Propaganda e istigazione discriminatoria (e negazionista) tramite social media. Considerazioni a partire da una sentenza del Gup del Tribunale di Torino del 2022

Davide Attanasio[1]

Sommario:

1. Premessa – 2. La vicenda – 3. L’evoluzione normativa della fattispecie incriminatrice oggetto della sentenza: l’odierna tutela della pari dignità umana – 4. La discriminazione razziale tramite social media – 4.1 L’aggravante del negazionismo – 5. Conclusioni

1. Premessa

I reati d’opinione – il cui disvalore offensivo, come noto, risiede nella manifestazione di un certo tipo di pensiero[2] – rappresentano il terreno privilegiato del conflitto tra diritti costituzionalmente e convenzionalmente garantiti: da un lato, la libertà di manifestare liberamente il proprio pensiero (artt. 21 Cost. e 10 CEDU, nonché, a livello eurounitario, art. 11 CDFUE); dall’altro gli interessi che si ritengono di volta in volta pregiudicati dall’esternazione dell’opinione (qui: la dignità umana)[3]. Il binomio intrinsecamente relazionale che sussiste tra la tutela di determinate manifestazioni del pensiero e la salvaguardia degli altri diritti impone di valutare l’an e il quomodo dell’intervento del legislatore penale nella regolamentazione di un siffatto ordine conflittuale[4]. In altre parole, si richiede in primo luogo di prendere posizione sulla questione generale se il diritto penale debba o meno interferire con la libertà di espressione o se, invece, non sia più opportuno lasciare che siano i singoli individui a ponderare la meritevolezza dell’opinione altrui, secondo la metafora nordamericana del marketplace of ideas[5]. Secondariamente, qualora si propenda per la posizione ‘interventista’ – opzione prescelta dal legislatore italiano, come pure a livello di ‘piccola’[6] e ‘grande’[7] Europa – occorrerà interrogarsi sulle modalità di utilizzo dello strumento penalistico.

Il presente lavoro non ambisce a rispondere conclusivamente a tali quesiti, rispetto ai quali, come anticipato[8], il dibattito dottrinale è assai articolato. Cionondimeno, è inevitabile constatare che qualsivoglia riflessione sull’argomento deve necessariamente tenere in considerazione il ‘nuovo volto’ che i reati d’opinione hanno assunto per via dell’avvento dei social media[9] (social network e altre piattaforme di condivisione digitale). Quest’ultimi – e prima ancora l’imporsi della rete internet – hanno provocato una mutazione radicale delle modalità di diffusione delle informazioni in senso lato (notizie, opinioni). Alla carta stampata, fulcro in passato del sistema dell’informazione, si è affiancato il singolo individuo come principale fruitore/autore di contenuti sul web[10] (si pensi alla mole di informazioni generata tramite post, commenti, attività di condivisione e ricondivisione, like). È allora facile intuire come questa «nuova era dell’informazione»[11] – caratterizzata da una significativa semplicità e rapidità di generazione di contenuti, nonché da un amplissimo potenziale diffusivo degli stessi – incida sul concreto atteggiarsi di reati fondati sulla manifestazione di determinati pensieri. Tali fenomeni non restano peraltro indifferenti ai funzionamenti algoritmici dei social, che, tramite effetti filter bubble[12] ed echo chambers[13], tendono ad amplificare la radicalizzazione delle opinioni e, in questo senso, rischiano di agevolare la diffusione di idee discriminatorie.

La decisione[14] qui annotata – emessa dal giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale di Torino – si muove nell’ambito delle coordinate della materia appena tratteggiate. Il caso – si riassumerà più diffusamente nel seguito – riguarda la condanna di due persone per il reato di cui all’art. 604-bis c.p. («Propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale, etnica e religiosa»), contestato nella sua forma aggravata prevista dal terzo comma. I due imputati, all’esito del giudizio condotto nelle forme del rito abbreviato, sono stati condannati per aver, tramite social network e piattaforme telematiche di comunicazione istantanea, propagandato idee fondate sulla superiorità e sull’odio razziale ed etnico, nonché istigato a commettere atti di violenza per motivi razziali. Nelle motivazioni della sentenza, il giudice si sofferma in particolare sui seguenti elementi: (i) riconducibilità di parte delle condotte contestate alla previgente disposizione incriminatrice in luogo dell’odierno art. 604-bis c.p.[15] (ii) descrizione delle condotte tipizzate nella fattispecie incriminatrice – richiedendo il caso concreto di confrontarsi con la realizzazione del fatto tramite l’utilizzo di social media (nella specie Facebook, Telegram e WhatsApp) – e valutazione dell’antigiuridicità dei comportamenti contestati in relazione alla libertà di espressione costituzionalmente garantita all’art. 21 Cost.; (iii) configurabilità dell’aggravante del negazionismo di cui al terzo comma dell’art. 604-bis c.p.

Nel presente commento si analizzeranno in particolare gli appena menzionati punti (ii) e (iii), non occorrendo invece ulteriori approfondimenti in merito alla richiesta di assoluzione avanzata dalla difesa secondo la formula perché il fatto non era previsto dalla legge come reato. Come osservato dall’organo giudicante, infatti, non paiono residuare dubbi sulla sussistenza della continuità normativa tra il disposto dell’attuale art. 604-bis c.p. e la previgente formulazione prevista dall’art. 3, l. 13 ottobre 1975, n. 654 (c.d. Legge Reale) e successive modifiche[16].

Rinviando ai paragrafi successivi l’analisi della decisione, può anticiparsi sin d’ora che il giudice dell’udienza preliminare – chiamato a scrutinare fatti dal disvalore lesivo sicuramente non trascurabile, vista la quantità e il tenore dei messaggi condivisi sui social media – sembra fare buon governo delle coordinate elaborate dalla prassi relativamente al reato qui di interesse. Merita inoltre di essere posta in risalto l’acribia motivazionale del giudice, il quale, valorizzando gli elementi fattuali della vicenda, giunge a differenziare la posizione degli imputati in punto di trattamento sanzionatorio e, soprattutto, in merito alla contestazione di istigazione alla violenza di cui alla lett. b) dell’art. 604-bis c.p., pervenendo per uno dei due all’assoluzione. Occorre infine segnalare – ma sul punto si avrà modo di tornare quando si affronterà la questione del negazionismo – la ritenuta equivalenza dell’aggravante di cui al terzo comma con le circostanze attenuati generiche, il che impone di interrogarsi, come osservato in dottrina all’indomani dell’introduzione dell’elemento circostanziale speciale, sul potenziale effetto di neutralizzazione della ratio legis derivante dal giudizio di bilanciamento[17].

2. La vicenda

Le peculiarità del caso concreto impongono di riassumere per punti essenziali i fatti alla base dell’iter processuale.

Il Pubblico Ministero contestava le condotte previste dalle lett. a) e b) dell’art. 604-bis c.p. Secondo la ricostruzione cristallizzata nel capo d’imputazione – poi in parte condivisa dal giudice nella sentenza di condanna – gli imputati, in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, propagandavano idee fondate sulla superiorità e sull’odio razziale ed etnico, nonché istigavano a commettere atti di violenza per motivi analoghi.

In particolare, i richiamati comportamenti venivano posti in essere tramite profili Facebook – sui quali erano pubblicati numerosi simboli, video o post di natura discriminatoria – e attraverso la condivisione di messaggi in chat Telegram e WhatsApp (tutte partecipate, eccetto in un caso, da non meno di dieci utenti). La Pubblica Accusa, inoltre, contestava a uno dei due imputati l’aggravante di cui al terzo comma della fattispecie incriminatrice, ritenendo che da talune condotte potesse derivare un concreto pericolo di diffusione di idee fondate sulla negazione della Shoah.

La difesa, da quanto può evincersi nelle motivazioni della sentenza, riteneva per contro insussistenti gli addebiti in ragione del carattere non pubblico dei profili Facebook (circostanza fattuale invero smentita dal Gup) e, in ogni caso, negava la configurabilità del coefficiente psicologico richiesto dal delitto in questione. La finalità dei contenuti pubblicati sul social network – aveva dichiarato un imputato in sede di dichiarazioni spontanee – era infatti meramente goliardica e non sicuramente di natura propagandistica.

3. L’evoluzione normativa della fattispecie incriminatrice oggetto della sentenza: l’odierna tutela della pari dignità umana

Il giudice ripercorre dapprima l’evoluzione normativa della fattispecie incriminatrice, anche al fine di rigettare la richiesta di assoluzione perché il fatto non era previsto dalla legge come reato. Può essere quindi utile dare atto per cenni delle tappe di riforma che hanno riguardato la materia, anticipando che ci si soffermerà in particolare sulle modifiche relative alle condotte oggi tipizzate al primo comma dell’art. 604-bis c.p.[18].

L’originaria incriminazione era prevista, in virtù della ratifica della Convenzione di New York del 1966 sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale, all’art. 3, l. 654/1975 (legge Reale). La disposizione era sin da allora bipartita: la lett. a) prevedeva la criminalizzazione della mera diffusione di idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale, mentre la lett. b) prescriveva l’applicazione della sanzione penale – la medesima di quella prevista per la lett. a), nonostante il diverso disvalore lesivo delle condotte – per l’incitamento alla discriminazione o alla commissione di atti di violenza e in caso di effettiva commissione di atti di violenza o di provocazione della stessa, in ragione della specifica appartenenza delle persone offese a gruppi nazionali, etnici o razziali.

Un primo significativo intervento riformatore della norma ha avuto luogo con il d.l. 26 aprile 1993, n. 122, convertito con modificazioni in legge 25 giugno 1993, n. 205 (c.d. legge Mancino). In quest’occasione, il legislatore ha ampliato il perimetro applicativo della fattispecie e differenziato il trattamento sanzionatorio per le condotte ivi descritte. In particolare, si è prevista la punibilità della commissione di atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi (lett. a)); le medesime finalità discriminatorie sono state peraltro estese anche alle condotte di incitamento o commissione di atti di violenza (lett. b)). Inoltre, con riferimento alla punibilità della condotta meramente comunicativa (diffusione di idee), è stato aggiunto il riferimento all’odio etnico, in affiancamento a superiorità e odio razziale.

Una seconda tappa certamente da segnalare coincide con la l. 24 febbraio 2006, n. 85. In tal caso le modifiche hanno riguardato la mitigazione del trattamento punitivo relativamente all’ipotesi delittuosa sub lett. a) (non più reclusione sino a tre anni, bensì sino a un anno e sei mesi e con la multa fino a 6.000 euro) e, soprattutto, la sostituzione dei lemmi «incita» e «diffonde» con, rispettivamente, «istiga» e «propaganda». Se la terminologia incitamento-istigazione ha nella sostanza lasciato invariato l’ambito applicativo della norma – la Cassazione ha sostenuto che si sia trattato di mera «precisazione linguistica»[19] – a diversa conclusione pare potersi pervenire rispetto al binomio diffusione-propaganda. La propaganda, infatti, allude in termini semantici a un tipo di ‘diffusione qualificata’, connotata pertanto da un perimetro di applicazione più ristretto[20]. Tale concezione è stata accolta dal giudice del Tribunale di Torino, che, conformemente alla più recente giurisprudenza di legittimità[21], definisce la propaganda di idee come una «divulgazione di opinioni finalizzata a influenzare il comportamento o la psicologia di un vasto pubblico e a raccogliere adesioni»[22]. Rinviando al prosieguo l’analisi delle modifiche riguardanti il dato circostanziale (infra par. 4.1), occorre da ultimo segnalare che l’attuale collocazione della fattispecie incriminatrice all’art. 604-bis c.p. è avvenuta per mezzo del d.lgs. 21/2018, trattandosi quest’ultima di una mera traslazione della disposizione all’interno del codice penale.

Merita infine un cenno, sebbene non si sia addivenuti all’approvazione della proposta, il disegno di legge n. 2005 (c.d. DDL Zan)[23], che mirava a includere tra i motivi fondanti gli atti discriminatori e la violenza – non la mera propaganda, che sarebbe rimasta ancorata a idee fondate sulla superiorità e sull’odio razziale ed etnico – anche quelli riguardanti il «sesso, il genere, l’orienta­mento sessuale, l’identità di genere o la disabilità»[24]. Nonostante l’esito negativo dell’iter di approvazione della proposta di legge, è innegabile che il DDL Zan – che interpretava un’esigenza di tutela delle vittime sempre più diffusamente avvertita nella collettività – abbia avuto il merito di portare all’attenzione del Parlamento la questione della discriminazione perpetrata in ragione dell’identità sessuale e, più in generale, di ravvivare l’interesse per la materia dei delitti contro l’eguaglianza[25]. Spetterà ora ai nuovi legislatori, ai giuristi e alle formazioni sociali farsi carico di interpretare le richieste di tutela promananti dalla società e, nel rispetto degli artt. 2 e 3 Cost., implementarle – si auspica in un imminente futuro – nell’addentellato codicistico posto a salvaguardia della pari dignità umana. Valore quest’ultimo che, alla luce di questa cursoria ricostruzione dell’evoluzione normativa della disposizione incriminatrice, rappresenta l’approdo della mutazione del bene giuridico protetto dal reato[26] e, come è stato osservato, riflette «la dimensione intersoggettiva che deve essere riconosciuta ad ogni individuo, al quale devono essere assicurati gli strumenti per poter esplicare la propria personalità nelle relazioni intersoggettive e nelle formazioni sociali nelle quali la stessa si colloca»[27]. È innegabile che, in assenza del riconoscimento di pari dignità a tutti gli esseri umani, verrebbe frustrato in radice il valore di eguaglianza consacrato all’art. 3 Cost.[28].

4. La discriminazione razziale tramite social media

Nella sentenza in commento entrambe le contestate condotte – id est propaganda di idee fondate sull’odio razziale e istigazione alla violenza per motivi razziali – sono state poste in essere tramite l’utilizzo di social media (nello specifico: pubblicazione di foto e commenti su Facebook e condivisione di messaggi tramite chat Telegram e WhatsApp). Al riguardo, suscita particolare interesse la circostanza che il giudice abbia ritenuto di valorizzare tale elemento fattuale tanto in punto di configurabilità delle ipotesi di reato, quanto ai fini della commisurazione della pena.

Relativamente al primo profilo (id est l’integrazione delle condotte delittuose tipiche), il settaggio della bacheca personale Facebook in “modalità pubblica”, dunque visibile a tutti, e la partecipazione di un numero comunque elevato di persone alle chat Telegram e WhatsApp[29] – si argomenta nella decisione – «rendono evidente il pericolo di diffusione dei messaggi pubblicati tra un numero indeterminato di persone»[30]. Ciò perché – si prosegue richiamando una recente sentenza della Corte di cassazione[31] – «l’algoritmo di funzione dei “social network” aumenta il numero di interazioni tra gli utenti»[32] e, pertanto, amplifica la portata diffusiva dei contenuti fondati sull’odio razziale. Ne sarebbe dunque derivata la connotazione propagandistica della condotta, poiché idonea a raggiungere un numero potenzialmente indeterminato di persone[33] (nella prassi si parla di idee idonee a influenzare un «vasto pubblico»)[34], nonché a determinare il concreto pericolo di comportamenti discriminatori. Come sottolineato dal Gup di Torino, l’odio razziale o etnico, ai fini dell’integrazione del reato, deve declinarsi in un comportamento che abbia un quid pluris rispetto al mero «sentimento di generica antipatia, insofferenza o rifiuto riconducibile a motivazioni attinenti alla razza, alla nazionalità»[35]. In ragione dunque della quantità di contenuti condivisi sui social media – e del loro tenore contraddistinto da odio razziale[36] – è stata riconosciuta la responsabilità di entrambi gli imputati per le condotte di natura propagandistica (art. 604-bis, co.1 lett. a) c.p.).

La «capillare diffusione»[37] dei contenuti assicurata dall’utilizzo dei social media – unitamente alla gravità e alla quantità dei commenti pubblicati – ha indotto il giudice a ritenere configurata, per uno dei due imputati, altresì la condotta istigatrice (art. 604-bis, co. 1 lett. b) c.p.)[38]: «le innumerevoli frasi violente e dal contenuto discriminatorio – può leggersi nelle motivazioni – ben possono ritenersi concretamente idonee a determinare altri a compiere un’azione violenta; sul punto si evidenzia che dai messaggi riportati sono conseguiti numerosi commenti da parte (dal tenore ugualmente allarmante in quanto evocativi di sentimenti di odio razziale e di ricorso alla violenza) di utenti dei social network provocati proprio dagli interventi dell’imputato ed evidenziandosi, dunque, l’idoneità degli stessi a provocare delle reazioni connotate da aggressività e violenza»[39].

La funzione amplificatoria assolta dai social media (dai social network in particolare) è stata di recente valorizzata per sostenere la configurabilità proprio del reato qui di interesse[40]. Nel caso di specie la condotta era consistita nell’apposizione di alcuni like a post dal contenuto a sfondo razzista, non essendovi stata invero alcuna condivisione o ricondivisione attiva delle espressioni contestate. Eppure, la Corte di cassazione ha ritenuto che anche il mero like possa integrare una condotta propagandistica in quanto costituisce un’interazione che, in virtù del funzionamento algoritmico dei social, consente «la visibilità del messaggio ad un numero maggiore di utenti i quali, a loro volta, hanno la possibilità di rilanciarne il contenuto»[41]. Escluso ad avviso di chi scrive che un like/mi piace su Facebook possa configurare un’ipotesi di propaganda[42], che come detto dovrebbe consistere nella diffusione di idee a un ampio numero di persone con la finalità di carpirne il consenso[43], nel caso che ci occupa gli imputati hanno invero pubblicato sui social foto e commenti discriminatori, che, differentemente da un mero like, rivestono una funzione propriamente divulgativa.

Cionondimento, occorre però segnalare che la mera pubblicazione di uno o più post (magari pure dal contenuto moralmente riprovevole) non possa per ciò solo qualificarsi come propaganda ai fini dell’art. 604-bis, co. 1 lett. a) c.p. Sarà invero necessaria una rigorosa valutazione – che il Gup di Torino ha effettuato – degli elementi fattuali della vicenda (es. la tipologia di contenuto diffuso, il contesto in cui le espressioni si collocano, le modalità divulgative, il tenore della comunicazione) affinché possa concludersi, al di là di ogni ragionevole dubbio, che una determinata condotta assuma effettivamente le sembianze della propaganda discriminatoria[44]. Dovrebbe dunque respingersi quell’automatismo argomentativo in ragione del quale sostenere la natura propagandistica di una condotta per il sol fatto che l’opinione sia stata espressa su Facebook o altro strumento social (per definizione caratterizzati da effetti amplificativi delle informazioni ivi pubblicate). E ciò perché potrebbe comunque mancare la tipicità del comportamento – magari inidoneo, per come concretamente manifestato, a influenzare la psicologia di altre persone – o non sussistere il coefficiente psicologico del reato, il dolo di propaganda. A tal proposito, non può non tenersi in considerazione l’odierno contesto socio-culturale, nell’ambito del quale il confine tra reale e virtuale è sempre più sottile. Nella prospettiva del singolo individuo non pare ormai esservi alcuna differenza tra il divulgare la propria opinione in un luogo pubblico o su Facebook: anzi, con ogni probabilità la scelta ricade sul social network per la semplicità di produzione del contenuto, senza che via sia una specifica valutazione in merito alla maggiore diffusività eventualmente assicurata dai meccanismi social. A ciò peraltro si aggiunga il funzionamento algoritmico delle realtà virtuali: la maggiore o minore diffusività di un post, ad esempio pubblicato su Facebook, dipende non tanto dalla volontà della persona che lo ha pubblicato, bensì dalle successive interazioni degli utenti (tramite like o ricondivisioni)[45].

Da altro angolo visuale, è nondimeno vero che i social, proprio per i peculiari meccanismi di funzionamento (semplicità di produzione dei contenuti, rapidità di diffusione, amplificazione della portata comunicativa del messaggio), possono imprimere alle condotte una maggiore insidiosità. Non si intende certamente sottostimare la gravità e la pericolosità della diffusione di tali fenomeni su internet, meritevoli senz’altro dell’attenzione da parte del regolatore penale. Dovrebbe però evitarsi che i social media diventino il ‘grimaldello argomentativo’ per giustificare, in ogni caso, la configurabilità del reato.

L’incidenza dello strumento di comunicazione utilizzato si riflette altresì sulla commisurazione della pena, laddove il giudice evidenzia non soltanto la molteplicità e la gravità delle condotte (visto il tenore significativamente discriminatorio e denigratorio), ma anche la diffusività delle stesse in quanto pubblicate su social network[46]. Nell’impostazione argomentativa della sentenza, siffatta circostanza conferisce al fatto concreto maggior disvalore lesivo e, pertanto, giustifica l’applicazione di un trattamento sanzionatorio più aspro. L’apprezzamento, ai fini della quantificazione della pena, del contesto social in cui si estrinsecano le condotte delittuose non è una novità nella prassi. È infatti diffuso il convincimento per cui la divulgazione di determinate opinioni sul web e tramite social media possa avere una portata offensiva più rilevante rispetto a quanto non avverrebbe per quelle comunicate in condizioni non virtuali. Ciò è vero, ad esempio, in relazione al delitto di diffamazione, che la giurisprudenza di legittimità ritiene integrato nella sua forma aggravata qualora il messaggio lesivo dell’altrui reputazione venga pubblicato su Facebook, «poiché la condotta in tal modo realizzata è potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato, o comunque quantitativamente apprezzabile, di persone»[47].

Se l’utilizzo dei social per diffondere un’opinione non può dirsi elemento da solo sufficiente per qualificare una condotta come propagandistica, a maggior ragione è insuscettibile di venire inteso come fattore unico per irrogare una pena più grave. È stato osservato, infatti, che il social network «non impone all’agente di predisporre alcun mezzo, né di approntare una seppur minima organizzazione per propagandare la propria idea a un vasto pubblico di persone, consentendo di ‘lanciare’ immediatamente il messaggio in ‘rete’»[48]. La maggiore insidiosità che si ritiene contraddistingua l’opinione divulgata tramite il web, in altre parole, non dipende necessariamente dall’agire del soggetto attivo, il quale, una volta immesso il contentuto su internet, ‘perde il controllo’ di quanto pubblicato: la più o meno ampia platea di destinatari dipenderà, come già osservato, dalle interazioni successive di altri utenti. Il peculiare meccanismo social, pertanto, può senz’altro connotare la vicenda di una maggiore pericolosità, ma ciò deve essere necessariamente constatato in concreto e, dunque, sulla base di tutti gli elementi fattuali a disposizione. Non sarebbe invece condivisibile quella decisione che fondi il più severo trattamento sanzionatorio sulla sola sequenza argomentativa: (i) pubblicazione sul web; (ii) significativa idoneità diffusiva; (iii) maggiore pericolosità; (iv) maggiore riprovevolezza del comportamento.

Le motivazioni qui in analisi riflettono un adeguato scrutinio del caso concreto: il giudice torinese ha infatti valorizzato in maniera puntuale tutti i dati fattuali della vicenda, quali la molteplicità delle frasi pubblicate, il contenuto spiccatamente offensivo e denigratorio e, inoltre, l’effetto amplificatorio assicurato dai social (le bacheche personali degli imputati erano infatti impostate come pubbliche).

Una notazione conclusiva, prima di volgere l’attenzione alla ritenuta configurabilità dell’aggravante del negazionismo, riguarda l’invocata scriminante dell’esercizio di un diritto (sub specie libera manifestazione del pensiero). L’organo giudicante, vista la grande quantità di contenuti diffusi sul web e il loro tenore gravemente discriminatorio e denigratorio, esclude l’applicabilità della scriminante, richiamando un orientamento giurisprudenziale per il quale «la libertà di espressione cessa quando, come nel caso di specie, travalica in istigazione alla discriminazione ed alla violenza di tipo razzista, non avendo la stessa valore assoluto e dovendo essere coordinata con altri valori costituzionali di pari rango, quali quelli fissati dall’art. 3 Cost.»[49]. Non paiono del resto residuare dubbi sul fatto che vicende del genere, contraddistinte dalla divulgazione reiterata di odio razziale, rappresentino quel modello comportamentale rispetto al quale il diritto penale, conformemente ai principi di offensività e sussidiarietà, dovrebbe intervenire.

4.1. L’aggravante del negazionismo

Come anticipato, un secondo profilo di interesse della sentenza in analisi riguarda l’applicazione della circostanza aggravante prevista dal terzo comma dell’art. 604-bis c.p.[50], introdotta con la legge 16 giugno 2016, n. 115 in attuazione della Decisione quadro 2008/913/GAI sulla «lotta contro talune forme ed espressioni di razzismo e xenofobia mediante il diritto penale» e poi modificata con la legge 20 novembre 2017, n. 167[51]. L’opzione adottata dal legislatore italiano sulla criminalizzazione del negazionismo rappresenta, come è stato osservato[52], una soluzione di compromesso per assicurare, conformemente alle istanze sovranazionali, la punibilità della propaganda e dell’istigazione fondata su idee negazioniste, così tutelando «quel bagaglio di valori che sono fondamento della comunità internazionale»[53] dalla seconda guerra mondiale in poi. Anziché prevedere un’autonoma fattispecie di reato, si è preferito introdurre un elemento normativo circostanziale, che dunque si innesta sulla fattispecie base di cui al primo comma dell’art. 604-bis c.p.[54]. In altre parole, in assenza dei connotati propagandistici o istigatori del comportamento non troverà applicazione l’aggravante: non vi sarà dunque spazio per la tutela penale della memoria[55].

L’intervento regolatore del diritto penale sul tema del negazionismo dischiude questioni di grande momento, prime fra tutte un giudizio a monte sull’opportunità di punire tali fenomeni[56]. Non si intende qui affrontare funditus la problematicità del tema, che, meritando ben altro approfondimento, porterebbe molto lontano dalle motivazioni della sentenza. Risultano subito evidenti, ad ogni modo, le profonde tensioni che avvolgono l’argomento: da un lato viene in rilievo il rapporto tra diritto penale e storia, con il segnalato rischio di trasformare «il giudice in arbitro della storia»[57]; su un altro piano, invece, si colloca il legame (ancor più) conflittuale con la libertà di espressione[58].

Venendo alla decisione del Gup di Torino, non sembrano esservi dubbi circa la configurabilità dell’aggravante. Uno dei due imputati, si legge in sentenza, «aveva denigrato il Giorno della Memoria, esaltato il programma di “eutanasia” attuato dai nazisti in conformità al disegno di eugenetica e igiene razziale, [nonché espresso] apprezzamenti sull’operato nazista e frasi in cui immaginava l’estinzione del popolo ebraico»[59]. In particolare, le condotte contestate paiono riconducibili alle ipotesi di minimizzazione in modo grave e apologia della Shoah[60]. Non v’è traccia di motivazione alcuna, invece, in merito al requisito espressamente richiesto dalla disposizione del concreto pericolo di diffusione: in ragione della divulgazione dei contenuti sulle bacheche Facebook (non private) e sulle chat Telegram e WhatsApp (partecipate da diversi utenti), sembrerebbe che il giudice lo abbia ritenuto sussistente in re ipsa. L’esito decisorio – id est il riconoscimento della circostanza aggravante – non sarebbe verosimilmente mutato, ma un riferimento esplicito sul punto sarebbe forse stato opportuno, a maggior ragione laddove si considerino le peculiarità tecniche del social network e delle piattaforme di messaggistica istantanea in termini di diffusività dei messaggi.

La sentenza, infine, si segnala per un ultimo aspetto: il giudizio di equivalenza tra le circostanze attenuanti generiche e l’aggravante contestata. A tacere della problematica riguardante i criteri da seguire per effettuare in concreto il bilanciamento tra circostanze eterogenee[61] – valutazione quest’ultima lasciata nella prassi alla totale discrezionalità del giudice – sembra cogliersi sul punto una contraddizione nell’impianto motivazionale. Come osservato, il Gup di Torino, in punto di configurabilità del reato nella sua forma base, richiama diffusamente una serie di elementi (la grande quantità di commenti, il tenore altamente denigratorio degli stessi, i mezzi di divulgazione impiegati) rappresentativi di una non irrisoria gravità del fatto (tant’è che decide di discostarsi dal minimo edittale di pena). Relativamente alle circostanze attenuanti generiche, inoltre, riconosce una «limitata valenza»[62] degli elementi su cui queste si fondano[63]. Eppure, l’organo giudicante ha ritenuto in conclusione di pervenire a un giudizio di equivalenza.

È senz’altro vero che non potrebbe accogliersi una valutazione di pressoché automatica prevalenza dell’aggravante sulle attenuanti: la rilevanza (difficilmente bilanciabile) dei valori salvaguardati in astratto dal dato circostanziale indurrebbe ad accogliere un esito del genere; nondimeno il legislatore, probabilmente sempre ispirato alla richiamata logica di compromesso, non ha qui ritenuto di utilizzare i trattamenti di c.d. blindatura a base totale o parziale delle circostanze[64], riservando quindi al giudice l’onere di effettuare in concreto il bilanciamento. Nella delineata prospettiva risulta tuttavia manifesto che il giudicante – posto nella condizione di dover maneggiare un giudizio di complessissima portata, idoneo di fatto a determinare la sterilizzazione[65] della norma – dovrà ponderare con estrema cura tutti gli elementi fattuali del caso. Nel caso di specie, alla luce delle sue peculiarità, si sarebbe probabilmente potuti addivenire a un diverso esito per quanto concerne il bilanciamento delle circostante.

5. Conclusioni

Nella vicenda qui analizzata e commentata, il giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale di Torino si è confrontato con un caso di propaganda e istigazione a delinquere per motivi discriminatori, peraltro aggravato dalla componente negazionista. Come già anticipato, la sentenza riflette i più recenti orientamenti della giurisprudenza di legittimità, così da pervenire all’esito decisorio di condanna. Se l’impianto motivazionale può ritenersi complessivamente condivisibile – specialmente per ciò che concerne la rispondenza delle condotte contestate agli imputati, conformemente agli insegnamenti della Corte di cassazione, all’ipotesi astratta di reato – qualche passaggio argomentativo pare celare alcuni profili di problematicità.

La valutazione del giudice sulla ritenuta equivalenza della circostanza aggravante del negazionismo con le attenuanti generiche sembra in particolare disattendere le risultanze del caso concreto, se non altro – e a maggior ragione – per quanto evidenziato dal Gup di Torino. Ma soprattutto, ciò che non può condividersi, pur nella consapevolezza della peculiare insidiosità connaturata all’utilizzo dei social media, è il ragionamento per il quale qualsivoglia comportamento divulgativo rivesta connotati propagandistici per il sol fatto di essere stato posto in essere tramite i social (in conseguenza della potenziale maggiore diffusività che questi potrebbero assicurare) e che, per tale motivo, dovrebbe peraltro essere meritevole di un trattamento sanzionatorio più severo. Un approccio del genere – sebbene il caso di specie non lasci residuare eccessivi dubbi sulla natura propagandistica dei comportamenti vista la pluralità delle condotte e il loro tenore altamente denigratorio – sembra cogliersi laddove il giudice evidenzia, a più riprese, l’incidenza che i social media hanno avuto sul disvalore offensivo dei fatti. Appare in maniera evidente, in particolare, nel passaggio in cui, per sostenere la propria tesi, il magistrato giudicante richiama la recente giurisprudenza di legittimità che ha ritenuto configurabile un atteggiamento di propaganda anche nell’apposizione di un mero like su Facebook[66].

In conclusione – e astraendosi dal caso concreto – non può che condividersi l’opinione della dottrina che, nell’affrontare l’argomento delle modalità di contrasto ai fenomeni di discriminazione, ripone l’attenzione su misure culturali e sociali[67]. Prima ancora che sul piano del diritto penale, che pure può svolgere la sua funzione pedagogica rispetto a principi fondamentali così importanti, è infatti necessario sviluppare serie e diffuse politiche educative, volte alla promozione dei valori del rispetto della libertà e della dignità altrui. Il perseguimento di questo obiettivo, come è stato osservato, chiama in gioco l’operato di tutta la collettività: «è un problema vitale, che il diritto non può risolvere. La tenuta della democrazia liberale – costruzione fragile e deteriorabile, bisognosa di manutenzioni e di cure – dipende da noi»[68].

  1. Dottorando in Diritti e Istituzioni dell’Università degli Studi di Torino.
  2. Spena A. (2007), Libertà di espressione e reati di opinione, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 696, che definisce i reati di opinione come quei delitti la cui «condotta è presa in considerazione dal legislatore solo in quanto espressione, verbale o comportamentale, di un’opinione turbativa della sacralità concettuale di certi valori morali sovra-individuali [nel senso di collettivi o diffusi] o di una sensibilità collettiva rispetto a valori morali». Sull’argomento, inoltre, Pelissero M. (2015), La parola pericolosa. Il confine incerto del controllo penale del dissenso, in Questione Giustizia, 37 ss..
  3. Sulla funzione della tutela penale della dignità umana Palazzo F. (2021), La nuova frontiera della tutela penale dell’eguaglianza, in Sistema penale, 7; Pelissero M. (2020), Discriminazione, razzismo e il diritto penale fragile, in Diritto penale e processo, 1020; Goisis L. (2021), Un diritto penale antidiscriminatorio?, in Rivista di studi giuridici sull’orientamento sessuale e l’identità di genere.
  4. La bibliografia sul tema è particolarmente vasta. Sia consentito rinviare, ex plurimis, a Fiore C. (1972), I reati di opinione, Cedam, Padova; Pelissero M., La parola pericolosa, op. cit.; Pulitanò D. (1970), Libertà di pensiero e pensieri cattivi, in Quale giustizia, 187 ss.; più di recente Ead. (2021), Essere Charlie, o politicamente corretto? Manifestazioni espressive e diritto penale, in Sistema penale; nonché al lavoro monografico di Galluccio A. (2020), Punire la parola pericolosa? Pubblica istigazione, discorso d’odio e libertà di espressione nell’era di internet, Milano, Giuffrè. Con specifico riferimento ai delitti contro l’eguaglianza, sono altresì di interesse gli studi di Puglisi G. (2018), La parola acuminata. Contributo allo studio dei delitti contro l’eguaglianza, tra aporie strutturali e alternative alla pena detentiva, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 1325 ss.; Tesauro A. (2016), La propaganda razzista tra tutela della dignità umana e danno ad altri, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 961 ss..
  5. Pollicino O., De Gregorio G. (2019), Hate speech: una prospettiva di diritto comparato, in Giornale di diritto amministrativo, 421 ss.. Si veda, inoltre, Pollicino O. (2011), Il negazionismo nel diritto comparato: profili ricostruttivi, in Diritti umani e diritto internazionale, 85 ss.. Per uno studio di natura comparata su discriminazione e crimini d’odio, si rinvia all’approfondito lavoro di Goisis L. (2019), Crimini d’odio. Discriminazioni e giustizia penale, Napoli, Jovene Editore.
  6. Per una panoramica esaustiva sul punto, anche relativamente agli approcci adottati nella dimensione del diritto internazionale, si veda Hate speech and hate crime in the EU and the evaluation of online content regulation approaches, 2020, relazione conclusiva dello studio richiesto dalla Commissione LIBE del Parlamento europeo. Il documento è disponibile su www.europarl.eu.
  7. Cfr. da ultimo Recommendation CM/Rec (2022) 16 of the Committee of Ministers to Member States on combating hate speech, adottata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 20 maggio 2022. Il documento è disponibile su www.coe.int (si noti che il riferimento al perimetro dell’intervento penalistico è previsto al punto 11 della raccomandazione).
  8. Cfr. supra nt. 3.
  9. Sul rapporto tra delitti contro l’eguaglianza e social media, si veda Caroli P. (2021), Dei post e delle pene. Considerazioni su eguaglianza, social network e giustizia penale, in La giustizia penale tra ragione e prevaricazione. Dialogando con Gaetano Insolera, Roma, Aracne, 81 ss.. Di interesse, inoltre, il commento a una sentenza della Corte di cassazione di Fragasso B. (2022), Like su Facebook ed hate crimes: note a margine di una recente sentenza della Cassazione, in Sistema penale.
  10. Pitruzzella G. (2018), La libertà di informazione nell’era di Internet, in Rivista di Diritto dei Media.
  11. L’espressione è nuovamente di Pitruzzella G., La libertà, op. cit., 22.
  12. Si deve il riferimento al fenomeno filter bubble – in ragione del quale la persona che naviga sui social tende perlopiù a visualizzare contenuti affini ai propri interessi – al lavoro di Pariser E. (2011), The Filter Bubble: What the Internet Is Hiding from You, New York, Penguin Books.
  13. Montaldo R. (2020), La tutela del pluralismo informativo nelle piattaforme online, in Rivista di Diritto dei Media, 224 ss.. L’effetto echo chambers rappresenta la diretta conseguenza della realtà ‘filtrata’ dei social: venendo meno il pluralismo delle opinioni, il convincimento personale dell’utente rispetto a un determinato argomento – in ipotesi: la negazione dell’Olocausto – andrà necessariamente a rafforzarsi.
  14. Trib. Torino, sez. gip, 14 luglio 2022 (dep. 12 ottobre 2022), n. 1365.
  15. La maggior parte delle condotte contestate erano state commesse prima dell’entrata in vigore del d.lgs. 1° marzo 2018, n. 21, che ha aggiunto, in ossequio al principio di riserva di codice, la Sezione I-bis «Dei delitti contro l’eguaglianza» nel Titolo XII «Dei delitti contro la persona» del codice penale.
  16. Cfr. § 3 della sentenza in commento. In dottrina, Valsecchi A. (2022), Delitti contro la libertà fisica e psichica dell’individuo, in Reati contro la persona, a cura di Viganò F., in Trattato teorico-pratico di diritto penale, diretto da Palazzo F., Paliero C.E., Pelissero M., Torino, Giappichelli, 390, che richiama l’art. 8, d.lgs. 1° marzo 2018, n. 21, ai sensi del quale «dalla data di entrata in vigore del presente decreto, i richiami alle disposizioni abrogate dall’articolo 7 [qui anche l’art. 3, l. 13 ottobre 1975, n. 654], ovunque presenti, si intendono riferiti alle corrispondenti disposizioni del codice penale».
  17. Bellagamba F. (2018), Dalla criminalizzazione dei discorsi d’odio all’aggravante del negazionismo: nient’altro che un prodotto della legislazione penale simbolica, in disCrimen, 20; Fronza E. (2016), Criminalizzazione del dissenso o tutela del consenso. Profili critici del negazionismo come reato, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 1027-1028; Caroli P. (2019), sub art. 604-bis c.p., in Codice penale, a cura di Padovani T., Milano, Giuffrè, 4166, che segnala, infatti, come la norma, in virtù della ‘bilanciabilità’ del dato circostanziale, svolga una funzione perlopiù comunicativa e non, invece, sul piano dell’applicazione pratica. Non diversamente, inoltre, Valsecchi A., Delitti contro la libertà fisica, op. cit., 393, che annovera l’applicabilità della disciplina del bilanciamento tra le argomentazioni in ragione delle quali si dovrebbe riconoscere al terzo comma dell’art. 604-bis c.p. natura di fattispecie autonoma di reato.
  18. Per una panoramica sugli interventi di riforma, si veda Pelissero M. (2022), Il disegno di legge Zan: una riflessione sul percorso complesso tra diritto penale e discriminazione, in Diritto e persone LGBTQI+, a cura di Pelissero M., Vercellone A., Torino, Giappichelli; nonché D’Amico L. (2022), I delitti contro l’eguaglianza, in Diritto penale, III, diretto da Cadoppi A., Canestrari S., Manna A., Papa M., Milano, Utet giuridica, 6101 ss..
  19. Cass. pen., sez. III, 7 maggio 2008 (dep. 3 ottobre 2008), n. 37581, consultabile in Dejure. Si vedano tuttavia le considerazioni di Pavich G., Bonomi A. (2014), Reati in tema di discriminazione: il punto sull’evoluzione normativa recente, sui principi e valori in gioco, sulle prospettive legislative e sulla possibilità di interpretare in senso conforme a Costituzione la normativa vigente, in Diritto penale contemporaneo, ad avviso dei quali la nozione di istigazione risulta avere un «contenuto concettuale» più ristretto rispetto a quello di incitamento.
  20. Seminara S. (2022), Delitti contro l’eguaglianza, in Diritto penale. Lineamenti di parte speciale, a cura di Bartoli R., Pelissero M., Seminara S., Torino, Giappichelli; Bellagamba F., Dalla criminalizzazione, op. cit., 3; Caroli P., sub art. 604-bis c.p., op. cit., 4157.
  21. Cass. pen., sez. V, 7 maggio 2019 (dep. 22 luglio 2019), n. 32862; in senso conforme Cass. pen., sez. I, 26 novembre 2019 (dep. 21 febbraio 2020), n. 6933. Entrambe le sentenze sono consultabili in Dejure.
  22. § 3.1 della sentenza in commento.
  23. Sull’argomento, Pelissero M., Il disegno di legge Zan, op. cit., 245 ss.; Bartoli R. (2021), Costituzionalmente illegittimo non è il ddl Zan, ma alcuni comportamenti incriminati dall’art. 604-bis c.p., in Sistema penale; Galluccio A. (2021), D.d.l. Zan: cosa prevede il testo in discussione al Senato, in Sistema penale. Si veda inoltre Goisis L. (2020), Sulla riforma dei delitti contro l’uguaglianza, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 1521 ss. Per alcune osservazioni critiche, Eusebi L. (2022), Colant omnes quemque. Tornare all’essenziale dopo il ddl Zan, in disCrimen; Fiandaca G. (2021), Cosa non va nel ddl Zan, in Il Foglio quotidiano (consultabile su www.ilfoglio.it), ora disponibile altresì in Ead., Giustizia penale e dintorni, Bologna, Zanichelli, 231 ss.; Melzi D’Eril C., Vigevani G.E. (2021), Ddl Zan, è proprio necessario scomodare il diritto penale? Forse no, in IlSole24ore (disponibile su www.ilsole24ore.it); Stortoni L. (2021), Qualche cosa dev’essermi sfuggita a proposito del DDL Zan, in disCrimen.
  24. Art. 2, ddl n. 2005, il cui testo è consultabile sul sito www.senato.it. L’art. 3 del medesimo ddl, inoltre, proponeva di includere analoghi motivi anche nella circostanza aggravante di cui all’art. 604-ter c.p..
  25. In questa prospettiva si colloca il già citato lavoro di Bartoli R., Costituzionalmente illegittimo, op. cit..
  26. Puglisi G., La parola acuminata., op. cit., 1329 ss.; rileva altresì un cambiamento in punto di oggettività tutelata dalla norma Caroli P., sub art. 604-bis c.p., op. cit., 4151.
  27. Pelissero M., Discriminazione, op. cit., 1020.
  28. Il legame indissolubilmente relazionale tra dignità umana e eguaglianza è segnalato da Palazzo F., La nuova frontiera, op. cit..
  29. Le chat oggetto di contestazione erano tre, rispettivamente partecipate da ventuno, undici e nove utenti.
  30. § 3.1 della sentenza in commento.
  31. Cass. pen., sez. I, 6 dicembre 2021 (dep. 9 febbraio 2022), n. 4534, in Sistema penale, 20 maggio 2022, con nota di Fragasso B., Like su Facebook, op. cit., ivi. Nel caso di specie, la Suprema Corte ha ritenuto rilevante ai fini della configurabilità dell’art. 604-bis c.p. anche la mera apposizione di un like.
  32. § 3.1 della sentenza in commento.
  33. Seminara S., Delitti contro l’eguaglianza, op. cit., 28.
  34. Supra nt. 20.
  35. § 3.1 della sentenza in commento, che richiama Cass. pen., sez. V, 7 maggio 2019 (dep. 22 luglio 2019), n. 32862, cit.; si veda altresì Cass. pen., sez. I, 13 dicembre 2019 (dep. 16 gennaio 2020), n. 1602, in Dejure.
  36. A titolo esemplificativo, si riportano soltanto alcune delle numerose condotte contestate agli imputati e descritte nella sentenza: (i) in un post pubblicato su Facebook si scriveva come «i negri non fossero manco adatti a farne sapone, perché si sa il nero non pulisce un cazzo, andrebbero fucilati, e il loro paese raso al suolo»; (ii) si pubblicava la foto di un rito del Klu Klux Klan con il commento «dai su un bel roghetto»; (iii) si pubblicava l’immagine di un video tratto dal sito di un giornale, dal titolo “Venezia, profugo si lancia dal Canal Grande e muore”, e si commentava «ogni tanto una buona notizia»; (iv) si pubblicava l’immagine di una famiglia indiana con figli affetti da disabilità, riportando la didascalia «ma che bestie so’??». Sempre con riferimento al medesimo post, per rispondere al commento di altro utente si scriveva «pensavo negroidi della steppa».
  37. L’espressione è utilizzata nelle motivazioni della sentenza commentata (§ 3.1).
  38. Come anticipato in premessa, il giudice ha invece assolto il secondo imputato.
  39. § 3.1 della sentenza in commento.
  40. Cass. pen., sez. I, 6 dicembre 2021 (dep. 9 febbraio 2022), n. 4534, cit..
  41. Ibidem.
  42. Fragasso B., Like su Facebook, op. cit., che, oltre a sollevare dubbi in merito alla sussumibilità di un mero like nella condotta tipica di propaganda, sottolinea la verosimile insussistenza, in casi del genere, del dolo di propaganda.
  43. Per i riferimenti ad alcune pronunce della Corte di cassazione, vedi supra nt. 20.
  44. Si veda ad esempio Cass. pen., sez. I, 26 novembre 2019 (dep. 21 febbraio 2020), n. 6933. Nel caso di specie, l’imputata veniva assolta per aver commentato un’immagine satellitare postata su Facebook che ritraeva l’Italia senza le regioni centro-meridionali e riportava la didascalia «il satellite vede bene, difendiamo i confini». Per il contesto e per il tenore del commento, il giudice aveva escluso l’idoneità propagandistica della condotta.
  45. Caroli P., Dei post e delle pene, op. cit., 87, che, nel descrivere «una scissione tra le nostre pratiche quotidiane [fra cui può annoverarsi anche la pubblicazione di un post su Facebook] e i loro effetti», si chiede se questo non possa in un qualche modo incidere sui «presupposti della colpevolezza, lasciando dolo e colpa integri, ma svuotati».
  46. § 4 della sentenza in commento.
  47. Tra le più recenti si veda Cass. pen., sez. V, 25 gennaio 2021 (dep. 14 aprile 2021), n. 13979, consultabile in Dejure. Per ulteriori approfondimenti, si rimanda a Bisori L. (2022), La diffamazione, in Diritto penale, III, diretto da Cadoppi A., Canestrari S., Manna A., Papa M., Milano, Utet giuridica, 5487-5488.
  48. Trib. Padova, 20 aprile 2011, n. 844, citata in Silva C. (2012), Quando la discriminazione razziale si trasferisce su Facebook, in Archivio penale; nonché in Caroli P., sub art. 604-bis c.p., op. cit., 4158. Nel caso di specie, il Tribunale di Padova, proprio in ragione dei peculiari funzionamenti dei social network, ha ritenuto di irrogare una pena più mite.
  49. Cass. pen., sez. III, 7 maggio 2008 (dep. 3 ottobre 2008), n. 37581, cit..
  50. Per un commento sulla criminalizzazione del negazionismo da parte del legislatore italiano, si veda Bellagamba F., Dalla criminalizzazione, op. cit.; Brunelli D. (2016), Attorno alla punizione del negazionismo, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 978 ss.; Caroli P. (2018), Aggravante di negazionismo e nuove condotte tipiche, in Diritto penale e processo, 605 ss.; De Flammineis S. (2016), Riflessioni sull’aggravante del “negazionismo”: offensività della condotta e valori in campo, in Diritto penale contemporaneo; Donini M. (2021), Negazionismo e protezione della memoria, in Sistema penale; Fronza E., Criminalizzazione del dissenso, op. cit., 1016 ss.; Ead. (2017), L’introduzione dell’aggravante di negazionismo, in Diritto penale e processo, 155 ss.; Goisis L., Crimini d’odio, op. cit., 309 ss.; Pulitanò D. (2015), Di fronte al negazionismo e al discorsi d’odio, in Diritto penale contemporaneo, 325 ss..
  51. Nello specifico, l’art. 5 l. 167/2017 ha aggiunto al terzo comma le ipotesi di «minimizzazione in modo grave» e «dell’apologia».
  52. Bellagamba F., Dalla criminalizzazione, op. cit., 15; Costantini A. (2021), Esposizione di simboli nazisti fuori dal cancello di casa e diffusione di video negazionisti online (nota a Tribunale di Aosta, sentenza del 3 settembre 2021 n. 249).
  53. Pelissero M., La parola pericolosa, op. cit., 45.
  54. Per una sintesi degli argomenti a favore della qualificazione come circostanza aggravante del terzo comma, si veda Caroli P., sub art. 604-bis c.p., op. cit., 4163-4164. Contra Valsecchi A., Delitti contro la libertà fisica, op. cit., 393.
  55. Sulle intersezioni tra diritto penale e memoria, Fronza E., L’introduzione dell’aggravante, op. cit., 155 ss.; Ead. (2018), Memory and punishment. Historical Denialismo, Free Speech and the Limits of Criminal Law, Berlino-Heidelberg, Springer-Verlag, si vedano in particolare pp. 66-67.
  56. Nuovamente Brunelli D., Attorno alla punizione, op. cit.; nonché Fronza E. (2012), Il negazionismo come reato, Milano, Giuffrè.
  57. Fronza E., L’introduzione dell’aggravante, op. cit., 165 ss..
  58. Ibidem.
  59. § 3.1 della sentenza in commento.
  60. Così, ad esempio, le seguenti condotte descritte nella sentenza: (i) l’imputato pubblicava su Facebook una foto di tre uomini abbigliati con la divisa nazista che ridevano, accompagnata dalla didascalia “6 miliones?”; (ii) si pubblica poi una foto ritraente Anna Frank con la scritta “Guinness world record planetario. Campione mondiale di nascondino dal 1942 al 1944”; (iii) nell’ambito di una chat Telegram partecipata da ventuno persone, l’imputato, nel rispondere a un messaggio di altro utente, scriveva di immaginare l’estinzione del popolo ebraico attraverso “un’arma biochimica che portasse alla disgregazione la genetica degli ebrei”, aggiungendo di voler iniziare a “trovare uno scienziato che torni indietro nel 45 e consegni una testata all’idrogeno al Reich”; (iv) nella medesima chat, il 27 gennaio 2019 l’imputato, con riferimento proprio alla Giornata della Memoria, scriveva: “Hahaha Oggi è il giorno della memoria. Già il mio pc ha 32 gb di ram…e la mia gpu 8…bhuhahahahahaha. Poi…tornando al sedicente olocausto…il Reich di Adolf Hitler fece ciò che andava fatto, a mio parere nel modo più idoneo”. Si noti che la Corte di cassazione ha già avuto modo di valorizzare, ai fini del riconoscimento dell’aggravante, la circostanza per cui il fatto si fosse verificato in concomitanza della Giornata della Memoria; così Cass. pen., sez. I, 19 novembre 2021 (dep. 3 febbraio 2022), n. 3808, con nota di Castellaneta M. (2023), Negazionismo: la Cassazione precisa i contorni dell’aggravante in linea con la giurisprudenza di Strasburgo, in Rivista di Diritto dei Media. La decisione è consultabile in Dejure.
  61. Per tutti, Marinucci G., Dolcini E., Gatta G.L. (2021), Manuale di Diritto Penale. Parte generale, Milano, Giuffrè, 654-655. Gli Autori, nel ricostruire il dibattito giurisprudenziale e dottrinale sull’argomento, evidenziano la possibilità di procedere a una valutazione complessiva della gravità del reato e della capacità a delinquere dell’agente (criterio preferito in giurisprudenza) o, alternativamente, a un giudizio sull’intensità in concreto delle circostanze (criterio proposto dalla dottrina). A tal proposito, non si omette comunque di segnalare come quest’ultima soluzione sarebbe di fatto praticabile soltanto laddove si tratti di bilanciare circostanze eterogenee ad efficacia comune.
  62. § 4 della sentenza in commento.
  63. Difatti, nei riguardi dell’imputato al quale non era contestata l’aggravante, il giudice riconosce le attenuanti nella loro estensione non massima.
  64. Cfr. Bellagamba F., Dalla criminalizzazione, op. cit., 20; Fronza E., L’introduzione dell’aggravante, op. cit., 164.
  65. L’espressione è di Bellagamba F., Dalla criminalizzazione, op. cit., 20.
  66. Cass. pen., sez. I, 6 dicembre 2021 (dep. 9 febbraio 2022), n. 4534, cit..
  67. Pelissero M., Discriminazione, op. cit., 1021; Goisis L. (2022), Crimini d’odio omofobico, diritto penale e scelte politico-criminali, in Diritto e persone LGBTQI+, a cura di Pelissero M., Vercellone A., Torino, Giappichelli, 233.
  68. Pulitanò D., Essere Charlie, op. cit., 17. Il corsivo nella citazione si riferisce a un’espressione richiamata dall’Autore di Mauro E. (2018), L’uomo bianco, Milano, Feltrinelli.