudicano la sicurezza, inquinamento, degrado ambientale e urbanistico-edilizio. La disciplina del presente articolo si applica, anche senza la deliberazione di cui sopra, agli immobili già individuati dai comuni come degradati e abbandonati. Le disposizioni di cui al presente articolo, decorsi i termini della deliberazione di cui sopra, si applicano anche agli immobili non individuati dalla medesima, per i quali il proprietario, con perizia asseverata giurata, certifichi oltre alla cessazione dell’attività, documentata anche mediante dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà a cura della proprietà o del legale rappresentante, anche uno o più degli aspetti sopra elencati, mediante prova documentale e/o fotografica. I comuni aventi popolazione inferiore a 20.000 abitanti, entro sei mesi dall’entrata in vigore della legge regionale recante ‘Misure di semplificazione e incentivazione per la rigenerazione urbana e territoriale, nonché per il recupero del patrimonio edilizio esistente. Modifiche e integrazioni alla legge regionale 11 marzo 2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) e ad altre leggi regionali’, mediante deliberazione del consiglio comunale possono individuare gli ambiti del proprio territorio ai quali non si applicano le disposizioni di cui ai commi 5 e 10 del presente articolo, in relazione a motivate ragioni di tutela paesaggistica.
    2. I comuni, prima delle deliberazioni di cui al comma 1, da aggiornare annualmente, notificano ai sensi del codice di procedura civile ai proprietari degli immobili dismessi e che causano criticità le ragioni dell’individuazione, di modo che questi, entro 30 giorni dal ricevimento di detta comunicazione, possano dimostrare, mediante prove documentali, l’assenza dei presupposti per l’inserimento.
    3. Le disposizioni del presente articolo non si applicano in ogni caso: a) agli immobili eseguiti in assenza di titolo abilitativo o in totale difformità rispetto allo stesso titolo, a esclusione di quelli per i quali siano stati rilasciati titoli edilizi in sanatoria; b) agli immobili situati in aree soggette a vincoli di inedificabilità assoluta.
    4. La richiesta di piano attuativo, la richiesta di permesso di costruire, la segnalazione certificata di inizio attività, la comunicazione di inizio lavori asseverata o l’istanza di istruttoria preliminare funzionale all’ottenimento dei medesimi titoli edilizi devono essere presentati entro tre anni dalla notifica di cui al comma 2. La deliberazione di cui al comma 1 attesta l’interesse pubblico al recupero dell’immobile individuato, anche ai fini del perfezionamento dell’eventuale procedimento di deroga ai sensi dell’articolo 40.
    5. Gli interventi sugli immobili di cui al comma 1 usufruiscono di un incremento del 20 per cento dei diritti edificatori derivanti dall’applicazione dell’indice di edificabilità massimo previsto o, se maggiore di quest’ultimo, della superficie lorda esistente e sono inoltre esentati dall’eventuale obbligo di reperimento di aree per servizi e attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale, a eccezione di quelle aree da reperire all’interno dei comparti edificatori o degli immobili oggetto del presente articolo, già puntualmente individuate all’interno degli strumenti urbanistici e da quelle dovute ai sensi della pianificazione territoriale sovraordinata. A tali interventi non si applicano gli incrementi dei diritti edificatori di cui all’articolo 11, comma 5. Nei casi di demolizione l’incremento dei diritti edificatori del 20 per cento si applica per un periodo massimo di dieci anni dalla data di individuazione dell’immobile quale dismesso.
    6. È riconosciuto un ulteriore incremento dell’indice di edificabilità massimo previsto dal PGT o rispetto alla superficie lorda (SL) esistente del 5 per cento per interventi che assicurino una superficie deimpermeabilizzata e destinata a verde non inferiore all’incremento di SL realizzato, nonché per interventi che conseguano una diminuzione dell’impronta al suolo pari ad almeno il 10 per cento. A tal fine possono essere utilizzate anche le superfici situate al di fuori del lotto di intervento, nonché quelle destinate a giardino pensile, così come regolamentate dalla norma UNI 11235/2007.
    7. Se il proprietario non provvede entro il termine di cui al comma 4, non può più accedere ai benefici di cui ai commi 5 e 6 e il comune lo invita a presentare una proposta di riutilizzo, assegnando un termine da definire in ragione della complessità della situazione riscontrata, e comunque non inferiore a mesi quattro e non superiore a mesi dodici.
    8. Decorso il termine di cui al comma 7 senza presentazione delle richieste o dei titoli di cui al comma 4, il comune ingiunge al proprietario la demolizione dell’edificio o degli edifici interessati o, in alternativa, i necessari interventi di recupero e/o messa in sicurezza degli immobili, da effettuarsi entro un anno. La demolizione effettuata dalla proprietà determina il diritto ad un quantitativo di diritti edificatori pari alla superficie lorda dell’edificio demolito fino all’indice di edificabilità previsto per l’area. I diritti edificatori generati dalla demolizione edilizia possono sempre essere perequati e confluiscono nel registro delle cessioni dei diritti edificatori di cui all’articolo 11, comma 4.
    9. Decorso infruttuosamente il termine di cui al comma 8, il comune provvede in via sostitutiva, con obbligo di rimborso delle relative spese a carico della proprietà, cui è riconosciuta la SL esistente fino all’indice di edificabilità previsto dallo strumento urbanistico.
    10. Tutti gli interventi di rigenerazione degli immobili di cui al presente articolo sono realizzati in deroga alle norme quantitative, morfologiche, sulle tipologie di intervento, sulle distanze previste dagli strumenti urbanistici comunali vigenti e adottati e ai regolamenti edilizi, fatte salve le norme statali e quelle sui requisiti igienico-sanitari.
    11. Per gli immobili di proprietà degli enti pubblici, si applicano le disposizioni di cui ai commi 5 e 6 a condizione che, entro tre anni dalla individuazione di cui al comma 1, gli enti proprietari approvino il progetto di rigenerazione ovvero avviino le procedure per la messa all’asta, l’alienazione o il conferimento a un fondo.
    11-bis. Gli interventi di cui al presente articolo riguardanti il patrimonio edilizio soggetto a tutela culturale e paesaggistica sono attivati previo coinvolgimento del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo e nel rispetto delle prescrizioni di tutela previste dal piano paesaggistico regionale ai sensi del d.lgs. 42/2004».
  5. Come si evince dal testo dell’art. 40 bis, c. 1 della l.r. 12/2005, citato poc’anzi, sono previsti due iter differenti attraverso cui è possibile far rientrare un immobile nel novero di quelli degradati e dunque accedere al regime di favore che la stessa legge prevede per il loro recupero. In primis può essere una delibera consigliare del comune ad individuare gli edifici dismessi da più di un anno e comportanti delle criticità di varia natura (salute, sicurezza, inquinamento, degrado, etc.). In alternativa gli stessi proprietari degli immobili possono far certificare con una perizia asseverata il non uso per almeno un anno dell’edificio e la presenza di una delle cause di criticità menzionate poc’anzi, spetterà poi al responsabile del procedimento verificare la sussistenza dei presupposti richiesti.
  6. La giurisprudenza costituzionale è costante sul punto, ex plurimis C. Cost. 24 marzo 2016, n. 63, C. Cost. 14 novembre, n. 272, C. Cost. 30 dicembre 2009, n. 340 e C. Cost. 1° ottobre 2003, n. 303. In dottrina si è ampiamente dibattuto, invece, sulla natura del rapporto intercorrente fra governo del territorio ed urbanistica, ovvero se le due categorie fossero in sostanza coincidenti o legate da un vincolo di genus a species; per una ricostruzione delle varie teorie si rinvia ad Amorosino S. (2003), Il “governo del territorio” tra Stato, Regioni ed enti locali, in Rivista giuridica dell’edilizia, fasc. 3, pp. 78 ss.
  7. Corte Cost., 1° ottobre 2003, n. 303, punto 11.1 del «Considerato in diritto», dove esclude che la mancata menzione dell’urbanistica fra le competenze legislative concorrenti, come invece accadeva nell’art. 117, c. 1 Cost. nella formulazione previgente alla l. cost. n. 3/2001, comporti uno spostamento della stessa nell’ambito residuale della competenza esclusiva regionale. Se così fosse, infatti, la categoria del “governo del territorio” rimarrebbe priva di significato, «un guscio vuoto» come gli stessi giudici costituzionali hanno ribadito.
  8. Si fa riferimento al D.l. 31 maggio 2010, n. 78, recante «Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica», convertito con modificazioni nella l. 30 luglio 2010, n. 122; l’art. 14, c. 27, lett. d) del citato decreto legge stabilisce espressamente: «Ferme restando le funzioni di programmazione e di coordinamento delle regioni, loro spettanti nelle materie di cui all’articolo 117, commi terzo e quarto, della Costituzione, e le funzioni esercitate ai sensi dell’articolo 118 della Costituzione, sono funzioni fondamentali dei comuni, ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione: (…) d) la pianificazione urbanistica ed edilizia di ambito comunale nonché’ la partecipazione alla pianificazione territoriale di livello sovracomunale».
  9. Ne dà riprova la l. 25 giugno 1865, n. 2359, «Sulle espropriazioni di pubblica utilità», Capo VI e VII, in particolare artt. 86 e 93. Si rinvia inoltre a Mazzeo G. e Calenda C. (2011), Evoluzione della normativa urbanistica: la frammentazione dopo l’omogeneità, in Trimestrale del Laboratorio Territorio Mobilità e Ambiente – TeMALab, vol. 4, n. 1, pp. 87-90.
  10. In tal senso si esprime, ex plurimis, C. Cost. 17 novembre 2020, n. 240.
  11. Per dar atto delle diverse teorie formulate in dottrina si rinvia a Falcon G. (2002), Funzioni amministrative ed enti locali nei nuovi artt. 118 e 117 della Costituzione, in Le Regioni, fasc. 2-3, pp. 383-397; posizione antitetica si ritrova in Bin R. (2002), La funzione amministrativa nel nuovo Titolo V della Costituzione, in Le Regioni, fasc. 2-3, pp. 365-382.
  12. Ex multis Portaluri P. L. (2002), Riflessioni sul “governo del territorio” dopo la riforma del Titolo V, in Rivista giuridica dell’edilizia, fasc. 2, pp. 365-367; Falcon G. (2004), L’autonomia amministrativa e regolamentare, in Le Regioni, fasc. 2-3, pp. 393-394; Camerlengo Q. (2006), Art. 118, in Bifulco R., Celotto A., Olivetti M. (a cura di), Commentario alla Costituzione, Torino, pp. 2338 ss.
  13. Falcon G., Funzioni amministrative ed enti locali nei nuovi artt. 118 e 117 della Costituzione, cit., p. 393.
  14. Rescigno G. U. (2002), Note per la costruzione di un nuovo sistema delle fonti, in Diritto pubblico, fasc. 3, p. 796.
  15. «La specificazione fondamentali implica che le funzioni definite tali abbiano un peculiare rapporto con le caratteristiche e la ragione d’essere dell’ente. Le funzioni fondamentali sono quelle che lo caratterizzano come ente di quel determinato tipo, e che ne definiscono l’ambito di azione in termini tali che la sottrazione di ognuno degli ambiti definiti come fondamentali condurrebbe ad un mutamento significativo della fisionomia dell’ente» in Falcon G., Funzioni amministrative ed enti locali nei nuovi artt. 118 e 117 della Costituzione, cit., p. 397.
  16. Così come sostenuto da Bin R., La funzione amministrativa nel nuovo Titolo V della Costituzione, cit., p. 370.
  17. C. Cost. 12 giugno 2019, n. 179, stabilisce: «Il legislatore statale ha quindi sottratto allo specifico potere regionale di allocazione ai sensi dell’art. 118, secondo comma, Cost., la funzione di pianificazione comunale, stabilendo che questa rimanga assegnata, in linea di massima, al livello dell’ente più vicino al cittadino, in cui storicamente essa si è radicata come funzione propria, e l’ha riconosciuta come parte integrante della dotazione tipica e caratterizzante dell’ente locale. Ha così stabilito un regime giuridico comune sottratto (…) alle potenzialità di differenziazione insite nella potestà allocativa delle Regioni nelle materie di loro competenza».
  18. Tarli Barbieri G., Milazzo P. (2006), Art. 117, 6° co., in Celotto A., Bifulco R. e Olivetti M. (a cura di), Commentario alla Costituzione, Torino, pp. 2286 ss.
  19. Bin R., La funzione amministrativa nel nuovo Titolo V della Costituzione, cit., pp. 368 ss.
  20. Frosini T. E. (2008), Sussidiarietà (principio di), in Enciclopedia del diritto, pp.1134 ss.
  21. C. Cost. 28 giugno 2006, n. 246, statuisce: «Se il legislatore regionale nell’ambito delle proprie materie legislative dispone discrezionalmente delle attribuzioni di funzioni amministrative agli enti locali, ulteriori rispetto alle loro funzioni fondamentali, anche in considerazione dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza di cui al primo comma dell’art. 118 della Costituzione, non può contestualmente pretendere di affidare ad un organo della Regione – neppure in via suppletiva – la potestà regolamentare propria dei Comuni o delle Province in riferimento a quanto attribuito loro dalla legge regionale medesima».
  22. Romano M. C. (2007), Spazi e confini dell’autonomia regolamentare: i regolamenti dei comuni nell’art. 117, VI comma, cost., in Diritto amministrativo, n. 4/2007, pp. 855-857.
  23. Parisi S. (2008), Il “posto” delle fonti locali nel sistema, in Le Regioni, fasc. 1/2008, pp. 155 ss.
  24. Alberti A. (2016), La parabola della potestà regolamentare degli enti locali dalla legge Costituzionale n. 3 del 2001 alla riforma Renzi-Boschi, in Osservatorio sulle fonti, n. 2/2016.
  25. Per una puntuale analisi delle diverse teorie dei loro fautori si rimanda a Poggi A. (2008), La potestà regolamentare tra Stato e Regioni ed altri enti locali, in Di Giovine A., Mastromarino A. (a cura di), Centro studi sul federalismo-Il regionalismo italiano in cerca di riforme, Giuffré, pp. 181-200
  26. La Corte costituzionale nella sentenza n. 372 del 2 dicembre 2003 sembra affermare non solo la legittimità, ma persino la necessarietà del riconoscimento di una facoltà d’intervento regionale idonea a sottrarre spazi di autonomia normativa ai comuni per garantire esigenze specifiche di unitarietà, ond’evitare conseguenze paradossale. Sul punto così si esprime: «Negando tale facoltà si perverrebbe, infatti, all’assurda conclusione che, al fine di evitare la compromissione di precisi interessi unitari che postulano il compimento di determinate attività in modo sostanzialmente uniforme, il legislatore regionale non avrebbe altra scelta che allocare le funzioni in questione ad un livello di governo più comprensivo, assicurandone così l’esercizio unitario. Il che sarebbe chiaramente sproporzionato rispetto al fine da raggiungere e contrastante con lo stesso principio di sussidiarietà».
  27. Balboni E. (2002), Gli scenari incerti dell’autonomia normativa locale in una disposizione di difficile interpretazione, in www.federalismi.it.
  28. Rescigno G. U., Note per la costruzione di un nuovo sistema delle fonti, cit., p. 794; Romano M. C., Spazi e confini dell’autonomia regolamentare: i regolamenti dei comuni nell’art. 117, VI comma, cost., cit., pp. 859-861.
  29. Bin R., La funzione amministrativa nel nuovo Titolo V della Costituzione, cit., pp. 368-369.
  30. In dottrina si rimanda al contributo di Milo G. (2019), La potestà amministrativa riservata ai comuni di conformare i beni giuridici che trovano la propria materialità nel territorio comunale, in Rivista Giuridica dell’Edilizia, fasc. 6, pp. 548 ss. A livello giurisprudenziale è nuovamente la C. cost. 12 giugno 2019, n. 179 a riaffermare che: «In questi casi, dove emerge come il punto di equilibrio tra regionalismo e municipalismo non sia stato risolto una volta per tutte dal riformato impianto del Titolo V della Costituzione, il giudizio di costituzionalità non ricade tanto, in via astratta, sulla legittimità dell’intervento del legislatore regionale, quanto, piuttosto, su una valutazione in concreto, in ordine alla «verifica dell’esistenza di esigenze generali che possano ragionevolmente giustificare le disposizioni legislative limitative delle funzioni già assegnate agli enti locali»(sentenza n. 286 del 1997). Viene quindi in causa il variabile livello degli interessi coinvolti, cui ha riconosciuto specifica valenza costituzionale l’affermazione del principio di sussidiarietà verticale sancito nell’art. 118 Cost., che porta questa Corte a valutare, nell’ambito di una funzione riconosciuta come fondamentale ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost., quanto la legge regionale toglie all’autonomia comunale e quanto di questa residua, in nome di quali interessi sovracomunali attua questa sottrazione, quali compensazioni procedurali essa prevede e per quale periodo temporale la dispone».
  31. L.r. Lombardia 26 novembre 2019, n. 18, art. 1: « Con la presente legge la Regione, nel perseguire l’obiettivo di uno sviluppo sostenibile, riconosce gli interventi finalizzati alla rigenerazione urbana e territoriale, riguardanti ambiti, aree o edifici, quali azioni prioritarie per ridurre il consumo di suolo, migliorare la qualità funzionale, ambientale e paesaggistica dei territori e degli insediamenti, nonché le condizioni socio-economiche della popolazione, anche mediante lo sviluppo di una filiera industriale integrata dalla fase di progettazione a quella di realizzazione e gestione dell’intervento, e ne promuove la conoscenza attraverso l’uso di strumenti informatici condivisi tra il sistema della pubblica amministrazione, degli operatori economici, delle professioni e dei cittadini».
  32. In relazione a questi due obiettivi la l.r. Lombardia 28 novembre 2014, n. 31, all’art. 1 stabilisce: «La presente legge detta disposizioni affinché gli strumenti di governo del territorio, nel rispetto dei criteri di sostenibilità e di minimizzazione del consumo di suolo, orientino gli interventi edilizi prioritariamente verso le aree già urbanizzate, degradate o dismesse (…)».Emerge così l’esistenza di un criterio d’ordine fra contrasto al consumo di suolo e recupero di aree degradate o dismesse, con la prevalenza del primo sul secondo: quest’ultimo costituisce solo un mezzo rispetto al fine ultimo, i.e. la riduzione delle occupazioni di suolo. Conferma di questa lettura si ricava dall’art. 2, c. 3 della stessa legge, che contempla il consumo di suolo come extrema ratio, infatti: «Gli strumenti comunali di governo del territorio prevedono consumo di suolo esclusivamente nei casi in cui il documento di piano abbia dimostrato l’insostenibilità tecnica ed economica di riqualificare e rigenerare aree già edificate».
  33. Senza sottacere del fatto che già la l.r. Lombardia 28 novembre 2014, n. 31, «Disposizioni per la riduzione del consumo di suolo e per la riqualificazione del suolo degradato», interveniva sulla l.r. n. 12/2005 per mettere in luce il problema del consumo di suolo.
  34. Negli atti europei l’espressione utilizzata è “protezione del suolo”, inclusiva di due fenomeni distinti: il land take (occupazione di suolo) ovvero il passaggio da un uso naturale o agri-forestale ad un uso urbano, e il soil sealing (impermeabilizzazione), che ricomprende tutte le alterazioni fisiche del terreno che ne comportano la copertura con materiali che impediscono il filtraggio dell’acqua. L’espressione “consumo di suolo” viene variamente impiegata per tradurre questi tre concetti. Sul punto si richiama Pagliari G. (2020), Prospettive della pianificazione urbanistica, in Rivisita giuridica dell’edilizia, n. 5/2020, pp. 325 ss., oltre al rilevante contributo di Carpentieri P. (2020), Il “consumo” del territorio e le sue limitazioni. La “rigenerazione urbana”, in Federalismi, n. 1/2020, pp. 1-59, a cui si rinvia anche per l’ampio corredo dottrinario sulla materia.
  35. Commissione Europea, 16 aprile 2002, Verso una strategia tematica per la protezione del suolo, COM (2002) 179 def., in www.eur-lex.europa.eu.
  36. C. Cost. 12 giugno 2019, n. 179, sul punto statuisce: «Si deve riscontrare innanzitutto che il livello regionale è strutturalmente quello più efficace a contrastare il fenomeno del consumo di suolo, perché in grado di porre limiti ab externo e generali alla pianificazione urbanistica locale: del resto proprio in questa direzione, come la Lombardia, si sono mosse anche altre Regioni, approvando leggi dirette a limitare il consumo del suolo».
  37. In relazione alle definizioni di “consumo di suolo”, “copertura artificiale del suolo”, “impermeabilizzazione” e “degrado del suolo”, etc. si rinvia a www.isprambiente.gov.it.
  38. In materia la Camera dei deputati aveva approvato in data 12 maggio 2016 il d.d.l. n. 2039, recante “Contenimento del consumo del suolo e riuso del suolo edificato”. L’atto si è poi arenato in Senato.
  39. Sull’opportunità che il legislatore conceda aprioristicamente incrementi di volume verticale si veda Moraci F., Fazia C. (2019), Ambiguità degli effetti delle discipline regionali sul consumo di suolo zero e sulla verticalità in architettura, in Techne, n. 17/2019, pp. 78-85.
  40. Secondo la C. Cost. 22 luglio 2021, n. 164, è proprio l’esigenza di unitarietà nella tutela del paesaggio, quale interesse di rango costituzionale, a giustificare la compressione da parte della legge statale delle finitime competenze regionali e comunali in materia rispettivamente di governo del territorio e di pianificazione urbanistica. Nondimeno, la Corte afferma: «È conforme al riparto costituzionale delle competenze che il piano paesaggistico regionale (…) è tenuto a recepire le scelte di tutela paesaggistica, senza capacità di alterarle neppur sul piano delle prescrizioni d’uso. Altrimenti, esso potrebbe divenire l’occasione per ridurre lo standard di tutela dell’ambiente in forza di interessi divergenti, anziché la sede deputata a collocare armonicamente siffatti interessi sub valenti nella cornice già intagliata secondo la preminente prospettiva della conservazione del paesaggio».
  41. D.M. 2 aprile 1968, n. 1444, avente ad oggetto «Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra gli spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi, da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi dell’art. 17 della legge n. 765 del 1967».
  42. Così come statuito in C. Cost. 23 giugno 2020, n. 119.
  43. Da ultimo C. Cost. 13 giugno 2018, n. 126 ha ribadito proprio in materia urbanistica la necessità di: «garantire agli stessi (Comuni n.d.r.) forme di partecipazione ai procedimenti che ne condizionano l’autonomia».
  44. C. Cost. 16 luglio 2019, n. 179, si pronuncia in questi termini: « Si deve quindi concludere che la norma impugnata non supera, ai sensi del legittimo esercizio del principio di sussidiarietà verticale, il test di proporzionalità con riguardo all’adeguatezza e necessarietà della limitazione imposta all’autonomia comunale in merito a una funzione amministrativa che il legislatore statale ha individuato come connotato fondamentale dell’autonomia comunale. Essa, pertanto, deve essere dichiarata costituzionalmente illegittima nella parte in cui non consente ai Comuni di apportare varianti che riducono le previsioni e i programmi edificatori nel documento di piano vigente.
  45. La l.r. Veneto 8 luglio 2009, n. 14, recante «Intervento regionale a sostegno del settore edilizio e per favorire l’utilizzo dell’edilizia sostenibile e modifiche alla legge regionale 12 luglio 2007, n. 16 in materia di barriere architettoniche», meglio nota come “Piano casa”, all’art. 1, c. 1, fissa le finalità generali : « La Regione del Veneto promuove misure per il sostegno del settore edilizio attraverso interventi finalizzati al miglioramento della qualità abitativa per preservare, mantenere, ricostituire e rivitalizzare il patrimonio edilizio esistente nonché per favorire l’utilizzo dell’edilizia sostenibile e delle fonti di energia rinnovabili».
  46. C. Cost. 23 giugno 2020, n. 119 nel rigettare la questione di costituzionalità statuisce quanto segue: « La norma regionale oggi in scrutinio – e si intende l’interpretazione autentica da essa recata – supera, dunque, la verifica di proporzionalità, in aderenza col principio di sussidiarietà verticale, poiché gli interventi in deroga che la norma stessa consente, da un lato, soddisfano interessi pubblici di dimensione sovracomunale e, dall’altro, per i già segnalati limiti quantitativi, qualitativi e temporali, non comprimono l’autonomia comunale oltre la soglia dell’adeguatezza e della necessità».