Più che un’introduzione, un invito alla lettura

Renato Balduzzi[1]

Non è necessario scomodare puntualmente il grande e indimenticabile magistero di Massimo Severo Giannini per ricordare che i controlli sono, in generale, uno dei nodi problematici della vita pubblica del nostro Paese e che, al loro interno, quelli sui comuni hanno sempre costituito un banco di prova della serietà degli approcci in termini di autonomismo responsabile, capace di evitare gli opposti rischi, da un lato, del controllo burocratico-sostanziale inadatto a rispettare gli spazi di indirizzo politico-amministrativo dell’ente controllato (caratteristico dell’epoca pre-regionale e pre-costituzionale) e, dall’altro, del controllo burocratico-formale inadatto a cogliere gli eventuali scostamenti, da parte di quest’ultimo, nei confronti dell’endiadi buon andamento-imparzialità dell’amministrazione.

Quale dovesse e potesse essere lo sbocco dei controlli che il nuovo Stato democratico-costituzionale aveva disegnato è domanda che legittima risposte anche tra loro differenziate, sul cui nucleo essenziale tuttavia si è sempre riscontrato un significativo consenso: quale che fosse la tipologia del controllo (preventivo o successivo; esterno o interno; sugli atti o sull’attività; prevalentemente di legittimità o anche esteso all’opportunità o merito dell’atto o dell’attività), esso comunque avrebbe dovuto assicurare, in capo al soggetto controllato, uno spazio di autonomia sufficiente a giustificarne la posizione costituzionale di soggetto esponenziale di una determinata collettività territoriale: da qui la preferenza verso di controllo-affiancamento, concepite come quelle più coerenti con un ordinamento autonomistico

In questa prospettiva, il confronto italo-francese si è rivelato in proposito assai istruttivo, nella misura in cui, almeno a proposito dei controlli cosiddetti esterni, ha permesso di verificare una sostanziale convergenza nel senso della permanenza, nell’ordinamento italiano anche dopo la revisione costituzionale del 2001, di un nucleo di controllo di carattere conformativo-finanziario pure all’interno di un quadro complessivo che avrebbe dovuto valorizzare soprattutto i controlli-affiancamento (Renna), cui corrisponde, nell’ordinamento francese, tanto il rinnovato equilibrio tra la tradizionale penetrazione dei controlli prefettizi e la libre administration degli enti locali una volta superate il rigido modello della tutelle (Verpeaux), quanto l’applicazione pratica del déféré préfectoral nel senso della sua utilizzazione assai modesta, a vantaggio di forme di intervento prefettizio che passano più attraverso la suasion che attraverso il ricorso allo strumento giurisdizionale (Janicot). Non dissimile, a ben vedere, la situazione nel campo dei controlli cosiddetti interni, circa i quali la centralità della nozione di performance esprime bene il tentativo di innovare in radice il funzionamento delle pubbliche amministrazioni e, d’altro canto, le difficoltà che incontra ad andare oltre alla sua rappresentazione “cartacea” costituiscono nondimeno la conferma circa la permanenza degli ostacoli di ordine culturale che in passato avevano favorito la foresta pietrificata dei controlli di “mera” legalità sugli atti (Lombardi).

Sullo sfondo, resta determinante la teoria e la pratica della “neutralità” del controllore, apparendo sempre più evidente che essa si gioca sulla capacità di tale soggetto di rappresentare e fare valere l’interesse dell’ordinamento generale nei confronti di spinte particolaristiche, e non l’interesse di un ente più ampio a scapito di quello più piccolo. Sotto questo profilo, si è rivelato istruttivo l’altro confronto oggetto dell’appuntamento alessandrino che ha originato i testi qui raccolti: quello tra l’assetto dei controlli che vige a proposito delle realtà valdostana (Louvin) e trentina (Cosulich) rispetto alla generalità degli enti locali italiani.

La rinnovata attenzione del dibattito italiano e, forse ancora di più francese, sui temi del territorio e dell’identità territoriale viene a confermare la funzione cruciale del sistema dei controlli quale regolatore dei rapporti tra centro e periferie, e quale cartina di tornasole del rendimento di un ordinamento che voglia essere ed essere percepito come autonomistico. Sotto questo aspetto, l’irrobustimento della riflessione e delle buone pratiche in tema di controlli viene a costituire l’altro volto del rafforzamento di una cultura e di una prassi autonomista, capaci di andare al di là del mero rivendicazionismo delle competenze e di giocare un ruolo di protagonista nel riassetto dei poteri centrali e locali che l’esperienza della pandemia ha reso indifferibile.

Non è un caso che la Settimana di studi sulle autonomie locali, divenuta ormai da tredici anni un appuntamento importante per gli amministratori locali e per gli studiosi non soltanto italiani (e che dal 2022 dedicherà una parte dei propri lavori a momenti di formazione, indispensabili in un tempo di grandi rivolgimenti normativi e gestionali) abbia inaugurato, nel 2021, la collaborazione con “Il Piemonte delle autonomie”: una conferma del radicamento territoriale dell’iniziativa, e al tempo stesso l’occasione per rafforzare il dialogo tra università e pubbliche amministrazioni locali.

  1. Professore ordinario di Diritto costituzionale nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica del Sacro Cuore.