Volantinare pubblicità è liberta di iniziativa economica – Nota a T.A.R. Piemonte, sez I, sentenza 15 giugno 2017, n. 742

 

Jessica Rampone[1]

 

Sommario: 1. Introduzione. 2. L’art. 41 della Costituzione: il fondamento costituzionale della decisione . 3. L’art. 41 è ancora attuale? 4. Conclusioni.

 

1. Introduzione.

Con la sentenza 15 giugno 2017, n. 742, il Tar Piemonte ha affermato che la distribuzione di volantini lungo le strade e nei luoghi pubblici è un’attività libera e la pubblica amministrazione non vanta alcun potere di limitazioni, disponendo peraltro di poteri sanzionatori già sufficienti per la tutela del decoro urbano e dell’ambiente dall’abbandono di volantini in modi non conformi alle norme per lo smaltimento dei rifiuti.

La pronuncia in esame offre un’occasione per approfondire il significato oggi attribuibile alla libertà dell’iniziativa economica, principio espresso dall’art. 41 Cost., nonché per analizzare il modo di atteggiarsi dell’amministrazione pubblica rispetto a questo valore che, in forza del diritto comunitario, ha acquisito rilievo fondamentale nel panorama dei diritti.

La sentenza 15 giugno 2017, n. 742, adottata dal Tribunale Amministrativo Regionale piemontese, ha affrontato la questione relativa alla legittimità del divieto imposto dall’ente locale comunale di effettuare l’attività di pubblicità mediante volantinaggio. A giudizio del Tar, la proibizione genera problemi di conformità rispetto agli artt. 3, 41 e 97 Cost. e alla direttiva 2006/123/CEE (nota come Bolkestein).

Con la pronuncia in esame, il giudice amministrativo ha annullato un regolamento comunale nella parte in cui stabiliva che la distribuzione del materiale pubblicitario “porta a porta” fosse legittima solo il mercoledì e il giovedì, prevedendo altresì il divieto di inserire la posta nelle cassette su cui fosse scritto un rifiuto nonché sanzioni di cui avrebbe risposto in solido il beneficiario del messaggio contenuto nel volantino.

A fronte di tali previsioni, una società operante nel campo della distribuzione di materiale pubblicitario si rivolgeva al Tar Piemonte deducendo una serie di doglianze.

Fra esse, veniva rilevata la violazione delle disposizioni costituzionali di cui agli art. 3, 41 e 97 Cost., in quanto le misure adottate dall’amministrazione locale prevedevano indebite limitazioni all’esercizio dell’attività di distribuzione, violando il principio di libertà d’iniziativa economica, e generavano una disparità di trattamento laddove la distribuzione a mezzo posta risultava sempre ammessa, creando in tal modo un’ingiusta discriminazione tra operatori attivi nella distribuzione di materiale pubblicitario “porta a porta” e quelli operanti a mezzo del servizio postale, nonostante l’identità delle attività svolte.

Inoltre, per le medesime ragioni, veniva dedotta la violazione della Direttiva 2006/123/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 12.12.2006 e degli articoli 43 e 49 del Trattato CE, del D.Lgs. n. 59 del 2010.

Il ricorso non aveva eccepito l’ulteriore libertà di manifestazione di pensiero (art. 21 Cost.), la quale tutela anche la diffusione pubblicitaria di messaggi economici.

Superate alcune questioni preliminari, il Collegio ha evidenziato che l’amministrazione comunale non dispone di poteri autorizzatori relativi all’attività di distribuzione di materiale pubblicitario. Si tratta infatti di un’attività essenzialmente libera, come la generalità dei servizi resi da privati (v. art. 10 del D.Lgs. 26 marzo 2010, n. 59), e tutelata dalle norme che proteggono e favoriscono l’iniziativa economica (v. art. 1 del D.L. 24 gennaio 2012 n. 1)[2].

Da ciò consegue che i divieti imposti dal Comune sono illegittimi per contrasto con i principi della libertà economica[3]  e di uguaglianza.

Il Collegio ha poi evidenziato che sebbene l’art. 8, comma 1, lett. h) del D.Lgs. n. 59 del 2010, di recepimento della Direttiva Bolkenstein, consenta di introdurre restrizioni alle attività economiche, tale disposizione non può dare copertura normativa al regolamento comunale contestato, in quanto ciò potrebbe avvenire solo al ricorrere di motivi imperativi d’interesse generale, tra i quali sono inclusi anche quelli concernenti la tutela dell’ambiente e del decoro urbano (oltre a quelli della salute, dei lavoratori, e dei beni culturali). E precisa: «Tuttavia, al fine di evitare un effetto di facile elusione o di depotenziamento delle norme poste a tutela dell’iniziativa economica, si impone un’interpretazione cauta e restrittiva delle prevalenti esigenze di interesse generale quali ragioni ostative al libero esplicarsi dell’iniziativa economica»[4].

Il giudice non si dilunga sui possibili beni ed interessi di utilità sociale che potrebbero giustificare il divieto, ritenendo evidentemente sia la prevenzione dell’inquinamento delle strade pubbliche da parte di chi butta il volantino, sia la tutela dei consumatori da posta indesiderata interessi idonei a giustificare un intervento regolatore sproporzionato del volantinaggio.

L’esito dell’argomentazione ha portato quindi all’accoglimento del ricorso, limitatamente alle parti in cui venivano censurate le prescrizioni del regolamento che consentivano la distribuzione di volantini mediante consegna a mano e/o inserimento completo nella cassetta della posta nei soli giorni di mercoledì e giovedì, il divieto di introdurre volantini nelle cassette della posta dove è espressamente evidente la volontà di non ricevere volantini e l’individuazione del destinatario della sanzione per l’eventuale violazione del regolamento.

 

2. L’art. 41 della Costituzione: il fondamento costituzionale della decisione.

La decisione in oggetto fa applicazione dei principi consolidati in tema di libera iniziativa economica e risulta condivisibile nei suoi passaggi argomentativi e nelle conclusioni alle quali perviene.

A fronte di un’interpretazione dell’art. 41 Cost. alla luce del modello dell’economia di mercato sociale designato dal diritto dell’Unione Europea, si dovrebbe concludere, infatti, che l’attività di pubblicità mediante volantinaggio non può essere limitata da regolamenti né dalla legge.

L’art. 41 Cost. recita notoriamente: «L’iniziativa economica privata è libera.

Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.

La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali».

La libertà d’iniziativa economica privata prevista all’art. 41, comma 1, Cost., rientra nella Costituzione economica, cioè in quella parte della Costituzione italiana che disciplina i rapporti economici.

L’articolo in esame, in particolare, collocato nel Titolo III, fu formulato in un contesto storico, politico e culturale nel quale era dominante una visione fortemente interventista dello Stato nell’economia[5].

La ratio legis sottesa alla previsione normativa è quella di realizzare una sintesi tra la libertà d’iniziativa economica e la necessità che questa venga esercitata in un’ottica solidaristica e di rispetto di principi e valori costituzionali fondamentali. Inizio modulo

La Costituzione italiana immagina che la produzione capitalistica sia la modalità prevalente di creazione e di circolazione della ricchezza materiale, sebbene non l’unica[6]. L’art. 41, comma 1, Cost., in particolare, nel consacrare la libertà dell’iniziativa economica privata in generale, si riferisce a ogni iniziativa, e quindi anche a quelle diverse dalla capitalistica, pur ricomprendendovi anche quest’ultima[7].

La libertà d’iniziativa economica privata potrebbe riferirsi allo svolgimento di un’attività imprenditoriale sia sotto l’aspetto degli investimento di capitali sia sotto l’aspetto della gestione dell’impresa nei mercati in condizioni di concorrenza; ovvero ricomprendere anche altre attività economiche, estendendosi a qualsiasi operazione da cui possa derivare un vantaggio economico per chi la svolge, ivi compreso il lavoro subordinato e/o l’esercizio di una professione[8].

Se da un lato il riconoscimento nel comma 1 della libertà d’iniziativa economica privata non poteva essere più ampio, dall’altro, i commi 2 e 3 riducono tale libertà e sembrano accogliere, rinviandone alla legge la determinazione, il principio della pianificazione pubblica dell’economica.

L’iniziativa economica è libera, ma al contempo può essere controllata e indirizzata[9].

A ben vedere, però, l’art. 41 Cost. non impone un modello economico dirigistico, ma, sebbene i limiti previsti lascino ampi spazi al legislatore, escludono ogni forma di pianificazione economica integrale del tipo di quella caratterizzante a suo tempo il cd. socialismo reale.[10] La norma utilizza, infatti, il termine «programmi» in luogo di «piani», mostrando di ritenere la programmazione, appunto, lo strumento costituzionalmente privilegiato per la disciplina pubblica dell’economia[11].

Ulteriore quesito concerne la reale natura giuridica della libertà economica e, in particolare se essa sia un diritto o, se, invece, in virtù dei penetranti vincoli a cui è assoggettata dallo stesso art. 41, comma 2, Cost. (non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale né recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana; inoltre, la legge può determinare i programmi e i controlli per indirizzarla e coordinarla a fini sociali), degradi a mero interesse, ovvero addirittura a una funzione[12].

Sul punto la dottrina aveva rilevato che «il riconoscimento giuridico di una “libertà” (con conseguente attribuzione al soggetto titolare della stessa della facoltà di scelta sul “se”, sul “come” e sul “quando” esercitarla) [fosse] incompatibile con la sua “funzionalizzazione”»[13]. La funzionalizzazione finisce, invero, per affidare l’iniziativa economica privata alle scelte insindacabili del legislatore, sebbene nessuno possa essere costretto, neanche con legge, a iniziare un’attività economica contro la sua volontà. Ed inoltre, la stessa Corte costituzionale ha ammesso che i limiti all’iniziativa economica privata non possono essere «tali da renderne impossibile o estremamente difficile l’esercizio»[14].

«La presenza dei vincoli di cui ai commi secondo e terzo legittimavano la lettura dell’iniziativa economica privata (rectius dell’attività in cui quell’iniziativa si esplica) come diritto della persona, non inferiore gerarchicamente agli altri, ma delimitato “esternamente”»[15]. In ogni caso, le limitazioni devono essere espressione di valori costituzionalmente rilevanti, come il diritto alla libertà di cui all’art. 13 Cost.; quello alla sicurezza, che comprende anche il diritto alla salute (art. 32 Cost.); quello alla dignità sia dei lavoratori (art. 35 Cost.) che dei consumatori, destinatari, questi ultimi, anche di un’apposita tutela sia a livello comunitario (art. 38 della Carta fondamentale dei diritti dell’Unione Europea) sia nazionale (D.lgs. 6 settembre 2005, n. 206, noto come Codice del consumo).

I limiti costituzionali sono “esterni” alla proclamazione di cui al comma 1 dell’articolo 41: «l’attività economica costituisce esercizio di un diritto costituzionalmente garantito anche se non persegu[e] fini di utilità sociale o non mir allo sviluppo della libertà, della sicurezza o della dignità umana. È infatti sufficiente, per l’articolo 41, comma 2, che essa non operi in contrasto con tali valori»[16].

Per la concezione classica, il titolare del diritto era libero nel determinare l’uso dei poteri a lui conferiti: il riconoscimento di tali poteri, non comportando alcuna indicazione specifica in ordine alle modalità di esercizio, era incondizionato. La funzione sociale modifica questo schema tradizionale, dal momento che l’ordinamento prevede che l’esercizio di quei poteri non sia volto soltanto alla soddisfazione dell’interesse privato, ma anche a più generali esigenze della società nel suo complesso[17].

La previsione di un duplice scopo attribuito all’iniziativa economica si spiega con quell’idea di compromesso che ha accompagnato la stesura della Carta costituzionale tra l’ideologia capitalista e quella socialista, che trova nella disciplina di questa materia la sua manifestazione più evidente[18].

Il comma 3 mostra la tendenza del Costituente a introdurre una forma di economia mista, cioè un sistema in cui convivono soggetti pubblici e soggetti privati, senza che si possano sopprimere integralmente gli uni o gli altri; in cui lo Stato non si limita a porre delle norme di regolamento, ma interviene in qualità di soggetto imprenditore, sia costituendo imprese sia assumendo il controllo, totale o parziale, di imprese già esistenti[19].

L’intento è quello di introdurre, per il tramite dell’intervento statale, misure atte ad assicurare che l’economia realizzi anche un’equa distribuzione delle risorse, nella convinzione che questo non possa essere un esito naturale del mercato. Sono però sempre escluse forme di interventismo talmente massicce da sopprimere del tutto l’iniziativa privata.

Per un verso, il raccordo tra i commi dell’art. 41 adegua sì la dichiarazione di libertà dell’iniziativa economica alla qualificazione sociale dello Stato repubblicano, intendendo con tale aggettivazione una forma di Stato imperniata sui valori solidaristici, sulla partecipazione dei consociati alle istituzioni e sul primato della persona umana; per altro verso, la detta libertà può ritenersi di fatto intoccabile nella sua essenza a causa della quasi totale esclusione di fatto di ogni forma di collettivismo[20], nonostante il tenore dell’art. 43 Cost. che impone vincoli ulteriori alla libertà di iniziativa economica privata, disciplinando le nazionalizzazioni o le collettivizzazioni di determinate imprese o categorie di imprese di “preminente interesse generale” che il legislatore può riservare originariamente o trasferire “allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti”.

In particolare, la proprietà privata di imprese che si riferiscono ai servizi pubblici essenziali, a fonti di energia o a situazioni di monopolio e hanno carattere di preminente interesse generale può essere trasferita, a fini di utilità generale, con legge e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o utenti.

Proprio sulla base del richiamato disposto costituzionale si è realizzato l’unico caso di nazionalizzazione, quello delle imprese produttrici di energia elettrica (l. n. 1643/1962), che ha dato vita all’Enel. Va ancora detto che attività economiche della natura di quelle indicate all’art. 43 Cost. possono dalla legge essere sottratte sin dal loro sorgere alla disponibilità dei privati e riservate (come è avvenuto, ad esempio, per la produzione dell’energia atomica) allo Stato, oltre che ad enti pubblici o a comunità di lavoratori e utenti[21].

Tuttavia, ormai da tempo, si va consolidando – anche in linea con gli ordinamenti dell’Unione Europea diretti a favorire, in una logica di libero mercato, la concorrenza tra le imprese all’interno dell’unico mercato – l’opposta tendenza verso il superamento del monopolio pubblico, e in particolare verso la privatizzazione delle imprese pubbliche. Invero, le libertà economiche sono state enormemente valorizzate per effetto del progressivo affermarsi dei principi, dalla dimensione squisitamente economica, posti a fondamento dell’integrazione europea, che esprimono una chiara scelta in favore di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza, cui sono chiamate a conformarsi le politiche economiche degli Stati membri al fine di realizzare gli obiettivi dell’Unione[22]

Discusso, infine, è se l’art. 41 Cost. ricomprenda o meno la tutela della libera concorrenza: secondo una prima tesi, il principio della libera concorrenza non troverebbe alcuna garanzia nell’art. 41 Cost., ma solo nei trattati istitutivi della Comunità europea, i quali verrebbero recepiti nell’ordinamento costituzionale attraverso gli artt. 11 e 117, comma 1, Cost. I principi politici fondamentali della Costituzione del 1948 paiono non del tutto collimare con la libertà di concorrenza, col divieto degli aiuti pubblici alle imprese, con la riduzione della spesa pubblica e della presenza dello Stato nell’economia, che sono stati assunti come dogmi a livello sovrannazionale[23].

Secondo una diversa ricostruzione, la tutela della concorrenza non rappresenta un limite alla libertà d’iniziativa economica privata, ma una garanzia della libertà medesima, poiché essa, quale diritto spettante a tutti i soggetti, non avrebbe senso in un mercato dominato da posizioni monopolistiche o oligopolistiche[24].

La giurisprudenza costituzionale, da parte sua, ha da ultimo collegato la concorrenza con il limite dell’utilità sociale, limite che, peraltro, può portare a un contenimento della stessa concorrenza[25].

 

L’ordinamento comunitario nutre il mercato interno europeo del principio di libera circolazione dei beni e servizi, di libertà di stabilimento e di libertà di concorrenza. Il mercato unico, nella sua poderosa oggettività, diviene così la matrice e l’architrave del progetto di unione dei Paesi europei[26].

Uno degli obiettivi perseguiti dalle politiche comunitarie è quindi quello di costruire un mercato interno secondo criteri di stampo marcatamente liberistico[27]; il che ha reso attuale una rivisitazione dell’art. 41 Cost.[28] Specialmente, con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona si è assistito al passaggio della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea[29] dal valore di soft law alla cogenza giuridica piena. Al suo interno, l’articolo 16[30] è esplicito nel riconoscere – al di là delle previsioni sulla concorrenza incorporate nel Trattato sul funzionamento dell’Unione – la libertà d’impresa, conformemente al diritto comunitario[31] e alle legislazioni e prassi nazionali.

In un primo momento, sembrava che l’avvento del diritto comunitario (ora unionale) e, per alcuni, addirittura il suo primato anche sulle norme della Costituzione[32]– ad eccezione dei diritti e delle libertà fondamentali in cui però l’art. 41 non rientra[33] – avessero reso non più attuale e non applicabile, se non in rare eccezioni, i principi enunciati dalla norma costituzionale in esame. I valori dominanti sarebbero stati, infatti, quelli della libertà di mercato, di stabilimento e di circolazione dei beni, servizi e capitali[34]

 

3. L’art. 41 è ancora attuale?

Per i padri del costituzionalismo liberale l’obiettivo principale della Costituzione era quello di garantire la libertà individuale di fronte all’eccesso del potere del sovrano[35]. Nel corso dei decenni successivi, e specialmente in Europa, le Costituzioni sono andate al di là di questa visione, e hanno allargato i propri obiettivi includendovi quello di un vero e proprio disegno sociale, del quale si dichiaravano fondamento[36].

All’antica rivendicazione del costituzionalismo liberale – secondo cui la Carta fondamentale doveva limitare il potere dei governanti piuttosto che essere un mezzo per governare meglio – si era, sin dal finire dell’Ottocento, affiancata una diversa nozione di tutela dell’impresa privata: quella della libertà del mercato come condizione di liceità dell’iniziativa economica[37].

Quando si discute degli aspetti economici di una Costituzione possono individuarsi almeno due ordini di problemi, sui quali l’analisi dell’art. 41 Cost. spinge a riflettere.

Il primo si esprime nel rapporto tra libertà di mercato e intervento pubblico. La libertà d’iniziativa economica è una delle manifestazioni essenziali della libertà della persona, pertanto l’intervento pubblico deve porsi nei confronti della libertà d’iniziativa economica in modo da non comprometterla[38].

Il secondo quesito è relativo al possibile conflitto tra contenuto della Costituzione e mutamento storico e sociale. Il tema si pone con molta evidenza nel settore economico dove il condizionamento imposto dall’evoluzione storica è particolarmente forte: l’economia è per sua natura dinamica e mutevole[39].

Esperienza giuridica ed esperienza economica sono, in positivo e in negativo, intrecciate. Lo sono particolarmente nel mondo contemporaneo, che negli ultimi due secoli ha affidato all’economia di mercato capitalistica il suo benessere materiale. Questo sistema tende a permeare di sé, dei suoi valori e disvalori, l’intera società, financo nelle sfere meno prossime a quella delle merci[40].

Uno degli aspetti per i quali molti ritengono oggi obsoleto l’art.41 Cost. è che, sebbene la protezione della concorrenza abbia trovato recentemente posto nella Costituzione all’art.117, in sede di riforma del Titolo V, nel testo previgente e, ancora adesso, all’interno dell’art. 41 Cost., la parola “concorrenza” non ricorre mai[41].

Ma di concorrenza in realtà si discusse, e in modo molto interessante ed istruttivo, nel dibattito all’Assemblea Costituente[42].

 

Le ideologie dell’epoca erano certamente diverse, ma il compromesso, almeno in questo campo, è stato facilitato da una sostanziale convergenza sulla sfiducia nei confronti delle possibilità del meccanismo di mercato di garantire l’efficienza nell’impiego delle risorse a livello dell’intera società[43].

E’ stata l’entrata in crisi del modello dell’economia mista che ha a sua volta messo in discussione la fiducia nelle automatiche capacità correttive dell’intervento pubblico sostitutivo e ha aperto la via per ridare valore al mercato e alla concorrenza[44].

Come già premesso, in Italia la tutela della concorrenza è stata introdotta nella Costituzione nel 2001, a seguito dalla modifica del Titolo V della Carta. L’art. 117 Cost. recita: «Lo Stato ha legislazione esclusiva nelle seguenti materie: […] lett. e) tutela della concorrenza».

La formulazione sembra solo affermare un’attribuzione di competenza legislativa esclusiva e assoluta allo Stato in tema di tutela della concorrenza, e come tale potrebbe sembrare del tutto neutra rispetto all’attribuzione di un valore alla concorrenza stessa.

Si è osservato che «l’attribuzione di un potere implica anche (…) la doverosità del relativo esercizio»[45]: in altri termini se si afferma che lo Stato legifera con competenza esclusiva in tema di tutela della concorrenza, ciò vuol dire che la tutela della concorrenza è un obiettivo che è doveroso cercare di raggiungere.

Nella Carta fondamentale non si trova un espresso riferimento che permetta di sostenere che la stessa Costituzione ritenga la concorrenza un valore. Forse, però, proprio l’art. 41 Cost. potrebbe fornire un punto di riferimento, per lo meno implicito[46].

Il valore sociale riconosciuto alla concorrenza si riflette essenzialmente nella capacità di migliorare, nel lungo periodo, il benessere dei consumatori, intesi non tanto come “classe”, quanto come singole persone[47].

La concorrenza aiuta a utilizzare una conoscenza dispersa tra innumerevoli informazioni e stimola ad acquisire nuove conoscenze, quindi favorisce lo sviluppo economico. Vista sotto questo profilo appare chiaramente come un bene pubblico[48].

Quindi, come per tutti i beni pubblici, anche per la concorrenza, l’intervento pubblico deve farsi carico di promuoverla e tutelarla. Garantire la concorrenza è dunque oggi una delle modalità con cui si persegue l’utilità sociale.

L’importanza del connotato sociale della concorrenza appare ancora più evidente se si osserva che esso è strumentale all’affermazione di altri valori fondamentali, quali la necessità di contribuire al meglio alla vita della società, la responsabilità, la lealtà verso i contraenti, dei quali la Costituzione è nutrita.

Se si riconosce che la concorrenza è anche nell’interesse pubblico e ha un valore sociale, appare quasi naturale recuperare il messaggio fondamentale contenuto nell’art. 41 Cost. secondo cui la libera iniziativa economica non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale. Nel caso specifico esso può essere interpretato affermando che la libera iniziativa economica non può svolgersi, tra l’altro, in contrasto con le condizioni di libera concorrenza, mezzo con cui si persegue l’utilità sociale[49].

Oggi è possibile rileggere il messaggio fondamentale dell’art. 41 Cost. recuperando la tutela della concorrenza come uno degli aspetti in cui si manifesta l’utilità sociale, così che deve necessariamente concludersi per la perdurante attualità della norma costituzionale[50].

La libertà d’iniziativa economica privata e la conseguente libertà di concorrenza possono essere limitate dai pubblici poteri: i relativi interventi limitativi devono rispondere a fini di utilità sociale e devono essere disposti da parte del legislatore ordinario.

Il potere restrittivo si ricava non solo dal tenore dei commi 2 e 3 dell’art. 41 Cost., ma anche dalle stesse norme comunitarie. Anche nel diritto europeo la concorrenza non può definirsi un valore assoluto, ma, a certe condizioni, suscettibile di essere limitata e controbilanciata.

Invero, la Direttiva 2006/123/CEE (nota anche come Direttiva Servizi o Bolkestein) relativa ai servizi nel mercato europeo comune, afferma che le disposizioni «sulla libera prestazione di servizi non impedisc[ono] allo Stato membro nel quale viene prestato il servizio di applicare (…) i propri requisiti specifici per motivi di ordine pubblico o di pubblica sicurezza o per la tutela della salute pubblica o dell’ambiente».

La possibilità di derogare al principio della libertà di concorrenza è ribadita dal D.Lgs. 26 marzo 2010 n. 59, di recepimento della Direttiva Bolkestein, al ricorrere di motivi imperativi d’interesse generale, tra i quali sono inclusi anche quelli afferenti alla tutela dell’ambiente e del decoro urbano, oltre a quelli della salute, dei lavoratori e dei beni culturali (art. 8, comma 1, lett. h))[51].

Qualora ricorrano tali circostanze, sono ammesse forme di regolamentazione pubblicistica dell’iniziativa economica privata che si risolvono in limitazioni della libertà di concorrenza come: i controlli sull’accesso al mercato di nuovi imprenditori attuati subordinando l’esercizio di determinate attività a concessione o ad autorizzazione amministrativa; l’esercizio di ampi poteri di indirizzo e di controllo dell’attività riconosciuti alla pubblica amministrazione nei confronti delle imprese che operano in settori di particolare rilievo economico e/o sociale; l’articolato sistema di controllo pubblico dei prezzi di vendita, che per beni o servizi strategici o di largo consumo può giungere fino alla fissazione di prezzi d’imperio.

L’interesse generale può legittimare anche una forte compressione della libertà d’iniziativa economica privata e di concorrenza e la creazione di monopoli pubblici nel rispetto dell’art. 43 Cost..

 

4. Conclusioni.

Alla luce di cosa detto, non pare però comunque possibile trovare una giustificazione al regolamento comunale neppure configurando le disposizioni contestate come introduttive di restrizioni alle attività economiche, in coerenza con la possibilità in tal senso prevista dall’art. 8, comma 1, lett. h) del D.Lgs. 59 del 2010 (di recepimento della Direttiva Bolkestein) a ricorrere di motivi imperativi d’interesse generale, tra i quali sono inclusi anche quelli afferenti alla tutela dell’ambiente e del decoro urbano, oltre a quelli della salute, dei lavoratori e dei beni culturali.

I contorni delle condotte lesive della “nettezza urbana”, o che arrecano “disturbo alla circolazione” e “molestie ai cittadini” non sono però in alcun modo puntualizzati quanto alle possibili modalità di estrinsecazione.

Inoltre, contro taluni comportamenti gravi e riprovevoli già esiste il presidio di puntuali disposizioni incriminatrici, come gli artt. 639 c.p. o 660 c.p.; ovvero sono previste conseguenze sul piano amministrativo[52].

All’amministrazione è precluso ogni intervento di ingerenza in un’attività libera coinvolgente soggetti privati, salvo che ricorrano specifici motivi imperativi d’interesse generale, da intendersi in senso restrittivo.

L’amministrazione è legittimata ad alterare il normale equilibrio del mercato solo se il suo intervento si sia reso necessario. Ma laddove vi siano già strumenti che l’ordinamento predispone per la cura e la tutela dell’interesse del privato – nel caso di specie a vivere in un ambiente salubre e decoroso e a non subire molestie – l’attività di intervento dell’amministrazione comunale, perde del carattere di extrema ratio e di indispensabilità, che giustificherebbe una deroga alla disciplina in tema di libertà di concorrenza.

Applicando le coordinate normative sopra esposte può affermarsi, in conformità con il contenuto della sentenza n. 742 del 15 giugno del 2017, che, nel caso di specie, il Comune non era legittimato a porre in essere alcun intervento eccessivamente limitativo della libertà d’iniziativa economica e della libera concorrenza. Ogni attività dell’amministrazione comunale svolta in tal senso deve ritenersi contraria ai principi di uguaglianza (art. 3 Cost.), di libera iniziativa economica (art. 41 Cost.) e di buon andamento e imparzialità della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.); nonché della normativa comunitaria e, in particolare, della Direttiva 2006/123/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 12.12.2006, degli articoli 43 e 49 del Trattato CE. 

In virtù di quanto argomentato, la distribuzione di volantini a mano lungo le strade e in generale nei luoghi pubblici, anche in prossimità degli edifici, ove sono collocate le bussole che ospitano la posta e il materiale pubblicitario, rappresenta un’attività essenzialmente libera, con la conseguenza che l’Amministrazione non poteva vantare poteri regolatori suscettibili di incidere direttamente nel rapporto tra gli operatori commerciali e i potenziali clienti.

La decisione del Tar Piemonte del 15 giugno 2017, n. 742 – qualificando la distribuzione di volantini lungo le strade e nei luoghi pubblici come un’attività libera e affermando che la pubblica amministrazione non vanta alcun potere restrittivo, disponendo peraltro di poteri sanzionatori già esistenti che tutelano il decoro urbano, – pare condivisibile e conforme agli indirizzi dottrinali e giurisprudenziali prevalenti.  


 


[1] Dottoranda di ricerca in autonomie locali, servizi pubblici e diritti presso l’Università del Piemonte orientale “Amedeo Avogadro”.

 

[2] Sentenza 15/06/2017, n. 742 – T.A.R. Piemonte – Sez. I – Torino, p. 2.2.

 

[3] La pronuncia richiama alcuni procedenti che hanno statuito in tal senso: TAR Lecce, sez. II, 26 maggio 2014, n. 1288; TAR Brescia, sez. I, 9 luglio 2015, n. 905 e 22 marzo 2013, n. 284 secondo cui Il T.A.R. Lombardia, Brescia, Sez. II, 17 aprile 2012, n. 641 ha dichiarato illegittima la deliberazione consiliare recante la modifica al regolamento di polizia urbana in materia di volantinaggio, distribuzione di opuscoli e simili, in base al quale si è disposto il divieto di distribuire manifesti, opuscoli, foglietti ed altri oggetti nelle strade, piazze e spazi pubblici o aperti al pubblico, prevedendo altresì che la diffusione del materiale pubblicitario, tramite collocazione nelle cassette postali, sia possibile a determinate condizioni, in quanto viola gli artt. 3, 41 e 97 della Costituzione. Ed infatti, in siffatta ipotesi, è ravvisabile un eccesso di potere per sviamento e disparità di trattamento, in quanto le suddette limitazioni all’attività di distribuzione sono circoscritte al sistema “porta a porta” e non valgono per gli operatori che utilizzano il servizio postale, con conseguente lesione della libertà di concorrenza.

 

[4] Sentenza 15/06/2017, n. 742 – T.A.R. Piemonte – Sez. I – Torino, p. 2.2.

 

[5] I. Musu, Gli aspetti economici della Costituzione italiana: è superato l’art. 41?, in Note di lavoro n. 3, Università Ca’ Foscari, Venezia, 2008, p. 2. Cfr. S. Cassese, La nuova costituzione economica, Laterza, Bari,2° ed. 2000, 283ss.

 

[6] M. Dogliani – I. Massa Pinto, Elementi di diritto costituzionale, Giappichelli Editore, Torino, 2017, p. 239. Invero, la Carta costituzionale, agli artt. 44 e 45, prevede l’attività di lavoratori che sono proprietari dei propri mezzi di produzione, e cioè i contadini proprietari e gli artigiani; all’art. 33, comma 5, annuncia l’esistenza delle libere professioni e, soprattutto, ai sensi dell’art. 43, sancisce che in alcuni settori la proprietà dei mezzi di produzione sia – direttamente o indirettamente – pubblica.

 

[7] Ibidem, p. 239.

 

[8] La tutela del lavoro subordinato e/o autonomo potrebbe essere garantita anche da altre disposizioni costituzionali, come gli artt. 4 e 35 ss. .

 

[9] Le limitazioni alla libertà d’iniziativa economica privata contenute all’art. 41, comma 2, Cost. – utilità sociale, sicurezza, libertà, dignità umana –  sono innanzitutto, ma non esclusivamente specificazioni di quella stessa tutela del lavoro e dei lavoratori prevista negli artt. 35 ss. Cost. a ribadire il conflitto tra capitale versus lavoro.

 

[10]  Cfr. tuttavia le tesi contrarie e minoritarie  di C. Lavagna, Costituzione e socialismo, Bologna 1977,  cui aderisce anche A. Algostino, Democrazia sociale e libero mercato, Riv. Dir. Cost. 2007, 98ss..

 

[11]  La pianificazione si riferisce a un livello decisionale macro; è una strategia volta a raggiungere obiettivi generali a lungo termine, mentre la programmazione può essere riferita alle strategie organizzative di ogni servizio e ha obiettivi a medio e breve termine. 

 

[12] A. Pace, L’iniziativa economica privata come diritto di libertà: implicazioni teoriche e pratiche, in Studi in memoria di Franco Piga, Giuffrè, Milano, 1992, vol. II, p. 1626.

 

[13] Ibidem, p. 1596.

 

[14] Corte costituzionale, sentenza 3 giugno 1970, n. 78.

 

[15] A. Pace, L’iniziativa economica privata come diritto di libertà: implicazioni teoriche e pratiche, cit., pp. 1622-1623.

 

[16]Ibidem, pp. 1622-1623.

 

[17] G. Alpa, M. Bessone, A. Fusaro,  Poteri dei privati e statuto della proprietà, Volume II, S.e.a.m, Roma, 2001, p. 257 ss..

 

[18] M. Dogliani – I. Massa Pinto, Elementi di diritto costituzionale, cit., p. 240.

 

[19] Si tratta di una situazione che ha caratterizzato il periodo dal secondo dopoguerra agli anni Novanta, a partire dai quali si è assistito ad un processo esattamente opposto: la dismissione delle partecipazioni statali detenute e, in generale, una tendenza a privatizzare le imprese pubbliche. Ad oggi queste esigenze di controllo ed indirizzo vengono realizzate mediante politiche di settore, cioè relative a singoli settori economici, per specifici obiettivi (in luogo di vere e proprie forme di controllo) e che si sostanziano in misure quali incentivi o sgravi fiscali. Ciò dopo che, negli anni Sessanta è emersa l’inutilità di un intervento a livello generale.

 

[20] F. Cintioli, L’art. 41 della Costituzione tra il paradosso della libertà di concorrenza e il “diritto della crisi – relazione presentata all’incontro L’Italia ha bisogno di una nuova Costituzione Economica? promosso dalla Fondazione Magna Carta – Roma, 15 giugno 2010, p. 2.

 

[21] F. Lisena, Manuale di diritto costituzionale, Bari, 2018, p. 204.

 

[22] Ibidem, p. 205.

 

[23] M. Dogliani – I. Massa Pinto, Elementi di diritto costituzionale, cit., p. 240.

 

[24] Così anche la l. n. 287/1990.

 

[25] La giurisprudenza costituzionale in materia ha attraversato tre diversi periodi. Una prima fase è caratterizzata da un ampio ricorso al parametro dell’art. 41 Cost., con particolare riferimento all’utilità sociale. In questa fase il principio in esame è fatto coincidere con una molteplicità di interessi: salute, lavoro, dignità umana, sicurezza, tutela del paesaggio, promozione del pluralismo culturale, produzione economica. Cfr. sentt. nn. 29 del 1957, 24 del 1964, 137 del 1971 sulla tutela della salute. Le sentt. nn. 3 del 1957, 45 del 1963, 16 del 1968 sul pieno impiego e la sent. n. 27 del 1969 sulla tutela degli interessi delle donne lavoratrici. In una direzione analoga cfr. sent. n 133 del 1968 nella quale l’«utilità sociale» giustifica quelle norme di chiusura infrasettimanale dei negozi che tutelano il «riposo dei lavoratori» (cfr. sent. n. 111 del 1974 e sent. n. 446 del 1988 sul riposo settimanale nelle farmacie). In connessione con il tema del lavoro, il concetto di utilità sociale è inoltre declinato in relazione alla tutela del diritto d’autore (cfr. sent. n. 65 del 1972). Sul divieto di concedere licenze per l’uso nei locali pubblici di «apparecchi da gioco» che identifica «esigenze sociali» che devono «coordinare la libertà di iniziativa economica privata» con le misure atte a prevenire situazioni che potrebbero favorire tendenze antisociali nei cittadini cfr. sent. n. 125 del 1963. In una seconda fase, l’articolo 41 si trova al centro del processo di integrazione comunitaria fondato sui principi di libera concorrenza e dell’economia di mercato. Sul piano normativo, l’elemento cruciale è la legge n. 287 del 1990 che istituisce norme per la tutela della concorrenza e del mercato e che si proclama in attuazione della garanzia della libertà di iniziativa economica privata prevista nell’art. 41,comma 1, Cost. In questa seconda fase, oltre agli interessi della salute e dell’ambiente (si veda ad es. le sentt nn. 127 del 1990, 196 del 1998, 190 del 2001), le finalità dell’utilità sociale sono sempre più frequentemente ricondotte alla tutela della concorrenza. Cfr. sent. n 223 del 1982, nella quale il giudice costituzionale riconduce la libertà di concorrenza a due importanti interessi. Vincoli all’iniziativa economica privata sono «fatalmente elusi in un ordinamento che consente l’acquisizione di posizioni di supremazia senza nel contempo prevedere strumenti atti ad evitare un loro esercizio abusivo. I dati caratterizzanti della terza fase sono contenuti in due decisioni: la prima è la sent. n. 270 del 2010, che ha risolto la questione di legittimità costituzionale sollevata in relazione agli articoli 3 e 41 Cost, sull’art. 4, comma 4-quinquies, del decreto legge 23 dicembre 2003, n. 347, una norma-provvedimento adottata per il “salvataggio dell’Alitalia”. Il giudice costituzionale offre un’ampia ricostruzione della tutela della concorrenza ribadendo, tra l’altro, che «la libertà di concorrenza costituisce manifestazione della libertà di iniziativa economica privata» che ai sensi dell’art. 41, secondo e terzo comma, «è suscettibile di limitazioni giustificate da ragioni di “utilità sociale” e da “fini sociali”». La Corte sottolinea inoltre che la tutela della concorrenza ha una duplice finalità« da un lato, integra la libertà di iniziativa economica che spetta nella stessa misura a tutti gli imprenditori e, dall’altro, è diretta alla protezione della collettività, in quanto l’esistenza di una pluralità di imprenditori, in concorrenza tra loro, giova a migliorare la qualità dei prodotti e a contenere i prezzi». La seconda decisione è la sent. n. 200 del 2012, con cui la Corte si è pronunciata sul principio generale della liberalizzazione, contenuto nell’art. 3, primo comma, del decreto-legge n. 138 del 2011. La Corte enuncia il principio che «una regolazione delle attività economiche ingiustificatamente intrusiva, cioè non necessaria e sproporzionata rispetto alla tutela di beni costituzionalmente protetti genera inutili ostacoli alle dinamiche economiche, a detrimento degli interessi degli operatori economici, dei consumatori e degli stessi lavoratori e, dunque, in definitiva reca danno alla stessa utilità sociale». In questa ottica, secondo il giudice costituzionale, «l’eliminazione degli inutili oneri regolamentari, mantenendo però quelli necessari alla tutela dei superiori interessi costituzionali, è funzionale alla tutela della concorrenza e rientra perciò a pieno titolo nelle competenze del legislatore statale».

 

[26] F. Cintioli, L’art. 41 della Costituzione tra il paradosso della libertà di concorrenza e il diritto della crisi, cit., p. 2.

 

[27] Si vedano gli artt. 26 ss. TFUE; 101 ss. TFUE; 107 ss. TFUE.

 

[28] Si deve all’ingresso nel nostro ordinamento – sullo slancio dell’integrazione europea – della disciplina della concorrenza, anche la qualificazione della tutela dell’iniziativa economica come diritto e quindi «forma di garanzia nei rapporti orizzontali della concorrenza; e non più, o non solo, libertà rivendicata contro le invasioni verticali dello Stato»: Natalino Irti ebbe in proposito a notare icasticamente come l’articolo 1, comma 4 della legge 10 ottobre 1990, n. 287, abbia «reinterpretato» l’istituto richiamando «l’articolo 41, ma soltanto nella parte in cui provvede alla tutela e garanzia del diritto di iniziativa economica: dove la parola “diritto” sostituisce la parola “libertà”» in N. Irti, Iniziativa economica e concorrenza, in Per una nuova Costituzione economica, Bologna, 1998, p. 29.

 

[29] L. C. Natali, Tutela della libertà d’impresa nell’ordinamento nazionale, comunitario e nella Carta di Nizza, in I Contratti, 2004 fasc. 7, pt. 1, pp. 729 – 741. V. anche G. Santoro Passarelli, Le “ragioni” dell’impresa e la tutela dei diritti del lavoro nell’orizzonte della normativa europea, in Europa e diritto privato, 2005, fasc. 1, pp. 63 – 99.

 

[30] L’art. 16 della Carta di Nizza, rubricato “Libertà d’impresa” riconosce la libertà d’impresa, conformemente al diritto comunitario e alle legislazioni e prassi nazionali.

 

[31] La cui ricognizione – effettuata dalla Corte di giustizia dell’Unione europea nella sentenza (First Chamber) 9 settembre 2004 nei casi C-184/02 and C-223/02, Kingdom of Spain and Republic of Finland v. European Parliament e Council of the European Union (pp. 50-52) – concludeva che «quelle libertà non sono tuttavia diritti assoluti, ma devono essere considerate in relazione alla loro funzione sociale. Di conseguenza, possono essere imposte restrizioni al loro esercizio, a condizione che le restrizioni corrispondano a obiettivi di interesse generale e non costituiscano in relazione allo scopo perseguito un’interferenza sproporzionata e intollerabile, compromettendo la sostanza stessa dei diritti garantiti».

 

[32] Di diverso avviso è parte della dottrina. Secondo M. Benvenuti, Democrazia e potere economico, in Rivista Aic, 11.07.2018, pp. 109 ss.«”il posto dell’Italia in Europa… deve deciderlo l’Italia” e solo l’Italia, peraltro per il tramite degli organi costituzionali di indirizzo politico democraticamente legittimati».

 

[33] Si deve inoltre precisare che il ruolo di supremazia ricoperto dalle fonti del diritto comunitario anche nei confronti della Costituzione stessa ha indotto l’organo di controllo costituzionale a elaborare la teoria dei controlimiti, volta a risolvere le antinomie tra i più fondamentali e inalienabili diritti dell’ordinamento interno e le fonti comunitarie, consentendone sulla base della suddetta teoria la sindacabilità costituzionale delle relative leggi di autorizzazione alla ratifica. La Corte costituzionale è quindi chiamata alla «determinazione concreta dei “controlimiti”, intesi quali “elementi identificativi ed irrinunciabili dell’ordinamento costituzionale” (C. cost., sent. n. 234/2014); o per meglio dire – ricorrendosi in questo caso ad una formula positiva e non negativa, oltre che dotata di una più agevole traducibilità all’interno di altre esperienze giuridiche – dell’“identità costituzionale della Repubblica italiana” (C. cost., ord. n. 24/2017), la cui salvaguardia si pone quale condizione permanente e immanente per lo svolgersi della partecipazione dell’Italia all’Unione europea (scilicet per il “durante” del processo di integrazione europea). M. Benvenuti, Democrazia e potere economico, cit., p. 94.

 

[34] F. Cintioli, L’art. 41 della Costituzione tra il paradosso della libertà di concorrenza e il diritto della crisi, cit., p. 2.

 

[35] F. A. Hayek, La società libera, Vallecchi editore, Firenze,1969, pp. 442 ss..

 

[36] I. Musu, Gli aspetti economici della Costituzione italiana: è superato l’art. 41?, cit., p. 2.

 

[37] B. Libonati, La categoria del diritto commerciale, in Rivista delle società, 2002, 16.

 

[38] I. Musu, Gli aspetti economici della Costituzione italiana: è superato l’art. 41?, cit., p. 3.

 

[39] Ibidem, p. 3.

 

[40] P. Ciocca, Un nuovo diritto per l’economia italiana, in ApertaContrada, 5 dicembre 2008, p. 1.

 

[41] I. Musu, Gli aspetti economici della Costituzione italiana: è superato l’art. 41?, cit., p.3.

 

[42]Dalla maggioranza degli interventi in questo dibattito emerge una sostanziale sfiducia nella concorrenza. Emblematico al riguardo è l’intervento pronunciato in aula dall’onorevole Piero Malvestiti, deputato della Democrazia Cristiana, nella seduta del 3 maggio 1947. Malvestiti accusò il capitalismo di «aver soltanto garantito la libera sopraffazione gabellata per libera concorrenza» (Atti dell’Assemblea Costituente, p. 3502). Malvestiti, come molti deputati di parte democratica cristiana che condannavano il liberismo economico, non volle però andare nella direzione della pianificazione: manifestò piuttosto l’intenzione di «toglier di mezzo lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo senza sostituirvi l’ancor più atroce sfruttamento dello Stato su l’uomo» (Atti dell’Assemblea Costituente, p. 3508). La posizione della sinistra era più scontata, ma anche più chiara: denunciava delle degenerazioni monopolistiche e richiedeva un deciso intervento diretto dello Stato con piani e anche con nazionalizzazioni. La preoccupazione degli intereventi dei deputati di sinistra era ovviamente quella di evitare l’accusa di “sovietizzazione” dell’economia. Dichiarava, ad esempio, il comunista onorevole Montagnana: «Noi vogliamo che (…) l’iniziativa dei privati – purché venga indirizzata nell’interesse della nazione – sia aiutata e sollecitata. Ma tra queste affermazioni è l’affermazione della necessità di un piano economico, non esiste contraddizione alcuna.” (Atti dell’Assemblea Costituente, p. 3631). L’unico intervento a favore della concorrenza in sede di discussione generale sul Titolo III fu quello dell’onorevole Guido Cortese, di parte liberale. Cortese propone un emendamento a quello che era stato presentato in aula come art. 39, e che poi diverrà art.41, con questa formulazione: «La legge regola l’esercizio dell’attività economica al fine di difendere gli interessi e la libertà del consumatore». Nell’intervento con cui illustra l’emendamento l’On. Cortese specifica che il suo significato era di «vigilare ed intervenire, prevenire e reprimere, attraverso una legislazione antiprotezionistica e antimonopolistica, affinché la vita economica, fondata sull’iniziativa privata, si svolga nel rispetto della legge della concorrenza e dei principi che sono propri all’economia di mercato». «Noi diciamo –  afferma Cortese – che non è già per coordinare in un piano le attività economiche, che lo Stato debba intervenire, ma per assicurare il benessere della collettività, e per difender soprattutto quel tale consumatore che io non vedo ricordato in questo Titolo dei rapporti economici, non vedo nominato in nessun articolo; eppure è lui il protagonista vero, perché tutti siamo consumatori, tutti i cittadini sono consumatori, e difendere i consumatori significa soprattutto difendere gli interessi delle categorie meno abbienti».

 

[43] I. Musu, Gli aspetti economici della Costituzione italiana: è superato l’art. 41?, cit., p. 7.

 

[44] Ibidem, p. 11.

 

[45] M. Libertini, La tutela della concorrenza nella Costituzione italiana, in Giur. cost.,2005, pp. 1429 ss..

 

[46] I. Musu, Gli aspetti economici della Costituzione italiana: è superato l’art. 41?, cit., p. 12.

 

[47] Ibidem, p. 12.

 

[48] Ibidem, p. 12.

 

[49] Ibidem, p. 13. Sotto questo profilo, non appare allora priva di fondamento l’affermazione contenuta all’inizio della legge 10 ottobre 1990, n. 287 sulla tutela della concorrenza, secondo al quale la legge stessa è emanata in attuazione dell’art.41 della Costituzione a tutela e garanzia del diritto di iniziativa economica.

 

[50] Ibidem, p. 13. Si deve dare atto però che parte della dottrina individua ricostruzioni differenti sul punto. Si è osservato, infatti, che la sottoposizione dell’iniziativa privata al principio di non contrasto con l’utilità sociale equivale, in realtà, al riconoscimento della stessa solo “in funzione” di un interesse più generale, ovvero unicamente ove diretta a realizzare una specifica funzione economico-sociale. Si vedano sul punto T. Ascarelli, Appunti di diritto commerciale, I, parte generale, Roma, 1951, p. 20; R. Corrado, Trattato di diritto del lavoro, Torino, 1965, p. 312; G. D’Eufemia, L’autonomia privata e i suoi limiti nel diritto corporativo, Milano, 1942, pp. 10 ss.; G. Minervini, Contro la “funzionalizzazione” dell’impresa privata, in Riv. dir. civ., 1958, I, pp. 618 ss.. Altra dottrina ha impostato la questione in termini diversi: la Costituzione, riconoscendo e garantendo determinati diritti inviolabili alla persona, ha contestualmente posto doveri inderogabili in capo ai cittadini. Di qui si è tratta la considerazione secondo la quale anche tali diritti risulterebbero “funzionalizzati” in vista della tutela di interessi superiori. In tal senso P. Barile, La libertà nella Costituzione. Lezioni, Padova, 1966, p. 52 ss.; G.M. LombaRdi, Contributo allo studio dei doveri costituzionali, Milano, 1967, p. 24; S. Rodotà, Il problema della responsabilità civile, Milano, 1964, p. 103. Altri, invece, evidenziando la prevalenza della persona umana sull’interesse economico nella gerarchia dei valori contemplati nella Carta Costituzionale, hanno sottolineato come i rapporti patrimoniali, in un’ottica di “depatrimonializzazione” del diritto civile, svolgano il ruolo di strumenti, ora diretti ora indiretti, di attuazione della dignità della persona umana: per tutti, P. Perlingieri, “Depatrimonializzazione” e diritto civile, in Rass. dir. civ., 1983, pp. 1 ss..

 

[51]  L’art. 8, comma 1, lett. h) de D.Lgs. 59 del 2016 dispone che per motivi imperativi d’interesse generale si intendono le «ragioni di pubblico interesse, tra i quali l’ordine pubblico, la sicurezza pubblica, l’incolumità pubblica, la sanità pubblica, la sicurezza stradale, la tutela dei lavoratori compresa la protezione sociale dei lavoratori, il mantenimento dell’equilibrio finanziario del sistema di sicurezza sociale, la tutela dei consumatori, dei destinatari di servizi e dei lavoratori, l’equità delle transazioni commerciali, la lotta alla frode, la tutela dell’ambiente, incluso l’ambiente urbano, la salute degli animali, la proprietà intellettuale, la conservazione del patrimonio nazionale storico e artistico, gli obiettivi di politica sociale e di politica culturale».

 

[52] L’art. 639 c.p. sanziona l’imbrattamento e il deturpamento di cose altrui; l’art. 660 c.p. punisce le molestie e il disturbo alle persone. Per ciò che riguarda le sanzioni amministrative, un richiamo può essere fatto a quelle comminate dal Codice della Strada nel caso di intralcio alla circolazione.