Rassegna giugno – settembre 2019

 

OSSERVATORIO T.A.R. PIEMONTE E VALLE D’AOSTA

 

T.A.R. PIEMONTE

AMBIENTE & PAESAGGIO

 

1. LA COMPETENZA RESIDUALE IN MATERIA DI CACCIA LEGITTIMA L’INNALZAMENTO DEL LIVELLO DI TUTELA FAUNISTICA ESPRESSO NEL CALENDARIO VENATORIO
TAR Piemonte, Sez. II – R.G. 590/2016 – sent. 11 luglio 2019 – 29 settembre 2019, n. 884,
Pres. Testori, Est. Cattaneo 
[Federazione Italiana della Caccia et alii c. Regione Piemonte]

 

La Federazione Italiana della caccia, unitamente ad altre Associazioni e Comprensori ricorrenti, richiedeva l’annullamento della deliberazione 21-3140 del 11 aprile 2016 con cui la Giunta Regionale aveva approvato il calendario venatorio per la stagione 2016-2017. I motivi del ricorso consistevano essenzialmente in: a) mancata effettiva partecipazione delle associazioni venatorie e degli organismi di gestione al procedimento amministrativo con cui era stato approvato il calendario venatorio regionale; b) incostituzionalità delle norme di legge regionale che prevedevano la soppressione della caccia ad alcune specie in precedenza cacciabili (art. 40, c. 4, f-ter, l. reg. n. 5/2012, introdotto dall’art. 39 l.r. 22.12.2015 n. 26); c) eccesso di potere per difetto di istruttoria e motivazione e per contraddittorietà relativamente alla scelta operata dal legislatore regionale, di esclusione di alcune specie dal novero di quelle cacciabili; d) qualificazione delle normative regionali censurate quali legge-provvedimento per l’immediato impatto che esse avevano determinato sul calendario venatorio; e) illegittimità del divieto assoluto di caccia ad alcune specie (art. 1 legge regionale n. 27 del 2016)  in relazione all’art. 117, secondo comma, lett. s) Cost. e in relazione agli artt. 102 e 117, c. 1 e 4, Cost.

Mentre il primo e il terzo motivo di ricorso sono stati respinti con sentenza non definitiva (n. 1235/2017), il TAR Piemonte aveva sollevato questione di legittimità costituzionale in relazione al secondo, quarto e quinto motivo, rispetto a cui la Corte costituzionale si è pronunciata con la sentenza n 7 del 2019, puntualmente richiamata nel giudizio in oggetto a giustificare il respingimento degli ulteriori motivi del ricorso. In particolare, il Collegio, nel vagliare la legittimità costituzionale dell’art. 39, comma 1, l. Regione Piemonte 22 dicembre 2015, n. 26 e dell’art. 1, comma 1, l. Regione Piemonte 27 dicembre 2016, n. 27, sollevate, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. e in riferimento agli artt. 102, primo comma, e 117, primo comma, Cost., (oltre che al considerando n. 32 della decisione n. 1600/2002/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 22 luglio 2002, – sesto programma comunitario di azione in materia di ambiente, e agli artt. 114 e 193 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea) ha ribadito come in seguito alla riforma del Titolo V la mancata indicazione della materia «caccia» nel nuovo articolo 117 Cost. determina la sua certa riconduzione alla competenza residuale regionale.

Di più, a giudizio del Collegio (che richiama la più recente sentenza n. 139 del 2017) la caccia non può ritenersi ricompresa, neppure implicitamente, in altri settori della competenza statale, fermo tuttavia restando il vincolo del rispetto della normativa statale adottata in tema di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, ove essa esprima regole minime uniformi.

Tale vincolo si traduce nella inderogabilità in peius, da parte del legislatore regionale, dei livelli di protezione dettati dalla legge n. 157 del 1992, ma anche nella possibilità di intervenire sulla disciplina della caccia innalzando il livello di tutela delle specie animali interessate (nel senso dell’incremento della protezione minima). A giudizio del TAR, inoltre, le norme regionali censurate sono rispettose del principio per cui il calendario venatorio deve essere necessariamente adottato con atto amministrativo. Esse semplicemente introducono in via generale e astratta il divieto di caccia per determinate specie, destinato a configurarsi come tale a prescindere dalla specifica stagione venatoria e suscettibile di ripetuta applicazione nel tempo.  [L. Conte] 

 
2. LA COMPETENZA RESIDUALE IN MATERIA DI CACCIA LEGITTIMA L’INNALZAMENTO DEL LIVELLO DI TUTELA FAUNISTICA ESPRESSO NEL CALENDARIO VENATORIO
TAR Piemonte, Sez. II – R.G. 574/2017 – sent. del 11 luglio 2019 – 29 settembre 2019, n. 885,
Pres. Testori, Est. Cattaneo 
[Federazione Italiana della Caccia et alii c. Regione Piemonte]

 

La Federazione Italiana della Caccia unitamente ad altri ricorrenti ha promosso il ricorso avverso la deliberazione della Giunta regionale 10.4.2017 n. 14-4867, recante “Art. 18, l. 157/1992. Art. 40, l. r. 5/2012. Approvazione del Calendario venatorio per la stagione 2017/2018 e delle relative Istruzioni operative supplementari”, per una pluralità di motivi riassumibili nella esclusione di alcune specie dal novero di quelle cacciabili; nella differenziazione dei periodi di apertura e chiusura della caccia per determinate specie; nella predisposizione di limiti di carniere giornaliero e/o stagionale per la caccia a determinate specie; nella circoscrizione del potere dei comitati di gestione degli ATC e dei CC.AA. di regolamentare la caccia al cinghiale solo nella forma a squadre.

Il Tribunale rileva come nel giudizio connesso (r.g. n. 590 del 2016) relativo alla approvazione del calendario venatorio per il biennio 2016-2017 fossero state sollevate le medesime questioni di legittimità costituzionale proposte nel presente giudizio dai ricorrenti e pertanto rinvia a quanto precisato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 7 del 2019 (sul punto si rinvia, al commento della sentenza n. 884 del 2019 supra annotata).

Con riferimento al merito delle decisioni assunte con l’approvazione del calendario venatorio e oggetto di ricorso, il Tribunale rileva come esse siano espressione di una discrezionalità tecnica di cui l’amministrazione dispone in materia (e dunque sindacabile solo nei ristretti limiti costituiti da manifesta illogicità ed evidente travisamento dei fatti). I ricorrenti, d’altro canto, non hanno dedotto elementi concreti per dimostrare la manifesta illogicità delle scelte compiute dall’amministrazione (lamentando in via generica, a giudizio del Tribunale, l’assenza di supporti tecnico-scientifici a tali decisioni). Tali scelte, peraltro, sembrano porsi in linea con una maggior tutela dell’ambiente e dell’ecosistema. [L. Conte]

 

3. LA COMPETENZA RESIDUALE IN MATERIA DI CACCIA LEGITTIMA L’INNALZAMENTO DEL LIVELLO DI TUTELA FAUNISTICA ESPRESSO NEL CALENDARIO VENATORIO
TAR Piemonte, Sez. II – R.G. 753/2018– sent. del 11 luglio 2019. 29 settembre 2019, n. 886,
Pres. Testori, Est. Cattaneo 
[Federazione Italiana della Caccia – Federazione Italiana della Caccia Regione Piemonte c. Regione Piemonte] 

 

La Federazione italiana della Caccia – Federazione della Caccia Regione Piemonte ha impugnato la deliberazione n. 1-6985 del 5.6.2018, con cui la Giunta regionale ha approvato il calendario venatorio per la stagione 2018/19, nella parte in cui non ammette il prelievo venatorio di alcune specie e la deliberazione della Giunta regionale del 13 luglio 2018, n. 26-7214, (recante modifiche al calendario venatorio 2018/2019 di cui alla DGR 1-6985 del 05 giugno 2018, ai sensi della legge regionale 5/2018, e modifiche alle Linee guida per la gestione e il prelievo degli ungulati selvatici e della tipica fauna alpina).

Il Tribunale rileva come nel giudizio connesso (r.g. n. 590 del 2016) relativo alla approvazione del calendario venatorio per il biennio 2016-2017 fossero state sollevate le medesime questioni di legittimità costituzionale proposte nel presente giudizio dai ricorrenti e pertanto rinvia a quanto precisato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 7 del 2019 (sul punto si rinvia, al commento della sentenza n. 884 del 2019 supra annotata).

Con riferimento al mancato preventivo coinvolgimento dell’Ispra e della commissione consultiva regionale per il coordinamento delle attività venatorie per la tutela della fauna selvatica in sede di approvazione della deliberazione con cui la Giunta Regionale ha apportato modifiche al calendario venatorio 2018/2019, il Tribunale valuta tale motivo di censura infondato, avendo l’amministrazione regionale domandato il parere dell’Ispra sulla proposta di calendario venatorio per la stagione 2018/2019 (non essendo viceversa necessitato il parere dell’Ispra né quello della Commissione consultiva regionale per il coordinamento delle attività venatorie e per la tutela della fauna selvatica, con riferimento al semplice adeguamento del calendario venatorio alle previsioni della legge regionale n. 5/2018, che non ne hanno tuttavia modificato l’impianto complessivo).

Gli ulteriori motivi di censura riguardano da un lato il divieto di esercizio dell’attività venatoria nelle domeniche di settembre e dall’altro l’applicazione generalizzata nei confronti di tutti i cacciatori dell’obbligo di indossare giubbotti o bretelle retro-riflettenti ad alta visibilità sia durante l’esercizio dell’attività venatoria che nel corso delle attività di contenimento previste dalla l.r. n. 5 del 2018.

Con riferimento al primo profilo, il TAR sottolinea come risieda nella discrezionalità del legislatore il necessario contemperamento tra l’interesse allo svolgimento di un’attività sportiva e l’interesse di rango alla tutela della sicurezza pubblica, in un periodo (quale il mese di settembre) di diffusa fruizione dei boschi. Per quanto riguarda l’obbligo di indossare giubbotti o bretelle retroriflettenti, esso appare rispettoso dei principi di logicità e ragionevolezza, in quanto posta a tutela dell’incolumità fisica degli stessi cacciatori e di chiunque si trovi nelle loro vicinanze. Esso tiene inoltre conto del fatto che l’esercizio dell’attività venatoria possa determinare l’insorgenza di situazioni di pericolo «quale che sia il contesto ambientale in cui si svolge la caccia».  [L. Conte]

 

BANDO PSR: IL FINANZIAMENTO E’ AMMESSO SOLO IN IPOTESI DI SOSTANZIALE TRASFORMAZIONE DELL’IMMOBILE, MA LA CLASSIFICAZIONE CATASTALE DELL’IMMOBILE OGGETTO D’ACQUISTO NON DEVE NECESSARIAMENTE CORRISPONDERE A QUELLA DI FABBRICATO RURALE
TAR Piemonte, Sez. II – R.G. 941/2018– sent. del 11 luglio 2019 – 28 agosto 2019, n. 961,
Pres. Testori, Est. Testori 
[M. c. Regione Piemonte]

 

Il signor M. ricorre contro la Regione Piemonte per l’annullamento del provvedimento della Regione Piemonte, avente ad oggetto la non ammissione a finanziamento della domanda di sostegno n. presentata a valere sul bando 2015 del Piano di Sviluppo Rurale (PSR) della Regione Piemonte, con riferimento alla specifica misura del “miglioramento del rendimento globale e della sostenibilità delle aziende agricole dei giovani agricoltori”.

Le ragioni poste a fondamento del rigetto, da parte della Regione, della domanda di ammissione al finanziamento riguardano in particolare: a) la classificazione dell’immobile oggetto di acquisto come categoria A/4 (abitazioni di tipo popolare)  e non come categoria D/10 (fabbricati per funzioni produttive connesse alle attività agricole), che dunque non legittima al finanziamento poiché il bando prevede che siano costi ammissibili l’acquisto di «fabbricati rurali ad esclusione delle abitazioni»; b) il fatto che dalla documentazione prodotta dal richiedente emerge che gli interventi edilizi progettati si configurano come opere di manutenzione ordinaria e straordinaria, non ammissibili a contributo dal bando, che invece richiede ai fini del finanziamento, oltre al carattere della ruralità, alcune altre condizioni tra cui, in particolare, che il fabbricato oggetto di acquisto subisca un intervento di sostanziale trasformazione, pari in valore ad almeno il 20% del costo dell’acquisto.

Il ricorrente, pur avendo dato successivamente conto nella documentazione presentata, di integrare il requisito progettuale di sostanziale trasformazione dell’immobile richiesto dal bando, non lo ha fatto nel termine perentorio di 30 giorni dalla richiesta dell’ufficio istruttore (termine da considerare perentorio, pena il rigetto della domanda) ma in un momento successivo e cioè allegandole alle osservazioni al preavviso di rigetto.

Il Tribunale, se pacificamente concorda con le conclusioni prospettate dalla Regione con riferimento al rigetto della domanda in assenza di un intervento di sostanziale trasformazione dell’immobile oggetto di acquisto, o comunque relativamente alla presentazione ormai Tardiva della documentazione utile ad attestare tale finalità, sul requisito della ruralità emergente dalla mera collocazione catastale assume un atteggiamento di perplessità, paventando un eccessivo formalismo della Regione e promuovendo, al contrario, una effettiva valutazione della destinazione d’uso del bene. [L. Conte]

  

IN ASSENZA DELLA VERIFICA DELL’INTERESSE CULTURALE NON C’E’ PACE PER L’IMMOBILE “FANTASMA” 
TAR Piemonte, Sez. II – R.G. 1139/2014– sent. del 18 settembre 2019 – 1 ottobre 2019, n. 1025,
Pres. Ravasio, Est. Cattaneo 
[Congregazione delle Piccole Suore Missionarie della Carità – Don Orione c. Regione Piemonte]

 

La Congregazione ricorre per l’annullamento della nota con cui il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo – Direzione Regionale per i beni culturali e paesaggistici del Piemonte rilevava che con riferimento ad un immobile facente parte di un più ampio compendio denominato “Cascina Palazzotto” (rientrante tra gli immobili sottoposti a tutela ai sensi dell’art. 12, comma 1, del d. lgs. n. 42/2004), appartenuto alla Congregazione ricorrente, da essa alienato nel 1995 al Comune di Curone e dalla stessa riacquistato nel 2007, non si era in grado di dichiarare la sussistenza o meno dell’interesse culturale dell’immobile in oggetto al momento della vendita.

La valutazione della sussistenza o meno dell’interesse culturale dell’immobile risulta determinante per stabilire se i due atti di vendita aventi ad oggetto lo stesso debbano considerarsi nulli perché effettuati in violazione del combinato disposto degli artt.12, comma 1, 54, comma 2, lett. a), 55, comma 2 e 164 del d.lgs. n. 42/2004, oppure se debbano ritenersi sanati con autorizzazione ex post.

Stante l’avvenuto crollo dell’immobile, risulta tuttavia impossibile procedere ad una ricognizione materiale del bene per stabilire o meno la presenza dell’interesse culturale ai sensi degli artt. 10 e ss. del d.lgs. n. 40 del 2004.

Il ricorso è dunque ritenuto dal Tribunale inammissibile per carenza di interesse. La situazione di incertezza riguardante la proprietà dell’immobile non si origina infatti dalla impossibilità – stante l’avvenuto crollo – di determinare ex post l’interesse culturale, quanto piuttosto dalla presunzione di interesse contenuta all’art. 12 del d.lgs. n. 42/2004 e dal fatto che l’immobile sia crollato prima della effettuazione del procedimento di verifica L’intervenuta verifica dell’interesse culturale costituisce infatti la base logica e giuridica per procedere alla concessione ex post ed in sanatoria della autorizzazione al trasferimento del bene, quando anche questo non fosse più esistente. [L. Conte]

 

APPALTI 

 

OBBLIGO DI INDICAZIONE DEI COSTI DELLA MANODOPERA PER LE FORNITURE CON POSA IN OPERA 
TAR Piemonte, Sez. I – R.G. 190/2019 – sent. del 25 luglio 2019, n. 843,
Pres. Picone, Est. Patelli 
[Beckman Coulter c. ASL TO3 Collegno e Pinerolo]

 

Con la presente sentenza, il TAR Piemonte si è espresso in merito al ricorso presentato dalla società Beckman Coulter avverso il provvedimento dell’ASL TO3 Collegno e Pinerolo con cui è stata aggiudicata alla società Eos s.r.l. la gara per la fornitura in service di sistemi per la gestione della fase preanalitica e di preparazione di provette occorrenti alle aziende ASL Città di Torino, ASL TO3, ASL TO4, ASL TO5, A.O. Mauriziano, A.O.U. San Luigi.

La ricorrente Beckman ritiene che la contro-interessata (ed aggiudicataria) Eos avrebbe dovuto essere esclusa dalla procedura de qua in ragione della mancata indicazione nella propria offerta economica dei costi della manodopera per la fornitura in questione. La società Eos s.r.l. ritiene per contro che in questo caso non sussisterebbe l’obbligo d’indicazione dei costi della manodopera (previsto dall’art. 95 comma 10 del d.lgs. 50/2016) in quanto trattasi di forniture senza posa in opera, corredata soltanto servizi di natura intellettuale.

In via preliminare, il TAR ha verificato la natura della fornitura oggetto di affidamento, ribadendo i principi espressi dalla recente pronuncia del TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, del 19 luglio 2019, n. 1680 in cui è stato chiarito che la fornitura con posa in opera presuppone un’attività ulteriore e accessoria rispetto alla consegna del bene, finalizzata alla messa in funzione dello stesso. Nel caso di specie oltre alla locazione operativa delle apparecchiature mediche e alla fornitura di materiale di consumo il disciplinare di gara prevedeva l’installazione delle apparecchiature stesse e la configurazione del software di utilizzo. Per i giudici piemontesi tali circostanze rendono la prestazione oggetto di gara qualificabile come fornitura con posa in opera a nulla rilevando il valore delle prestazioni c.d. “secondarie”. In virtù di tali ragionamenti gli operatori economici partecipanti alla procedura erano obbligati a indicare i costi della manodopera i quali costituiscono elemento essenziale dell’offerta, sicché la loro mancata indicazione rende incompleta l’offerta stessa che non può essere sanata mediante soccorso istruttorio.

L’irregolarità derivante dalla manca indicazione dei costi della manodopera può essere – eccezionalmente – sanata soltanto nel caso in cui i documenti di gara non ne rendano possibile l’indicazione specifica e ciò al fine di rispettare i principi di trasparenza e proporzionalità (in tal senso v. Corte di Giustizia Europea sentenza n. 309/2019). Tuttavia tale evenienza non ricorre nel caso di specie, pertanto il TAR ha accolto il ricorso presentato dalla Beckman Coulter annullando l’aggiudicazione disposta in favore della Eos s.r.l. e prevedendo il subentro della ricorrente nel contratto a partire dal 1 settembre 2019. [G. Odino]

 

 

LEGITTIMITA’ DELLA CLAUSOLA TERRITORIALE PREVISTA COME CONDIZIONE DI ESECUZIONE DELLA PRESTAZIONE 
TAR Piemonte, Sez. I – R.G. 23/2019 – sent. del 16 luglio 2019, n. 811,
Pres. Picone, Est. Patelli 
[Abramo Customer Care s.p.a c. Soris s.p.a.]

 

Il TAR Piemonte ha respinto il ricorso presentato dalla società Abramo Customer Care s.p.a. avverso il provvedimento di esclusione emanato dalla stazione appaltante Soris s.p.a. nell’ambito della gara per l’affidamento dei servizi di contact center a favore dei soggetti tenuti al pagamento dei tributi locali riscossi dalla medesima Soris s.p.a. Nel caso di specie la società ricorrente non ha indicato in sede di offerta la propria disponibilità a dotarsi – per l’esecuzione di parte del servizio oggetto di gara – di una sede operativa nel territorio della città metropolitana di Torino e nemmeno ha provveduto a integrare la propria offerta a seguito del soccorso istruttorio avviato dalla Soris s.p.a., venendo così esclusa dalla procedura in oggetto. Con il proprio riscorso la società Abramo Customer Care s.p.a. lamenta l’illegittimità del provvedimento di esclusione in quanto trae origine da una (altrettanto) illegittima clausola di territorialità prevista nel bando di gara. Secondo la ricorrente la richiesta di dotarsi di una sede ubicata nel territorio in cui deve essere realizzato il servizio di contact center introdurrebbe una causa di esclusione non prevista dalla legge in contrasto con i principi di concorrenza e massima partecipazione.

Nel decidere la controversia, il TAR ribadisce che la legittimità della c.d. “clausola di territorialità” deve essere valutata caso per caso, tenendo conto anche delle caratteristiche della prestazione oggetto di affidamento. Nel caso di specie il disciplinare di gara richiedeva agli offerenti di manifestare – al momento di presentazione della domanda – l’impegno a dotarsi, in caso di aggiudicazione, di una sede operativa nel territorio della città metropolitana di Torino. Sicché detta clausola non rappresenta un requisito di partecipazione alla procedura bensì stabilisce uno dei requisiti di esecuzione della prestazione oggetto di gara, in ordine ai quali l’amministrazione che indice la procedura gode di ampia discrezionalità.

Quindi, ad avviso del TAR, la clausola di territorialità posta dal disciplinare di gara come condizione di esecuzione del contratto – letta tenendo in considerazione anche le peculiarità del servizio oggetto di affidamento – non lede i principi di concorrenza e massima partecipazione “in quanto consente all’impresa di organizzarsi all’esito della vittoriosa partecipazione”, senza obbligarla a sostenere anzitempo gli oneri per l’esecuzione del servizio. [G. Odino]

 

 

IL PECULIARE SISTEMA DI ACCREDITAMENTO SA:8000 
TAR Piemonte, Sez. II – R.G. 443/2019 – sent. del 5 giugno 2019, n. 665,
Pres. ed Est. Testori 
[Elite Ecobuilding s.r.l. c. Comune di Cuneo] 

 

Il TAR Piemonte ha respinto il ricorso della Elite Ecobuilding s.r.l. presentato avverso la determinazione dirigenziale n. 426 del 22 marzo 2019 del Comune di Comune di Cuneo con cui è stata aggiudicata alla società Palaser s.r.l. la procedura di affidamento dei lavori di riqualificazione con efficientamento energetico della scuola primaria “G. Rodari” in frazione Madonna dell’Olmo.

La pronuncia che si annota risulta particolarmente interessante in quanto rappresenta una delle pochissime sentenze che si esprimono in tema di certificazioni di qualità in materia sociale.

Nella fattispecie la società ricorrente deduceva l’illegittimità del provvedimento di aggiudicazione poiché la stazione appaltante avrebbe assegnato, in sede di valutazione delle offerte, un punteggio erroneo all’aggiudicataria per il possesso di una certificazione in materia di social accountability SA:8000 rilasciata da un ente non accreditato a fornire tale tipologia di attestazione.

Secondo il TAR Piemonte la tesi espressa dalla ricorrente non può essere condivisa. La certificazione SA:8000 rappresenta infatti una sorta di “unicum” nel panorama delle certificazioni di qualità, trattandosi di un sistema di qualificazione facente capo ad un organismo privato americano (SAAS) e dunque sottratto alla disciplina di accreditamento dettata dal Regolamento UE n. 765/2008 (recante “norme in materia di accreditamento e vigilanza del mercato per quanto riguarda la commercializzazione dei prodotti”). Inoltre secondo il Collegio non può ritenersi che la validità della certificazione SA:8000 sia subordinata alla circostanza che l’ente certificatore sia accreditato dal SAAS.

Alla luce di queste considerazioni il TAR ha ritenuto che il Comune di Cuneo non avesse alcun obbligo di reputare idonee soltanto le certificazioni SA:8000 rilasciate da enti accreditati dall’organismo americano SAAS e ha pertanto ritenuto valida e legittima l’aggiudicazione disposta in favore della società Palaser s.r.l. Tuttavia, occorre precisare che i giudici hanno sottolineato che questo sistema di certificazione in materia di social accountability SA:8000 proprio in virtù dell’assenza di un sistema di accreditamento degli enti certificatori possa portare alla formazione di attestazioni false in grado di ledere la concorrenza sul mercato e di indurre in errore le stesse stazioni appaltanti che le richiedono. [G. Odino]

 

I FATTI PENALI IN CORSO DI ACCERTAMENTO COSTITUISCONO “MEZZI ADEGUATI” PER VALUTARE LA PROFESSIONALITA’ DI UN OPERATORE ECONOMICO 
TAR Piemonte, Sez. I – R.G. 185/2019 – sent. del 23 agosto 2019, n. 959,
Pres. ed Est. Picone 
[Teknoservice s.r.l. c. Consorzio Rifiuti Covar 14] 

 

Il TAR Piemonte ha accolto il ricorso promosso dalla società Teknoservice s.r.l.nei confronti del Consorzio Rifiuti Covar 14 per l’ottemperanza della sentenza del TAR Piemonte, sez. I, n. 119 del 2018, confermata in appello dalla sentenza del Consiglio di Stato, sez. V, n. 5142 del 2018. In particolare, il Collegio ha annullato le determine n. 22 del 22.1.2019 e n. 35 del 5.2.2019 con cui il Consorzio aveva confermato nuovamente l’aggiudicazione al r.t.i. del servizio di igiene urbana per la durata di sette anni, in aperto contrasto con quanto statuito nelle sentenze di cui si chiede l’ottemperanza.

Infatti con la sentenza n. 119 del 2018 lo stesso TAR Piemonte aveva rilevato che il raggruppamento di imprese aggiudicatario aveva omesso di dichiarare in sede di partecipazione alla gara indetta dal Consorzio Covar 14 per l’affidamento del servizio di igiene urbana, le vicende giudiziarie penali relative ai componenti degli organi di vertice del r.t.i. stesso. In particolare secondo il TAR l’omessa menzione delle condotte penalmente rilevanti, anche se in corso di accertamento e non ancora sanzionate da una pronuncia di condanna, costituisce di per sé un grave errore professionale.

In tal senso il Collegio ha richiamato il principio per cui se un pregresso errore professionale può ricavarsi da una risoluzione contrattuale disposta da altra stazione appaltante, a fortiori detto errore può desumersi dai fatti emersi in un giudizio penale, anche se non ancora oggetto di pronuncia passata in giudicato.Secondo i giudici il Consorzio Covar avrebbe quindi dovuto acquisire e valutare con attenzione i provvedimenti con i quali sono state disposte e confermate le misure cautelari nei confronti degli amministratori del r.t.i.

Proprio la mancanza valutazione del rilievo probatorio delle citate vicende penali rende nulli i provvedimenti del Consorzio Rifiuti Covar. Questa conclusione è rafforzata anche dall’orientamento affermatosi nella giurisprudenza UE secondo cui i fatti oggetto di accertamento in un procedimento penale ancora in corso possano essere considerati mezzi adeguati da parte di un’amministrazione aggiudicatrice, per dimostrare che un operatore economico si sia reso responsabile di gravi illeciti professionali. [G. Odino]

 

EDILIZIA & URBANISTICA 

 

TARDIVITÀ DEL RICORSO AVVERSO LA DETERMINA A CONTRARRE IN UN PROGETTO DI RIGENERAZIONE URBANA 
TAR Piemonte, Sez. II – R.G. 547/2019 – sent. del 26 giugno 2019, n. 754,
Pres. Testori, Est. Malanetto 
[E.G. et al. c. Comune di Cuneo]

 

La questione attiene all’impugnazione di una determinazione del Dirigente del Settore Lavori Pubblici e Ambiente avente ad oggetto un intervento per la progettazione, la costruzione e la gestione di un nuovo parcheggio interrato e per la riqualificazione di un’area urbana (piazza), nonché di ogni altro provvedimento connesso, consequenziale e presupposto (tra cui il bando di gara per l’assegnazione dei lavori e il relativo disciplinare) da parte dei ricorrenti, tutti proprietari di immobili prospicenti la piazza interessata dall’intervento.

I ricorrenti evidenziano che la delibera della Giunta Comunale con la quale è stato approvato il progetto di fattibilità tecnica ed economica di tale intervento di rigenerazione urbana, consistente in una serie di opere di riqualificazione e di messa in sicurezza dell’area nonché nella realizzazione di un parcheggio interrato, presenterebbe profili di eccesso di potere per travisamento dei fatti e difetto di istruttoria, nonché violazione dell’art. 17 della L.R. Piemonte, 5 dicembre 1977, n. 56, Tutela ed uso del suolo, e delle previsioni del PRGC, in quanto la presunta risistemazione della piazza comporterebbe l’eliminazione di una strada, sopprimendo una porzione di viabilità e richiedendo, quindi, una deliberazione consiliare.

Il Comune, costituito in giudizio, ha eccepito l’irricevibilità e l’inammissibilità del ricorso presentato in quanto avente ad oggetto censure relative a profili squisitamente urbanistici e, dunque, da azionare non avverso gli atti amministrativi di indizione della gara, bensì avverso la delibera di Giunta Comunale dell’anno precedente, ormai cristallizzata, la quale aveva approvato il progetto. Il Collegio si è pronunciato in esito all’udienza cautelare ed ha sostenuto che la conformità urbanistica di un progetto da tempo approvato si caratterizza quale presupposto implicito ed esplicito dell’intero iter di un intervento di rigenerazione urbana e la sola contestazione mossa avverso la determina a contrarre si configura indubbiamente Tardiva. Il ricorso è stato, pertanto, dichiarato irricevibile. [M. Demichelis] 

 

IL DANNO DERIVANTE DALL’AVERE FATTO INCOLPEVOLE AFFIDAMENTO SU UN PROVVEDIMENTO AMMINISTRATIVO SUCCESSIVAMENTE ANNULLATO CORRISPONDE ALLA LESIONE DI UN DIRITTO SOGGETTIVO
TAR Piemonte, Sez. II – R.G. 580/2013 – sent. del 27 luglio 2019, n. 850,
Pres. Testori, Est. Cattaneo
[Conca D’Oro S.r.l. c. Comune di Orta San Giulio]

 

Con il ricorso introduttivo, la Conca D’Oro s.r.l. ha domandato la condanna del Comune di Orta San Giulio al risarcimento del danno che derivatole dall’annullamento del permesso di costruire avente ad oggetto la realizzazione di un complesso alberghiero e dalla successiva revoca del finanziamento pubblico assegnato dalla Regione Piemonte. Con successivo ricorso, la società ha reiterato la richiesta di risarcimento del danno integrando la richiesta risarcitoria della voce di “danno corrispondente ai costi di demolizione”, ove la società sia costretta a dare esecuzione all’ordine demolitorio di tutto il terzo piano.  Il Tribunale ritiene che la controversia abbia ad oggetto la lesione, non già di un interesse legittimo pretensivo, bensì di una situazione di diritto soggettivo, rappresentata dalla conservazione dell’integrità del suo patrimonio, pregiudicato dalle scelte compiute confidando sulla legittimità del provvedimento amministrativo poi caducato (il permesso di costruire) e dalla revoca del finanziamento pubblico assegnato dalla Regione Piemonte. Sulla base di tale esegesi le Sezioni Unite della Corte di Cassazione affermano la sussistenza della giurisdizione del giudice ordinario nelle controversie in cui il privato domandi il risarcimento dei danni subiti per avere fatto incolpevole affidamento su un provvedimento amministrativo ampliativo della propria sfera giudica, successivamente annullato. In conformità a tale interpretazione il ricorso è dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo ed è individuato, quale giudice competente, il giudice ordinario. Sul tema si confronti C. Costituzionale 204/2004; Cons. St., sez. V, 11 gennaio 2018, n. 118 – Pres. Severini, Est. Franconiero. [V. Vaira]

 

CONDOTTE PENALMENTE RILEVANTI E OBBLIGO DI DICHIARAZIONE DELL’OPERATORE ECONOMICO 
TAR Piemonte, Sez. I – R.G. 185/2019 – sent. del 23 agosto 2019, n. 959,
Pres. Picone, Est. Risso 
[Omissis c. Omissis]

 

Con sentenza n. 959 del 2019, il TAR Piemonte accoglieva il ricorso per l’ottemperanza alla sentenza del TAR Piemonte, sez. I, n. 119 del 2018, confermata in appello dalla sentenza del Consiglio di Stato, sez. V, n. 5142 del 2018. La controversia originava dall’impugnazione di parte ricorrente dell’aggiudicazione relativa all’affidamento settennale del servizio di igiene urbana in diciannove comuni, per la mancata esclusione del raggruppamento di imprese aggiudicatario, considerate le asserite violazioni dell’art. 80 del d.lgs. n. 50 del 2016.

Nello specifico, le violazioni riguardavano fatti emersi nel corso di un procedimento penale a carico degli amministratori delle società interessate e la conseguente necessità che le condotte penalmente rilevanti, in fase di accertamento e non ancora colpite da una pronuncia di condanna, fossero dichiarate nel procedimento di gara, essendo elementi rilevanti nel giudizio di affidabilità dell’operatore economico. Secondo il Giudice amministrativo, sussiste, in capo alle imprese concorrenti, l’obbligo di dichiarare tutte le situazioni astrattamente ostative, ai sensi dell’art. 80 del d.lgs. n. 50 del 2016, come confermato dall’orientamento giurisprudenziale secondo cui le stazioni appaltanti “possono porre a base della valutazione della sussistenza dell’elemento fiduciario fatti emersi in un giudizio penale, anche se non ancora oggetto di pronuncia passata in giudicato” (in questi termini, Cons. Stato, sez. V, n. 5818 del 2017).

Nel caso di specie, dunque, i provvedimenti cautelari restrittivi della libertà personale disposti nei confronti degli amministratori delle società avrebbero dovuto essere soggetti ad un obbligo dichiarativo, da adempiere con diligenza professionale. Da ciò deriva, ad avviso del TAR, la nullità dei provvedimenti con i quali era stata confermata l’aggiudicazione del servizio e siffatta conclusione appare rafforzata anche dall’interpretazione affermatasi nella giurisprudenza UE, secondo cui la “nozione di errore nell’esercizio della propria attività professionale comprende qualsiasi comportamento scorretto che incida sulla credibilità professionale dell’operatore economico, con la precisazione che è possibile accertare un errore grave commesso nell’esercizio della propria attività professionale con qualsiasi mezzo di prova, senza che sia richiesta una sentenza passata in giudicato” (CGUE, ord. 4 giugno 2019, C-425/18).  Di tal guisa, secondo il Collegio, appare ormai consolidato il principio per cui i fatti oggetto di accertamento in un procedimento penale, sebbene ancora in corso di svolgimento, possano essere considerati “mezzi adeguati” utilizzati dall’amministrazione aggiudicatrice, per dimostrare che l’operatore economico non sia affidabile e, al riguardo, “non è richiesto che gli illeciti professionali posti a fondamento dell’esclusione del concorrente dalla gara siano stati accertati con sentenza, anche non definitiva, essendo infatti sufficiente che gli stessi siano ricavabili da altri gravi indizi” (Cons. Stato, sez. V, n. 1367 del 2019; TAR Lombardia, Milano, sez. I, n. 1120 del 2019). [S. Matarazzo]

  

RAPPORTO CONCESSORIO TRA DIRITTO DI “INSISTENZA” E PROCEDIMENTO DI EVIDENZA PUBBLICA
TAR Piemonte, Sez. II – R.G. 910/2018 – sent. del 14 maggio 2019, n. 588,
Pres. Testori, Est. Malanetto 
[Camping Holiday Inn s.r.l. c. Unione dei comuni collinari del Vergante]

La società Camping Holiday Inn s.r.l., titolare di concessione demaniale idrico-lacuale per lo svolgimento di attività di campeggio turistico, proponeva ricorso contro l’Unione di Comuni collinari del Vergante (NO), per ottenere l’annullamento del provvedimento con cui era stata negata la proroga della concessione e il conseguente accertamento del diritto a vedersi riconosciuto il rinnovo della concessione. Nello specifico, sotto scadenza, la società aveva chiesto all’Unione il rinnovo della concessione demaniale o, in alternativa, il suo prolungamento, al fine di ammortizzare gli investimenti effettuati, in considerazione delle ripercussioni negative subite a causa delle contingenze climatiche, della inefficiente manutenzione dei luoghi, oltre che dei ritardi nei pagamenti del canone. Di contro, l’Amministrazione aveva opposto diniego, stante l’esigenza di provvedere al nuovo affidamento previa procedura ad evidenza pubblica.

Vertendo le argomentazioni di parte ricorrente su aspetti interni del rapporto concessorio, non incidendo sulla presunta esistenza di un diritto al rinnovo del rapporto contrattuale, il Giudice amministrativo conclude per l’infondatezza del ricorso.  Sul punto, il Collegio sottolinea, invero, come i rapporti concessori si caratterizzino per l’accollamento, in capo al privato, del rischio dell’attività svolta, pertanto, gli eventuali squilibri assumono rilievo al fine dell’esperimento dei tradizionali rimedi contrattuali, ma non conducono al riconoscimento di un presunto diritto ad ottenere proroghe o rinnovi, vigendo nella materia dei contratti pubblici il principio della procedura ad evidenza pubblica. Del resto, il tema del rinnovo delle concessioni demaniali è una problematica su cui il nostro Paese è stato più volte sanzionato in sede europea, in quanto i rinnovi automatici di concessioni demaniali, senza confronto concorrenziale, comportano una palese violazione del principio unionale della concorrenza. In proposito, il TAR richiama la giurisprudenza CGUE, secondo cui risulta incompatibile con il diritto unionale la previsione di meccanismi di proroga/rinnovo automatico, meccanismi che sono infatti stati espunti, nel nostro ordinamento, dal Codice della navigazione. In conclusione, respingendo il ricorso, il TAR sostiene le ragioni del diniego opposto dall’amministrazione, non sussistendo alcun diritto di “insistenza”, sia in riferimento al rinnovo che all’eventuale concessione migliorativa, entrambi presupponenti l’imprescindibile confronto concorrenziale. [S. Matarazzo]

 

PROVVEDIMENTO DI ACQUISIZIONE SANANTE E DISCREZIONALITA’ AMMINISTRATIVA 
TAR Piemonte, Sez. II – R.G. 95/2019 – sent. del 4 luglio 2019, n. 783,
Pres. Testori, Est. Limongelli 
[S. e R. c. Comune di Casaleggio Novara]

Nel caso esaminato, parti ricorrenti chiedevano al TAR Piemonte l’accoglimento della declaratoria dell’obbligo, in capo al Comune resistente, di avviare un procedimento di acquisizione sanante ai sensi dell’art. 42 bis del D.P.R. 327/2001, per l’occupazione illegittima di una porzione di terreno edificabile adibito a via comunale, con richiesta di conseguente condanna alla corresponsione dell’indennità di occupazione, oltre che il riconoscimento di risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale per il mancato utilizzo.

Di fronte a tale occupazione illegittima, che aveva già originato in passato un contenzioso civile, il Comune aveva manifestato l’intenzione di acquisire la suddetta strada al proprio patrimonio, notificando ai ricorrenti apposita comunicazione di avvio del procedimento di esproprio. Tuttavia, tale comunicazione non aveva avuto alcun seguito e, in occasione di una variante al piano regolatore generale, la strada era stata qualificata impropriamente come “comunale”, nonostante non fosse intervenuto il titolo ablativo. Le successive diffide, affinché l’Amministrazione comunale procedesse con l’adozione del provvedimento di acquisizione sanante, non avevano trovato alcun riscontro, pertanto, le ricorrenti invocavano l’avvenuta formazione del silenzio inadempimento.

Il TAR Piemonte, nel ritenere il ricorso fondato, richiama la costante giurisprudenza secondo cui il rimedio di cui agli artt. 31 e 117 c.p.a. è ammissibile per reagire all’inerzia della pubblica Amministrazione su un’istanza di acquisizione c.d. sanante, con la precisazione che in virtù dell’art. 31, comma 3, c.p.a. il giudice non può però ordinare l’emanazione del provvedimento, ma solo di avviare e concludere il procedimento, venendo in rilievo un’attività connotata da ampi margini di discrezionalità (in tal senso, TAR Latina, sez. I, 16 marzo 2018 n. 121; TAR Napoli, sez. V, 25 settembre 2018 n. 5593). Al riguardo, pur mancando un termine legale di conclusione del procedimento di cui si tratta, il Collegio afferma come non sia applicabile quello residuale di trenta giorni previsto all’art. 2 della legge 241 del 90, “considerata la peculiarità e l’oggettiva complessità delle valutazioni demandate all’Amministrazione”.

Nel caso di specie, secondo il TAR Piemonte, a seguito della diffida notificata dalle ricorrenti si era creato un legittimo affidamento sull’ottenimento di una risposta espressa da parte dell’Amministrazione, sulla scelta tra acquisizione della porzione di terreno o relativa restituzione. Il Collegio attribuisce dunque al Comune il termine di novanta giorni dalla pubblicazione della sentenza per avviare e concludere, mediante provvedimento espresso, il procedimento di acquisizione sanante, “restando peraltro libera l’Amministrazione di decidere discrezionalmente di accogliere l’istanza ovvero di respingerla”. Afferma infine l’inammissibilità della domanda di condanna al pagamento delle indennità e del risarcimento del danno previsti dall’art. 42 bis del d.p.r. 327/2001, essendo la decisione di acquisire la proprietà del bene espressione di discrezionalità della p.a., posta in alternativa alla restituzione, in quanto “il g.a. non può condannare direttamente in sede di cognizione l’Amministrazione ad adottare tout court il provvedimento di acquisizione ex art. 42 bis T.U. espropriazioni (d.P.R. n. 327/2001); vi si oppongono, da un lato, il principio fondamentale di separazione dei poteri (e della riserva di Amministrazione) su cui è costruito il sistema costituzionale della giustizia amministrativa, dall’altro, uno dei suoi più importanti corollari processuali consistente nella tassatività ed eccezionalità dei casi di giurisdizione di merito sanciti dall’art. 134 c.p.a.” (così, TAR Napoli, sez. V, 8 ottobre 2018 n. 5820). [S. Matarazzo] 

 

MUTAMENTO DI DESTINZIONE D’USO E ONERI DI URBANIZZAZIONE 
TAR Piemonte, Sez. II – R.G. 32/2019 – sent. del 14 giugno 2019, n. 687,
Pres. Testori, Est. Limongelli 
[C. c. Comune di Villastellone]

Nel caso esaminato, la ricorrente –  proprietaria di un fabbricato ad uso abitativo sito in zona agricola – aveva chiesto all’amministrazione comunale il rilascio del permesso di costruire per la realizzazione di lavori di restauro e di risanamento conservativo del fabbricato.

Con due distinti provvedimenti, il Comune aveva manifestato l’assenso al rilascio del titolo, subordinandolo tuttavia al pagamento di un importo comprensivo di oneri di urbanizzazione e di costo di costruzione, in applicazione delle disposizioni di cui alla legge regionale 56/1977 e del regolamento edilizio comunale. Secondo l’amministrazione, gli interventi edilizi menzionati avrebbero infatti comportato una modifica della destinazione d’uso dell’immobile da rurale a residenziale, giustificando la corresponsione dell’importo.

La ricorrente, impugnando i predetti provvedimenti, ne chiedeva invece l’annullamento, previo accertamento della relativa gratuità. In particolare, quest’ultima affermava l’insussistenza del mutamento di destinazione d’uso e quindi il mancato assoggettamento al contributo di costruzione, essendo stato l’edificio in questione costruito prima dell’entrata in vigore della legge 10/1977 e non avendo quindi beneficiato del regime derogatorio di esenzione ivi previsto, bensì del regime ordinario di gratuità allora vigente per le edificazioni abitative.

Parte ricorrente, inoltre, richiamando la giurisprudenza in materia, sosteneva come il pagamento degli oneri di urbanizzazione fosse dovuto solo in caso di aumento del carico urbanistico conseguente all’intervento di ristrutturazione edilizia, circostanza non verificatasi nel caso di specie, trattandosi di mero restauro e risanamento, senza aumento di volumi, né superfici. Il giudice amministrativo accoglie il ricorso, confermando come sotto la vigenza della legge urbanistica 1150/1942 e prima dell’entrata in vigore della legge 10 del 1977, il rilascio della concessione edilizia non era soggetto al pagamento di oneri, in virtù di un regime ordinario applicabile a tutte le concessioni edilizie.

Soltanto con l’entrata in vigore della legge 10 del 1977, ricorda il TAR, è stato introdotto il principio dell’onerosità della concessione edilizia, con alcune deroghe previste all’art. 9 secondo cui il contributo di concessione non è dovuto, tra l’altro, “a) “per le opere da realizzare nelle zone agricole, ivi comprese le residenze, in funzione della conduzione del fondo e delle esigenze dell’imprenditore agricolo a titolo principale, ai sensi dell’art. 12 L. 9 maggio 1975, n. 153”. Tale disposizione trova fondamento non nel minore carico urbanistico discendente da una abitazione di tipo rurale rispetto ad una abitazione di tipo civile, quanto nella volontà del legislatore di incentivare le attività imprenditoriali agricole, esonerando dal pagamento di contributi l’imprenditore agricolo che stabilisce la propria abitazione nei pressi della sua azienda.

L’esenzione dal contributo di concessione per la costruzione di residenze rurali da parte di imprenditori agricoli è contenuto anche nella legislazione urbanistica regionale, in particolare all’art. 25 della l.r. n. 56/1977, che ha previsto altresì l’obbligo di presentare all’amministrazione comunale un “atto di impegno al mantenimento della destinazione dell’immobile a servizio dell’attività agricola”, stabilendo inoltre che in caso di cessazione dell’attività agricola “è consentito il mutamento di destinazione d’uso, previa domanda e con il pagamento degli oneri relativi”, con decadenza ex lege dal beneficio prima ottenuto.

Da un lato, dunque, vengono in rilievo le residenze rurali realizzate a seguito della legge 10/1977 per le quali il passaggio dall’utilizzo rurale all’utilizzo civile comporta una modificazione della destinazione d’uso con la decadenza dal beneficio dell’esenzione; dall’altro, le residenze rurali costruite prima dell’entrata in vigore della legge 10/1977 per le quali, in caso di passaggio da un utilizzo all’altro, non si configura modifica della destinazione d’uso giuridicamente rilevante, poiché il titolo abilitativo quando rilasciato autorizzava entrambi gli utilizzi, concedendo il beneficio della gratuità, in modo generalizzato. E il caso esaminato, essendo stato il fabbricato edificato prima della legge 10/1977, rientra in quest’ultima categoria.

A ciò deve aggiungersi che il passaggio da una destinazione d’uso all’altra non aveva neanche determinato, nel caso analizzato, aumento del carico urbanistico, essendo un intervento di carattere conservativo delle parti già abitative del fabbricato, senza incremento di volumi o superfici. L’amministrazione comunale, afferma il TAR, aveva invece erroneamente applicato la disciplina urbanistica introdotta dalla legge 10/1977 e quella regionale successiva (l.r. 56/77 e l.r. 19/99), ad un immobile costruito in data precedente e quindi rientrante nell’ ambito di applicazione della legge legge 1150/1942, che non distingueva tra tipologie di residenze, né prevedeva conseguenze in caso di mutamento di destinazione d’uso, vigendo un regime generalizzato di gratuità di tutti i titoli edilizi. Pertanto, previa disapplicazione della norma contenuta nel regolamento edilizio del Comune di Villastellone, il Collegio conclude per l’accoglimento del ricorso, con il conseguente annullamento degli atti impugnati da parte ricorrente e l’accertamento della mancata soggezione a contributo di costruzione dell’intervento di restauro e di risanamento considerato. [S. Matarazzo] 

 

LA DISCIPLINA DELLA REVOCA È INAPPLICABILE AL PROJECT FINANCING 
TAR Piemonte, Sez. II – R.G. 1184/2017 – sent. del 20 giugno 2019, n. 729,
Pres. Testori, Est. Cattaneo 
[Ad Progetti S.r.l. c. Comune di Vercelli]

 Con sentenza n. 729 del 2019, il TAR Piemonte si è pronunciato sulla revoca di una dichiarazione di pubblico interesse. In particolare, la società ricorrente aveva formulato all’Amministrazione comunale una proposta per la realizzazione, in project financing, di un tempio crematorio presso il cimitero comunale. Con apposita deliberazione, la giunta comunale aveva ritenuto l’istanza di pubblico interesse e, per conseguenza, il menzionato intervento era stato inserito nella programmazione triennale dei lavori pubblici dell’ente comunale. A seguito di una mozione presentata dal consiglio comunale, tuttavia, si procedeva allo stralcio dell’opera dal piano triennale dei lavori pubblici e alla revoca, da parte della giunta comunale, della precedente deliberazione concernente la dichiarazione di pubblico interesse, non risultando più l’opera rispondente all’interesse pubblico “perché inquinante, potenzialmente dannosa per la salute dei cittadini e non necessaria stante l’adeguatezza degli impianti già presenti sul territorio”.

Nel risolvere il caso di specie, il giudice amministrativo evidenzia la differenza sussistente tra l’istituto dell’annullamento d’ufficio di cui all’art. 21-nonies della legge 241 del 90 e quello della revoca (art. 21-quinquies), in quanto quest’ultimo rimedio “non attribuisce rilievo né al rispetto di un termine ragionevole né all’affidamento del privato”.

Pertanto, il termine previsto per esercitare l’annullamento d’ufficio non trova applicazione quando interviene un provvedimento di revoca, inoltre, il TAR ritiene non fondata la censura sollevata da parte ricorrente concernente la violazione dell’art. 21-quinquies, per la mancata corresponsione di un indennizzo. In proposito, sottolinea come l’obbligo della pubblica Amministrazione di corrispondere l’indennizzo per ristorare il privato dai pregiudizi subiti dalla revoca riguardi esclusivamente i provvedimenti ad efficacia durevole, tra i quali non rientra la fattispecie esaminata, in cui era venuto in rilievo soltanto la dichiarazione di pubblico interesse (ex multis, Cons. Stato, sez. V, 4 febbraio 2019, n. 820). Ancora, a sostegno delle proprie argomentazioni, il Collegio richiama l’orientamento giurisprudenziale secondo cui la disciplina della revoca risulti inapplicabile al “project financing”, stante il regime speciale contenuto all’art. 153, comma 19, del d.lgs. 163 del 2006, ora trasfuso all’art. 183, commi 12 e 15, del d.lgs. 50/2016 (in questo senso, a titolo esemplificativo, TAR Napoli, sez. II, 15 gennaio 2019, n. 218 e TAR Lazio, Roma, sez. II, 25 ottobre 2017, n. 10695).

Inoltre, secondo il TAR, non può trovare accoglimento nemmeno la pretesa risarcitoria basata sul riferimento all’art. 158 del d.lgs. n. 163/2006, poiché la menzionata previsione concerne la risoluzione per inadempimento e la revoca della concessione per motivi di pubblico interesse mentre, nel caso di specie, non era stata stipulata alcuna concessione. Concludendo, neanche la censura in merito alla violazione del dovere di correttezza di cui all’art. 1173 del c.c., con l’asserita responsabilità precontrattuale dell’Amministrazione, può secondo il giudice ritenersi fondata, invero, “non può giungersi alla conclusione che ogni esercizio di revoca comporti di per sé una violazione di tali doveri, trattandosi di un potere previsto dalla legge”. [S. Matarazzo]

 

ENTI LOCALI 

 

LEGITTIMAZIONE ED INTERESSE AD IMPUGNARE ATTI DI PIANIFICAZIONE GENERALE COMUNALE 
TAR Piemonte, Sez. II – R.G. 787/2012 – sent. del 26 giugno 2019, n. 798
Pres. Testori, Est. Limongelli 
[M.R. et al. c. Comune di Ciriè]

 

I ricorrenti nel caso di specie sono una serie di privati cittadini, tutti residenti nel Comune di Ciriè e proprietari di terreni siti per la maggior parte nella zona agricola del PRGC vigente. Tali soggetti hanno impugnato la delibera consiliare comunale con la quale è stato adottato il progetto definitivo del nuovo PRGC (ex art. 15, L.R. Piemonte, 5 dicembre 1977, n. 56, Tutela ed uso del suolo), nonché tutti gli atti ad essa presupposti.

Le censure sollevate dai ricorrenti sono riassumibili in cinque motivi di ricorso tutti inerenti l’illogicità e l’irragionevolezza delle scelte di fondo dell’amministrazione comunale relative all’incremento, con l’adozione del nuovo piano, della capacità insediativa residenziale. Tale aumento pare causare un irragionevole consumo di suolo agricolo e pare porsi, quindi, in logiche commerciali e speculative prevalenti rispetto a quelle urbanistiche, in violazione sia dell’art. 20 della L.R. Piemonte n. 56/1977 sia dei criteri di pianificazione individuati dalla Regione stessa, consistenti nell’evitare le criticità della pianificazione dal punto di vista della dispersione dell’urbanizzato e della frammentazione del territorio.

Inoltre, sono stati rilevati dai ricorrenti ulteriori vizi procedurali, inerenti la mancata conclusione della VAS e la non ripubblicazione del Piano in seguito alla sua modifica per l’accoglimento di talune osservazioni ricevute. Il Comune, costituito in giudizio, ha resistito al gravame e, a seguito di ulteriori censure da parte dei ricorrenti e della memoria difensiva presentata dal Comune, la quale eccepiva preliminarmente l’inammissibilità del ricorso per carenza di interesse concreto nonché, nel merito, l’infondatezza del ricorso stesso, il Collegio ha trattenuto la causa in decisione.

In particolare, è stato affermato dai Giudici che, secondo consolidati principi giurisprudenziali, la legittimazione e l’interesse ad impugnare gli atti di pianificazione generale per garantirne la correttezza e assicurare il rispetto delle norme e dei principi dell’ordinamento sono sufficienti se i ricorrenti documentano di risiedere sul territorio e di essere titolari di diritti reali su immobili ivi ubicati (TAR Liguria – Genova, sez. I, 14 novembre 2013, n. 1404).

In riferimento al merito della questione, il Collegio stabilisce che, come accaduto in fattispecie analoga, il provvedimento regionale di approvazione degli atti di pianificazione va annullato qualora si rilevino difetto e contraddittorietà rispetto al comportamento tenuto dall’ente che, nel caso cui ci si riferisce, aveva, in un primo momento, formulato rilievi critici e richiesto modifiche al piano adottato ma, successivamente, lo aveva approvato nonostante il Comune avesse ignorato entrambi (TAR Piemonte -Torino, sez. I, 21 febbraio 2014, n. 327). [M. Demichelis]

 

I PRINCIPI DI PRECAUZIONE E SVILUPPO SOSTENIBILE GIUSTIFICANO LA LIMITAZIONE DELLA LIBERTA’ DI LOCOMOZIONE E IL DIRITTO DI RECARSI AL LAVORO CON LA PROPRIA AUTOVETTURA 
TAR Piemonte, Sez. I – R.G. 1091/2018 – sent. del 25 luglio 2019, n.838,
Pres. Picone, Est. Perilli 
[OMISSIS c. Città metropolitana di Torino; Regione Piemonte; Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare]

 

Il TAR Piemonte respinge l’impugnazione dell’ordinanza sindacale con cui, in attuazione del Nuovo accordo di programma per l’adozione coordinata e congiunta di misure per il miglioramento della qualità dell’aria nel bacino padano[1], il Comune di OMISSIS ha adottato misure provvisorie di limitazione del traffico veicolare, finalizzate alla riduzione delle emissioni delle sostanze inquinanti nell’atmosfera. L’ordinanza de qua è stata adottata invocando i poteri straordinari che l’articolo 50, comma 5, T.U.E.L. (d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267), attribuisce al Sindaco in relazione all’urgente necessità di interventi a carattere locale volti a superare situazioni di degrado dell’ambiente potenzialmente dannose per la salute collettiva; necessità che nel caso di specie pare giustificata dal risultato dei rilevamenti effettuati dall’A.R.P.A. Piemonte, che documentano il superamento del valore limite della concentrazione del particolato MP10 nel territorio comunale interessato.

L’atto è impugnato, unitamente agli atti presupposti in esso richiamati, nella parte in cui dispone il temporaneo divieto di circolazione veicolare nel centro abitato dalle ore 8.00 alle 19.00 per i veicoli adibiti al trasporto di persone (categoria M1) dotati di motore diesel con omologazione uguale a Euro 1, 2, 3 e 4. I ricorrenti ritengono che le limitazioni temporanee alla circolazione veicolare ledano il diritto di circolazione, il diritto al lavoro, il diritto allo studio, ed altri diritti della personalità, denunziando inoltre un effetto sostanzialmente espropriativo dell’automobile loro intestata che violerebbe il loro diritto di proprietà.

Il TAR Piemonte applica il principio espresso dalla Corte costituzionale nella sentenza 19 luglio 1996, n. 264, secondo cui la libera circolazione non si identifica con la libertà assoluta di circolare su tutte le strade con il mezzo privato. Tanto premesso, il Collegio specifica che l’emanazione di accordi di programma comportanti una bilanciamento dei diritti fondamentali allo scopo di riportare il valore delle emissioni delle sostanze inquinanti entro i limiti per le concentrazioni nell’aria trova il suo fondamento normativo nell’art. 9, comma 1, del d.lgs. 13 agosto 2010, n. 155, che autorizza le Regioni e le Province autonome ad adottare un piano contenente le misure necessarie ad agire sulle principali sorgenti di emissione a fronte del superamento del livello degli inquinanti.

Quanto all’ordinanza sindacale oggetto di impugnazione, dall’esame sistematico delle disposizioni adottate in attuazione del predetto accordo emerge che, oltre all’obiettivo ambientale finalizzato alla riduzione delle emissioni, con il divieto di circolazione veicolare l’amministrazione comunale ha inteso perseguire anche il fine – mediato – di incentivare l’utilizzo del trasporto pubblico e di promuovere la cultura del trasporto sostenibile, così come confermato dalle deroghe al divieto di circolazione previste per i veicoli della categoria M1 adibiti a servizi di trasporto pubblico, per i taxi di turno, per gli autoveicoli in servizio di noleggio, con o senza conducente, per i veicoli del trasporto condiviso (car sharing) e del co-vetturaggio (car pooling). Pertanto, il Collegio, in aderenza alla giurisprudenza prevalente del Consiglio di Stato (ex multis, Sezione V, 4 maggio 2017, n. 2031), osserva che una parziale e temporanea limitazione della libertà di circolazione deve ritenersi giustificata quando discende dall’esigenza di tutelare il valore dell’ambiente. A tale proposito, il principio di precauzione è da intendersi quale principio di sviluppo le cui finalità preventive giustificano la sua valenza generale e trasversale in un particolare settore per la tutela non soltanto di singoli beni giuridici, ma del più generale valore dell’ambiente, funzionale alla tutela del benessere e della salute della collettività. Tale principio, unitamente a quello di sviluppo sostenibile, giustifica la limitazione di diritti fondamentali quali la libertà di locomozione, il diritto di recarsi al lavoro con la propria autovettura ed alle diverse attività ricreative nei luoghi e negli orari prescelti, laddove la riduzione delle sostanze inquinanti dell’aria sia connotata da un innegabile vantaggio per la saluta collettiva.

Il Consiglio specifica, inoltre, che il principio di precauzione non onera l’amministrazione di fornire la prova della sicura efficienza causale delle misure temporanee adottate ai fini della riduzione delle emissioni. Al contrario, esso impone di intervenire anche ove non vi sia l’accertamento causale dell’effetto inquinante secondo il paradigma del “più probabile che non”. Ciò consente di presumere il pericolo per il bene della salute e per il valore dell’ambiente a fronte del mero superamento delle soglie limite, a prescindere dalla valutazione delle concause. D’altronde l’applicazione del corollario causalistico ceteris paribus finirebbe per frustrare l’esigenza preventiva sottesa al contenimento dei livelli delle polveri sottili nell’aria ed alla realizzazione dell’obiettivo euro-unitario della loro progressiva riduzione, assunto in attuazione del principio dello sviluppo sostenibile. [V.Vaira]

 

SCUOLA E UNIVERSITÀ

 
NESSUN AUTOMATISMO NELL’ESCLUSIONE DA SUCCESSIVI CONCORSI IN CASO DI LICENZIAMENTO EX ART. 54-QUATER TUPI 
TAR Piemonte, Sez. II – R.G. 994/2018 – sent. del 19 giugno 2019, n. 725,
Pres. Testori, Est. Malanetto 
[Salis c. Ministero dell’istruzione dell’università e della ricerca]

 

Il TAR Piemonte ha accolto il ricorso per mezzo del quale la sig.ra Salis ha chiesto l’annullamento del decreto n. 11571 emesso, in data 03.08.2018, dall’Ufficio scolastico per il Piemonte. Con tale atto, l’Ufficio aveva disposto l’esclusione della ricorrente da un procedimento, inteso a reclutare del personale docente nella classe di concorso “disegno e storia dell’arte”, per mancanza dei requisiti necessari per accedere al pubblico impiego. Infatti, nel 2016 la sig.ra Salis era stata licenziata da un impiego presso la pubblica amministrazione per aver erroneamente riportato delle informazioni false al momento dell’instaurazione del rapporto di lavoro, incorrendo quindi nella sanzione prevista dall’art. 55-quater, co. 1, lett. d), del d.lgs. 165/2001. Pertanto, l’Ufficio scolastico ha applicato al caso di specie l’art. 2, co. 3, del d.p.r. 487/1994, che riproduce i contenuti l’art. 128 del testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato, il quale prevede che “Non possono accedere agli impieghi coloro che […] siano stati dichiarati decaduti da un impiego statale”.

La ricorrente lamenta l’illegittimità del provvedimento di esclusione sulla base del fatto che l’amministrazione scolastica, per poter procedere all’esclusione dalla procedura di reclutamento, avrebbe dovuto effettuare una valutazione del caso concreto, non potendo attribuire al precedente licenziamento ex art. 55-quater un effetto automatico di esclusione da qualsiasi successiva procedura. Il giudice amministrativo accoglie l’argomentazione della parte ricorrente, basando la propria argomentazione sulla sentenza della C. cost., 27 luglio 2007, n. 239. In tale occasione, il giudice costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 128 del testo unico nella parte in cui non “prevede l’obbligo dell’amministrazione di valutare il provvedimento di decadenza dall’impiego […] al fine della ponderazione della proporzione tra gravità del comportamento e divieto di concorrere ad altro impiego nell’amministrazione dello Stato”.

Di conseguenza, il TAR Piemonte riconosce che il licenziamento ex art. 55-quaterpuò precludere alla ricorrente l’accesso a nuovi concorsi e quindi incarichi solo in esito da una concreta valutazione di gravità dell’addebito da parte dell’amministrazione, che porti a ritenere giustificato e proporzionale l’effetto definitivamente espulsivo dal mondo della scuola”. Poiché dalla motivazione non si desume alcuna ponderazione degli interessi in gioco da parte dell’Ufficio scolastico, il provvedimento di esclusione viene annullato dal giudice amministrativo. [R. Medda]

 

LE UNIVERSITÀ NON SONO TENUTE A BANDIRE CONCORSI APERTI ANCHE AI DOCENTI “INTERNI”
TAR Piemonte, Sez. I – R.G. 914/2018 – sent. del 1° agosto 2019, n. 889,
Pres. Picone, Est. Perilli
[De Luca c. Università degli Studi del Piemonte Orientale ed altri]

 

Con la sentenza indicata il T.A.R. Piemonte ha respinto il ricorso proposto da un professore associato dell’Università del Piemonte Orientale contro il bando di concorso emanato dall’Ateneo per la chiamata di un professore ordinario nel suo stesso settore disciplinare (e le delibere del Consiglio di Dipartimento e del Consiglio di Amministrazione dell’Ateneo, ad esso presupposte), riservato ai docenti “esterni” ai sensi dell’art. 18 comma 4 della legge Gelmini (n. 240/2010). Tale disposizione prevede che le Università, nella loro programmazione triennale, debbano riservare “almeno un quinto dei posti disponibili di professore di ruolo alla chiamata di coloro che nell’ultimo triennio non hanno prestato servizio, o non sono stati titolari di assegni di ricerca ovvero iscritti a corsi universitari nell[e] università stess[e]”.

Dalla sentenza in oggetto si evince che questa controversia fa seguito ad un primo ricorso davanti al T.A.R. Piemonte (R.G. 1172/2017), con cui il medesimo docente aveva impugnato un bando di concorso di analogo contenuto; tale bando era stato annullato in autotutela dall’Università dopo che il Consiglio di Stato (riformando l’ordinanza cautelare del T.A.R.) ne aveva sospeso l’efficacia per difetto di adeguata motivazione circa la sussistenza dei presupposti della procedura ex art. 18 comma 4 citato (ordinanza della VI Sezione dell’11 maggio 2018, n. 2099). L’Ateneo ha poi bandito un nuovo concorso, dandone ulteriore motivazione, e il docente lo ha a sua volta contestato per difetto di motivazione. In particolare, secondo il ricorrente, l’Università non aveva dato conto delle ragioni per cui aveva deciso di bandire il concorso riservato ai candidati “esterni” in un settore concorsuale nel quale era presente un docente “interno” (“altamente qualificato”), che perciò era stato escluso a priori dalla procedura. Inoltre, non era stata effettuata dall’Ateneo un’indagine adeguata circa il fabbisogno di organico di tutti i Dipartimenti (“assegnandosi” arbitrariamente il posto de quo al Dipartimento di Medicina traslazionale, in cui il ricorrente prestava servizio), né – sempre secondo il ricorrente – era stato rispettato il vincolo del quinto dei posti richiesto dal citato art. 18 comma 4 l. n. 240/2010 per l’indizione del concorso riservato agli “esterni”.

Nella sentenza in oggetto il T.A.R. Piemonte, nel respingere tali censure, afferma che la ratio della previsione di cui all’art. 18 comma 4 cit. è favorire la mobilità tra gli Atenei e lo “scambio di competenze e di professionalità maturate in contesti culturali diversi”, oltre che “prevenire i fenomeni patologici dell’autoreferenzialità formativa e dell’attribuzione dei posti vacanti a professori già inseriti nella compagine organizzativa” dell’Ateneo; con i conseguenti rischi dell’“appiattimento della dialettica culturale” e della “mancata attuazione del principio di imparzialità dell’azione amministrativa” (vengono richiamati, al riguardo, la sentenza del Consiglio di Stato, Sez. VI, del 12 agosto 2016, n. 3626, e due precedenti dello stesso T.A.R. Piemonte, Sez. I: sentenze del 18 marzo 2016, n. 372, e del 3 giugno 2017, n. 698). Questi principi verrebbero stravolti qualora si ritenesse che un Ateneo, in presenza di un professore “interno” di seconda fascia di una determinata disciplina, non possa bandire per il posto di ordinario il concorso riservato ai candidati “esterni”, e sia tenuto – al contrario – a bandire il concorso “normale” aperto a tutti (di cui all’art. 18 comma 1 della legge Gelmini), per garantire a questo la possibilità di partecipare. In questa situazione dunque non esiste, afferma il T.A.R., alcun vincolo di bandire una procedura aperta anche ai candidati “interni”: l’Università ha solo l’obbligo di motivare in modo adeguato l’eventuale scelta di effettuare una procedura riservata agli “esterni”.

Nel caso di specie, l’Università del Piemonte Orientale ha assolto a tale onere motivazionale, perché ha indicato in modo puntuale le ragioni per cui ha scelto di attivare nell’area formativa della Cardiologia – nella quale il ricorrente presta servizio – la procedura per la copertura di un posto di professore di prima fascia riservata ai soli candidati “esterni”. Tali ragioni vengono esaminate una per volta dal T.A.R., e tutte confermate. [G. Sobrino]

 

IL MANCATO RICONOSCIMENTO IN SEDE CONCORSUALE DELL’EQUIPOLLENZA DELL’ATTIVITÀ LAVORATIVA SVOLTA ALL’ESTERO DEVE ESSERE ADEGUATAMENTE MOTIVATO
TAR Piemonte, Sez. II – R.G. 978/2018 – sent. del 15 luglio 2019, n. 802,
Pres. Testori, Est. Limongelli
[Platinetti c. Ministero dell’istruzione dell’università e della ricerca]

 

Con la sentenza n. 802 del 15 luglio 2019, la seconda sezione del TAR Piemonte ha annullato alcuni atti (una parte dell’allegato al bando di concorso e il provvedimento di approvazione della graduatoria definitiva) inerenti alla procedura selettiva, per titoli e per esami, per il reclutamento di personale docente nella scuola secondaria di I grado. All’esito della procedura, non essendosi collocata in posizione utile per l’ingresso nei ruoli dell’amministrazione scolastica, la sig.ra Platinetti ha presentato un ricorso chiedendo l’annullamento del provvedimento finale della procedura. La ricorrente ha asserito che sarebbe stata selezionata se la commissione giudicatrice non si fosse rifiutata – illegittimamente per, tra le altre cose, carenza di motivazione – di valutare tra i titoli la sua pregressa attività di insegnamento svolta presso la scuola comunale di Martigny (Svizzera).

Nell’accogliere la domanda cautelare, il TAR ha richiesto alla commissione giudicatrice di esplicitare, in maniera puntuale, i motivi di ordine giuridico in base ai quali l’attività lavorativa svolta in Svizzera potesse o meno essere riconosciuta come equipollente a quella svolta in Italia. Dopo aver riesaminato la posizione della sig.ra Platinetti, la commissione giudicatrice ha confermato la decisione precedente, fornendo questa volta una motivazione articolata. La ricorrente ha impugnato tale decisione per violazione di legge ed eccesso di potere e, inoltre, ha richiesto di essere ammessa in via cautelare al corso di formazione Fit in sovrannumero rispetto ai sei candidati già selezionati. La domanda cautelare è stata accolta dal TAR con l’ordinanza n. 13 dell’11 gennaio 2019.

Nel merito, il TAR ha ritenuto il ricorso fondato. Con riguardo all’impugnazione del bando, il tribunale ha stabilito che le clausole D.1.1. e D.1.2., contenute nella tabella A di valutazione dei titoli allegata al bando, poiché “si prestano ad essere lette nel senso che gli unici titoli di servizio valutabili sono quelli maturati presso Paesi dell’Ue” devono essere annullate. Ciò, infatti, contrasta con l’art. 12, co. 1, della legge 29/2006, secondo il quale l’amministrazione deve valutare la corrispondenza, rispetto a quelli indicati nel bando di concorso, dei titoli e delle certificazioni acquisiti in altri Stati membri dell’Unione europea, in Stati facenti parte dello Spazio economico europeo o in Svizzera.

Il TAR si sofferma, poi, sul provvedimento adottato dalla commissione giudicatrice a seguito del riesame richiesto dallo stesso tribunale. La commissione afferma che l’attività svolta presso la scuola di Martigny non sia equipollente all’attività normalmente svolta nella scuola italiana di pari grado, “poiché il docente che presta quest’ultima tipologia di servizio ha numerose e spesso fondamentali competenze ed attribuzioni che vanno ben oltre il solo insegnamento frontale del proprio strumento all’allievo”. Inoltre, la commissione aggiunge che il riconoscimento dell’equipollenza contrasterebbe con una prassi consolidata che escluderebbe il riconoscimento dell’attività svolta presso una scuola straniera, seppur blasonata. Il tribunale rigetta la tesi dell’amministrazione, accogliendo invece l’argomentazione della ricorrente. In primo luogo, il mancato riconoscimento dell’equipollenza è basato su “presupposti meramente presuntivi e congetturali, disancorati dal benché minimo elemento istruttorio” e “quand’anche davvero sussistenti sarebbero comunque marginali ed estrinseci rispetto all’oggetto essenziale dell’attività di docenza, e come tali del tutto inidonei a differenziare in termini sostanziali l’attività di insegnamento”. Inoltre, nemmeno il riferimento alla prassi amministrativa contraria al riconoscimento dell’equipollenza può legittimamente fornire una base giuridica alla decisione della commissione: trattandosi di un “richiamo del tutto generico” non suffragato da alcuna circolare regionale o provinciale, tale prassi deve considerarsi come priva “di sostanza e di rilievo giuridico”. [R. Medda]

 

L’ANNULLAMENTO DELLA MANCATA AMMISSIONE ALL’ANNO SCOLASTICO SUCCESSIVO È POSSIBILE SOLTANTO IN PRESENZA DI VIZI MACROSCOPICI DI ILLOGICITÀ, IRRAGIONEVOLEZZA O DI ARBITRARIETÀ DELLA VALUTAZIONE
TAR Piemonte, Sez. II – R.G. 907/2018 – sent. del 1° agosto 2019, n. 909,
Pres. Testori, Est. Limongelli
[Omissis c. Ministero dell’istruzione dell’università e della ricerca e Liceo Omissis]

 

Con la sentenza n. 909 del 1° agosto 2019, il TAR Piemonte ha respinto il ricorso, presentato dai genitori di una studentessa liceale, per l’annullamento del provvedimento di non ammissione alla classe successiva, adottato dal consiglio di classe a seguito del mancato recupero del debito formativo in due discipline nella sessione d’esame di settembre 2018.

Il ricorso presenta una pluralità di motivi. Con il primo motivo, i ricorrenti lamentano che la scuola abbia comunicato soltanto tardivamente le difficoltà scolastiche della studentessa, impendendo alla stessa di recuperare in tempo utile il ritardo accumulato nella preparazione; inoltre, con riguardo a una specifica materia, i ricorrenti affermano che le attività di recupero organizzate dalla scuola siano state deficitarie dal punto di vista organizzativo. Basandosi sulla relazione del dirigente scolastico, il TAR non condivide la tesi dei ricorrenti: riconosce che la comunicazione famiglia-scuola sia stata costante durante tutto l’anno scolastico e che le attività integrative a supporto degli studenti in difficoltà fossero congrue, attività peraltro alle quali la studentessa ha partecipato soltanto in parte.

Con il secondo motivo del ricorso viene contestata la legittimità delle valutazioni delle prove d’esame svolte dalla studentessa, ritenuto che queste siano state valutate in maniera incomprensibile e seguendo una logica contraddittoria. Dopo aver individuato la regola di diritto applicabile, in base alla quale “le valutazioni del consiglio di classe in sede di scrutinio finale relativamente alla promozione di un alunno e gli apprezzamenti sul grado di preparazione raggiunta nelle diverse discipline costituiscono espressione di un giudizio di discrezionalità tecnica che spetta al solo Consiglio di classe e che non è censurabile in sede di legittimità dal G.A. se non in presenza di vizi macroscopici di illogicità, irragionevolezza o di arbitrarietà della valutazione”, il TAR non riconosce la sussistenza di tali “vizi macroscopici” nel caso di specie. Anzi, i giudici riconoscono che, nonostante non siano investiti del potere né siano in possesso delle competenze tecniche per esercitare un sindacato stretto sulle valutazioni dei docenti, dall’esterno il giudizio finale di non ammissibilità “costituisce con tutta evidenza la corretta e lineare conseguenza” dell’esito delle prove di recupero, mentre “Inconsistenti, al riguardo, appaiono le deduzioni difensive di parte ricorrente, tese ad individuare pretese incongruenze ed errori nella valutazione di specifici profili delle prove scritte”. Con ulteriore motivo, i ricorrenti affermano che il consiglio di classe non abbia preso in considerazione il rendimento scolastico nel corso dell’intero anno scolastico, durante il quale la studentessa aveva mostrato un miglioramento complessivo. Ciò costituirebbe una violazione dell’art. 80 del r.d. 653/1925, in base al quale “Nell’assegnazione dei voti, si tiene conto degli scrutini precedenti, i quali, però, non possono avere valore decisivo”. Il TAR disattende la ricostruzione dei ricorrenti, in quanto riconosce che l’andamento scolastico della studentessa nel corso dell’anno è stato nel complesso negativo e che il miglioramento, ancorché insufficiente, sia manifestato soltanto negli ultimi due mesi dell’anno scolastico.

Infine, il TAR respinge il quarto e ultimo motivo di ricorso definendo “formalistica e strumentale” la censura avente a oggetto l’assenza del dirigente scolastico all’interno della sottocommissione d’esame, in violazione dell’art. 73 del r.d. 653/1925. A tal proposito, i giudici ritengono che l’assenza del dirigente sia ragionevole, in quanto sarebbe fisicamente impossibile per tale figura essere presente simultaneamente nelle prove di esame che si svolgono in più di 40 classi. [R. Medda]

 

LEGITTIMO IL DINIEGO DELLA RICHIESTA DI ACCREDITAMENTO DI UNA SCUOLA PARITARIA QUANDO GIUSTIFICATO DALLE ESIGENZE DEL SERVIZIO
TAR Piemonte, Sez. II – R.G. 424/2018 – sent. del 3 ottobre 2019, n. 1031,
Pres. Testori, Est. Malanetto
[Associazione Miramax servizi educativi onlus c. Comune di Torino]

 

Con la sentenza n. 1031 del 3 ottobre 2019, il TAR Piemonte ha dichiarato inammissibile il ricorso presentato dall’Associazione Miramax, una onlus il cui scopo sociale è la gestione di un asilo nido a Torino. La ricorrente ha richiesto l’annullamento degli atti adottati dal Comune di Torino con i quali erano state respinte due richieste di convenzionamento presentate dalla stessa Associazione. Le richieste di convenzionamento erano fondate sull’art. 14 della l.r. Piemonte 28/2007, in base alla quale le “scuole dell’infanzia paritarie non dipendenti da enti locali territoriali operanti nel proprio territorio, purché non abbiano fine di lucro e siano aperte alla generalità dei cittadini” e “i comuni ove hanno sede, al fine di mantenere il servizio di pubblica utilità attualmente svolto, stipulano apposite convenzioni secondo lo schema tipo approvato dalla Giunta regionale”.

Nel caso di specie, il Comune di Torino ha negato la richiesta di convenzionamento in quanto, stante l’evoluzione demografica che vede una sempre minor percentuale di persone in età prescolare, non vi era alcun bisogno di potenziare l’offerta educativa. Di diverso avviso è il ricorrente che, nel congelamento dell’attivazione di nuove convenzioni legge un’illegittima discriminazione tra i soggetti già convenzionati e coloro che aspirano a tale posizione. Nonostante non si pronunci su tali motivi, considerati assorbiti alla luce dell’inammissibilità del ricorso per carenza di interesse ad agire, il TAR si sofferma comunque sulla questione, seppur soltanto “ai fini di un mero inquadramento della problematica”. A tal proposito, i giudici amministrativi sottolineano che le richieste contenute nel ricorso sono anomale: infatti, “la ricorrente non ha sollecitato alcuna riorganizzazione del servizio ma ha semplicemente chiesto (non è chiarissimo a quale titolo) di entrare a far parte di un gruppo che essa stessa definisce illegittimamente “chiuso”, beneficiando dell’illegittimità che stigmatizza ed offrendo un servizio che gli atti di programmazione degli enti pubblici preposti identificano come non necessario nell’impostazione del servizio pubblico”.

A prescindere da tali valutazioni, il TAR dichiara inammissibile il ricorso per carenza di interesse ad agire. La già citata disposizione contenuta nella legge regionale pone come requisito per la stipulazione della convenzione l’assenza, in capo al soggetto privato, del fine di lucro. Invece, secondo la ricostruzione dei giudici amministrativi, al momento della presentazione della prima richiesta di convenzionamento il soggetto privato presentava la forma giuridica di una società di capitale, trattandosi di una s.r.l. che gestiva una struttura educativa a Torino e, pertanto, non integrava il requisito dell’assenza dello scopo di lucro. Al momento della seconda richiesta di convenzionamento, invece, in base agli atti allegati non è stato possibile dimostrare l’esistenza effettiva di una associazione senza scopo di lucro, prodotto della trasformazione eterogenea della s.r.l. predetta, né tantomeno tale associazione disponesse della struttura educativa precedentemente appartenuta alla s.r.l. Per tali motivi, al momento delle due richieste il soggetto privato difettava del requisito soggettivo per poter stipulare la convenzione, provocando quindi la carenza dell’interesse ad agire al momento della presentazione del ricorso. [R. Medda]

 

SANITÀ

 

LA REGIONE CONDANNATA A PAGARE OLTRE 11 MILIONI DI EURO PER L’ ATTIVITA’ SVOLTA DAI PRESIDI SANITARI GIA’ DELL’ORDINE MAURIZIANO
TAR Piemonte, Sez. I – R.G. 1097/2014 – sent. del 30 maggio 2019, n. 643,
Pres. Giordano, Est. Patelli
 [Fondazione Ordine Mauriziano c. Regione Piemonte] 

 

La sentenza in oggetto si segnala per avere condannato la Regione Piemonte al pagamento, in favore della Fondazione Ordine Mauriziano (successore ex lege dell’Ordine Mauriziano, a partire dal 2004), di una somma assai rilevante: 11.593.577 euro. Ciò a titolo di corrispettivo per le prestazioni rese dai presidi sanitari già di proprietà dell’Ordine Mauriziano. In seguito a questa pronuncia la Regione, in sede di approvazione dell’assestamento al proprio bilancio di quest’anno, ha da ultimo riconosciuto un “debito fuori bilancio” corrispondente a tale importo, stabilendo di farvi fronte con le riserve iscritte nell’esercizio 2019 in un apposito fondo vincolato (art. 6 della legge regionale n. 22/2019 di assestamento al bilancio di previsione finanziario 2019-202).

La controversia (riassunta davanti al T.A.R. Piemonte a seguito della declaratoria della giurisdizione del G.A. operata dalla Cassazione, Sez. Unite, con l’ordinanza del 28 maggio 2014, n. 11917) riguarda delle “assegnazioni” di somme che – secondo la Fondazione Ordine Mauriziano – sarebbero state previste, ma non erogate dalla Regione per l’attività svolta negli anni 2001 e 2004 dagli ospedali “Mauriziano” Umberto I di Torino e I.R.C.C. di Candiolo, dal poliambulatorio di Luserna San Giovanni e, infine, dai presidi ospedalieri di Lanzo e Valenza. La domanda della Fondazione era, peraltro, ancora più elevata di quanto ha poi liquidato il T.A.R.: 29.359.982,71 euro in tutto.

Nella sentenza in oggetto, il T.A.R. Piemonte richiama, in primo luogo, il quadro normativo “e storico” che ha dato vita alla Fondazione Ordine Mauriziano, a seguito dello scioglimento dell’Ordine Mauriziano (il quale, come è noto, è anche oggetto di una disposizione transitoria e finale della Costituzione). In secondo luogo, il Tribunale rigetta la domanda di accertamento del credito della Fondazione relativa all’anno 2001 – pari a 928.291,63 euro –, ritenendo tale credito estinto a seguito di un accordo transattivo tra le parti, correttamente adempiuto. In terzo luogo, viene esaminata la domanda relativa all’anno 2004 – comprendente 16.868.339,75 euro quale saldo delle “anticipazioni di cassa” per le attività dell’ospedale “Mauriziano” Umberto I di Torino e 7.783.673,22 euro per le attività dell’I.R.C.C. di Candiolo –, che la Fondazione basa su una convenzione stipulata con la Regione nel maggio 2004, fondata a sua volta sull’equiparazione tra questi istituti ospedalieri e gli ospedali di diretta gestione pubblica ai fini dell’erogazione dell’assistenza ospedaliera.

Al riguardo il T.A.R. afferma che la domanda della Fondazione muove dall’erroneo presupposto per cui agli ospedali pubblici (e quindi anche a quelli ad essi equiparati, come quelli oggetto del giudizio) spetti la corresponsione integrale del “budget fissato annualmente dalla Regione, ai sensi dell’art. 8-quinquies del d.lgs. n. 502/1992, e che nella convenzione tra la Fondazione e la Regione stessa, sopra citata, il termine “budget” fosse utilizzato quale sinonimo di “assegnazione economica a forfait”. Il T.A.R. – richiamando la sentenza del T.A.R. Puglia, Bari del 29 febbraio 2012, n. 453 – ricostruisce la disciplina vigente prima del 2008 in materia di remunerazione delle prestazioni sanitarie, alla quale la convenzione fa riferimento. In base ad essa, vi sono due criteri per stabilire la remunerazione delle prestazioni svolte dai presidi: (1) il numero di prestazioni ad essi richiesto dalla Regione o dall’A.S.L. a norma della convenzione, da valorizzare economicamente secondo il Tariffario (“numero di prestazioni contrattualizzato”); (2) successivamente – quale “tetto di spesa massimo” – il “budget comunque fissato nell’accordo. Secondo il T.A.R. Piemonte, la convenzione tra la Fondazione Mauriziano e la Regione non deroga a questi principi: a differenza di quanto sostiene la ricorrente, essa impone pur sempre ai presidi sanitari la rendicontazione “a consuntivo” delle prestazioni svolte, al fine di stabilire la quota esatta spettante all’Ordine Mauriziano (ora Fondazione) quale remunerazione.

Peraltro, una parte del credito rivendicato dalla Fondazione viene riconosciuta dal Tribunale, poiché la convenzione citata non prevede un numero massimo di “prestazioni contrattualizzate” e, dall’altro lato, la Regione Piemonte non ha dimostrato che fosse stato “contrattualizzato” un numero di prestazioni minore rispetto a quelle che la Fondazione afferma essere state rese dai presidi. Tali prestazioni – effettuate nei limiti del “tetto di spesa massimo” fissato dalla Regione, ma non ancora remunerate – ammontano a 4.338.046 euro per l’ospedale “Mauriziano” Umberto I di Torino e a 7.255.531 euro per l’I.R.C.C.S. di Candiolo (pari alla differenza tra i 29.631.235 euro di “effettiva produzione sanitaria” dell’Istituto e i 22.375.704 euro già versati dall’Amministrazione regionale): di qui la condanna al pagamento di 11.593.577 euro complessivi. [G. Sobrino] 

 

LEGITTIMA LA RIORGANIZZAZIONE DELLA RETE OSPEDALIERA OPERATA DALLA REGIONE
TAR Piemonte, Sez. I – R.G. 148/2015 – sent. del 25 settembre 2019, n. 995,
Pres. Picone, Est. Perilli
[Comune di Acqui Terme ed altri c. Regione Piemonte ed altri] 

 

Con la sentenza in oggetto il T.A.R. Piemonte si è pronunciato sul ricorso proposto dal Comune di Acqui Terme e da altri quarantuno Comuni della zona contro i provvedimenti, adottati nella scorsa legislatura regionale, di riorganizzazione della rete ospedaliera piemontese – mediante la riduzione complessiva dei posti letto e la classificazione delle strutture sanitarie in “livelli a complessità crescente” (DD.G.R. del 19 novembre 2014, n. 1-600, e del 23 gennaio 2015, n. 1-924) – e, segnatamente, di “declassamento” dell’ospedale di Acqui Terme da ospedale c.d. “cardine” ad ospedale c.d. “di base con pronto soccorso”. Tale decisione, secondo i Comuni ricorrenti, avrebbe comportato come conseguenza la perdita delle prestazioni sanitarie precedentemente erogate relative alla cardiologia, all’urologia, all’otorinolaringoiatria e all’oculistica e, comunque, l’erogazione di prestazioni assistenziali non congrue rispetto ai fabbisogni della popolazione di riferimento ed alla conformazione geografica del territorio dell’acquese. Il T.A.R. – confermando alcune sue precedenti decisioni in materia (sentenza del 18 dicembre 2015, n. 1754; del 20 gennaio 2016, n. 73, sul “declassamento” dell’ospedale di Tortona) – ritiene legittima la riorganizzazione varata dalla Regione e respinge, di conseguenza, il ricorso.

Più specificamente, la sentenza in esame rigetta, in primo luogo, la censura riguardante il vizio di incompetenza delle delibere regionali impugnate: secondo i Comuni ricorrenti esse consisterebbero in “atti di programmazione” in materia sanitaria, perciò avrebbero dovuto essere adottate dal Consiglio regionale anziché dalla Giunta, ai sensi degli artt. 3 e 4 della l.r. n. 18/2007 (i quali demandano al Consiglio regionale l’adozione del “piano socio-sanitario regionale”, mentre rimettono alla competenza della Giunta regionale le funzioni “esecutive” di indirizzo tecnico-amministrativo e di coordinamento delle attività delle aziende sanitarie). Al riguardo il T.A.R. opera una distinzione tra il “piano socio- sanitario regionale” (di cui alla citata l.r. n. 18/2007) ed i provvedimenti oggetto di giudizio: il primo stabilisce “gli indirizzi strategici di programmazione socio-sanitaria”, questi ultimi hanno invece attuato degli specifici (e “stringenti”) obiettivi imposti alle Regioni dalla legislazione statale, consistenti in particolare nel “rimuovere tutti gli atti … contrastanti con i parametri fissati per perseguire l’equilibrio economico-finanziario” (la sentenza richiama, in proposito, l’art. 2 del d.l. n. 95/2012). Dalla ritenuta natura “non programmatoria” dei provvedimenti regionali impugnati deriva, secondo il Tribunale, la non necessità per la Regione di acquisire il previo parere della Conferenza permanente per la programmazione socio-sanitaria e di coinvolgere nel procedimento i soggetti interessati; peraltro l’art. 13 della l. n. 241/1990 prevede che la stessa attività di pianificazione e di programmazione non sia soggetta alle disposizioni sulla partecipazione dettate da tale legge, bensì da norme particolari che nella fattispecie non sono state adottate.

In secondo luogo, la sentenza in oggetto esamina un secondo gruppo di censure mosse contro la riorganizzazione della rete ospedaliera approvata dalla Regione: esse attengono all’illegittimità della revoca di una precedente D.G.R., con la quale erano stati individuati i criteri per l’attribuzione dei posti letto ed era stata definita la rete ospedaliera pubblica (D.G.R. n. 28-7558 del 2014); alla formulazione dello schema di regolamento ministeriale del 5 agosto 2014, n. 98 (sulla definizione degli standard qualitativi, strutturali, tecnologici e quantitativi per l’assistenza ospedaliera), presupposto delle deliberazioni regionali impugnate; al difetto di istruttoria e di motivazione in ordine all’efficienza della riorganizzazione disposta dal regolamento ministeriale stesso. In proposito il T.A.R., da un lato, richiama la propria precedente sentenza del 18 dicembre 2015, n. 1754 – confermata di recente dal Consiglio di Stato (Sezione III, sentenza del 19 aprile 2019, n. 2551) –, che ha già dichiarato legittima la revoca della D.G.R. n. 28-7558 del 2014, al fine del raggiungimento degli obiettivi finanziari di risparmio di spesa. Dall’altro lato, afferma che la scelta operata dai provvedimenti impugnati, di mantenere i presidi ospedalieri con funzioni “ridotte” nelle aree distanti entro 90 minuti dai centri c.d. “hub” (o “di secondo livello”) ed entro 60 minuti da quelli c.d. “spoke” (o “di primo livello”), si sottrae a censure logiche in quanto “a fronte di risorse limitate, quali quelle previste per il funzionamento della rete ospedaliera pubblica, le competenze rare e costose richieste per la cura di malattie complesse non possono essere assicurate in maniera diffusa sul territorio regionale ma devono essere concentrate in centri regionali altamente specializzati.

Infine la sentenza in esame respinge la censura dei Comuni ricorrenti relativa all’utilizzo, da parte dei provvedimenti impugnati, del criterio della popolazione residente anziché di quella c.d. “pesata” – prevista dai regolamenti ministeriali in attuazione del d.lgs. n. 68/2011 – come parametro per classificare gli ospedali. Il T.A.R., sul punto, richiama e condivide la relazione del Direttore generale dell’Assessorato regionale alla Sanità depositata in giudizio (in seguito ad una specifica ordinanza istruttoria): correttamente la revisione della rete ospedaliera piemontese è stata operata tenendo conto della popolazione residente e del numero dei passaggi appropriati, del tempo di percorrenza in relazione alle caratteristiche orografiche del territorio e dei volumi di attività reali o attesi; in particolare, l’ospedale di Acqui Terme doveva necessariamente essere classificato come ospedale c.d. “di base con pronto soccorso”, in quanto ha un bacino di utenza pari a 58.022 abitanti ed un numero di accessi annui al Pronto Soccorso inferiore a 20.000. Il “declassamento” di tale ospedale, inoltre, ha comportato una semplice riduzione del personale adibito al servizio di cardiologia e non la soppressione del servizio stesso: a fronte “dell’adempimento degli obblighi finanziari di riduzione della spesa sanitaria, la contrazione del numero dei cardiologi in servizio nel reparto di cardiologia da otto a cinque unità, ove affiancata dall’istituzione di un presidio di cardiologia a livello territoriale, rende la riorganizzazione razionale e congrua in relazione al territorio di riferimento”. [G. Sobrino]

 

DIRITTI & LIBERTÀ FONDAMENTALI

 

LA DISCREZIONALITA’ RISERVATA ALLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE A FRONTE DELL’INTERESSE PRIVATO DEL SOGGETTO AL CAMBIAMENTO DEL PROPRIO NOME E COGNOME 
TAR Piemonte, Sez. I – R.G. 337/2018 – sent. del 6 agosto 2019, n. 925,
Pres. Picone, Est. Patelli 
[OMISSIS c. Ufficio Territoriale del GovernoOMISSIS] 

 

Il TAR Piemonte ha accolto il ricorso per l’annullamento del provvedimento con il quale il Prefetto dispone il rigetto dell’istanza di cambiamento del nome e del cognome dell’interessato. La richiesta di modifica delle proprie generalità, presentata a seguito dell’ottenimento della cittadinanza italiana ai fini dell’iscrizione dell’atto di nascita nei registri di stato civile del Comune, era motivata dal fatto che il cognome dell’istante avrebbe rivelato la sua origine naturale, cultura e religione “nelle quali lo stesso non si riconosce”. La Prefettura respingeva l’istanza in quanto “le motivazioni addotte dall’istante non trovano riscontro nel contesto culturale italiano, atteso che in Italia le generalità attuali non costituiscono cause di discriminazione socio-culturali;(…) e ritenuto che, alla luce del quadro complesso e non armonico fornito dall’istante, un eventuale cambiamento del cognome e nome porterebbe ad una inevitabile compromissione dell’interesse pubblicistico alla tendenziale stabilità nel tempo di detti elementi”. A fronte di tale motivazione di rigetto, il ricorrente eccepisce la violazione di legge in relazione agli artt. 89 e ss. del D.P.R. 54/2012, nonché agli artt. 8 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, denunziando il vizio di eccesso di potere per difetto di istruttoria e carenza di motivazione.

Il Codice civile, agli artt. 6 e ss., tutela il diritto al nome – composto dal prenome e dal cognome – quale elemento identificativo della persona e segno distintivo della discendenza familiare. Tale norma va letta alla luce dell’art. 22 Cost. che, in combinato disposto con l’art. 2 Cost., tutela il diritto al nome nei confronti dei poteri pubblici ed appresta una tutela assoluta al diritto all’identità personale di cui il nome costituisce una componente essenziale che distingue e identifica la persona nella vita di relazione. Sul piano amministrativo, gli artt. 89 e ss. del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile) disciplinano il procedimento per la modifica del nome e del cognome, da introdurre con richiesta motivata indirizzata al Prefetto. Nel procedimento devono essere contemperati l’interesse all’identità personale e l’interesse pubblicistico alla tendenziale stabilità del cognome, volto a consentire la spedita e certa identificazione delle persone fisiche. Specificamente, l’art. 89 del citato d.P.R. 369/2000 prevede che l’interessato possa cambiare il proprio nome o cognome “anche perché ridicolo o vergognoso o perché rivela l’origine naturaleindicando le ragioni della modifica richiesta.

Dalla lettura di tale disposto normativo si evince che il cambiamento del nome non ha carattere eccezionale. Può dunque essere richiesto non solo per le ipotesi espressamente indicate a titolo esemplificativo, ma anche per qualunque altra ragione, specificata nella relativa istanza, in ordine alla quale la Prefettura effettuerà un vaglio di meritevolezza e di compatibilità con il pubblico interesse alla stabilità ed alla certezza degli elementi identificativi della persona e del suo status giuridico e sociale, come da consolidata giurisprudenza in materia (si cfr. Cons. Stato, sez. III, 15 ottobre 2013, n. 5021; id., sez. IV, 26 aprile 2006, n. 2320; T.A.R. Lazio, sez. I-ter, 24 aprile 2018 n. 4439 e 29 aprile 2015, n. 6186).  Il Consiglio di Stato afferma la sussistenza di un ampio riconoscimento della facoltà di cambiare il proprio cognome. A fronte di tale ampia facoltà, la sfera di discrezionalità riservata alla Pubblica Amministrazione deve intendersi circoscritta alla individuazione di puntuali ragioni di pubblico interesse che giustifichino il sacrificio dell’interesse privato del soggetto al cambiamento del proprio cognome, e pertanto, il provvedimento ministeriale negativo deve essere specificamente e congruamente motivato(così Cons. Stato n. 5021/2013 cit.). Dacché nel caso di specie manca una siffatta puntuale indicazione delle ragioni di pubblico interesse che giustificano la compromissione dell’interesse del privato, il Collegio ritiene illegittimo il provvedimento prefettizio impugnato in quanto non sorretto da motivazione in grado di dare conto dei diversi valori in gioco nel caso concreto e dei criteri utilizzati per contemperarli congruamente. [V.Vaira]

 

SULLA COMPETENZA DELL’AUTORITA’ DI REGOLAZIONE DEI TRASPORTI IN TEMA DEI DIRITTI DEGLI UTENTI DEL SERVIZIO FERROVIARIO IN IPOTESI DI RITARDO 
TAR Piemonte, Sez. II – R.G. 436/2019 – sent. del 18 giugno 2019, n. 690,
Pres. Testori, Est. Malanetto 
[Trenitalia s.p.a. – Gruppo Ferrovie dello Stato Italiane c. Autorita’ di Regolazione dei Trasporti]

 

Il contenzioso ha ad oggetto la configurazione della tutela indenniTARia dell’utente in caso di ritardo del treno come definita nelle Delibere A.R.T. – Autorità di Regolazione dei Trasporti n. 43/2018 e 106/2018, recanti rispettivamente l’avvio del procedimento e consultazione pubblica, e la successiva approvazione di Misure concernenti il contenuto minimo degli specifici diritti che gli utenti dei servizi di trasporto per ferrovia connotati da oneri di servizio pubblico possono esigere nei confronti dei gestori dei servizi e delle infrastrutture ferroviarie. A norma dell’art. 3, d.lgs. n. 70 del 2014, l’A.R.T. è stata individuata dal legislatore italiano quale “organismo di controllo” ai sensi dell’art. 30 del Regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio relativo ai diritti e agli obblighi dei passeggeri del trasporto ferroviario (Regolamento CE n. 1371/2007). Ad essa sono affidati compiti di accertamento delle violazioni di tale normativa e di applicazione delle relative sanzioni.

La società ricorrente denuncia l’illegittimità della delibera n. 106/2018 nella misura in cui prevede criteri puntuali per la determinazione del ritardo utile ai fini del riconoscimento del diritto all’indennizzo i gestori dei servizi. Un primo elemento del contendere riguarda l’interpretazione di “ritardo” resa dall’Autorità. Il Regolamento CE n. 1371/2007, all’art. 3 par. 12, definisce il ritardo come “la differenza di tempo tra l’ora di arrivo prevista del passeggero secondo l’orario pubblicato e l’ora del suo arrivo effettivo o previsto”.  Le conseguenze del ritardo per l’arrivo del passeggero alla “destinazione finale prevista dal contratto di trasporto” sono disciplinate all’art. 16 del Regolamento CE n. 1371/200 e consistono nell’ottenimento del rimborso del biglietto o, a scelta del passeggero, la prosecuzione del viaggio su itinerari alternativi.

A norma dell’art. 14, d.lgs. n. 70/2014 recante Disciplina sanzionatoria per le violazioni delle disposizioni del regolamento (CE) n. 1371/2007, relativo ai diritti e agli obblighi dei passeggeri nel trasporto ferroviario, l’impresa ferroviaria ha l’obbligo di rendere conoscibili ai passeggeri con mezzi idonei le disposizioni concernenti le modalità di indennizzo e di risarcimento in caso di responsabilità per ritardi. In caso di inosservanza di tale obbligo, l’impresa ferroviaria è soggetta a sanzione amministrativa pecuniaria. Tale norma va dunque letta in combinato disposto con la disciplina europea dei rimborsi e ulteriori rimedi in caso di ritardo. A fronte di tale correlazione la Commissione europea ha chiarito, con comunicazione 2015/C 220/01, che il ritardo si riferisce sempre al ritardo del viaggio del passeggero (parte debole del rapporto) e che l’intera normativa europea è a tutela delle prerogative e degli interessi del trasportato, il quale realizza il proprio interesse alla discesa in stazione. Alla luce di tali considerazioni il TAR Piemonte ha precisato che, per l’utente, l’unico momento qualificabile come “arrivo” è quello in cui egli può effettivamente scendere dal convoglio e perseguire le proprie esigenze. Il contratto di trasporto, essendo finalizzato al momento in cui il passeggero giunge nella destinazione di suo interesse (ossia al momento in cui può scendere dal treno), esaurisce la sua funzione a destinazione, cioè nel “luogo” in cui le parti hanno convenuto che il passeggero sia trasportato, e non nel primo tratto del binario della stazione. Pare poi certamente pertinente la nozione di “arrivo” come delineata nella sentenza resa dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea in causa C-452/2013 in tema di trasporto aereo. A tal riguardo, la Corte ha precisato che la situazione dei passeggeri non cambia né quando l’aereo tocca la pista di atterraggio, né quando raggiunge il parcheggio, tanto meno quando sono azionati i freni di stazionamento, dal momento che è solo con l’effettiva discesa dall’aeromobile che i passeggeri ottengono il risultato auspicato con la stipulazione del contratto.

Inoltre, posto che la normativa di tutela dei consumatori e utenti dei servizi di trasporto ha una matrice europea, la relativa interpretazione deve essere oggettiva e ugualmente uniforme nei vari paesi membri. L’interpretazione di “ritardo” ai fini della configurazione della tutela indennitaria deve dunque essere conforme, oltre che all’oggetto del contratto alla luce dell’effettivo interesse dell’utente, alla presupposta normativa europea, la quale menziona esplicitamente la “destinazione finale” del viaggiatore. Ne discende che la definizione dei parametri rilevanti per la nozione oggettiva di “ritardo” non può in alcun modo essere rimessa alla concessione, invocata in ricorso, che regolamenta il rapporto del concessionario di rete. Di qui l’infondatezza dell’assunto secondo il quale l’ART non avrebbe competenza in materia, essendo per contro lo specifico organismo nazionale preposto a vigilare sul rispetto dei diritti degli utenti del trasporto ferroviario e a sanzionarne le eventuali violazioni. Ugualmente infondata è la censura di “arbitrarietà” del parametro di apertura delle porte posto dall’ART come criterio (oggettivo e non certo soggettivo) di rilievo dell’eventuale dato di ritardo, in quanto tale parametro è conforme alla normativa e giurisprudenza europee e tecnicamente verificabile.

Pertanto, assodata la competenza dell’Autorità di regolazione dei trasporti ai sensi dell’art. 3, d.lgs. n. 70 del 2014, in merito all’applicazione della normativa in tema di tutela dei diritti degli utenti del servizio ferroviario in ipotesi di ritardo il TAR Piemonte afferma che, nell’ambito di tale competenza, l’Autorità detta indicazioni per l’individuazione oggettiva del concetto di ritardo da computarsi alla luce dell’oggetto del contratto di trasporto e del concreto interesse del passeggero. Rispetto alla configurazione del ritardo, nel caso de quo non è censurabile la scelta dell’ART di prendere in considerazione il momento in cui il treno giunge a destinazione e vengono aperte le porte del convoglio. [V.Vaira]

 

 LEGITTIMI I PROVVEDIMENTI DISCIPLINARI NEI CONFRONTI DI MILITARI CHE ESPONGONO SIMBOLI DEL REGIME FASCISTA
TAR Piemonte, Sez. I – R.G. 1080 e 1082/2016 – sent. 20 marzo 2019 – 21 e 28 giugno 2019, nn. 730 e 741,
 Pres. Giordano, Est. Patelli 
[OMISSIS c. Ministero della Difesa]

 

Le due sentenze in commento intervengono in un ambito delicato dell’esercizio dei pubblici poteri, al crocevia tra la tutela dell’interesse all’imparzialità della p.a. e la garanzia dei diritti fondamentali costituzionalmente garantiti, tra cui la libertà di manifestazione del pensiero.

I ricorrenti, due appartenenti alla Legione Carabinieri Piemonte e Valle d’Aosta di stanza a Susa, impugnavano dinanzi al TAR Piemonte il provvedimento disciplinare loro irrogato dal Comando provinciale a seguito del rinvenimento nell’ufficio loro in uso di cimeli dell’epoca fascista. Tale provvedimento sanzionatorio era stato confermato in sede di ricorso gerarchico, dopo che già il Comandante della Compagnia aveva irrogato ai due militari, un appuntato e un maresciallo, la sanzione della consegna per un giorno. Nel ricorso davanti al TAR, i ricorrenti deducevano una serie di vizi dei provvedimenti del Comando provinciale, deduzioni che, però, venivano ritenute infondate.

In particolare, il TAR Piemonte ha negato che vi fossero motivi ragionevoli per ritenere che l’Amministrazione avesse errato nella propria valutazione circa la natura fascista dei cimeli rinvenuti. Il provvedimento sanzionatorio era stato, anzi, molto circostanziato nella propria contestazione degli addebiti ovvero nella descrizione, rispettivamente, dei quadretti militareschi e del busto raffigurante Benito Mussolini ovvero del calendario storico del fascismo che corredava la parete retrostante la scrivania dell’ufficio dei militari. Nessuna querela di falso, del resto, era stata proposta dai ricorrenti. Con riguardo all’omessa istruttoria, il TAR Piemonte negava che il procedimento disciplinare si fosse svolto esclusivamente sulla base di una mera segnalazione proveniente dall’esterno, senza che il Comando avesse svolto alcun tipo di indagine, visto che, invece, era emerso dagli atti come il Comandante avesse personalmente constatato la presenza degli oggetti denunciati. Limitatamente alle disposizioni regolamentari in materia di ordinamento militare (artt. 717 e 732 D.P.R. n. 90/2010), le quali prevedono che il militare debba compiere azioni che siano confacenti alla dignità e al decoro e, comunque, mantenere sempre una condotta esemplare a salvaguardia del prestigio delle Forze Armate, il Collegio rigettava l’eccezione di una loro falsa applicazione, atteso che, pur non essendo previsto un elenco tassativo di comportamenti vietati, tali disposizioni richiedono di essere lette alla luce delle altre norme dell’ordinamento, in primo luogo quelle della Costituzione, fondata sui valori dell’antifascismo e di ripudio dell’ideologia autoritaria fascista, sottesi implicitamente all’affermazione del carattere democratico della Repubblica (art. 1 Cost.) ed esplicitamente affermati nella XII disposizione finale. Inoltre, l’art. 52, co. 3 Cost. dispone che «l’ordinamento delle Forze armate si informa allo spirito democratico della Repubblica» e, più specificamente, l’art. 1483 d.lgs. n. 66/2010 (Codice dell’ordinamento militare) pone il principio di apoliticità delle forze armate medesime, quale diretta applicazione – si potrebbe forse aggiungere ad integrazione di quanto correttamente opinato dal TAR – del principio di imparzialità dell’Amministrazione di cui all’art. 97, co. 2 Cost. Nel caso di specie, l’ostensione di simboli del periodo fascista e non il loro mero possesso costituisce una condotta provocatoria o comunque idonea ad apparire come tale presso il pubblico poiché espressione del pensiero politico del militare, pensiero che, peraltro, risulta contrario allo spirito democratico della Repubblica. Una condotta ispirata alla civile convivenza, ricorda da ultimo il TAR, è quanto mai necessaria a garanzia della dignità della persona quando si svolgano operazioni di polizia giudiziaria delicate come quelle della privazione della libertà personale, circostanza nella quale le suppellettili erano state notate e segnalate per la prima volta. Pertanto, si potrebbe concludere che ogniqualvolta negli uffici delle Forze Armate siano esposti oggetti idonei a far trasparire l’assenza di imparzialità nell’esercizio dei pubblici poteri la sanzione disciplinare da parte dei superiori gerarchici risulta un mezzo proporzionato all’offesa provocata. [G. Boggero]

 

T.A.R. VALLE D’AOSTA

 

ILLEGITTIMO L’ATTO DI AUTOMATICA ESCLUSIONE DALLA GARA DI UNA SOCIETA’ CHE FORMULA UN’OFFERTA CONTENENTE UN RIBASSO AL COSTO DEL LAVORO, DOVENDO TALE COSTO VALUTARSI NEL PROCEDIMENTO DI VERIFICA DI CONGRUITA’
TAR Valle d’Aosta – R.G. 21/2019 – sent. 7 agosto 2019 – 9 agosto 2019, n. 44,
Pres. Migliozzi, Est. De Vita 
[Euroservice Group S.r.l. c. Regione autonoma Valle d’Aosta e Comune di Pont Saint-Martin]

 

Il TAR Valle d’Aosta ha accolto il ricorso della società Euroservice Group S.r.l. avverso il provvedimento di esclusione alla gara per l’affidamento del servizio di pulizia delle pertinenze e degli stabili comunali di Pont-Saint-Martin per il triennio 2019-2022 adottato da In.Va. S.p.A. – Centrale Unica di Committenza della Regione autonoma Valle d’Aosta. La Centrale aveva escluso la società ricorrente sul presupposto dell’inderogabilità delle clausole del disciplinare di gara che stabilivano che il costo del lavoro non potesse essere soggetto a ribasso, mentre essa aveva formulato un’offerta contenente un ribasso al costo del lavoro. Assumendo l’illegittimità della predetta esclusione, la ricorrente ne chiedeva l’annullamento, in via principale, per violazione e/o falsa applicazione dell’art. 97, comma 5, del d.lgs. n. 50/2016, avendo la stessa offerto un ribasso sul costo del lavoro stabilito dalla Stazione appaltante nella lex specialis, pur non essendo possibile escludere in via automatica un’offerta in assenza di un procedimento di verifica della sua congruità. Tale doglianza veniva ritenuta fondata dal TAR.

Innanzitutto, le clausole non appaiono di significato univoco, stante l’assenza di una espressa comminatoria di esclusione in caso di loro violazione (sulla tassatività delle cause di esclusione dalle gare, cfr. Consiglio di Stato, III, 26 luglio 2019, n. 5295). Ma l’esclusione della ricorrente dalla gara non è legittima secondo il Collegio, in considerazione della impossibilità di ritenere ex se anomala un’offerta che indichi un costo della manodopera inferiore a quello indicato dalla Stazione appaltante, dovendo necessariamente lo stesso costo essere valutato nell’ambito della verifica di congruità, tenuto conto che di regola le tabelle redatte dal Ministero competente su cui si fonda la valutazione della Stazione appaltante esprimono un costo del lavoro medio, ricostruito su basi statistiche, per cui esse non rappresentano un limite inderogabile per gli operatori economici partecipanti a procedure di affidamento di contratti pubblici, ma solo un parametro di valutazione della congruità dell’offerta, con la conseguenza che lo scostamento da esse, specie se di lieve entità, non legittima di per sé un giudizio di anomalia (Consiglio di Stato, V, 6 febbraio 2017, n. 501; altresì, III, 13 marzo 2018, n. 1609; III, 21 luglio 2017 n. 3623; 25 novembre 2016, n. 4989). Né è rilevante l’eccezione formulata dalla Stazione appaltante, in ordine alla stretta connessione esistente tra la prescrizione relativa all’inderogabilità del costo del lavoro e la clausola sociale di cui all’art. 23 del Disciplinare, dal momento che dall’articolo 50 del d.lgs. n. 50/2016 non emerge affatto un vincolo assoluto in capo al partecipante alla gara (e futuro aggiudicatario) di dover assorbire necessariamente il personale attualmente impiegato presso l’Amministrazione procedente, essendo un tale impegno da conciliare con le esigenze produttive e la libertà di impresa del concorrente La cd. clausola sociale, difatti, deve essere interpretata conformemente ai principi nazionali e dell’Unione europea in materia di libertà di iniziativa imprenditoriale e di concorrenza, risultando altrimenti lesiva dei richiamati principi nel senso di scoraggiare la partecipazione alla gara e di limitare eccessivamente la platea dei partecipanti.

  

LEGITTIMA L’ESCLUSIONE DAL CONCORSO STRAORDINARIO PER DOCENTI DELLA SCUOLA DELL’INFANZIA E PRIMARIA DI COLORO CHE HANNO PRESTATO SERVIZIO SOLTANTO NELLA SCUOLA PARITARIA
TAR Valle d’Aosta – R.G. 9 e 11/2019 – sent. 10 luglio 2019 – 18 agosto 2019, nn. 40 e 41,
 Pres. Migliozzi, Est. De Vita 
[Belley & al. E Barailler & al. c. Regione autonoma Valle d’Aosta]

 

Il TAR Valle d’Aosta ha respinto i ricorsi con i quali svariati docenti avevano impugnato il Decreto del Presidente della Regione Valle d’Aosta n. 26596/SS del 14 dicembre 2018, con il quale era stato indetto un concorso straordinario, per titoli ed esami, finalizzato al reclutamento a tempo indeterminato di personale docente per la scuola dell’infanzia e primaria su posto Comune e di sostegno nelle istituzioni scolastiche della Regione autonoma Valle d’Aosta, nella parte in cui non prevedeva la possibilità di prendervi parte per coloro che, come i ricorrenti, hanno prestato servizio esclusivamente nella scuola paritaria, pur essendo quest’ultima a tutti gli effetti equiparata dalla normativa scolastica alla scuola pubblica, statale e regionale. La doglianza veniva ritenuta infondata dal Collegio, dal momento che nel Decreto impugnato i requisiti di partecipazione al concorso straordinario sono stati stabiliti direttamente, e con efficacia cogente, dal legislatore statale, con l’ovvia conseguenza che l’Amministrazione scolastica regionale si è limitata a recepirli senza apportarvi alcuna modifica o integrazione. Non residuando, pertanto, in capo alla Regione alcun margine di discrezionalità in ordine all’individuazione dei requisiti di partecipazione al concorso straordinario per il reclutamento a tempo indeterminato di personale docente per la scuola dell’infanzia e primaria, deve essere respinta la censura proposta dai ricorrenti, attesa, in parte qua, la perfetta corrispondenza al dettato legislativo dell’impugnato provvedimento regionale.

In subordine, i ricorrenti eccepivano l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1-quinquies, lett. a e b, del decreto legge n. 87 del 2018, convertito con modificazioni dalla legge n. 96 del 2018, in relazione agli artt. 3 e 97, secondo comma, della Costituzione, avuto riguardo alla disposta equiparazione a livello normativo delle scuole paritarie rispetto a quelle statali o regionali, in quanto tutte appartenenti al sistema nazionale e regionale di istruzione e svolgenti un servizio pubblico, cui conseguirebbe l’assoluta parificazione dell’attività svolta dai docenti operanti nei diversi comparti, come pure dei loro titoli di servizio. Anche tale doglianza veniva dichiarata infondata. Una tale argomentazione tuttavia non risulta condivisibile, rendendo di conseguenza priva del requisito della “non manifesta infondatezza” di cui all’art. 23, secondo comma, della legge n. 87 del 1953 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), la prospettata questione di costituzionalità.

In primo luogo, il TAR sottolineava la natura straordinaria del concorso – per titoli e prova orale (art. 7 del Bando) – espressamente bandito “in deroga alle ordinarie procedure autorizzatorie, che rimangono ferme per le successive immissioni in ruolo”, poiché lo stesso risulta riservato ad alcune categorie di soggetti e quindi si pone alla stregua di un’eccezione rispetto alla regola generale del concorso pubblico, quale procedura aperta a tutti e destinata a selezionare i migliori, come stabilito dall’art. 97, quarto comma, della Costituzione (cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 40 del 2018). Tale procedura concorsuale straordinaria, riservata, è stata avviata allo scopo di sanare in qualche misura la posizione dei docenti in possesso di diploma magistrale conseguito entro l’anno scolastico 2001/2002, i cui contratti di lavoro, stipulati a seguito dell’inserimento con riserva nelle graduatorie ad esaurimento, sono decaduti (o decadranno) all’esito dei provvedimenti giurisdizionali successivi alla celebre pronuncia del Consiglio di Stato, Ad. plen., 20 dicembre 2017, n. 11, in base alla quale l’abilitazione all’insegnamento nella scuola materna ed elementare non costituisce titolo sufficiente per l’inserimento nelle graduatorie permanenti istituite dall’art. 401 d.lgs. 297/1994, essendo, invece, previsto a tale fine il superamento di procedure di natura concorsuale.

Secondo il TAR Valle d’Aosta, la posizione dei docenti delle scuole pubbliche rispetto a quelli delle scuole paritarie, pur essendo caratterizzata da una sostanziale equipollenza (cfr. legge n. 62 del 2000; in giurisprudenza, ex multis, Cassazione, Sez. Lavoro, 20 febbraio 2018, n. 4080), non può essere assunta come del tutto identica, avuto riguardo alla ontologica e ineliminabile differenza legata alla natura pubblica delle prime e alla natura privata delle seconde, da cui discende un diverso meccanismo di selezione, almeno a livello astratto (Consiglio di Stato, VI, ord. 15 settembre 2018, n. 4378). Del resto, la non perfetta identità delle due posizioni sembra avvalorata proprio dalla normativa che ha stabilito, ad alcuni fini, l’equiparazione del servizio prestato presso le scuole paritarie rispetto a quello svolto presso gli istituti pubblici (cfr. art. 2, comma 2, della legge n. 333 del 2001), visto che in assenza di tale espressa specificazione non si sarebbe avuta alcuna assimilazione tra le due tipologie di servizio; inoltre, ciò sembra rafforzare la tesi che, per gli altri aspetti, nel silenzio della legge, non vi sia perfetta corrispondenza tra i ruoli posti a confronto. Ne discenderebbe che siffatta differenziazione rappresenta una “causa normativa” non palesemente irrazionale e quindi rispettosa del canone di ragionevolezza di cui all’art. 3 della Costituzione. Risulterebbe chiara, difatti, l’intenzione del legislatore di incidere sulla posizione dei docenti che lavorano presso le istituzioni scolastiche statali, al fine di garantirne il riassorbimento e superare il “precariato storico”. Che la giustificazione del legislatore sia razionale emergerebbe, del resto, anche da una recente pronuncia della Corte costituzionale (sent. n. 62/2018), in base alla quale l’individuazione degli insegnanti legittimati al corso abilitante per l’insegnamento di strumento musicale sarebbe lecitamente avvenuto tra coloro in quali avevano già in concreto prestato quella stessa attività didattica per la quale aspirano ad abilitarsi.

In definitiva, la decisione di giudicare manifestamente infondata l’eccezione di legittimità costituzionale dei ricorrenti non sembra ben motivata, ma anzi pare tradire più di un dubbio da parte dello stesso giudice amministrativo, atteso che la giustificazione del trattamento riservato ai docenti delle scuole pubbliche viene sostanzialmente fatta coincidere con il principio della discrezionalità del legislatore. In particolare, la distinzione tra servizio reso in scuole pubbliche o in scuole paritarie viene apoditticamente ritenuta causa normativa non palesemente irrazionale, quando, invece, l’appartenenza di tutti i docenti al sistema nazionale di istruzione quale regola generale dell’ordinamento avrebbe dovuto far quantomeno dubitare il G.A. del contrario. [G. Boggero]

 

ILLEGITTIMO IL DECRETO DEL MINISTERO DELLE INFRASTRUTTURE E DEI TRASPORTI CHE NEGAVA L’ADEGUAMENTO TARIFFARIO ALLA SOCIETA’ AUTOSTRADALE CONCESSIONARIA
TAR Valle d’Aosta – R.G. 10/2018 – sent. 12 giugno 2019 – 27 giugno 2019, n. 34,
 Pres. Migliozzi, Est. Soricelli 
[Raccordo Autostradale Valle d’Aosta S.p.A. c. Ministero Infrastrutture e Ministero Finanze]

 

Il TAR Valle d’Aosta ha accolto il ricorso della società concessionaria dell’esercizio dell’autostrada Aosta – Traforo del Monte Bianco avverso il decreto con il quale il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti le aveva negato l’adeguamento delle Tariffe autostradali per gli anni 2014-2018 nella misura richiesta. In particolare, la società contestava la legittimità del provvedimento di adeguamento e dei relativi atti presupposti sostenendone l’illegittimità per contrasto con la convenzione e difetto di presupposti e istruttoria. Pertanto, ne chiedeva l’annullamento nella parte in cui non riconosceva in toto l’adeguamento tariffario richiesto.

Nel dichiarare in parte fondato il ricorso, il TAR premette che non è compito del giudice amministrativo procedere alla determinazione della esatta misura dell’adeguamento spettante alla ricorrente; la fissazione della misura dell’adeguamento annuale è riservata infatti al concedente che deve procedervi nel rispetto delle disposizioni procedimentali. Compito del giudice è soltanto quello di verificare se i vizi del provvedimento di adeguamento tariffario impugnato denunciati dalla ricorrente siano o meno effettivamente sussistenti. Rispetto all’anno 2014, il TAR riscontrava un difetto di motivazione e istruttoria e in particolare l’impiego di un metodo di calcolo errato. Stessa cosa doveva dirsi per il mancato riconoscimento dell’“effetto composto”, cioè la (ulteriore) percentuale di incremento tariffario corrispondente a quanto il concessionario avrebbe ottenuto se gli adeguamenti relativi agli anni 2014-2017 fossero stati riconosciuti alle scadenze prestabilite.

La circostanza che la convenzione non preveda l’effetto composto, su cui si basa la posizione dell’Amministrazione, deriva dal fatto che la convenzione prevede il fisiologico svolgersi del rapporto concessorio stabilendo che la Tariffa venga adeguata anno per anno; se le previsioni della convenzione fossero state fisiologicamente applicate evidentemente un problema di “effetto composto” non si sarebbe mai potuto verificare; tale problema nasce dalla circostanza che il rapporto tra la ricorrente e il Ministero è in una fase patologica ormai da anni e che il Ministero abbia con il provvedimento impugnato proceduto ad un aggiornamento che si riferisce a un periodo di 5 anni e non al solo 2018 (come sarebbe stato fisiologico). In questa situazione la pretesa della ricorrente è (metodologicamente) corretta nel senso che l’adeguamento tariffario per gli anni precedenti al 2018 deve essere eseguito per così dire “ora per allora”, cioè tenendo conto che ogni incremento annuale ha come “base” una Tariffa che ingloba l’incremento riconosciuto nell’anno precedente. Lo stesso doveva dirsi, ancora, per motivi analoghi fondati su riscontri fattuali e grazie all’ausilio della consulenza tecnica, con riferimento alla percentuale di adeguamento del 2015, 2016 e 2018. Infondato era dichiarato il motivo di ricorso con il quale era stata denunciata l’illegittimità del decreto nella parte in cui per l’anno 2015 riconosce come percentuale di inflazione lo 0,60% a fronte del 1,5% richiesto. Conclusivamente, quindi, il ricorso veniva in parte accolto con conseguente annullamento dell’atto impugnato nei limiti dell’interesse della ricorrente e delle censure riconosciute fondate e con salvezza delle ulteriori determinazioni dell’autorità amministrativa. [G. Boggero]

 

 

 

 



[1] Accordo già approvato e attuato dalla Regione Piemonte con D.G.R. n. 42-5805 del 20 ottobre 2017; con D.D. n. 463 del 31 ottobre 2017 e con D.G.R. n. 57-7628 del 28 settembre 2018 (recante lo schema delle misure di limitazione delle emissioni).