Sviluppo regionale e istituzioni in Piemonte: spunti di riflessione

Stefano Piperno[1]

Introduzione.

L’avvio della legislatura regionale è una buona occasione per riproporsi alcune domande: come sta l’economia del Piemonte? Quali le sue prospettive di medio periodo? Hanno ragione i pessimisti che sostengono che la regione sia entrata in una spirale di declino relativo? Quanto pesa nella diagnosi il confronto tra le aree metropolitane di Torino e Milano? Cosa bisognerebbe fare per rilanciare lo sviluppo? Quale il ruolo possibile del sistema delle autonomie? Si tratta di domande rispetto alle quali studiosi, amministratori e operatori hanno offerto nel passato più o meno recente varie risposte basate su analisi retrospettive e visioni prospettiche di medio periodo. Il punto di partenza è un dato inoppugnabile: nell’ultimo decennio (il periodo post-crisi) la traiettoria di sviluppo della nostra regione si è nettamente indebolita in termini comparati rispetto alle regioni più dinamiche del nostro Paese, per non parlare di quelle europee. Il rallentamento, peraltro, era già avvertibile sin dalla fine degli anni ‘80, segno di una tendenza di lungo periodo. La spiegazione di questo ritardo va ricondotta alle caratteristiche strutturali dell’economia regionale e alla loro evoluzione nell’ultimo ventennio, avendo però l’accortezza di non restare ingabbiati nei suoi confini amministrativi in una sorta di visione antropomorfica del Piemonte. La scienza economica regionale ha da tempo mostrato come questi (non solo per il Piemonte) siano nello stesso tempo “troppo piccoli” e “troppo grandi”: da un lato, sono presenti sempre più interrelazioni e flussi socio-economici e culturali con territori al di fuori dei confini amministrativi regionali[2], con una crescita delle reciproche esternalità, dall’altro, al loro interno, si sono configurati diversi sistemi economico-territoriali con caratteristiche, dinamiche e esigenze diversi, tanto che da tempo si parla di più Piemonti, che però scompaiono quando si ragiona sui valori medi regionali. Il ritardo piemontese in termini aggregati va visto come il saldo finale di una serie di trasformazioni socio-economiche a livello settoriale e spaziale che identificano punti forza e di debolezza sui quali è necessario intervenire con politiche a livello sovra e sub-regionale. Se tutto questo è vero vi sono significative implicazioni di carattere istituzionale. Dobbiamo infatti chiederci in che misura i profondi cambiamenti socio-economici e territoriali in atto richiedano anche una trasformazione del ruolo svolto dalle istituzioni locali nel sistema delle relazioni intergovernative del nostro Paese dopo un decennio di grave crisi finanziaria. Questo vale in particolare per le Regioni alla vigilia del loro cinquantesimo compleanno (2020) e, tra l’altro, dopo una fase di intenso dibattito sui modelli di regionalismo differenziato considerati funzionali allo sviluppo. Partendo da queste premesse il contributo presenta alcune riflessioni sulla situazione economica della regione, sulle sue prospettive e su alcune implicazioni che se ne possono trarre rispetto al sistema regionale delle autonomie per quello che concerne le politiche di sviluppo.

 

1. Come sta l’economia del Piemonte e quali sono le sue prospettive?

Diagnosi recenti di tipo generale sul Piemonte sono desumibili dalle Relazioni annuali dell’IRES e della Banca d’Italia, oltre che da numerosi altri studi degli stessi e di altri centri di ricerca[3]. La lettura di questi documenti insieme ad un richiamo dei principali dati di contabilità regionale consente di offrire una sintetica valutazione di tipo congiunturale e strutturale.

 

La congiuntura di breve periodo.

È in atto un rallentamento congiunturale dell’economia piemontese dopo l’evoluzione positiva del biennio 2017- 2018. Ciò aveva fatto sperare in un più veloce ricupero dei livelli di reddito pre-crisi (2007), che però non saranno raggiunti neanche questo anno. Il rallentamento riscontrato nella seconda metà del 2018 si è infatti accentuato nella prima metà del 2019, a seguito di un indebolimento del ciclo in tutta Europa, con impatti negativi sulle esportazioni regionali. Pesa l’andamento negativo nell’ultimo biennio del comparto automotive e del tessile a fronte di una tenuta di altri settori industriali- in particolare l’alimentare- e dei servizi. Il ricupero avvenuto sinora nell’occupazione, nei redditi e nei consumi è quindi destinato a rallentare. In termini comparati, comunque, la ripresa congiunturale del biennio 2017-2018 è stata inferiore a quella del Nord Ovest, così come lo è stata l’evoluzione della produttività del lavoro e dell’occupazione. Il rallentamento globale in corso non consente previsioni positive per il biennio 2019-2020. Complessivamente si riducono le intenzioni di fare investimenti significativi da parte delle imprese.  Mentre scriviamo si fanno più impellenti le richieste di interventi di politica industriale che scongiurino una grave crisi del comparto automotive investito da trasformazioni epocali che rischia di propagarsi sul suo indotto e su tutta filiera metalmeccanica, pur con le opportunità, ma anche i rischi, che potrebbero aprirsi con l’accordo tra FCA e PSA. Del resto, l’area di Torino corrispondente al suo sistema locale del lavoro è stata dichiarata area di crisi industriale complessa dal Mise (insieme alle aree di Trieste, Venezia e Savona nel nord) al fine di definire un progetto di riconversione e riqualificazione industriale (PRRI) che però ancora non ha assunto una configurazione precisa. In questo senso l’ andamento congiunturale diventa solo una fotografia di breve periodo che per acquisire senso deve essere letto all’interno delle problematiche strutturali della regione.

 

Tendenze strutturali: stagnazione o declino?

Una veduta retrospettiva a partire dall’inizio della crisi economica (2007) mette in luce come il suo impatto si sia riflesso in maniera asimmetrica nelle regioni del nord Italia. Il Piemonte presenta ancora nel 2018 un valore del prodotto interno lordo regionale inferiore (-5,7 %) rispetto al 2007, così come la Valle d’Aosta (-11,1%) e la Liguria (-10,6%), tutti inferiori al valore medio italiano (-4,4%). Viceversa, la Lombardia le altre regioni del nord mostrano un andamento positivo, ad eccezione del Friuli Venezia Giulia, ricuperando il livello produttivo pre-crisi (Tabella 1). Analoghi andamenti si riscontrano nei valori pro-capite, nonostante la riduzione della popolazione nella nostra regione (Figura 1) a fronte di una sua crescita in Lombardia Veneto e Trentino Alto Adige. In termini di graduatoria finale il Piemonte presenta il valore più basso del Pil pro-capite nel 2018. Nella tabella è riportato anche il Regional competitiveness index (RCI), un indicatore composito della competitività delle regioni europee[4], ovvero della capacità di un territorio di offrire a imprese e residenti un contesto attrattivo e sostenibile, normalizzato in maniera da avere un valore da 0 a 100 (massimo valore). Le regioni italiane presentano tutte un valore medio basso e tra quelle settentrionali il Piemonte si colloca in terza posizione, pressochè alla pari con il Veneto, segno di una regione dotata ancora di un potenziale attrattivo, ma comunque inferiore a Lombardia, Emilia e Romagna e Provincia di Trento[5]. Nello stesso tempo anche la dinamica demografica mostra andamenti diversi tra i due gruppi di Regioni: tra il 2014 e il 2019 le prime tre mostrano una diminuzione della popolazione, mentre in tutte le altre, ad eccezione del Friuli, si assiste ad una crescita.  

Fonte : Per il PIL  e il tasso di disoccupazione Istat; per il Pil 2018 stime Prometeia. Valori a prezzi costanti. Valori pro capite in migliaia di   euro. Per la ricchezza Banca d’Italia, valori 2017 relativi a attività reali e finanziarie al netto delle passività finanziarie.

(°) Valore del Trentino Alto Adige.

(*) RCI: Regional competitiveness index  con valori da 0 a 100 per tutte le regioni dell’UE a livello di NUTS2 ; per la  metodologia basata su   dati 2015-18.  Cfr. European Commission (2019).

(**) Fonte: Banca d’Italia 2019. Indicatore sulla qualità dei servizi pubblici locali, tratto da EQI European Quality of Government Index calcolato dal Quality of Government Institute dell’Università di Goteborg per conto della Commissione europea; valori tra 0 e 100 dove i valori più alti indicano migliori servizi. Media dei valori riferiti al 2010,2013 e 2017.Si basa su percezioni soggettive desunte indagini campionarie distribuite ai cittadini della UE-28; cfr.Charton, Djkastra e Lapuente (2014) e Charton, Lapuente e Annoni (2019). 

 

Figura 1 PIL pro capite nelle regioni settentrionali nel periodo post-crisi.

Numeri indice: 2007=100

 

                        Fonte: Istat e Prometeia. Valori a prezzi concatenati.

 

Nella tabella vi sono altri tre altri indicatori significativi. Il primo è relativo alla ricchezza netta pro-capite, rilevante in un Paese ad alto tasso di risparmio come il nostro. Mentre Valle d’ Aosta e Liguria presentano un valore superiore a Lombardia, Veneto e Emilia-Romagna, il Piemonte risulta il fanalino di coda insieme al Friuli. Le prime due regioni presentano un fenomeno che potremmo definire di “ricchezza senza reddito”, ovvero di regioni con grosso potenziale di accumulazione che però non investono, mentre per il Piemonte l’indebolimento produttivo si associa a un livello di ricchezza pro-capite che risulta il più basso nel Nord. Infine, abbiamo riportato un indicatore sulla qualità dei servizi pubblici locali, che costituisce un fattore competitivo per la localizzazione di imprese e famiglie e che, notoriamente, presenta una notevole differenziazione territoriale nel nostro Paese. Si tratta di un indicatore che è stato utilizzato proficuamente in numerosi studi empirici per spiegare il successo di alcune politiche di sviluppo[6]. Anche in questo caso il Piemonte non brilla in termini comparati.

Si tratta di una fotografia del Piemonte per la quale è bene ricordare che il rallentamento relativo rispetto ad altre regioni a maggiore specializzazione manifatturiera era già presente sin dagli anni ’80, seguendo un trend ininterrotto dal dopoguerra (Fig.2).  

 

Figura 2 Pil per abitante in Piemonte, 1951-2017. Italia =100

                                  Fonte: Felice (2015) e per il 2017 Istat.

 

Recenti studi dell’IRES[7] hanno messo in luce come la differente performance del Piemonte -almeno nell’ultimo decennio- non sia legata tanto alla sua specializzazione settoriale ma alla minore crescita di settori produttivi comuni alle altre regioni. Questo vale soprattutto per i comparti del commercio, delle attività professionali scientifiche e tecniche e servizi amministrativi di supporto, della sanità e assistenza. Viceversa, una componente positiva che ha controbilanciato tali andamenti negativi è rappresentata dai settore industriali della gomma e della plastica e dell’alimentare. È quindi all’interno del terziario che si annida il ritardo regionale. Servizi alle imprese e commercio sono rimasti indietro in termini di innovazione produttiva e organizzativa a fronte di trasformazioni in atto nelle diverse filiere produttive, oltre che a processi di trasferimento di importanti centri direzionali di alcune società al di fuori della regione. Il terziario piemontese si caratterizza quindi per servizi “poveri”, a differenza di quanto accade in Lombardia.  I ritardi nel settore dei servizi sanitari e socio assistenziali sono poi legati ai vincoli introdotti dal piano di rientro per la politica sanitaria regionale fino al 2017 che ha comportato una riduzione della spesa corrente in tale settore (a differenza delle altre Regioni del nord). Parallelamente, si è accentuato il divario negativo rispetto alle altre regioni nella dinamica della produttività del lavoro. Nel periodo di crisi si è poi assistito ad una sorta di selezione naturale delle imprese che ha portato ad una loro diminuzione di circa 30000 unità tra il 2009 e il 2016, in parallelo ad una contrazione di quelle che svolgono attività innovativa di prodotto e di processo. La riduzione si è concentrata nelle imprese medio-piccole e ciò può essere anche un segnale positivo nella misura in cui le imprese adottino formule giuridico organizzative più solide, ad esempio aumentando il peso delle società di capitale come emerge dai registri delle imprese. In definitiva, emerge un settore produttivo regionale ridotto ma con imprese rafforzate che comunque necessitano spesso di interventi di orientamento e sostegno quali quelli previsti dai fondi strutturali europei[8]. Questa dinamica negativa legata ad una minore attrattività della regione ha avuto come conseguenza anche una tendenziale riduzione della popolazione insieme al suo invecchiamento progressivo.

 

Una nuova geografia del nord?

I differenziali di sviluppo rispetto alle altre regioni del nord suggeriscono però anche una lettura a livello macro-regionale[9], come è stato recentemente proposto dalla Fondazione Edison e, precedentemente, dal Centro studi Sintesi per conto delle sedi di Veneto, Lombardia e Emilia-Romagna della CNA[10]. Aggregando i dati regionali gli indicatori prima commentati farebbero emergere un nuovo triangolo di sviluppo tra le aree urbane di Milano, Treviso-Padova e Bologna (Figura 1) con estensioni verso Venezia, Trieste, Trento e Bolzano che si proiettano poi nella mitteleuropa. Questa area territoriale copre le regioni Lombardia, Veneto, Emilia- Romagna, Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia, ovvero due Regioni a statuto speciale e le altre Regioni del Nord, determinando quello che è stato recentemente definito come il “pentagono dello sviluppo” dalla Fondazione Edison[11]. I dati aggregati segnalano una crescita di quasi 2,5 punti percentuali nel peso delle regioni del c.d. pentagono (nordest e Lombardia) in termini di prodotto tra il 2000 e il 2017 (Tab.2) a fronte di una diminuzione di quello del nordovest senza Lombardia di 0,61 punti. Considerando solo l’aggregato settentrionale la diminuzione sarebbe però di quasi due punti percentuali. In ambedue i casi l’evoluzione è sostanzialmente ascrivibile all’aumento del peso della Lombardia che risulta la vera regione motrice.

 

Tabella 2 Peso percentuale del PIL delle aggregazioni macro-regionali

         

 

                                        Fonte: Istat; Nordovestridotto: al netto della Lombardia.

 

D’altro canto, negli studi richiamati si mette in luce anche l’aumento delle interazioni spaziali di vario tipo tra i territori del nuovo triangolo/pentagono dello sviluppo legati anche a specifici assi infrastrutturali, giustificando una lettura macro-regionale di questo tipo.

 

Figura 1 La nuova mappa dello sviluppo nel nord

 

Quello che sta avvenendo pone anche in discussione l’articolazione territoriale macro-regionale dell’Istat dove la Lombardia continua a far parte della ripartizione nord occidentale, mentre in base a quanto appena visto sarebbe più integrata con la ripartizione nord est, attraendo verso di se anche buona parte del Novarese e del Verbano Cusio Ossola[12].

Una valutazione esauriente sulla validità di queste letture dell’assetto territoriale settentrionale[13] richiederebbe un approfondimento a parte, suffragato anche da ulteriore evidenza empirica basata su indicatori più specifici. In ogni caso, colpisce quanto la immedesimazione in  questo nuovo nord est allargato sia sempre più diffusa a livello politico e tra le forze sociali all’interno di quell’area[14]. Rispetto alla prospettiva dell’area integrata tra Milano e Torino (MITO) elaborata alla fine degli anni ’80, e poi ripresa all’inizio degli anni 2000, il cambiamento di visione è rilevante e pone certamente degli interrogativi per le strategie di sviluppo del Piemonte. Ugualmente questa evoluzione contraddirebbe la lettura basata sulla ricomposizione unitaria del nord Ovest con il NEC (Nord Est e Centro), ovvero quell’area che negli anni 70 era stata definita come terza Italia da Arnaldo Bagnasco (1977), secondo una recente ricostruzione (Felice, 2015). Da un punto di vista istituzionale la risposta del Piemonte rispetto a una evoluzione economico territoriale di questo tipo può essere data soprattutto inquadrando le politiche regionali in un’ottica sovra-regionale (si pensi solo ai poli logistici) e identificando meglio i possibili processi di interazione dinamica fra regioni attraverso progetti coordinati, in una ottica di complementarietà più che di competizione[15]. Il problema, come si vedrà, è però chiedersi chi deve prendersi carico di questo compito.

 

Il mosaico del Piemonte.

D’altro canto, il Piemonte presenta notevoli differenziazioni nelle dinamiche di sviluppo a livello sub-regionale. Vi sono quattro ambiti territoriali di riferimento principali: il polo metropolitano torinese (che copre istituzionalmente tutta la provincia di Torino), il Piemonte sud occidentale, identificabile con la provincia di Cuneo, l’area nord orientale che copre le province di Biella, Novara, Verbano-Cusio-Ossola e Vercelli, e infine l’area sud orientale con le province di Asti e Alessandria. Queste sono anche le aggregazioni, definite quadranti, della programmazione territoriale regionale piemontese[16]. Ovviamente, potrebbero essere ulteriormente ricomposte o disaggregate in base a parametri alternativi: si pensi ad una semplificazione basata sulla dicotomia tra Piemonte metropolitano ed extra metropolitano, o ad una ulteriore distinzione scomponendo il nord est attraverso l’aggregazione dell’area del Verbano Cusio Ossola con quella di Biella e dell’area di Vercelli con quella di Novara. Qualunque strada si scelga queste articolazione sub-regionali presentano specificità socio economico e territoriali che ne hanno determinato traiettorie di sviluppo significativamente diverse, non percepibili nei valori medi regionali. Disaggregando il tasso di sviluppo del PIL a livello provinciale il dato negativo piemontese nasconde una significativa variabilità delle dinamiche: si passa da una diminuzione cumulata del -6% di Biella ad una del -15% di Vercelli (Tabella 2).

 

 Tabella 2 Dinamica cumulata del PIL a livello provinciale in %      

 

Fonte: Prometeia, valori concatenati.

 

In conclusione, non è possibile studiare e interpretare lo sviluppo di una regione definita in termini amministrativi solo attraverso grandezze aggregate da confrontare con quelle di altre regioni. Esiste una eterogeneità intrinseca e non accidentale delle caratteristiche strutturali nonché dei comportamenti soggettivi e di gruppo nelle diverse aree sub-regionali che rendono i valori medi regionali spesso fuorvianti. Lo stesso, del resto, si può dire a livello nazionale, sin dalla scoperta della “Terza Italia”, richiamata prima, così come delle “cento Italie” rappresentate da sistemi locali del lavoro e distretti industriali mutevoli nel tempo, anche se negli ultimi anni la riflessione in materia sembra essersi ristretta all’alveo delle scienze regionali senza incidere adeguatamente nel disegno delle politiche pubbliche. Ma cosa spiega queste differenziazioni? Una risposta esauriente si trova nella sterminata bibliografia, italiana e internazionale, sulle problematiche connesse allo “sviluppo locale” e ai suoi fattori determinanti ma va al di là degli scopi di questo contributo. Richiamiamo solo due profili di analisi che possono risultare utili anche per disegnare politiche regionali di sviluppo. Il primo è rappresentato dall’approccio seguito da una organizzazione come l’OECD[17] che ha sempre finalizzato i suoi studi al disegno delle politiche, in particolare di quelle dei livelli subnazionali di governo. I fattori determinanti dello sviluppo di una determinata area territoriale possono essere sintetizzati nel concetto di “capitale territoriale” rappresentato dal complesso degli elementi (materiali e immateriali) a disposizione del territorio, i quali possono costituire punti di forza o veri e propri vincoli a seconda degli aspetti presi in considerazione. Esso può essere distinto a seconda delle sue caratteristiche di bene pubblico vs. bene privato e di materialità vs. immaterialità. La Tavola 1 sintetizza gli aspetti distintivi di tale concetto ed è basata su un approfondimento di Camagni e Dotti (2009) correlato proprio ad una serie di studi sullo sviluppo del Nord Italia promossi nel primo decennio del secolo. Le varie componenti del capitale territoriale possono poi essere rappresentate da diversi indicatori (dalle caratteristiche strutturali dell’occupazione alla presenza del volontariato, ecc.) non sempre facilmente quantificabili. 

 

                Tavola 1 Le componenti del capitale territoriale

 

  Fonte: Camagni, Dotti, 2009.

Il concetto è molto vasto e include al suo interno anche il c.d. capitale sociale la cui definizione non è sgombra di equivoci ma è utile in quanto viene a comprendere tutti gli elementi che identificano la capacità autorganizzatoria dei diversi sistemi locali territoriali, in particolare in termini di progettazione autonoma[18]. Il concetto può essere reso operativo sviluppando anche graduatorie sia tra regioni, nelle quali il Piemonte si colloca in una posizione intermedia[19], sia tra aree sub-regionali.

Scorrendo i contenuti delle diverse componenti, a partire soprattutto da quelle a rivalità medio-bassa, emerge il potenziale, rilevante, ruolo delle politiche regionali e locali. Pensiamo, ad esempio, a quello che ha voluto dire la valorizzazione del patrimonio culturale e ambientale per il Piemonte per consentire un processo di riconversione produttiva meno traumatico soprattutto nell’area metropolitana torinese. Ugualmente, tale concettualizzazione consente di identificare fattori di forza e debolezza nelle diverse aree sub-regionali che richiedono politiche differenziate sul territorio, come viene riportato a scopo illustrativo nella Tavola 2 con riferimento ai quadranti sub-regionali piemontesi.

Un secondo profilo dei percorsi sub-regionali di sviluppo è legato invece alle caratteristiche dell’urbanizzazione del nostro Paese. L’Italia presenta un minore peso delle grandi agglomerazioni urbane rispetto alla gran parte dei paesi avanzati. Considerando la popolazione che vive nelle prime otto città per dimensione, tra i maggiori Paesi europei l’Italia presenta una struttura urbana più concentrata solo relativamente alla Germania (Banca d’Italia, 2019). La struttura policentrica del nostro Paese costituisce una caratteristica che può diventare anche una opportunità da valorizzare. Questa caratteristica si ritrova anche in Piemonte dove uno dei problemi storici è stato sempre il rapporto tra l’area metropolitana di Torino e gli altri sistemi urbani della regione che si possono individuare nella rete delle sue città medie, come definite da ANCI-IFEL[20], in gran parte capoluoghi di provincia. Tutte le aree urbane infatti, non solo gli ambiti metropolitani, con la progressiva terziarizzazione dell’economia godono dei vantaggi economici in termini di produttività dovuti ai fenomeni agglomerativi.

 

Tavola 2 Un esempio di analisi dei punti di forza e debolezza, delle opportunità e minacce identificate nei quadranti del Piemonte

Fonte: Progetto Antenne; cfr. Ires (2017, 2018a, 2018b, 2019). Ogni casella contiene a titolo esemplificativo uno solo degli elementi identificati nelle analisi SWOT di quadrante.

 

Resta poi il “non urbano” riconducibile ad aggregazioni che comprendono i sistemi periurbani, le aree urbano-rurali e le aree interne[21].

Ovviamente, anche la dotazione di capitale territoriale è legata alle diverse caratteristiche di urbanità dei territori. È all’interno di questo reticolo che vanno poi monitorati, valutati e promossi i fenomeni di associazionismo/aggregazione intercomunale che hanno avuto un significativo sviluppo negli ultimi anni.

 

2. Implicazioni istituzionali per una politica di sviluppo regionale.

La domanda che a questo punto ci possiamo porre è se e in che misura l’attuale assetto delle relazioni intergovernative sia funzionale rispetto politiche di sviluppo richieste dalle trasformazioni economico territoriali tratteggiate in precedenza. In un sistema in cui le competenze tra livelli di governo si intrecciano e sono quasi sempre condivise, senza un efficace coordinamento tra livelli di governo si può registrare un effetto negativo anche sulla competitività regionale. Ma come si articolano le relazioni tra livelli di governo per quello che concerne le politiche regionali di sviluppo? Partiamo dalla Regione. Il periodo successivo alla approvazione dello Statuto del 2005 è stato caratterizzato dalla sempre più marcata “europeizzazione” degli strumenti e documenti di programmazione regionale sia per quanto concerne i codici espressivi utilizzati, che nella scelta dei temi e degli obiettivi principali. Sotto questo profilo il Piemonte non si discosta dalle altre Regioni del centro nord. Nelle ultime legislature la programmazione regionale ha poi trovato un nuovo contesto istituzionale attraverso l’attuazione della riorganizzazione amministrativa prevista dalla L. n. 56/2014 (Delrio) con la riarticolazione delle competenze tra Regione, Province e Comuni insieme a un ridisegno di aree vaste sovra-provinciali al di fuori della Città metropolitana di Torino, definite ambiti territoriali ottimali (Novarese, Vercellese, Biellese e Verbano- Cusio- Ossola; Astigiano e Alessandrino; Cuneese) e al cui interno le funzioni delle Province identificate dalla legge devono essere obbligatoriamente esercitate in forma associata. Piano territoriale, ridefinizione delle funzioni delle province anche attraverso aggregazioni territoriali sovra-provinciali,[22] quadri strategici e programmi operativi regionali per l’utilizzo dei fondi strutturali europei e del Fondo di sviluppo e coesione costituiscono- forse con una eccessiva ridondanza- le componenti principali dell’attuale sistema regionale della programmazione piemontese. Ad essi andrebbero aggiunti numerosi atti di programmazione settoriale legati a normative regionali specifiche e non sempre adeguatamente coordinati con la programmazione di tipo più generale.

A livello statale, dopo le riforme del 2011, i principali documenti di politica economica dello Stato sono stati definiti dalla regolamentazione europea e si sostanziano nel Documento di economia e finanza (DEF) composto da diverse parti, le principali delle quali sono due: i Piani di stabilità e convergenza per le politiche di bilancio e gli obiettivi di finanza pubblica (PNS) e i Piani nazionali di riforma (PNR) per quanto riguarda le politiche strutturali. Tutti i documenti di programmazione regionale dovrebbero allora trovare una coerenza con le finalità e i contenuti del PNS e, soprattutto, del PNR, al cui interno le riforme dell’organizzazione territoriale-amministrativa del Paese sono state sempre individuate tra le priorità. La verità è che questo ultimo non si è dimostrato ancora una sede di adeguata verifica sulla coerenza interna e complementarità delle politiche strategiche delle diverse Regioni all’interno delle priorità europee e nazionali. In particolare, nel Programma nazionale di riforma dovrebbe essere contenuta un’analisi delle azioni delle Regioni funzionali al rispetto delle raccomandazioni dell’Unione pervenute l’anno precedente. Questa parte non ha però ancora trovato un assetto definito e stabile nonostante il ruolo che svolgono i livelli inferiori di governo nelle diverse politiche pubbliche e nel DEF 2019 è rappresentata da un paragrafo finale del PNR che rinvia a documenti elaborati dalla Conferenza delle Regioni[23]. Effettivamente vi è stata sempre una partecipazione delle Regioni alla predisposizione del DEF che si è sviluppata anche attraverso la creazione una struttura tecnica dedicata della Conferenza delle Regioni e delle province autonome con il compito di predisporre un Focus regionale di sintesi delle azioni di riforma attuate sui territori regionali.

Ad una attenta lettura dei vari documenti che si sono succeduti nel corso degli anni la componente regionale del DEF nel suo complesso risulta però più una razionalizzazione ex post degli interventi regionali (spesso un mero elenco di leggi che non contiene una valutazione dei loro risultati) senza ancora un adeguato coordinamento a livello orizzontale (tra Regioni) e verticale tra Stato e Regioni (nonché tra Regioni ed enti locali). Non è quindi casuale che su questi aspetti il dibattito pubblico sia stato insufficiente. La declinazione regionale della politica economica nazionale nel contesto europeo appare in effetti ancora troppo concentrata sulle azioni connesse all’utilizzo dei Fondi strutturali dell’UE e questo nuovo sistema di programmazione multilivello è rimasto in gran parte una strategia nazionale senza un chiaro legame con le politiche regionali. In conclusione, a nostro parere, il PNR non è sinora diventato una sede di adeguata verifica sulla coerenza e complementarità delle politiche strategiche delle diverse Regioni. Ciò costituisce un grave limite alla luce del carattere multiregionale dello sviluppo in Italia e della conseguente necessità di politiche di tipo “meso” per ambiti che travalicano i confini amministrativi regionali. Per il Piemonte, le esigenze che sono emerse al fine di ricuperare il divario rispetto al nuovo triangolo/pentagono di sviluppo certamente richiedono un impegno di risorse aggiuntive regionali. Sappiamo però che queste sono limitate per i noti vincoli di finanza pubblica e in futuro si potranno basare per la maggior parte sui fondi della politica di coesione regionale. Occorrerebbe allora ripensare i meccanismi procedurali e, ancora di più, i contenuti da introdurre per sviluppare il profilo territoriale/regionale del DEF.

Oltre alla Regione, però, operano gli enti locali e il quadro che emerge è quello ancora di una sorta di labirinto istituzionale in cui vi sono almeno tre tipologie di enti comunali, il Comune centrale metropolitano (Torino), le città medie, e i “Comuni polvere”, a loro volta distinguibili in montani e non. Come si è già accennato, le caratteristiche strutturali di queste tipologie di enti sono diverse e richiedono probabilmente ordinamenti differenziati. Il coordinamento delle attività di queste varie tipologie di enti è risultato complesso anche perché l’ente intermedio provinciale ha visto molto indebolite le sue funzioni di coordinamento degli enti locali e la Regione non è sempre riuscita a colmare questo vuoto. Così si è vista scarsa integrazione tra Comune centrale della Città metropolitana e resto dei Comuni, come quello tra Città medie e Comuni contermini, e tra aree montane e non montane. Si è in definitiva assistito alla scomparsa della logica dell’ ”area vasta” ovvero di quelle dimensioni intermedie minime per garantire una maggiore coordinamento degli enti locali. Una analisi dei principali Documenti Unici di Programmazione (DUP)[24] dei Comuni all’interno dei quadranti piemontesi costruiti quasi sempre in maniera atomistica e senza la possibilità effettiva di utilizzare un profilo temporale pluriennale lo ha fatto emergere in maniera abbastanza evidente[25]. Ciò si è tradotto in iniziative specifiche senza regia unitaria come- per fare solo un esempio- la candidatura senza successo a capitale italiana della cultura delle tre città piemontesi di Cuneo, Casale e Asti.  La domanda che ci si potrebbe porre è se i sistemi regionali delle autonomie di regioni come Lombardia, Veneto e Emilia- Romagna hanno funzionato meglio aiutando così anche maggiore crescita economica. La risposta richiederebbe indagini dirette e con metodologie adeguate (e forse varrebbe la pena che qualcuno se ne assumesse il compito) ma chi scrive azzarderebbe una risposta positiva.

In conclusione, una politica regionale di sviluppo nella prospettiva del nuovo ciclo di programmazione europea 2021-2017 dovrebbe rispondere ad almeno quattro ordini di esigenze:

  1. la necessità di inquadrare le politiche regionali all’interno delle nuove dimensioni economico spaziali emerse a livello meso- regionale e sovranazionale;
  2. la necessità di legare le politiche regionali a livello sub regionale con quelle legate alla riorganizzazione amministrativa dei territori che deve tenere conto delle diverse tipologie di Comuni; anche l’identificazione delle articolazioni sub regionali dello sviluppo, che potrebbero costituire punto di riferimento per promuovere politiche di sviluppo “orientate ai luoghi”, possono costituire un elemento assai utile per l’attuazione delle riforma dell’organizzazione territoriale amministrativa del nostro Paese (trasformazione delle Province, aggregazione dei Comuni attraverso fusioni e unioni, altre forme di cooperazione);
  3. la necessità di promuovere l’attuazione del regionalismo differenziato previsto dall’art. 116, c.3 della Costituzione, per il quale è in corso l’elaborazione di una specifica richiesta da parte della Regione Piemonte[26], in un quadro coerente con le trasformazioni territoriali in corso e alla luce delle esigenze di coordinamento interregionale;
  4. la necessità di legare più strettamente le politiche regionali ordinarie (a partire da quelle sanitarie) con quelle   straordinarie legate ai fondi strutturali europei.

Parallelamente, però, occorrerebbe che lo Stato facesse la sua parte rafforzando i programmi nazionali e garantendo l’individuazione di politiche nazionali urbane esplicite[27] che sappiano adeguarsi ai modelli di policentrismo regionale che emergono dai più recenti schemi di programmazione territoriale regionale. Ugualmente, è difficile pensare a un “buon” funzionamento delle relazioni intergovernative in assenza di un completamento dell’attuazione della L. n.42/09 che garantisca anche la possibilità di un coordinamento regionale della finanza locale. Si tratta di un’agenda molto impegnativa (che certo non può essere riferita solo alla Regione Piemonte) che richiede la partecipazione di tutti livelli di governo interessati attraverso gli strumenti di coordinamento esistenti a partire dal sistema delle Conferenze[28].

 

3. Conclusioni.

Il sistema economico regionale piemontese nelle sue diverse componenti vive un periodo di transizione che negli ultimi anni, a partire dalla crisi, ha determinato una perdita del suo peso relativo rispetto ad altre regioni del Nord. In particolare, le regioni riconducibili ad un triangolo tra Milano, Bologna e Padova, che si allarga verso Venezia e si prolunga attraverso Trento e Bolzano in direzione del Brennero e dell’economia mitteleuropea, mostrano una dinamica integrata e in accelerazione. Essa ha alla sua base una crescita della base produttiva ancorata all’economia della conoscenza e una rete più adeguata di connessioni infrastrutturali che ancora manca al Piemonte verso la Francia e la Liguria (TAV e terzo valico), e che potrà diventare operativa, se va bene, alla fine del prossimo decennio. In tali aree del Paese questa trasformazione è percepita ed interiorizzata da parte degli attori locali, traducendosi in visioni del futuro comuni e richieste di maggiori poteri a livello decentrato: non è casuale che le prime tre Regioni a chiedere il regionalismo differenziato con l’applicazione dell’art.116, c.3 della Costituzione siano state il Veneto, la Lombardia e l’Emilia e Romagna.

D’altro canto, esistono notevoli differenze tra le diverse aree in cui si può distinguere il Piemonte, ognuna delle quali presenta vari punti di forza e di debolezza. Bisogna tradurre i primi in opportunità di sviluppo e evitare che i secondi si trasformino in rischi forieri di ulteriore declino. In un quadro di questo tipo possiamo allora proporre quattro riflessioni finali, base per una possibile agenda di ricerca e di lavoro istituzionale.

  

Resilienza e complementarietà, non concorrenza.

Per il Piemonte occorre identificare le strategie adeguate per rendere il sistema in ritardo del nord ovest-ridotto più resiliente rispetto all’impatto perdurante della crisi e capace di agganciarsi con specifiche specializzazioni all’ area di crescita che copre le regioni del nord est e la Lombardia in una strategia di ricerca delle complementarietà più che di competizione. Il Piemonte è comunque ancora una regione a vocazione industriale, con evidenti arretratezze nel comparto del terziario, e presenta notevoli differenziazioni all’interno del territorio regionale dove si incrociano vari punti di forza e di debolezza.

  

Le priorità.

Le politiche regionali, in particolare quelle legate alle politiche di coesione europea, hanno identificato alcune priorità dagli interventi sulle grandi infrastrutture a quelli sull’innovazione, sui servizi logistici e sanitari, come volano di crescita del più ampio settore trasversale dell’ economia della conoscenza. Nello stesso tempo può essere sostenuta la crescita del terziario legato al turismo e ai beni culturali e ambientali. Tali obiettivi possono essere raggiunti anche attraverso un migliore coordinamento nazionale da svolgere attraverso strumenti istituzionali già esistenti come il sistema delle conferenze. Tale attività può poi trovare sbocco all’interno dei più importanti documenti di politica economica e di sviluppo nazionale, ovvero il DEF insieme al PNR. Al loro interno dovrebbe emergere un disegno di sviluppo nazionale da cui trarre declinazioni regionali che tengano conto delle loro interdipendenze con strategie macro-regionali da costruire anche con strumenti come le intese interregionali[29].

  

Approccio centralista vs. place based.

Occorre superare il conflitto tra un approccio centralizzatore della politica di sviluppo e quello che invece crede ancora all’importanza della valorizzazione delle risorse locali. Si può partire da una revisione critica e costruttiva delle esperienze di programmazione negoziata al fine di valorizzare la dimensione locale delle politiche economiche nazionali (l’approccio conosciuto come place based). Ciò richiede comunque una efficace strategia nazionale (che non significa centralistica) al cui interno livelli centrali e sub centrali di governo definiscano un limitato numero di ben definiti obiettivi.

  

Adeguare il sistema istituzionale.

La stagnazione del sistema economico piemontese richiede però un cambio di passo anche a livello delle istituzioni locali. Spesso  si dimentica che la struttura del governo locale e il funzionamento delle relazioni tra livelli di governo costituiscono un fattore determinante dello sviluppo regionale (genericamente riconducibile alla “qualità del governo”, un concetto non facilmente traducibile in indicatori). La scomparsa dell’area vasta nel disegno delle politiche locali, dovuta in gran parte all’arresto dell’attività delle Province in assenza di un loro sostituto, è particolarmente grave in una regione frammentata come il Piemonte. Anche se è necessaria una riforma nazionale del testo unico sulle autonomie vi è già spazio per iniziative rivolte a un migliore coordinamento degli enti locali, che possano essere anche la premessa per una loro riduzione. Nelle ricette per arrestare il processo di declino relativo del Piemonte l’adeguamento del sistema istituzionale alle necessità dello sviluppo dovrebbe rappresentare un punto rilevante dell’agenda politica. Le trasformazioni in atto nelle gerarchie economico-territoriali delle aree più sviluppate del nostro Paese richiedono oltre a una maggiore consapevolezza su cosa sta accadendo anche e soprattutto una strumentazione adeguata per governarle.

 

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[1] Collaboratore dell’ IRES, Istituto di Ricerche Economico Sociali del Piemonte, e del Centro studi sul federalismo.

 

[2] Nell’opera dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana “L’Italia e le sue Regioni”, che rappresenta uno dei tentativi più approfonditi di analizzare il regionalismo italiano in tutte le sue sfaccettature, si è parlato di “porosità e labilità dei confini regionali”, cfr. Salvati, Sciolla (2016).

 

[3] Si vedano Ires (2019, 2018), Banca d’Italia (2019a, 2019b, 2019c). Negli ultimi anni si sono avute numerose analisi sull’economia piemontese articolate a livello settoriale e territoriale. Tra le altre: Centro Einaudi (2019,2018,2017, 2016, 2015), IRES (2019a, 2018a, 2018b, 2017), ORTI (2018).

 

[4] L’indicatore è predisposto dalla Direzione generale Politica regionale e urbana della Commissione europea ogni tre anni per misurare la competitività delle regioni corrispondenti alle unità statistiche di livello NUTS2. Esso è un indicatore composito costruito aggregando 74 indicatori aggregati in 11 categorie che sono considerate quelle che determinano la competitività di una regione. 

 

[5] La Banca d’Italia, studiando i processi di deindustrializzazione e terziarizzazione, aveva evidenziato un ritardo di crescita economica del Nord Ovest nel confronto con altre regioni sviluppate europee, accentuatosi almeno sino al 2011, a causa di una riduzione della competitività di tale area, dovuta allo scarso sviluppo di settori manifatturieri ad alta intensità tecnologica e di servizi a elevato contenuto di conoscenza, pur in presenza di alcuni significativi casi di eccellenza. Non vi era ancora la percezione di questi cambiamenti tra le regioni del Nord; cfr. Banca d’Italia, 2015.

 

[6] Le regioni del Nord restano comunque meno efficienti rispetto alle peggiori regioni di Spagna, Francia e Germania.

Cfr.  il recente lavoro di Accetturo, De Blasio, 2019.

 

[7] Si veda in particolare Ires (2018).

 

[8] Tra questi la Strategia per la specializzazione intelligente.

 

[9] Peraltro, il dibattito era già stato avviato; cfr. Perulli P. e Pichierri A. ( 2010), Conti S. (2010) e Regione Piemonte-Ires  (2010). La tematica macro-regionale è affrontata anche nell’Unione Europea, con riferimento soprattutto ai paesi baltici, cfr. Dubois et al. (2009).

 

[10] Si vedano Fondazione Edison (2018, 2019) e Centro studi sintesi (2015, 2016).

 

[11] Cfr. Fondazione Edison, 2019. L’area del pentagono è determinata dai confini occidentali della Lombardia, meridionali dell’Emilia- Romagna, orientali del Veneto, orientali e nord orientali del Friuli Venezia Giulia, settentrionali del Friuli Venezia Giulia, del Trentino Alto Adige e della Lombardia

 

[12] Pensiamo al recente referendum per il distacco della Provincia Verbano-Cusio-Ossola dal Piemonte e la sua attribuzione alla Lombardia; cfr. Cavino (2018).

 

[13] Richiamata anche nel dibattito giornalistico con alcuni interventi di Dario Di Vico sul Corriere della Sera.

 

[14] Anche la  proposta per le Olimpiadi invernali Milano- Cortina rientra in fondo in una visione di questo tipo.

 

[15] Del resto esistono già diversi casi di intese interregionali con anche lo Stato tra i contraenti.

 

[16] Si veda la L.R. n. n. 23/2015 (e s.m.i.) di riordino delle funzioni amministrative conferite alle Province. In tale legge i tre quadranti extra-metropolitani vengono considerati ambiti ottimali per l’esercizio delle funzioni confermate, attribuite e delegate alle province (art.3); ruolo e funzioni della Città metropolitana di Torino (che diventa un quarto quadrante) sono regolate dagli artt.4 e 5.

 

[17] Si veda OECD, 2001. 

 

[18] Questa, almeno nell’impostazione iniziale, ha avuto un ruolo importante nella definizione degli ambiti integrati territoriali (AIT) previsti dal Piano territoriale regionale piemontese attualmente in vigore.

 

[19] Cfr. Regioss cycles and trends, 2012.

 

[20]   Si veda ANCI-IFEL, 2013.In Piemonte risulterebbero 6 città medie: Alessandria, Asti, Cuneo, Moncalieri, Novara e Vercelli, con l’assenza di Biella e Verbania tra i Comuni capoluogo di provincia, a fronte di un totale di 105 città medie in Italia. Cfr. anche Ciapetti, 2015. 

 

[21] Non è possibile nello spazio di questo breve contributo definire esaurientemente queste tipologie. La dimensione urbana risulta direttamente collegata alla dimensione demografica, alla specializzazione produttiva e alla caratteristica di essere un centro di offerta di servizi essenziali. Si tratta comunque di tipologie che si legano all’approccio place based introdotto dal Rapporto Barca (Barca,2009) che ha dato anche origine anche alla Strategia nazionale delle aree interne-SNAI (Baldi, 2018).

 

[22] Art. L.R. n 23/2015.

 

[23] Nel Documento di economia e finanza del 2019 si tratta del Paragrafo V del Programma nazionale di riforma, “Interlocuzioni istituzionali con Regioni e le Province autonome nella preparazione del PNR”, cfr. Ministero dell’economia e Finanze, 2019, pp. 123-127.

 

[24] Il Documento Unico di Programmazione (DUP) è uno degli strumenti principali della programmazione degli enti locali dal quale dovrebbero derivare tutti gli altri strumenti programmatico-finanziari e organizzativi. Esso è costituito da una sezione strategica e una operativa. Essi dovrebbero essere collegati ai Programmi quinquennali di mandato presentati da Sindaci e Presidenti di Provincia all’inizio delle consiliature.

 

[25] Si tratta di notazioni desumibili all’interno dei lavori predisposti all’interno del Progetto Antenne dell’Ires; cfr: Ires (2017, 2018a, 2018b, 2019°).

 

[26] Questa rivista ha pubblicato numerosi contributi sul regionalismo differenziato negli ultimi due anni. Per quanto riguarda in particolare le politiche territoriali si veda Barbieri (2019).

 

[27] Il governo Monti aveva istituito nel 2013 un Comitato interministeriale per le politiche urbane che però non è di fatto mai divenuto operativo.

 

[28] Definito recentemente “sede strepitosa, per certi versi, per trovare ottime soluzioni di accordo fra lo Stato centrale e le amministrazioni periferiche” dal precedente Ministro per gli affari regionali e le autonomie Erika Stefani; cfr. Commissione parlamentare per le questioni regionali (2019). In effetti, bisognerebbe approfondire il funzionamento del sistema delle conferenze a livello nazionale e regionale  anche attraverso studi economici e politologici.

 

[29] Ci riferiamo alle previsioni dell’art. 117 della Costituzione, commi 8 e 9: “ (8) La legge regionale ratifica le intese della Regione con altre Regioni per il migliore esercizio delle sue funzioni, anche con individuazione di  organi comuni.  (9) Nelle materie di sua competenza la Regione può concludere accordi con Stati e intese con enti territoriali interni ad altro Stato. Nei casi e con le forme disciplinati da leggi dello Stato”. Sarebbe utile verificare lo stato di attuazione di queste norme in un documento come il DEF.