Osservatorio T.A.R. Piemonte e Valle d’Aosta

Presentazione

Comitato di Redazione: G. Boggero (Ricercatore Istituzioni diritto pubblico UNITO), G. Sobrino (Ricercatore Diritto costituzionale UNITO), L. Conte (Assegnista di ricerca Diritto costituzionale UPO), S. Dentico (Avvocato), S. Matarazzo (Dottoranda di ricerca UPO), R. Medda (Dottorando di ricerca UPO), S. Mallardo (Dottorando di ricerca UPO), V. Vaira (Dottoranda di ricerca UNITO), M. Demichelis (Dottoranda di ricerca UNITO), G. Odino (Avvocato e Assegnista di ricerca Diritto amministrativo UNITO), V. Cavanna (Dottoranda di ricerca UNITO)

L’Osservatorio nasce come rubrica a cadenza quadrimestrale nell’ambito della Rivista Il Piemonte

delle Autonomie con l’obiettivo di promuovere uno studio sistematico della giurisprudenza amministrativa del T.A.R. Piemonte e del T.A.R. Valle d’Aosta.

Allo stato, non mancano sedi autorevoli e qualificate ove segnalare o commentare le più significative pronunce della giurisdizione amministrativa, inclusa di quella piemontese e valdostana. Nel panorama scientifico italiano non esiste, tuttavia, uno strumento di monitoraggio permanente dell’attività degli organi di giustizia amministrativa di primo grado, articolato per Regione. L’art. 125 Cost. invita, invece, la comunità dei giuristi – dai ricercatori universitari agli avvocati del libero Foro, senza dimenticare gli Avvocati dello Stato – a prendere sul serio la regionalizzazione dei T.A.R. per tentare di metterla a sistema, evidenziando le peculiarità tematiche, le diverse sensibilità giuridico-culturali dei Collegi, ma anche gli orientamenti più innovativi rispetto alla giurisprudenza amministrativa consolidatasi nelle altre Regioni e a quella del Consiglio di Stato. Allo stato, al di là delle pur insostituibili rassegne autoprodotte in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario o dei tentativi di annotazione offerti dal sito-web della Giustizia Amministrativa, risulta alquanto difficile tentare un’analisi complessiva dell’evoluzione della giurisprudenza amministrativa in una data Regione. Accanto a una prospettiva “micro”, in ordine alla quale prevalgono note o commenti a sentenze isolate, l’assai più rilevante prospettiva “macro” ha intersecato finora temi e problemi comuni all’intera giustizia amministrativa italiana, tralasciando le differenze territoriali e gli apporti regionali alla comune cultura amministrativa e giurisprudenziale. Eppure, il sindacato sugli atti amministrativi degli enti territoriali aventi sede in ciascuna Regione o Provincia autonoma dà la misura di quali siano i principali nodi problematici dell’indirizzo politico-amministrativo regionale e locale, ma anche di quali possano essere le questioni più spinose con le quali si confronta l’Amministrazione periferica dello Stato in un certo territorio. A questo proposito, la rubrica coprirà l’attività giurisdizionale degli organi di giustizia amministrativa del Piemonte e della Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste, al fine di consentire una lettura sinergica di problemi che interessano la vita comune di una collettività “macro-regionale” che è già normativamente tale, quantomeno, come Distretto Giudiziario di Corte d’Appello e che ambisce ad esserlo anche sotto il profilo dell’integrazione delle politiche sanitarie, ambientali e dei trasporti, solo per fare alcuni esempi.

Del resto, un Osservatorio piemontese e valdostano assume rilevanza non soltanto per gli operatori del diritto o per i funzionari delle rispettive Amministrazioni, ma anche per gli organi della stampa locale e, quindi, per l’opinione pubblica delle due Regioni, alla quale sarà consentito conoscere e controllare con maggiore immediatezza la soluzione di delicate questioni di esercizio del potere pubblico negli ambiti più rilevanti per il tessuto economico, politico, sociale e culturale della comunità di riferimento.

A tale scopo, l’Osservatorio si avvale della collaborazione di giovani avvocati del Foro di Torino e dell’esperienza di studiosi del diritto amministrativo e costituzionale facenti capo all’Università degli Studi di Torino e all’Università degli Studi del Piemonte Orientale “A. Avogadro”. Integrando l’esperienza di OPAL (l’Osservatorio per le Autonomie Locali, curato dai dottorandi del Dottorato alessandrino in “Autonomie, Servizi, Diritti”) e ispirandosi al modello utilizzato dal Monitore della

giurisprudenza costituzionale, ospitato dal Forum di Quaderni costituzionali, la rubrica, strutturata

per ambiti materiali in linea di massima coincidenti con quelli utilizzati dagli stessi organi di giustizia amministrativa per il riparto interno tra Sezioni, segnala le pronunce più significative depositate nel quadrimestre precedente la pubblicazione. Di ciascuna di esse è predisposta una scheda riassuntiva rientrante nel genere della nota redazionale, che ne riporta i riferimenti essenziali e una breve sintesi a firma di uno dei collaboratori. Le principali decisioni sono, invece, segnalate dall’Osservatorio come oggetto di annotazione critica nell’ambito dei commenti della Rivista.

[G. Boggero]

Rassegna gennaio – luglio 2021

T.A.R. PIEMONTE

AMBIENTE & PAESAGGIO

SULLA RESPONDABILITÀ SOLIDALE DEI PROPRIETARI E DEI TITOLARI DI DIRITTI REALI O PERSONALI DI GODIMENTO SULLE AREE AI SENSI DELL’ART. 192 D. LGS. 152/06: È ILLEGITTIMO IL PROVVEDIMENTO DA CUI NON EMERGA L’ACCERTAMENTO DI DOLO O COLPA

TAR Piemonte, Sez. II – R.G. 87/2020 – sent. del 2 marzo 2021, n. 226

Pres. Testori, Est. Faviere

[E.M.R. et al. c. Comune di Dormelletto]

Nella vicenda all’attenzione del TAR, un Comune ingiunge, a mezzo di ordinanza ai sensi degli articoli 192 D. Lgs. 152/06 e 50 TUEL, ai nudi proprietari ed alla usufruttuaria di un sito la rimozione e lo smaltimento di alcuni rifiuti ivi depositati in modo incontrollato ed imputa, in capo agli stessi, l’obbligo di provvedervi (con le possibili conseguenze sanzionatorie in caso di inadempienza).

I predetti soggetti impugnano l’ordinanza in questione; il TAR ritiene fondato il ricorso sulla base delle seguenti considerazioni.

L’art. 192 del D. Lgs. 152/06 è chiaro nel definire i contorni di una particolare responsabilità solidale dei proprietari e dei titolari di diritti reali o personali di godimento sulle aree. Tali presupposti sono: l’imputabilità dei fatti a titolo di colpa o dolo, l’avvenuto accertamento dell’elemento soggettivo in contraddittorio e l’attivazione in tal senso da parte dell’ente controllante. Su questo aspetto, la giurisprudenza è concorde e si fonda sul c.d. principio “chi inquina paga” di cui all’art. 192 TFUE.

Anche in merito agli oneri di controllo e vigilanza in capo ai proprietari la giurisprudenza ha individuato precisi presupposti per la ricorrenza della predetta responsabilità solidale, non essendo sufficiente una qualunque mancanza di cautela e risultando invece necessaria l’omissione di specifiche azioni o interventi richiesti dall’ordinaria diligenza in relazione a specifiche circostanze contingenti.

Inoltre, il TAR afferma che il carattere di urgenza delle ordinanze ai sensi dell’art. 192 D. Lgs. 152/06 non fa venir meno la necessità dell’istruttoria, che deve essere effettuata caso per caso e che deve avere ad oggetto anche il dolo o la colpa dei soggetti. La mancanza di tale istruttoria non può essere integrata in via postuma nell’ambito dell’istruttoria processuale.

[V. Cavanna]

ARMI & ESPLOSIVI

IL CRITERIO GENERALE PER CALCOLARE I QUANTITATIVI DI DETENZIONE DELLE CARTUCCE È QUELLO DI DESTINAZIONE E NON QUELLO DELLA TIPOLOGIA DI MUNIZIONE.

TAR Piemonte, Sez. II – sent. del 7 gennaio 2021, n. 14

Pres. Testori, Est. Cattaneo

[C.B.P.C., c. Ministero dell’Interno – Questura di Torino]

La vicenda trae origine dalla decisione del Questore di Torino di adottare un decreto al fine di sospendere per 5 giorni la licenza della vendita delle armi nei confronti del ricorrente C.B.P.C.

Il destinatario della sospensione chiedeva l’annullamento del decreto al TAR, adducendo:

  • La violazione e l’errata interpretazione dell’art. 97 del R.D. n. 635 del 1940 che stabilisce il limite di detenzione/trasporto per i privati di 1500 cartucce per fucile da caccia e di 200 cartucce per pistola.
  • La violazione e l’errata interpretazione dell’art. 6 comma 7 D.lgs. n. 204 del 2010 che stabilisce che per i fucili da caccia in grado di camerare le cartucce per la pistola si applica il limite quantitativo di 200 cartucce stabilito dall’art. 97.
  • Eccesso di potere per istruttoria carente e per illogicità manifesta poiché la Questura non ha valutato la tipologia di munizioni.

Il Questore riteneva che il ricorrente avesse violato la normativa citata in quanto vendeva ad un privato 260 cartucce di calibro 300 “Blackout” per pistola superando di 60 il limite quantitativo previsto dalla normativa.

Il ricorrente affermava che l’amministrazione sarebbe incorsa in una confusione concettuale in quanto la normativa non fa riferimento alla tipologia/categoria di arma di destinazione dei proiettili ma solo al tipo di munizioni; dato che le cartucce calibro 300 “Blackout” sono espressamente qualificate come proiettili per armi da caccia il ricorrente riteneva di dover rispettare il limite di 1500 colpi.

Il TAR considera le censure del ricorrente non fondate in quanto l’interpretazione letterale dell’art. 97 R.D. n. 635 del 1940 attribuisce invece rilievo proprio alla tipologia di arma a cui le cartucce sono destinate e non alla loro tipologia (la destinazione prevale sulla tipologia).

Con la conseguenza che non possono essere detenute più di 200 cartucce per pistola destinate a essere inserite in una pistola; e non possono essere detenute più di 1500 cartucce per fucile destinate ad essere inserite in un fucile da caccia.

Per quanto riguarda la tipologia di cartucce, il legislatore ha previsto una precisazione: quelle per pistola che possono essere utilizzate anche per i fucili debbono sottostare al limite di 200 (art. 6 comma 7 D. Lgs. n. 204 del 2010).

Il TAR sostiene che il non aver disposto alcun limite ad hoc per le cartucce per fucili da caccia in grado di essere camerate da pistole è indicativo del fatto che debba esser rispettato il limite di 200 cartucce stabilito dall’art. 97.

Quindi, salvo la precisazione prevista dall’art. 6 ove viene in rilievo la tipologia di munizione, il criterio generale è quello dell’arma alla quale le cartucce sono destinate.

Schematizzando, i limiti quantitativi di detenzione/trasporto per il privato sono i seguenti:

  • Art. 97 R.D. n. 635/1940: 1500 cartucce per fucile.
  • Art. 97 R.D. n. 635/1940: 200 cartucce per pistola.
  • Art. 6 comma 7 D. Lgs. n. 204/2010: 200 cartucce per pistola utilizzabili anche per i fucili.
  • Art. 97 R.D. n. 635/1940 così come interpretato dal TAR Piemonte: 200 cartucce per fucili utilizzabili anche per pistole (e non 1500 come sosteneva il ricorrente).

Dato che il ricorrente ha venduto 260 cartucce per fucile ma destinate ad una pistola, superando così il limite di 200 previsto dalla normativa, il provvedimento adottato dal Questore è ritenuto legittimo

[S. Mallardo].

SINDACATO DEL GIUDICE AMMINISTRATIVO E RICOSTRUZIONE DEI FATTI DA PARTE DELL’AMMINISTRAZIONE E DA PARTE DELL’AUTORITA’ GIUDIZIARIA: PREVALE QUELLA PIU’ LOGICA, COERENTE E ATTENDIBILE.

TAR Piemonte, Sez. I – sent. del 21 gennaio 2021, n. 68

Pres. Salamone, Cons. Malanetto, Est. Cerroni

[Omissis c. Ministero dell’Interno]

L’esercente di un’attività commerciale di “compro oro” e titolare di porto d’armi estraeva l’arma in suo possesso ed esplodeva un colpo verso il suolo mettendosi all’inseguimento dei tre aggressori che lo avevano rapinato.

A seguito di tale condotta, il ricorrente subiva il sequestro delle armi in suo possesso, veniva denunciato ai sensi dell’art. 703 c.p. che prevede l’ammenda fino a 103 € per chiunque esploda un colpo di arma da fuoco in un luogo abitato o sulla pubblica via ed infine gli veniva revocata la licenza di porto d’armi in quanto dall’analisi dei fatti emergeva una personalità inaffidabile o comunque tendenzialmente carente del necessario autocontrollo.

Infatti, a seguito dell’istruttoria dell’Amministrazione volta ad accertare i modi e i tempi della condotta è emerso che il ricorrente esplodeva il colpo di pistola quando ormai i rapinatori stavano fuggendo e quindi, verosimilmente, alle loro spalle.

L’amministrazione sosteneva che il ricorrente non ha esploso il colpo al suolo in quanto “a seguito di accurata bonifica del tratto di strada […] non rinvenivano alcuna ogiva né tantomeno alcun bossolo esploso”.

A conclusioni opposte giungeva l’autorità giudiziaria nel parallelo procedimento penale instaurato per la violazione dell’art. 703 c.p.

A seguito degli accertamenti disposti dall’autorità inquirente è emerso che il colpo veniva esploso al suolo per interrompere la condotta pericolosa dei tre malviventi – quindi durante l’aggressione e non mentre stavano fuggendo – e pertanto veniva richiesta l’archiviazione poi accolta dal G.I.P. con decreto.

Il TAR aderisce alla ricostruzione effettuata dall’autorità giudiziaria e dichiara che le valutazioni espresse dalla Prefettura “riposano su una ricostruzione dei fatti rivelatasi non del tutto attendibile e coerente con quanto emerso in sede penale”.

Da ciò discende che la valutazione discrezionale compiuta dall’Amministrazione sulla (non) affidabilità del ricorrente sul corretto uso delle armi è inficiata irrimediabilmente da incoerenze e discordanze fattuali emerse grazie all’indagine effettuata nel parallelo procedimento penale.

Alla luce di tali considerazioni annulla il provvedimento della revoca della licenza di porto d’armi e del relativo divieto di detenzione disposto dall’Amministrazione.

[S. Mallardo]

LA VALUTAZIONE DISCREZIONALE DELL’AMMINISTRAZIONE PER IL RILASCIO DEL PORTO D’ARMI NON È CONDIZIONATA DALL’ESITO DEI PROCEDIMENTI PENALI IN QUANTO L’ACCERTAMENTO PREVENTIVO DI PUBBLICA SICUREZZA È PIÙ STRINGENTE DI QUELLO SULLA RESPONSABILITÀ PENALE.

TAR Piemonte, Sez. II – sent. del 3 marzo 2021, n. 228

Pres. Testori, Cons. Cattaneo, Est. Caccamo

[Omissis c. Ministero dell’Interno – Questura di Cuneo]

Il fatto origina dal rigetto dell’istanza di rilascio del porto d’armi per l’esercizio dello sport del tiro al volo da parte del Questore di Cuneo per mancanza del requisito di buona condotta di cui all’art. 43 T.U.L.P.S.

Avverso il provvedimento di rigetto il ricorrente proponeva gravame sostenendo che le vicende penali che lo riguardano sono risalenti nel tempo e mai accertate con sentenza definitiva di condanna; che la questura di Cuneo gli aveva già rilasciato una licenza di porto d’armi per la durata di due anni; che i luoghi ove deteneva le armi non erano sintomatici di inaffidabilità rispetto all’uso delle stesse.

Il TAR ritiene infondate le censure esposte nel ricorso.

In particolare, evidenzia come il ricorrente avesse nel casellario una condanna per un delitto diverso da quelli elencati al comma 1 dell’art. 43; e tale condanna rileva però ai sensi del comma 2 che prevede il diniego della licenza anche a condannati per altri delitti non contenuti al comma 1.

Inoltre, si riconosce all’amministrazione un ampio potere discrezionale nella concessione delle licenze in quanto la detenzione del porto d’armi non corrisponde ad un diritto soggettivo bensì ad una eccezione al generale divieto contenuto nell’art. 699 c.p. Da ciò discende che non sono richieste particolari e stringenti motivazioni per il provvedimento di rigetto e che il sindacato del giudice amministrativo è limitato ad una valutazione di non irrazionalità e arbitrarietà delle decisioni dell’Amministrazione.

Nel caso in esame, la valutazione dell’Amministrazione non è né manifestamente illogica né sproporzionata in quanto le ragioni della insussistenza del requisito della buona condotta sono chiare.

In primo luogo, il ricorrente ha diversi precedenti penali nonché un processo pendente in appello per danneggiamento aggravato in concorso con altri due soggetti.

In secondo luogo, la modalità di custodia dei due fucili, l’uno sotto al letto e l’altro sopra un mobile con le relative cartucce, è chiaro sintomo di grave negligenza oltre che integrare una violazione dell’art. 20 della legge n. 110/1975 che prevede l’adozione di misure idonee ad evitare che altri possano utilizzare le armi detenute dal ricorrente.

[S. Mallardo]

IL T.A.R. PIEMONTE RINVIA ALLA CORTE COSTITUZIONALE LA DISCIPLINA SULL’EMISSIONE AUTOMATICA DELLA COMUNICAZIONE ANTIMAFIA A SEGUITO DI CONDANNA PER “ATTIVITÀ ORGANIZZATE PER IL TRAFFICO DI RIFIUTI”, COMMESSE ANCHE IN FORMA NON ASSOCIATIVA

TAR Piemonte, Sez. I – R.G. 446/2020 – ord. del 29 aprile 2021, n. 448,

Pres. Salamone, Est. Risso

[Omissis S.r.l. c. Ministero dell’Interno ed altri]

Con l’ordinanza indicata il T.A.R. solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 67 comma 8 del d.lgs. n. 159/2011 («come richiamato dal secondo comma dell’art. 84» dello stesso d.lgs.), in materia di “comunicazioni antimafia”, per sospetto contrasto con gli artt. 3, 25, 27, 38 e 41 Cost. Tale disposizione viene censurata dal T.A.R. «nella parte in cui, rinviando all’art. 51, comma 3 bis del c.p., prevede l’automatismo di cui alla comunicazione antimafia nel caso di condanna per il reato di cui all’art. 452-quaterdecies del c.p. [«Attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti»: n.d.A.] anche nella sua forma non associativa». Il T.A.R. chiede quindi alla Corte Costituzionale di eliminare tale “automatismo legislativo” – conformemente alla recente giurisprudenza costituzionale in materia di “automatismi”, soprattutto “preclusivi” – e di sostituirlo con la previsione per cui l’emissione della “comunicazione antimafia”, nel caso di condanna per il reato in questione, è subordinata alla valutazione discrezionale della P.A. circa l’effettivo collegamento tra tale reato e l’«attività delle organizzazioni criminali di stampo mafioso» e delle «circostanze per cui, in base alla ricostruzione fattuale e giuridica contenuta nel provvedimento giurisdizionale, sia lecito dedurre che l’attività d’impresa possa … agevolare le attività criminose o esserne in qualche modo condizionata».

Il giudizio nel quale la questione viene sollevata ha ad oggetto la domanda di annullamento di una “comunicazione antimafia” ex art. 84 comma 2 d.lgs. n. 159/2011, emessa dalla Prefettura di Alessandria nei confronti di una società operante «nel settore dell’ecologia», dedita, in particolare, al prelievo e allo smaltimento di sottoprodotti di origine animale ed alla raccolta e alla messa in riserva di olii esausti vegetali. Tale provvedimento – che comporta come conseguenza l’impossibilità di ottenere una serie nutrita di provvedimenti autorizzativi e concessori per l’esercizio di attività (art. 67 d.lgs. n. 159/2011) – era motivato con la condanna non definitiva (da parte della Corte d’appello di Cagliari) dei soci di maggioranza del socio unico della s.r.l. ricorrente per il reato di «Attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti», previsto dall’art. 452-quaterdecies c.p. Poiché l’art. 84 comma 2 del d.lgs. n. 159/2011, nel disciplinare l’istituto della “comunicazione antimafia”, dispone che essa «consiste nell’attestazione della sussistenza o meno di una delle cause di decadenza, di sospensione o di divieto di cui all’articolo 67» dello stesso d.lgs.; e poiché l’art. 67 prevede tra tali cause “ostative” il fatto che gli amministratori o i soci della società interessata siano stati condannati – anche in via non definitiva – per uno dei delitti di cui all’art. 51 comma 3-bis c.p.p., norma la quale a sua volta ricomprende il reato di «Attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti» (art. 452-quaterdecies c.p.); per tali ragioni la Prefettura di Alessandria ha emesso la “comunicazione antimafia” “negativa” a carico della ricorrente. Come rileva il T.A.R. nella prima parte dell’ordinanza di rimessione, «tra le cause che, in base alla normativa vigente, determinano una condizione ostativa automatica al rilascio della liberatoria antimafia sussiste anche quella della condanna, ancorché non definitiva, ma confermata in grado di appello, per il delitto di cui all’art. 452-quaterdecies del c.p. “Attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti”, anche nella forma non associativa».

Nel motivare il rinvio alla Corte della questione di legittimità costituzionale, il T.A.R. osserva innanzitutto che la disposizione di cui all’art. 67 comma 8 del d.lgs. n. 159/2011 non è suscettibile di essere interpretata in modo costituzionalmente orientato, come richiesto dalla società ricorrente. Il T.A.R. sottolinea, al riguardo, che la disposizione legislativa è «chiara» ed univoca nel prevedere che la condanna (anche non definitiva) per uno dei reati di cui all’art. 51 comma 3-bis c.p.p. – tra i quali, appunto, quello di «Attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti» – comporti “automaticamente” l’emissione della “comunicazione antimafia”, senza alcuno spazio di discrezionalità per l’Amministrazione. La necessità di tentare l’interpretazione conforme a Costituzione trova quindi un “limite invalicabile” nella lettera della legge, che il Giudice non può superare.

Circa, poi, la rilevanza della questione di legittimità costituzionale della disposizione citata, il T.A.R. evidenzia che, nel caso di specie, la “comunicazione antimafia” impugnata dalla società ricorrente è «motivata esclusivamente dalla condanna, confermata dalla Corte di Appello di Cagliari, seconda sezione penale, con la sentenza n. -OMISSIS-, dei signori -Sempronio-, -Caio- e -Tizio-, per il delitto di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti di cui agli artt. 110 c.p., 260 comma 1 del decreto legislativo 3 aprile 2020, n. 152, oggi previsto dall’art. 452-quaterdecies c.p., delitto previsto all’art. 51, comma 3 bis del c.p.p., e dunque rientrante tra “i delitti spia” richiamati appunto dall’art. 67, comma 8 del decreto legislativo n. 159 del 2011». Perciò, se la Corte Costituzionale dovesse accogliere la questione sollevata, il giudizio potrebbe concludersi con l’accoglimento del ricorso «alla luce della possibilità di sottrarre il reato in esame all’effetto automatico scaturito dalla condanna, e proprio della comunicazione antimafia».

Per quanto riguarda i motivi di non manifesta infondatezza della questione di costituzionalità, il T.A.R. ricostruisce analiticamente la disciplina della “documentazione antimafia” dettata dal d.lgs. n. 159/2011, fondata sulla distinzione tra la «comunicazione antimafia» – provvedimento di natura vincolata, in quanto conseguente appunto in via automatica al riscontro di determinate circostanze di fatto, come l’intervenuta condanna per determinati reati – e l’«informazione antimafia» – di natura invece discrezionale, subordinata alla valutazione concreta delle circostanze stesse da parte del Prefetto –. Richiamando la giurisprudenza amministrativa in materia di «informazioni antimafia» e costituzionale in materia di «automatismi presuntivi» in generale, il Tribunale critica l’“automatismo” condanna per «Attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti» (commessa anche in forma non associativa) – diniego della comunicazione «liberatoria antimafia» perché esso, in sostanza, non permetterebbe alla P.A. di «tenere conto delle peculiarità del caso concreto». In particolare, la norma impugnata non consentirebbe di valutare la sussistenza in concreto dei «requisiti riguardanti la connessione [del fatto- reato in questione: n.d.A.] con il fenomeno associativo criminale (non essendo elementi costituitivi del reato di cui all’art. 452-quaterdecies c.p. il carattere associativo e lo stretto collegamento con l’attività della criminalità organizzata di stampo mafioso)». In questo modo, la norma stessa avrebbe l’effetto di «ampliare i confini applicativi della normativa antimafia senza garantire un effettivo riscontro in merito alla sussistenza dei requisiti giustificativi della misura stessa».

Come parametri dello scrutinio di costituzionalità della disposizione censurata il T.A.R. indica, in primo luogo, l’art. 3 Cost. (parametro abituale nei giudizi sulla legittimità degli “automatismi legislativi”), in relazione all’irragionevolezza dell’“automatismo legislativo” da essa stabilito, della «sproporzionalità degli effetti dello stesso, nonché [della] previsione di trattamenti differenziati per situazioni uguali». In secondo luogo, l’ordinanza richiama gli artt. 25 e 27 Cost., in ragione dell’ingiustificato «aggravio del trattamento sanzionatorio» per il reato di cui all’art. 452-quaterdecies c.p., nella sua forma non associativa, che lo stesso art. 67 comma 8 del d.lgs. n. 159/2011 (ed il relativo “automatismo legislativo”) comporterebbe. Infine, il T.A.R. evoca altresì gli artt. 38 e 41 Cost., affermando, quanto al primo parametro, che la disposizione censurata lederebbe il «sistema di sicurezza sociale» da esso garantito, «atteso che la funzione della comunicazione [“antimafia”: n.d.A.] è quella di inibire, nei rapporti tra i privati …, qualsivoglia attività soggetta ad autorizzazione, licenza, concessione, abilitazione, iscrizione ad albi …, o anche alla segnalazione certificata di inizio attività … e alla disciplina del silenzio assenso …»; quanto all’art. 41, che la libertà di iniziativa economica da esso tutelata «verrebbe fortemente pregiudicata dai provvedimenti ostativi “a cascata” conseguenti alla comunicazione antimafia», derivante in via automatica dalla condanna per il reato di «Attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti», sopra indicato.

[G. Sobrino]

SERVIZIO PUBBLICI LOCALI

SULLA RISOLUZIONE DEL CONTRATTO DI SERVIZIO AVENTE AD OGGETTO L’AGGREGAZIONE GESTIONALE UNICA DEL SERVIZIO IDRICO PER GRAVE INADEMPIMENTO DEL GESTORE

TAR Piemonte, Sez. I – R.G. 158/2020– sent. del 4 febbraio 2021, n. 117

Pres. Malanetto, Est. Salamone

[Comuni Riuniti Società di Gestione di Servizi Comunali s.r.l. c. l’Autorità d’Ambito Territoriale Ottimale n. 2 et al.]

Il TAR Piemonte respinge il ricorso proposto dalla società “Comuni Riuniti Società di Gestione di Servizi Comunali s.r.l.” (in house composta da alcuni comuni del vercellese e biellese per la gestione del servizio idrico integrato nei rispettivi territori) contro l’Autorità d’Ambito Territoriale Ottimale e nei confronti del Servizio Idrico Integrato del Biellese e del Vercellese s.p.a. per l’annullamento della deliberazione con cui la Conferenza dell’Autorità d’Ambito ha dato atto dell’avvenuta risoluzione del contratto di servizio e ha individuato gli altri gestori subentranti.

Il rapporto tra la Comuni Riuniti s.r.l. e la Aato n. 2 “biellese, vercellese, casalese” era costituito da un contratto di servizio avente ad oggetto l’aggregazione gestionale unica del servizio idrico nei territori interessati per una durata prevista sino al 2023. Gli obblighi gravanti sul gestore sono disciplinati dalla Convenzione che prevede, tra gli altri, quelli di “cooperare per il conseguimento dell’obiettivo dell’aggregazione gestionale” e “promuovere il miglioramento delle infrastrutture e realizzare il programma degli interventi”, nonché curare la comunicazione agli utenti dell’aggiornamento annuale delle tariffe. La stessa Convenzione prevede poi la risoluzione del contratto qualora “il ripetersi o la gravità delle inadempienze, nonché il mancato rispetto delle intimazioni ad adempiere, pregiudichino o rischino di pregiudicare la continuità o la qualità dei servizi affidati o il raggiungimento degli obiettivi posti dal Piano d’ambito o dai Programmi di intervento”.

A fronte di riscontrate e persistenti gravi inadempienze della gestione C.R. s.r.l., l’Aato evidenziava come le persistenti carenze tecniche ed amministrative avevano reso impossibile per l’Aato la validazione dei dati e la corretta determinazione delle tariffe per il 2019 per le aree interessate pronunciando quindi la risoluzione contrattuale.

Tra le inadempienze spiccano quelle della mancata installazione dei contatori per tutte le utenze e delle diffuse irregolarità nell’applicazione tariffaria, che sono peraltro i pilastri del sistema tariffario imposto dalla legge e dalle delibere ARERA. Secondo il TAR Piemonte, la contestazione circa le irregolarità di installazione dei contatori e della fatturazione non è suscettibile di parcellizzazione per singoli episodi in quanto essa afferisce alla globale scorretta gestione tanto dell’installazione dei contatori che della tariffazione, e non può quindi che interessare tutte le singole irregolarità riscontrate nel corso delle verifiche. Di qui l’infondatezza della contestazione di parte ricorrente secondo cui l’Aato avrebbe dovuto rinnovare una diffida per ogni singola fattura o utenza irregolarmente gestita ed individuata in fase di verifica, dando ogni volta termine di regolarizzazione al gestore. Un tale onere equivarrebbe a legittimare un meccanismo di strutturale mala gestio in cui l’attività viene ricondotta a quanto prescritto “utenza per utenza” o “fattura per fattura”, senza che mai possa procedersi a risoluzione per una valutazione complessiva delle condotte.

La Convenzione prevede inoltre che il gestore curi la comunicazione agli utenti dell’aggiornamento annuale delle tariffe. Assunto quindi che la corretta applicazione della tariffa poteva dirsi tale se effettuata per tutto il periodo interessato e con cadenza annuale, una tempestiva applicazione dei conguagli non può che essere parte essenziale di una corretta gestione. Invero, al di là del termine massimo di legge per reclamare il dovuto, la corretta gestione del sistema e la stessa Convenzione impongono tempestivi ed annuali aggiornamenti, con l’obiettivo evidente di qualità e trasparenza del servizio verso l’utenza per non esporre quest’ultima a richieste “cumulative” ed esose, dunque di difficile verifica ed assolvimento. Pertanto un conto è l’evenienza, eccezionale, per la quale un singolo credito potrebbe anche tardivamente essere reclamato ai sensi di legge nei termini di prescrizione, altro conto è la gestione ordinaria secondo il modello convenzionale, che si deve adeguare a criteri di sana e trasparente gestione nei confronti dell’utenza e non certo a soluzioni di carattere eccezionale. Né l’obbligo di corretta tariffazione e tempestivo conguaglio può dirsi insorto con la diffida, essendo ovviamente un obbligo immanente al rapporto, che discendeva dalla stessa sottoscrizione della convenzione.

Da ultimo, la ricorrente ha adottato, senza previa comunicazione all’Aato, una modifica statutaria in in contrasto con le esigenze di una gestione integrata, in quanto incidente su aspetti contabili e disarmonica rispetto alla realizzazione dei fini di tale gestione che, per definizione, esclude che i centri di costo si individuino per singoli enti. Se ne ricava che tale violazione contrasta con l’obbligo di cooperare a realizzare la gestione integrata, ipotesi che è contemplata in convenzione come fattispecie di risoluzione.

In definitiva, tutti gli inadempimenti contestati in sede di risoluzione, ed accertati dall’Aato, risultano comprovati e rientrano, nel loro complesso, nella casistica descritta della Convenzione, in quanto pregiudicano o rischiano di pregiudicare la gestione integrata ed una sana organizzazione del servizio.

La risoluzione del contratto di servizio appare dunque legittima. Secondo il Collegio non può infine porsi una questione di proporzionalità e previa applicazione delle sole penali, perché la Convenzione individua a quali tipologie di inadempimenti si applicano queste ultime (violazione di standards integrativi) mentre, nel caso di specie, la contestazione attiene complessivamente alla indispensabile collaborazione per la corretta gestione del servizio, che è appunto oggetto dell’art. 19 il quale disciplina la risoluzione.

[V. Vaira]

ISTRUZIONE E UNIVERSITÀ

ILLEGITTIMA PER VIOLAZIONE DEL PRINCIPIO DI PROPORZIONALITÀ LA SOSPENSIONE DI UNO STUDENTE UNIVERSITARIO PER UN TRIENNIO

TAR Piemonte, Sez. I – R.G. 94/2020 – sent. del 1o febbraio 2021, n. 107,

Pres. Salamone, Est. Picone

[Omissis c. Università del Piemonte orientale]

Con ricorso presentato dinanzi al TAR Piemonte, lo studente Omissis, iscritto presso l’Università del Piemonte orientale, ha impugnato il provvedimento con cui il rettore ha disposto nei suoi confronti la sanzione disciplinare della sospensione temporanea dagli studi universitari per un periodo di tre anni.

Nell’aprile 2019, Omissis aveva presentato agli uffici dell’Università una richiesta di riduzione delle tasse universitarie a causa del deterioramento della sua situazione reddituale e patrimoniale; istanza respinta nel luglio dello stesso anno. In tale occasione, lo studente si era confrontato telefonicamente con gli uffici amministrativi e aveva esternato, in maniera piuttosto accesa, la propria insoddisfazione rispetto alla decisione presa. Gli uffici hanno considerato come altamente offensivo il contenuto della telefonata e, di conseguenza, hanno prontamente attivato un procedimento disciplinare nei confronti di Omissis. A seguito della deliberazione del senato accademico, il rettore ha comminato la sanzione più grave prevista dall’ordinamento universitario (r.d.l. n. 1071/1935, art. 16, lett. d): Omissis è stato sospeso temporaneamente dagli studi per un periodo di tre anni, con ordine di annotazione del decreto di sospensione nella carriera accademica e trascrizione nei fogli di congedo, nonché con comunicazione della sanzione a tutte le Università italiane. Nell’adottare la sospensione, l’amministrazione universitaria non ha tenuto conto della lettera indirizzata dal ricorrente al rettore, con la quale Omissis si è scusato per il tono e per il contenuto della telefonata alla base del procedimento disciplinare.

Il TAR Piemonte ha accolto il ricorso di Omissis e ha annullato i provvedimenti impugnati, ritenendo fondato il motivo addotto, secondo cui il provvedimento di sospensione sarebbe illegittimo in quanto sproporzionato e irragionevole. Affermano, infatti, i giudici che il comportamento del ricorrente è sì astrattamente idoneo a giustificare l’adozione di una misura disciplinare, ma non è connotato da un livello di gravità e lesività tale da giustificare la sospensione triennale. Infatti, la comminazione della sanzione più afflittiva prevista dall’ordinamento appare irragionevole alla luce del fatto che Omissis non aveva a proprio carico precedenti disciplinari e che, inoltre, aveva espresso il proprio rimorso con la lettera indirizzata al rettore, una circostanza attenuante ignorata dall’amministrazione universitaria. Secondo il TAR, quindi, il decreto rettorale non motiva in misura sufficiente le argomentazioni alla base della scelta di adottare la sanzione massima in luogo delle altre sanzioni possibili (ossia l’ammonizione, l’interdizione temporanea da uno o più corsi o dalle attività didattiche, la sospensione da uno o più esami di profitto, per uno o più appelli). Per questi motivi, il decreto è illegittimo.

Infine, i giudici rigettano le argomentazioni espresse dell’Università nel corso del giudizio, secondo cui la sospensione triennale sarebbe giustificata da condotte offensive del ricorrente, ulteriori rispetto alla telefonata dalla quale è scaturito il procedimento disciplinare. A tal proposito, ricordano i giudici che la giustificazione della sanzione sulla base di fatti non inizialmente contestati nell’ambito del procedimento disciplinare si pone «in contrasto con l’inderogabile principio della correlazione tra i fatti contestat e quelli posti a base della sanzione disciplinare, a garanzia del contraddittorio e del diritto di difesa dell’incolpato».

[R. Medda]

GARE & APPALTI

LA MANCATA PUBBLICITÀ DELLE SEDUTE DI GARA RAPPRESENTA UNA VIOLAZIONE SOSTANZIALE DEL PRINCIPIO DI TRASPARENZA, CHE INVALIDA LA PROCEDURA

TAR Piemonte, Sez. II – R.G. 975/2020 – sent. 8 aprile 2020 n. 373,

Pres. Testori, Est. Faviere

[Sport Pellerina S.S.D. A.R.L. c. Comune di Torino]

Sport Pellerina S.S.D. A.R.L. adiva il TAR Piemonte contro il Comune di Torino, per l’annullamento della determinazione dirigenziale con cui l’ente locale, nell’ambito di una procedura aperta di gara indetta per la concessione in gestione sociale di un impianto sportivo comunale, approvava l’esclusione del raggruppamento temporaneo di cui faceva parte la ricorrente e decideva per l’aggiudicazione definitiva ad altra concorrente.

Parte ricorrente agiva, successivamente, proponendo altresì ricorso per motivi aggiunti, avverso il provvedimento in autotutela che il Comune aveva nel frattempo adottato, basato sulla riscontrata illegittimità degli atti di gara per un errore procedurale commesso dalla Commissione. Nello specifico, la stessa aveva provveduto all’apertura, in seduta riservata anziché pubblica, delle buste contenenti le offerte tecniche, violando così sia quanto previsto dal disciplinare di gara, che i principi di cui all’art. 1 della l. n. 241/90, come richiamati dall’art. 30 del D. Lgs. n. 50/2016.

Il giudice amministrativo, nell’esaminare le doglianze sollevate da Sport Pellerina, afferma che la mancata pubblicità della seduta comporta l’invalidità dell’intera procedura, trattandosi di gara svolta in modalità cartacea.

In proposito, ricorda come la giurisprudenza sia costante nel considerare l’obbligo di apertura delle offerte tecniche in seduta pubblica attuazione del principio di trasparenza, a partire dalla pronuncia dell’Adunanza Plenaria n. 13/2011, secondo cui “la mancata pubblicità delle sedute di gara costituisce non una mera mancanza formale, ma una violazione sostanziale, che invalida la procedura, senza che occorra la prova di un’effettiva manipolazione della documentazione prodotta e le cui conseguenze negative sono difficilmente apprezzabili ex post, una volta rotti i sigilli e aperti i plichi”.

Ne consegue che non rileva la prova dell’effettivo pregiudizio subito, in quanto la seduta pubblica rappresenta “un valore in sé”, a tutela non solo della posizione degli operatori, ma anche di quella della stazione appaltante (ex multis, CdS n. 3188/2017, T.A.R. Torino n. 124/2018, T.A.R. Genova n. 235/2018, TAR Piemonte, n. 531/2019).

In siffatti casi, sostiene ancora il Consesso, la carenza di pubblicità della seduta impedisce il valido ingresso delle offerte nel procedimento e l’unico strumento di autotutela praticabile, al fine di fornire ai partecipanti e alla stazione appaltante idonee garanzie sulla integrità, non manomissione e provenienza dei plichi risulta essere l’annullamento degli atti della procedura e la rinnovazione delle operazioni di presentazione delle offerte.

Non può quindi trovare applicazione il principio di conservazione dell’effetto utile degli atti invocato da parte ricorrente, che permette alle stazioni appaltanti di salvare gli atti non viziati e di riprendere la gara con una nuova fase di valutazione da parte della Commissione.

Nella fattispecie di cui si tratta, invero, ad avviso del TAR Piemonte, tale soluzione non appare esperibile poiché il rischio di violazione dei principi di trasparenza e parità di trattamento può considerarsi superato soltanto in situazioni che garantiscano l’integrità e la non alterazione delle offerte e quando il giudizio della Commissione non venga condizionato dalla conoscenza del relativo contenuto.

La mancata apertura delle buste in seduta pubblica non assicura, conclude il Consesso, la prima delle garanzie richiamate, indispensabile per l’operatività della conservazione dell’effetto utile e, per conseguenza, non consente di ricorrere all’annullamento parziale degli atti e alla rinnovazione soltanto della fase di gara ritenuta viziata.

Per le argomentazioni suesposte, il TAR Piemonte conclude per l’improcedibilità del ricorso originario, per sopravvenuta carenza di interesse e per l’infondatezza di quello per motivi aggiunti.

[S. Matarazzo]

EDILIZIA & URBANISTICA

ABUSO EDILIZIO: LA DOPPIA CONFORMITÀ È UN REQUISITO ESSENZIALE PER IL PERMESSO IN SANATORIA E LA SANATORIA GIURISPRUDENZIALE QUALE RILASCIO DEL TITOLO EDILIZIO SULLA BASE DELLA SOLA CONFORMITÀ DELL’OPERA ABUSIVA RISPETTO ALLA PIANIFICAZIONE URBANISTICA VIGENTE SI CONFIGURA COME UN ATTO TIPICO CON EFFETTI PROVVEDIMENTALI AL DI FUORI DEL PRINCIPIO DI LEGALITÀ E NOMINATIVITÀ DEGLI ATTI DELL’AMMINISTRAZIONE.

TAR Piemonte, Sez. II – R.G. 450/2015 – REG. PROV.COLL. 273/2021 –

sent. 15 marzo 2021 (pubbl.)

Pres. Picone, Est. Cattaneo

[E.D. c. Comune Gassino]

La ricorrente, titolare di un’azienda agricola, impugna con ricorso in annullamento sia l’ultimo capoverso dell’articolo di riferimento contenuto nelle NUEA del P.R.G. che il provvedimento comunale di diniego al rilascio di un permesso di costruire in sanatoria, avente ad oggetto una struttura agricola di grandi dimensioni e una tettoia aperta su quattro lati, anch’essa di modeste dimensioni.

Il primo motivo di ricorso, centrale ai fini dell’esito della pronuncia, presentato dalla ricorrente è relativo alla motivazione del diniego da parte del Comune, alla sanatoria, diniego legato al ricadere dei manufatti oggetto dell’istanza in classe IIIa1, quella dei “settori inedificati a media pericolosità geologica” secondo il P.R.G., per la quale le NTA vietano la realizzazione di nuove costruzioni ed insediamenti.

A tale proposito, la ricorrente ritiene che avrebbe dovuto operare la sanatoria giurisprudenziale, ossia il Comune stesso avrebbe dovuto recepire e considerare gli esiti della relazione geologica presentata ovvero, altrimenti, sospendere l’attività di repressione dell’abuso edilizio nonché l’istruttoria sull’istanza, restando in attesa della riclassificazione dell’area in altra classe, richiesta posta unitamente alla domanda di sanatoria.

Il T.A.R., però, rileva che la censura non può essere fondata, dato che, secondo un consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa, è ritenuto legittimo il diniego della concessione in sanatoria di opere eseguite senza il titolo abilitante, qualora esse non siano conformi tanto alla normativa urbanistica vigente al momento della loro realizzazione quanto a quella vigente al momento della domanda di sanatoria. Unicamente il legislatore statale, nemmeno il Giudice o il legislatore regionale (ex Corte Cost., sent. 29 maggio 2013, n. 101), può prevedere i casi in cui può essere rilasciato un titolo edilizio in sanatoria, che abbia anche rilevanza estintiva del reato già commesso, e risulta peraltro ragionevole il divieto legale di rilasciare permesso in sanatoria anche nel caso di modifica favorevole dello strumento urbanistico dopo la commissione dell’abuso (Cons. Stato, sez. V, 27 maggio 2014, n. 2755; ma anche lo stesso T.A.R. Piemonte, 26 luglio 2019, n. 851). Si precisa, altresì, che doppia conformità di cui si è fatto cenno è un requisito imprescindibile per il rilascio della sanatoria di opere edilizie, e il rilascio del titolo edilizio sulla base della sola conformità dell’opera abusiva rispetto alla pianificazione urbanistica vigente, ossia la sanatoria giurisprudenziale darebbe luogo ad “un atto atipico con effetti provvedimentali” (T.A.R. Lombardia, Milano, sez. II, 17 maggio 2018, n. 1298; Consiglio di Stato, sez. VI, 18 luglio 2016, n. 3194). Tale tipologia di atto, come affermato dal giudice amministrativo, si colloca oltre qualsiasi previsione normativa e non è ammissibile nel nostro ordinamento, il quale è contrassegnato dal principio di legalità dell’azione amministrativa e dalla tipicità dei poteri della P.A., che seguono il carattere della nominatività: qualora non venisse rispettata tale tipicità si assisterebbe ad una violazione del principio di separazione dei poteri nonché all’invasione di sfere di attribuzioni riservate unicamente all’Amministrazione da parte del giudice.

La giurisprudenza ha, del resto, rilevato altresì che è l’esigenza di evitare che il potere di pianificazione possa essere strumentalizzato al fine di rendere lecito e non punibile ex post ciò che risulta illecito a fondare la ragionevolezza dall’art. 36 del d.P.R. n. 380/2001 (T.U. Edilizia), dissuadendo dall’intenzione di commettere abusi: chi costruisce sine titulo è consapevole di essere tenuto alla demolizione, anche in presenza di una sopraggiunta modificazione favorevole dello strumento urbanistico (Cons. Stato, sez. V, 17 marzo 2014, n. 1324; Id., n. 2755 del 2014).

Nel caso di specie, pertanto, le opere realizzate contrastavano fortemente con le previsioni dettate dalle NTA al punto che la ricorrente ha presentato un’istanza di modifica della categoria: il Comune, quindi, non era tenuto a esprimere alcuna valutazione sulla relazione geologica presentata è né a sospendere l’attività di repressione dell’abuso, essendo, al contrario, vincolato ad adottare il provvedimento di diniego.

Ulteriore motivo di ricorso addotto dalla ricorrente è relativo al difetto di motivazione relativamente alla mancata indicazione, da parte del Comune, delle ragioni di pubblico interesse alla rimozione di opere anche risalenti nel tempo (la ricorrente attesta la realizzazione di una di queste nell’anno 2004).

Consolidata posizione del giudice amministrativo afferma che, accertato un abuso edilizio, l’amministrazione è obbligata all’applicazione delle sanzioni previste per legge e, ove ne sussistano i presupposti, alla rimessione in pristino, quale attività vincolata.

Essendo la P.A. totalmente priva della possibilità di esercizio di discrezionalità, i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia non richiedono alcuna specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati incisi e neppure una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale, poiché non è configurabile alcun affidamento per la conservazione di una situazione di illecito avente natura permanente, che il tempo non può legittimare in via di fatto. A tale proposito si richiama quanto affermato dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, laddove afferma che “il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso neanche nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell’onere di ripristino ” (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., 17 ottobre 2017, n. 9).

Del tutto irrilevanti sono, infine, le considerazioni espresse dalla ricorrente nell’ultimo motivo di ricorso, relative alle dimensioni inferiori della seconda struttura, la quale, comunque, rientra nelle motivazioni del diniego, legate alla non conformità con le norme geologiche e alla collocazione all’interno della fascia di rispetto stradale di tutte le opere.

Il T.A.R. Piemonte respinge, dunque, il ricorso.

[M. Demichelis]