Prove di “regionalismo” nell’Ottocento

Enrico Genta Ternavasio[1] e Michele Rosboch[2]

 

Il presente articolo trae origine dal testo preparato da Enrico Genta per il convegno celebrativo del cinquantenario delle Regioni italiane, previsto alla Reggia di Venaria nel marzo 2020 e poi annullato per l’emergenza sanitaria, con alcune integrazioni e apparato bibliografico inseriti da Michele Rosboch.

 

La costruzione degli Stati sabaudi nel pervicace sforzo dell’assolutismo, tra ‘500 e ‘600, passa attraverso il lento ma inflessibile superamento delle situazioni giuridiche locali, differenziate e privilegiate sulla scorta dell’eredità del contrattualismo feudale e comunale. Il Regolamento dei Pubblici del 1775 costituisce il traguardo al quale si arriva dopo secoli di travaglio: questo è il lascito che l’antico regime consegna al secolo di Cavour e di Rattazzi, insieme all’altro lascito, inconfessato spesso nel periodo della Restaurazione, costituito dal modello francese napoleonico di inizio Ottocento[3].

Una preliminare constatazione va fatta: quando si esaminano i diversi progetti di organizzazione amministrativa del territorio, e ce ne sono stati tanti, si deve accettare che essi non siano mai neutri, ma risultino sempre debitori nei confronti del “soprastante” modello statuale; si dovrà quindi tenere presente il forte ruolo delle ideologie e dei fattori intenzionali nella costruzione di sistemi di amministrazione che, almeno ufficialmente, pretenderebbero di essere a-politici, rivolti alla concretezza e lontani da apriorismi dogmatici. Peraltro, detto ciò, non senza contraddittorietà si deve constatare che quei sistemi si configurano come piuttosto impermeabili alle innovazioni: si può notare infatti che non sempre una nuova struttura costituzionale “superiore”, è in grado di condizionare sistemi “inferiori”, ma maturati anteriormente, che si rivelano tenacemente resistenti rispetto agli adeguamenti resi necessari dai mutamenti avvenuti[4].

Ancora durante la Restaurazione, il modello sabaudo, che sarà indubbiamente alla base della sistemazione unitaria (basti citare la Piemontesizzazione…), si incentrava sulla Provincia; questa, dalle dimensioni abbastanza limitate, era l’ente artificiale creato dall’assolutismo per controllare quegli enti “naturali”, primari, che erano i Comuni: naturali nel senso che essi esistevano da così lungo tempo che li si poteva considerare per più versi quasi intoccabili; i Comuni erano le roccaforti delle libertates medievali, contro le quali combattevano i sovrani assoluti di tutta Europa[5].

La Provincia fu invece, innanzitutto, il centro della giustizia sovrana, per divenire solo gradatamente la chiave di volta dell’organizzazione delle finanze; infatti lentamente si affermarono funzioni “nuove”, a causa del condizionamento della cultura giuridica medievale, restia a vedere, al di fuori della giurisdizione, altre forme legittime di potere autoritativo. Dunque, la Provincia è la vera entità perenne – dal 1560 – dell’ordinamento subalpino, e poi italiano; fin dagli inizi della sua storia si rivela come il centro pulsante di interessi da accorpare, o frammentare, usando tutta la souplesse che l’incontro-scontro con il particolarismo imponeva. A capo della Provincia, l’Intendente, detto anche direttore della Provincia, su cui incombe una molteplicità di compiti: in sostanza, egli è il tutore delle comunità, che sempre più minuziosamente sorveglia, soprattutto per quelli che sono gli aspetti finanziari e tributari[6].

In sintesi, è evidente che, tra Antico Regime e primo ‘800, lo Stato sabaudo incentra la sua attenzione su quell’ente intermedio, la Provincia, che gli consente una serie di risultati concreti soddisfacenti, sia sotto il profilo fiscale, sia per quel che riguarda certe mansioni, demandate a quell’ente, che riguarderanno, in progresso di tempo, tra l’altro, le strade e l’istruzione pubblica elementare. Nella prima metà del secolo si susseguono numerosi progetti, che appartengono ancora all’assolutismo, fino a Carlo Alberto, e altri, successivi alla concessione dello Statuto, sui quali non è possibile soffermarsi; si deve almeno ricordare che si crearono degli enti ulteriori, sovrapposti alle Provincie, e cioè le Divisioni, che possono essere viste come mere istituzioni stato-centriche, burocraticamente ideate per una migliore amministrazione, ma non certo per rispondere a esigenze di autonomia[7].

In realtà, nell’ambiente culturale della Restaurazione, com’è noto periodo storico assai maltrattato da una storiografia spesso condizionata da scelte aprioristiche piuttosto sterili, in quel mondo si trovano indubbiamente molti annunci di autonomia, anche critici rispetto all’impostazione assolutistica e centralistica. E’ proprio durante la Restaurazione che si vagheggia un ritorno a dimensioni istituzionali pre-assolutistiche, addirittura medievali, “gotiche”, quando l’autonomia era la regola e non l’eccezione; il paradigma adottato è quello dell’eclettismo giuridico che, da un lato, favorisce soluzioni empiriche vantaggiose, dall’altro colora di ambiguità il liberalismo della prima metà dell’800[8].

La visione storicista imperante ben poteva considerare i Dominii sabaudi, numerosi e diversi tra di loro, come altrettante regioni, o meglio “patrie”, caratterizzate da un territorio, da una popolazione, da una lingua, da vicende storico-giuridiche particolari, unite tra di loro attraverso la figura del Principe, sovrano feudale e garante delle autonomie locali, sulla base di precise attestazioni legali. Col crescere dell’assolutismo queste autonomie erano state ridotte, sempre più drasticamente; il “dialogo” tra lo Stato e gli enti locali era avvenuto, in fondo, gerarchicamente tramite l’Intendente, capo della provincia; su queste basi, con il Prefetto napoleonico, si era ulteriormente rafforzato il modello centralistico di tipo francese “giacobino” (La République une et indivisible!), che costituiva comunque un’eredità da tenere in considerazione[9].

Giunti ora alla Restaurazione, sembrava che nuovi esperimenti dovessero essere compiuti, rivolti non semplicemente a riportare le lancette dell’orologio al 1788 (prima dei “funesti” avvenimenti d’oltralpe); l’obiettivo, o almeno uno degli obiettivi, era di modernizzare l’ancien régime, non semplicemente riverniciandolo in modo più o meno credibile, bensì ricercando soluzioni nuove, in grado di avvicinare il governo ai governati, di dare un significato nuovo all’autonomia, capace di coinvolgere le popolazioni europee, ognuna con il suo passato storico da recuperare, nella costruzione organicistica di un modello politico fortificato dalle sue antiche basi; come s’è detto, la Divisione amministrativa sabauda non era nulla di tutto ciò; piuttosto, la conferma di questo originale progetto riformistico è nella creazione di “consigli” di ogni genere e tipo, dalla base al vertice espressione di intenti, richieste, progetti, aspirazioni: ci si limita qui a citare la cosiddetta legge Giovanetti del 1847 promulgata da Carlo Alberto sull’amministrazione comunale e provinciale (poi superata dallo Statuto) ma estremamente significativa per le aperture politiche che presentava: “è una Costituzione bell’e buona”, la definì l’avvocato Giacomo Giovanetti, liberale, consigliere del Re, che era ancora assoluto[10].

Questo per dire che ancor prima del costituzionalismo si avvertiva una forte tensione verso soluzioni volte pragmaticamente, da un lato, a ottenere la governabilità dei pubblici, dall’altro a promuovere esperimenti di fatto progressivi, seppure nella cornice, ancora, per così dire, dorata, del pensiero politico liberale aristocratico[11].

Per il nostro discorso anche gli aspetti storico-sociali vanno tenuti in gran conto. Si è parlato di antagonismo psicologico tra l’amministrazione centrale, dominata, prima e dopo l’Unità, dagli ambienti reazionari della Corte e della grande burocrazia nobiliare, e le amministrazioni comunali, dirette da un’inquieta borghesia di provincia. In estrema sintesi, si è proposto un teorema che parte dal postulato dell’accentramento come sinonimo di salvaguardia dei ceti dirigenti tradizionali e dell’autonomismo invece come espressione delle moderne esigenze liberali e borghesi. In realtà, questo strumento interpretativo è fuorviante, e non può che condurre a un’analisi grossolana: non è questa la sede per approfondire, ma si deve ricordare che non vi era, nemmeno nel Piemonte di Carlo Felice, una preconcetta ostilità nei confronti dell’autonomia: anzi, quasi paradossalmente, questa veniva vista come un valido strumento per tener lontano il “moderno liberalismo”[12].

Conseguentemente si nota una notevole flessibilità e disponibilità del Governo centrale nei confronti degli enti locali: molti ex-giacobini, “ventunisti”, liberali, vengono non di rado sollecitati e incoraggiati a prender parte alla vita amministrativa, come consiglieri comunali o provinciali; solo così, si pensava nelle alte sfere, si sarebbe ottenuta la “governabilità dei pubblici”: questo in fondo fu il vero, concreto, antidogmatico obiettivo: lo confermano le centinaia di biglietti, istruzioni, ammonimenti inviati dal Governo, prima e dopo l’Unità.

La contesa tra “regionalisti” e “unitari” è stata in qualche misura sopravvalutata, secondo una prospettiva deviante e anacronistica, che, indulgendo anche a valutazioni di tipo “testualista”, sovente non ha collocato la questione nel contesto storico-sociale. Sembra quindi opportuno un certo ridimensionamento della portata delle proposte avanzate da vari esponenti politici, come quella di Minghetti, che, peraltro, nonostante i suoi limiti, rimane interessante: a ben vedere, il suo progetto del 13 marzo 1861, neppure esaminato in commissione, non era affatto in contrasto con le tesi cavouriane, immaginando una Regione vista come un ente governativo, retta da un rappresentante del potere esecutivo, facendo bene attenzione a non prospettarla come una rappresentanza amministrativa degli interessi degli Stati preunitari[13].

L’antico e politicamente non compromettente istituto consortile stava alla base della riorganizzazione sovra provinciale, concependosi la Regione come un consorzio permanente di Province. Era assente una qualsiasi forma di rappresentanza o parlamento regionale, che avrebbe potuto contrastare pericolosamente quello nazionale. Si cercava, in fondo, un “ibrido” tra i modelli anglosassone, elvetico e francese[14].

Il progetto federalista e autonomista avrebbe potuto assumere una più concreta dimensione, addirittura rivoluzionaria, soltanto se fosse stato recepito, diretto e attuato da movimenti e gruppi sociali, culturali ed economici in grado di padroneggiarlo, traendone gli aspetti più innovativi, senza sacrificare le esigenze nazionali: in fondo lo stesso Cattaneo, che prefigurava una civilizzazione imperniata sull’economia e sul mercato, era ispirato da una visione della politica ancora settecentesca, e rivolgeva il suo messaggio ad un consapevole e maturo ceto borghese, in realtà più immaginato che esistente in quegli anni. Anche Cavour partirà da un retroterra culturale di marca europea, come Cattaneo, ma meglio dimostrerà di conoscere con notevole realismo le “miserie” della borghesia italiana e le maniere più opportune per convincerla e per dirigerla[15].

Nei primi anni unitari un discreto spazio ebbe la discussione sul modello di amministrazione inglese che, in una prospettiva ancora eclettica, poteva bene affascinare i ceti dirigenti per essere inserito all’interno di una cornice costituzionale antica, prestigiosa e ampiamente mitizzata, quantomeno dal ‘700; questo spiega perché, nel pensiero di importanti esponenti della cultura della Restaurazione piemontese, si trovasse un ampio apprezzamento del modello d’Oltre Manica: una sorta di Giano bifronte in grado di conciliare le simpatie liberali con il conservatorismo. Ma, passati i primi entusiasmi, si diffuse la convinzione e la consapevolezza, derivante dalla maturata visione storicista, che fosse estremamente problematico adottare un sistema politico basato sostanzialmente su presupposti non riscontrabili nella Penisola; uno per tutti, la secolare esistenza in Inghilterra di un ceto superiore, dalle connotazioni storiche, economiche, culturali assai peculiari che formava una upper class, o upper middle class, che in Inghilterra era sempre stata pronta ad occuparsi della vita pubblica e a gestire da protagonista le amministrazioni locali; non poca delusione causò la constatazione che una classe dirigente di questo tipo non esisteva assolutamente in Piemonte, nonostante gli auspici di un Cesare Balbo.

Lo stesso Camillo Cavour partecipò in misura rilevante all’anglofilia; a differenza dei più, egli conosceva bene il sistema politico inglese, “in mirabil guisa” capace di contemperare gli aspetti innovatori e quelli conservatori; ma la pedissequa imitazione non era consigliabile. Quindi, anglofilia sì ma cautela e, soprattutto, convinzione che il “vestito” inglese fosse stato disegnato dai secoli e, come tale, non fosse facilmente utilizzabile per adattarsi a situazioni storicamente del tutto diverse. Il self-government, a ben vedere, si basava molto sull’operosità gratuita e sull’indipendenza del magistrato onorario, proprietario terriero, la cui imitazione non era credibile[16].

Piuttosto, appariva fattibile e utile elaborare diversi modelli di decentramento; in un’accezione più modesta, si intendeva attraverso il “discentramento” proporre un puro e semplice spostamento di servizi pubblici sugli enti locali, allargando la quantità delle mansioni demandate dallo Stato alle amministrazioni comunali e provinciali; in qualche caso la “quantità” di tali mansioni poteva essere aumentata, per soddisfare interessi clientelari o campanilistici, ma non era previsto alcun ente “superiore” che fosse definibile come un ente indipendente, in quanto rappresentativo di collettività regionali, distinte dalla collettività dello Stato, né che fosse in grado di darsi un “indirizzo di politica amministrativa diverso da quello che si dà lo Stato”[17].

Vi erano poi, su un piano ben diverso, le elaborazioni, più o meno approfondite, sul concetto stesso di autonomia, pensato spesso in funzione antipiemontese: ad esempio, è noto che in Lombardia si registrò un non piccolo risentimento dopo l’imposizione dell’ordinamento amministrativo subalpino con la legge Rattazzi. Così, a Napoli e in Sicilia, non pochi liberali, dopo l’Unità, condussero una battaglia, anche risentita, contro lo Stato, reclamando l’autonomia quasi come un indennizzo a favore delle regioni più deboli e meno preparate[18].

Si sono succintamente evidenziati alcuni tra i principali motivi del rifiuto da parte della dirigenza liberale di aderire a modelli autenticamente liberali, che però, per necessità evidente, risultavano improponibili senza mettere a rischio la appena raggiunta unificazione nazionale, indubbiamente avvenuta più in fretta del previsto e quindi con una dose inevitabile di improvvisazione. Il quadro che emerge dai dibattiti ha delle coloriture veramente drammatiche, se si pensa all’enorme massa di interessi configgenti, alla miriade di situazioni disomogenee, alle posizioni ottuse di certi apparati burocratici, all’assenza di dati credibili su cui elaborare dei progetti sensati. Su tutto ciò, persisteva lo snobistico distacco delle classi superiori dall’amministrazione dei centri minori, ma non solo: vi erano città in Italia in cui da anni non si trovava chi volesse fare il sindaco; nelle elezioni municipali di Torino, Milano, Venezia, Napoli, Bologna, Palermo, Messina, Ancona eccetera, non concorreva a dare il voto – già fortemente limitato dal sistema elettorale censitario – neanche un quarto degli elettori iscritti; il modello subalpino, poi, veniva da molti criticato; ad esempio, Giovanni Manna parlava del piemontese “ non amico, ma maestro, non socio ma gerente, non fratello ma tutore e pedagogo”[19].

In questo contesto, per più versi sconsolante, si cercò da parte di alcuni di reagire virando decisamente il timone: tra i dissidenti rispetto al sistema centralizzatore vanno ricordati Carlo Alfieri di Sostegno, fautore di un progetto genuinamente liberale, Gustavo Ponza di San Martino e Stefano Jacini: era un gruppo trasversale che cercava di trovarsi una collocazione tra i “moderati unionisti” e gli “autonomisti radicali”, e che dava voce alle delusioni derivanti dalla degenerazione del parlamentarismo, cogliendo con consapevolezza il forte disagio di una parte della classe dirigente liberale, che sarebbe poi stata ulteriormente delusa dalle promesse non mantenute della Sinistra al potere, da sempre simpatizzante con un modello “giacobino” alla francese. Comparve quindi un progetto di riforma nel 1870 – esattamente cent’anni prima della creazione delle Regioni italiane – un anno in cui emersero istanze complessivamente rivolte a rivalutare la Regione, intesa come “membratura naturale”, secondo l’immaginosa definizione data dieci anni prima da Luigi Carlo Farini, una Regione che doveva essere “al di sopra della provincia, al di sotto del concetto politico dello Stato”[20].

Ormai erano un po’ passate le paure che avevano fatto naufragare, a ridosso dell’Unità, le aspirazioni più liberali e secondo Gustavo Ponza di San Martino e Stefano Jacini si poteva proporre, innanzitutto, un ampio programma di decentramento amministrativo, che non si limitasse banalmente a una semplice dislocazione di organi di governo. Ma non ci si accontentava di questo e si aveva il coraggio di denunciare la contrapposizione tra il “paese legale” e quello “reale” e il sostanziale fallimento del sistema in atto, né autenticamente centralista, né, tantomeno, regionalista, sistema che si voleva apparentemente imparziale e di alto profilo tecnico formale, ma che era costretto per sopravvivere ad adattarsi al manovrismo e al clientelismo. Trascorse ormai le grandi aspirazioni del periodo cavouriano, che avevano, se non giustificato eticamente, almeno legittimato politicamente le ibridazioni spurie, in vista dei “superiori” interessi patriottici, ci si rendeva conto, con amara delusione, che il sistema posto in essere finiva per incoraggiare un “mostruoso connubio” tra parlamentarismo all’inglese e accentramento alla francese, per adattarsi plasticamente ai peggiori difetti del carattere italiano medio[21].

Il pensiero di Jacini, articolato sulla distinzione tra comuni grandi e piccoli e sulla ribadita validità delle province, andava proprio (non senza qualche forma di pudore), verso la Regione, considerata non come un elemento nuovo, ma come una realtà antica, che veniva definita come un consorzio, un’associazione di province per gli affari più importanti, e valutata come l’elemento essenziale per conseguire il risultato più importante per la vita politica italiana: l’eliminazione del “pericoloso accoppiamento dell’accentramento amministrativo col parlamentarismo”. Fu dunque una chiara prova di regionalismo, che prendeva le distanze dal particolarismo, quella che scaturì da quel gruppo trasversale che accomunava liberali moderati e conservatori e che era sostanzialmente estraneo, anche per appartenenze sociali elitarie, alla massa dei deputati[22].

Non è strano che il progetto non piacesse né alla Destra né alla Sinistra, ma ciò non ostante il suo principale autore si gloriava di essere al disopra della melée dei partiti e insisteva nell’andare avanti, esplorando soluzioni di volta in volta sempre più regionaliste. Sembra quasi che si ritornasse indietro nel tempo, agli anni della Restaurazione, quando si era criticata aspramente la gretta, media burocrazia, figlia del radicalismo rivoluzionario e dell’apparato bonapartista, favorita dall’assenteismo degli esponenti dell’élite culturale e sociale che avevano abdicato al loro ruolo…

La visione critica, che animava lo spirito del programma di Jacini, ne costituiva il valore; il limite stava nella auspicata “migliore distribuzione di lavoro”, che di per sé, in verbis ipsis, appariva, più che un fine – quello di rinnovare le basi fondamentali dell’amministrazione locale – ancora un mezzo per rafforzare e ottimizzare il ruolo dello Stato: in fondo, senza nulla togliere al valore del Progetto, si rimaneva pur sempre all’interno di quella cornice stato-centrica che trovava, nel bene e nel male, le sue ragioni nella tradizione del riformismo di Antico Regime[23].

Il successivo percorso delle autonomie locali e dei progetti di regionalismo in Italia ha attraversato le vicende della crisi dello Stato liberale e del ventennio fascista, fino a giungere al dibattito della Costituente[24].

Proprio in questa sede sono state riprese, soprattutto da alcuni esponenti della DC, alcune fra le più significative argomentazioni a favore di un assetto del nuovo Stato basato sui princìpi del personalismo pluralista (art. 2) e sulle autonomie (art. 5): significativamente, ci si colloca nella logica sussidiaria della ‘priorità’ delle formazioni sociali, delle comunità territoriali e degli enti intermedi quali formanti l’intero tessuto nazionale e che la stessa Repubblica è chiamata a riconoscere e promuovere[25].

Com’è noto, il Titolo V della seconda parte del testo costituzionale (art. 114-133) – soggetto poi a modifica approvata da referendum nel 2001 – è dedicato a disciplinare nel dettaglio la complessa e delicata materia delle autonomie locali.

Alla rapida istituzione delle Regioni a statuto speciale, contestuale ai lavori della stessa Costituente, è seguito, invece, un significativo periodo di stallo nell’avvio effettivo delle rimanenti Regioni a statuto ordinario, avvenuto cinquant’anni fa[26].

Considerando pressoché impossibile offrire una valutazione credibile dell’esperienza di questi cinquant’anni di Regioni, a partire proprio dalle considerazioni storiche presentate, si possono proporre alcune osservazioni.

Un attento osservatore dei fenomeni del regionalismo e del federalismo, Giorgio Lombardi, ebbe modo di scrivere acutamente nel commentare la scelta del Costituente e i primi trent’anni delle Regioni: “Il modello scelto dal costituente era chiaro e coerente: esso si basava su di una separazione di livelli di normazione, da un lato, e di livelli di governo, dall’altro, entrambi convergenti verso sedi territoriali via via più circoscritte, in quanto espressioni di interessi progressivamente decrescenti[27].

Il nodo dei rapporti fra centro e periferia (e la conseguente organizzazione dei livelli territoriali) è una costante dell’organizzazione pubblica in ogni epoca e in ogni contesto; peraltro, ciascuna delle scelte tecniche e istituzionali, risente della mentalità in cui si inserisce e, con riferimento, alle vicende del nostro paese, è indubbio che sia prevalsa e prevalga ancora una certa ipoteca statalista e centralista anche sulle scelte di decentramento e sui tentativi di avvio dei processi di federalismo[28].

Il prevalere della logica del decentramento di funzioni, ha infatti, nettamente soverchiato nei decenni successivi all’approvazione della Costituzione i disegni autonomistici auspicati dagli stessi Costituenti e volti a favorire più concrete forme di partecipazione politica e condivisione istituzionale delle scelte soprattutto in ambito sociale[29]; in tale direzione sempre Giorgio Lombardi ha evidenziato la necessità di ben distinguere i percorsi di decentramento dalla costruzione di un vero e proprio “Stato delle autonomie” caratterizzato da una vera e propria ripartizione di funzioni politiche e di un vera concorrenza nella rappresentanza delle comunità e delle istanze politiche dei territori[30].

Inoltre sono emerse, soprattutto negli ultimi anni, rilevanti difficoltà nelle relazioni fra Regioni e Stato centrale, anche con un notevole incremento dei ricorsi di fronte alla Corte costituzionale a documentazione di nodi problematici e ancora irrisolti, a partire da quello finanziario, anche a fronte delle sempre crescenti difficoltà del contesto sociale ed economico[31].

Da ultimo, anche la più recente emergenza sanitaria ha messo a dura prova gli equilibri fra Stato e Regioni così come il valore stesso delle libertà e delle autonomie; certamente si tratta di situazioni eccezionali e – ci si augura – temporanee, ma possono costituire l’occasione, anche attraverso il recupero dei valori e delle categorie della storia, per ripensare a modelli consolidati e meglio definire i capisaldi delle relazioni istituzionali e della stessa convivenza democratica[32].

 

  1. Professore ordinario del dipartimento di giurisprudenza dell’università di Torino.
  2. Professore associato del dipartimento di giurisprudenza dell’università di Torino. 
  3. Per i riferimenti essenziali si può fare riferimento, per tutti: A. Petracchi, Le origini dell’ordinamento comunale e provinciale italiano. Storia della legislazione piemontese sugli enti locali dalla fine dell’antico regime al chiudersi dell’età cavouriana (1770-1861), Vicenza, 1962; E. Genta, Dalla Restaurazione al Risorgimento. Diritto, diplomazia, personaggi, Torino, 2012 e P. Bianchi-A. Merlotti, Storia degli Stati sabaudi (1416-1848), Brescia, 2017. 
  4. Per tutti, con approcci differenti: G. Miglio, La regolarità della politica, Milano, 1988; F. Bonini, Storia della pubblica amministrazione in Italia, Firenze, 2004; L. Mannori, Costituire l’Italia. Il dibattito sulla forma politica nell’Ottocento preunitario, Pisa, 2019 e G. Melis, Storia dell’amministrazione italiana, Bologna, 2020. 
  5. Per un’analisi delle ipotesi di riforma delle autonomie locali nella Restaurazione sabauda, ci permettiamo di rinviare a M. Rosboch, «Con somma cautela e maturità di giudizio». Centro, periferia e comunità in un progetto di riforma nella Restaurazione sabauda, Napoli, 2019; si veda anche P. Casana, L’educazione del principe. L’assetto dell’amministrazione sabauda in un manoscritto del XIX secolo, Torino, 2020.
  6. Cfr. E. Genta, Intendenti e comunità nel Piemonte settecentesco, in Comunità e poteri centrali negli antichi Stati italiani, a c. L. Mannori, Napoli, 1997, pp. 43-57.
  7. Per tutti, A. Petracchi, Le origini dell’ordinamento, cit., I, pp. 27-79.
  8. Dà conto in modo originale di questa visione attenta ai valori tradizionali e, per così dire, “paracostituzionale” della Restaurazione, G. Lombardi, Il Consiglio di Stato nel quadro istituzionale della Restaurazione, in Id., Scritti scelti, a c. E. Palici di Suni-S. Sicardi, Napoli 2011, pp. 115-138; si tratta di un’ipotesi storiografica ricca di implicazioni, anche dal punto di vista della filosofia della storia; in merito, per tutti, A. Del Noce, Per una interpretazione del Risorgimento. Il pensiero politico di Gioberti, in Humanitas, XVI (1961), pp. 16-40.
  9. S. Mannoni, Une et indivisible. Storia dell’accentramento amministrativo in Francia, I-II, Milano, 1994-1996.
  10. Cfr. C. Pecorella, Giacomo Giovanetti e la riforma delle amministrazioni locali sabaude del 1847, in Id., Studi e ricerche di storia del diritto, Torino, 1995, pp. 619-627 ed E. Genta, Giacomo Giovanetti: avvocato e legislatore, in Bollettino storico-bibliografico subalpino, XCVIII (2000), pp. 328 ss..
  11. E. Genta, Dalla Restaurazione al Risorgimento, cit., pp. 25-68..
  12. Cfr. E. Genta, Dalla Restaurazione al Risorgimento, cit., pp. 14-25; in generale, G.S. Pene Vidari, Studi e prospettive recenti di storia giuridica sul Piemonte della Restaurazione, in Studi Piemontesi, XII (1983), pp. 416-422.
  13. Per tutti, R. Romanelli, Centralismo e autonomie, in Storia dello Stato italiano dall’Unità a oggi, a c. R. Romanelli, Roma, 1995, pp. 126-186 e L. Mannori, Costruire l’Italia, cit., pp. 193-233.
  14. Sulle vicende delle Province, in specie in Piemonte, per tutti: J. Luther, Le province in trasformazione: “miserere” o “resilienza”?, in “Il Piemonte delle Autonomie”, II-2 (2015), pp. 36-52 e La Provincia di Torino, 1859-2009: studi e ricerche, a c. W.E. Crivellin, Milano, 2009.
  15. G. Grosso, Cavour e le autonomie locali, in Cavour 1861-1961, Torino 1963, pp. 13-33 ed E. Genta, Una rivoluzione liberale mancata. Il progetto Cavour-Santarosa sull’amministrazione comunale e provinciale (1855), Torino, 2000.
  16. Cfr. E. Genta, Una rivoluzione liberale, cit., pp..
  17. M.S. Giannini, Autonomie comunali e controlli statali dall’Unità al Fascismo, a c. I. Zanni Rosiello, Bologna 1976, p. 117 e p. 121.
  18. Di rilievo, G. Miglio, Le contraddizioni dello Stato unitario, in L’unificazione amministrativa ed i suoi protagonisti. Atti del congresso celebrativo del centenario delle leggi amministrative di unificazione, a c. F. Benvenuti-G. Miglio, I, Vicenza, 1969, pp. 25-43.
  19. L’opinione del Manna è riportata in E. Passerin d’Entreves, L’ultima battaglia politica di Cavour. I problemi dell’unificazione italiana, Torino 1956, p. 64.
  20. Il passo è riportato in A. Berselli, Il governo della Destra. Italia legale e Italia reale dopo l’Unità, Bologna, 1997, p. 244; in merito cfr. anche A. Petracchi, Le origini dell’ordinamento, cit., I, pp. 355-378.
  21. Cfr. F. Benvenuti, Mito e realtà nell’ordinamento amministrativo italiano, in L’unificazione amministrativa, cit., pp. 65-86; per una valutazione delle vicende dell’unificazione cfr. G.S Pene Vidari, Note e considerazioni su unità e unificazione italiana a 150 anni dall’unificazione legislativa e amministrativa, in Bollettino storico-bibliografico subalpino, CXIII (2015), pp. 519-566. In generale considerazioni di rilievo in A. Caracciolo, Stato e società civile. Problemi dell’unificazione italiana, Torino, 1977.
  22. In particolare sul pensiero di Stefano Jacini, F. Jacini, Il pensiero politico di Stefano Jacini, in L’unificazione amministrativa, cit., pp. 427-444.
  23. Cfr. F. Traniello, Stefano Jacini e l’unificazione amministrativa del Regno d’Italia (1864-1867), in L’unificazione amministrativa, cit., pp. 445-461.
  24. Per tutti, in sintesi, P. Aimo, Stato e poteri locali in Italia. 1848-1995, Roma, 1995; G. Lombardi, Le autonomie regionali e il potere locale, Roma, 1984.
  25. Cfr. P. Grossi, Le comunità intermedie tra moderno e pos-moderno, a c. M. Rosboch, Genova, 2015 e G. Quaglia- M. Rosboch, La forza della società. Comunità intermedie e organizzazione politica, Torino, 2018.
  26. Fra i moltissimi, B. Caravita, Lineamenti di diritto costituzionale federale e regionale, Torino, 2009 e S. Mangiameli, Letture del regionalismo italiano, Torino, 2011; con riferimento alle vicende del Piemonte, Lineamenti di diritto costituzionale della Regione Piemonte, a c. M. Dogliani-J. Luther-A. Poggi, Torino, 2018. Per un’ampia rassegna, Il principio autonomista nel regionalismo italiano. Bibliografia ragionata, in Ius Publicum Network Review, (2013), pp. 1-60.
  27. G. Lombardi, Le Regioni in Italia: un cammino difficile, in Trent’anni di Regione, Torino, 2000, p. 12; la riflessione di Lombardi prosegue così: “Si spiega in quest’ordine di idee, quindi, da un lato il significato della Regione dal punto di vista non soltanto del decentramento territoriale, ma anche da quello del decentramento politico, e quindi normativo, mentre d’altro canto, si può comprendere il significato dell’attribuzione alle Regioni delle variabili endogene del sistema esprimentisi a livello territoriale in rapporto di temi della società civile, e di conseguenza, viste in rapporto all’azione del complesso degli enti pubblici istituzionalmente diversi dallo Stato nella società civile. Istituzioni del pluralismo, dunque, e al tempo stesso livello di governo della società, con forte accentuazione delle componenti sociali” (ibidem, p. 13).
  28. Per tutti, L. Antonini, Federalismo all’italiana. Dietro le quinte della grande incompiuta. Quello che ogni cittadino dovrebbe sapere, Venezia, 2013.
  29. Cfr. L. Antonini-G. Lombardi, La difficile democrazia. La speranza della sussidiarietà, in Un “io” per lo sviluppo, Milano, 2005, pp. 25-71; si veda anche G. Miglio, L’asino di Buridano. Gli italiani alle prese con l’ultima occasione di cambiare il loro destino, Milano, 2014.
  30. G. Lombardi, La mancata attuazione dello «Stato delle Autonomie» in Italia. (Problemi attuali dell’ordinamento regionale), in Id., Scritti scelti, cit., pp. 561-579; alcune considerazioni ‘critiche’ in M. Dogliani, Quer pasticciaccio brutto del regionalismo italiano, in Il Piemonte delle autonomie, V-3 (2018), pp. 1-4; cfr. anche A. Poggi, Perché abbiamo bisogno delle Regioni, in Federalismi.it, (5-2020), pp. 1-7.
  31. Fra i molti, L. Dell’Atti, Tra modelli e prassi. Formalismo e informalità nei rapporti fra Stato e Regioni, in “Federalismi.it”, 18 (2019), pp. 1-17; molto giustamente Valerio Onida ha evidenziato: “L’altro aspetto fondamentale del paradosso del nostro regionalismo è quello finanziario. La riforma del 2001 presupponeva che si desse vita ad una vera autonomia finanziaria regionale, mentre, come si sa, la legge sulla finanza regionale del 1970 si muoveva in un’ottica di forte accentramento della manovra fiscale e finanziaria, e quindi di una finanza regionale sostanzialmente “derivata” (si ricordi il cosiddetto “fondo comune”, alimentato dal gettito tributario statale e ripartito dallo Stato fra le Regioni)” (V. Onida, Autonomie e regionalismo nell’Italia di oggi, in Il Piemonte delle autonomie, VI-2 (2019), p. 13); significativo il recente saggio di T. Cerruti, Regioni e indirizzo politico: un itinerario tormentato. Le scelte in materia di istruzione e assistenza sociale, Napoli-Torino, 2020.
  32. Per tutti, in generale, di grande rilievo M. Fioravanti, La Costituzione democratica. Modelli e itinerari del diritto pubblico del ventesimo secolo, Milano, 2018 e F. Tuccari, La rivolta della società. L’Italia dal 1989 a oggi, Roma-Bari, 2020.