Lo Stato di diritto fa bene all’economia. alcune note in margine alla c.d. legge Madia in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche

Rosario Ferrara 1  

 

Mi sembra necessaria e opportuna una prima, duplice, considerazione onde poter in qualche modo riassumere il senso complessivo della riforma in itinere, avviata con la legge di delega 7 agosto 2015, n. 124, “Deleghe al governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche”. In primo luogo, invero, il tentativo di mettere mano alla nostra pubblica amministrazione è – per così dire – globale, ossia generale e con un approccio sistemico; ciò nondimeno, e pur trattandosi di un’ipotesi riformatrice con pretese di globalità, generalità e sistematicità strutturale, coglie probabilmente nel segno chi mette in evidenza i “rischi di una cura senza la diagnosi” (così, efficacemente, Paolo De Joanna, Riforma della P.a. I rischi di una cura senza la diagnosi, in La Repubblica, Affari & Finanza, del 19 ottobre 2015).

Ogni discorso relativo alla riforma della pubblica amministrazione finisce, a mio avviso, col restare avviluppato attorno a questo doppio nodo problematico: un nodo gordiano che è molto difficile sciogliere, a meno che non si decida di tagliarlo di netto!

Ma veniamo al primo punto appena delineato.

È probabilmente dal famoso Rapporto di Massimo Severo Giannini sulla riforma della pubblica amministrazione, proposto all’attenzione della politica, degli studiosi di varie discipline (non solo giuridiche) e degli operatori nell’ormai lontano 1978, che il tema “pubblica amministrazione” non viene evocato, affrontato e in qualche modo gestito nelle sue criticità con una pari completezza di approccio e anche di soluzioni e ipotesi riformatrici.

È sufficiente una prima scorsa all’articolato normativo della citata legge n. 124/2015 per verificare come sia fondata questa prima, semplice constatazione.

E, infatti, dal capo I della legge, dedicato al tema (terribile!) delle semplificazioni amministrative, si passa al capo II ove si mette mano alla problematica dell’organizzazione amministrativa per giungere al capo III, il cui focus è costituito dalla disciplina del personale (con particolare riguardo al problema cruciale della dirigenza pubblica) per chiudere infine con un “finale di partita” rappresentato, al capo IV, dalla materia delle “deleghe per la semplificazione normativa”.

Una sorta di overlook a 360 gradi sul mondo dell’amministrazione, e del suo diritto, pertanto: a partire da ciò che classicamente si identifica come attività amministrativa fino all’organizzazione degli apparati pubblici e al ruolo della burocrazia, con una qualche intrusione anche nel settore della tutela giudiziale, o comunque delle giurisdizioni speciali (cfr. l’art. 20 della legge n. 124/2015 in tema di riordino della procedura dei giudizi innanzi alla Corte dei conti e, per implicito, anche gli articoli 19 e 20 della legge 7 agosto 1990 n. 241, così come novellati dalla legge di delega in questione, soprattutto per quel che concerne la tutela dei terzi).

Su ognuno dei profili toccati dalla legge n. 124/2015 potrebbero essere scritti lunghi e corposi saggi. Non essendo ciò possibile mi limiterò ad alcuni spunti di riflessione davvero generali, lasciando in un cono d’ombra le questioni di dettaglio di più evidente caratura tecnica (cfr. tuttavia su di ciò Maria Alessandra Sandulli, Gli effetti diretti della 7 agosto 2015 L.n. 124 sulle attività economiche: le novità in tema di s.c.i.a., silenzio-assenso e autotutela, in Federalismi.it, n. 17/2015 nonché, se si vuole, ai fini di un inquadramento generale, Rosario Ferrara, Introduzione al diritto amministrativo, Roma-Bari, 2014, passim, ma spec. 103 ss.).

Ora è proprio il campo della semplificazione, che viene correttamente intercettata nella sua natura duale, ossia come semplificazione amministrativa in senso stretto e come semplificazione normativa, nell’ovvia considerazione che nessuna semplificazione delle procedure amministrative sarà comunque effettiva e reale senza la previa semplificazione delle norme che alle procedure stesse si applicano, a giocare un ruolo di battistrada, indicandoci la direzione di marcia lungo la quale il legislatore intende muoversi.

Mi sia consentita una premessa.

La semplificazione, normativa e conseguentemente amministrativa, rappresenta sicuramente una necessità reale onde consentire alle nostre imprese di poter operare sul mercato interno, e soprattutto su quello globale, senza oneri e svantaggi competitivi al confronto degli operatori di altri paesi. E c’è di più: il continuo (e talora persino ossessivo) richiamo all’imperativo categorico della semplificazione pone al centro di ogni nostro discorso un dato fattuale, corposo e reale, dal quale non si può prescindere: ogni riforma dell’amministrazione ci ricorda che le amministrazioni pubbliche sono per così dire oggettivamente chiamate ad interfacciare con il mercato con il quale intrattengono rapporti di vario ordine e di variata e multiforme declinazione: ora virtuosi ora conflittuali quando non siano (ahimè!) persino contrassegnati da vincoli e legami che interessano il diritto penale.

La Corte costituzionale sembra cogliere in tutta la sua rilevanza e pienezza tale fenomeno, soprattutto quando ci ricorda che ogni scelta di liberalizzazione è anche, di per se stessa, una forma di regolazione del mercato (cfr. Corte costituzionale, 20 luglio 2012, n. 200, in www.giurcost.org), mettendo conseguentemente a nudo non soltanto l’ineluttabilità della (buona) semplificazione ma, in termini più generali, che gli attori fondamentali presenti sugli scenari, complicati e complessi, delle società opulente sono sempre e comunque due: l’impresa e la pubblica amministrazione. E allora?

A me capita di fare ai nostri studenti, con esempi che adesso non ripropongo, un discorso molto semplice, addirittura disarmante quando introduco il tema della semplificazione amministrativa: il legislatore dovrebbe censire e catalogare tutti quei procedimenti amministrativi che possono essere radicalmente eliminati, con il definitivo effetto di liberalizzare attività private prima conformate dal controllo amministrativo; laddove invece si tratti di attività rilevanti sul piano degli interessi pubblici e/o collettivi coinvolti, beh allora che i controlli (a carattere preventivo) ci siano, e cioè siano effettivamente messi in campo, presto e bene.

Nulla di più e nulla di meno!

Se questo è vero, allora le risposte e le soluzioni messe in campo dalla legge di delega non paiono molto soddisfacenti e, in qualche caso, persino pericolose e di dubbia costituzionalità oltre che sospette di non essere in armonia con il diritto dell’Unione europea.

Non mi riferisco tanto alla novella della disciplina in materia di conferenza di servizi, istituto sicuramente importante ma il cui impatto pratico sulla vita delle amministrazioni pubbliche sembra essere stato abbastanza modesto (cfr., significativamente, la ricerca condotta sul tema dalla Regione Piemonte e sfociato nella deliberazione del Consiglio regionale del Piemonte approvata in data 14 novembre 2007, “Linee interpretative per un più corretto funzionamento della conferenza di servizi…”) quanto piuttosto alla segnalazione certificata di inizio d’attività (s.c.i.a.) e al silenzio-assenso, di cui rispettivamente agli articoli 19 e 20 della legge n. 241/1990, e soprattutto, alla luce dell’art. 3 della legge n. 124/ 2015, ad una nuova figura di silenzio-assenso di tipo endoprocedimentale introdotto formalmente con l’art. 17-bis nel corpo della legge n. 241/1990. Si tratta di una sorta di figura giuridica di nuovo conio cui viene applicata la seguente denominazione: “silenzio assenso tra amministrazioni pubbliche e tra amministrazioni pubbliche e gestori di beni o servizi pubblici”.

Non mi occuperò, in questa sede, di s.c.i.a  e neppure di silenzio-assenso come forma positiva di conclusione di un procedimento amministrativo attivato su istanza di parte in quanto le criticità che si determinano a seguito della recente novella legislativa sono state già tutte passate in rassegna dalla nostra dottrina (recentemente, Maria Alessandra Sandulli, op. loc. cit., cui adde, se si vuole, Rosario Ferrara, La legge sul procedimento amministrativo alla prova dei fatti: alcuni punti fermi… e molte questioni aperte , in Dir. e processo amm., 2011, 59 ss.), ma piuttosto in modo più diretto del nuovo modello positivo di silenzio-assenso introdotto dalla legge di delega.

E veniamo al punto: le amministrazioni pubbliche hanno strutture e dinamiche piuttosto complicate, come è ben noto; ed è anche ben evidente che abbastanza spesso le ragioni di tali complicanze debbono essere addebitate alla pessima (o comunque non elevata) qualità della regolazione (Federico Sorrentino, Il sistema delle fonti nel diritto amministrativo, al sito dell’Aipda).

In questo contesto, gli articoli 16 e 17 della legge n. 241/1990 hanno già previsto opportune forme di semplificazione amministrativa (rectius, di accelerazione procedimentale) onde impedire che gli organi di amministrazione attiva siano paralizzati, nel loro processo decisionale, da prassi e comportamenti ingiustificatamente inerziali manifestati, rispettivamente, da organi consultivi e da autorità tecniche, in occasione della richiesta di pareri e di valutazioni tecniche.

Dal punto di vista tecnico l’articolo 3 della legge n. 124/2015, con il quale si introduce il nuovo art. 17-bis, non tocca la disciplina decisamente più rigorosa in materia di pareri e valutazioni tecniche, limitandosi a prevedere (come se fosse poca cosa!) che la consumazione del termine entro il quale un atto d’assenso, un concerto un nullaosta debba essere fatto pervenire da altra amministrazione all’amministrazione procedente determini comunque la formazione del silenzio-assenso, ossia l’acquisizione implicita dell’atto di consenso.

E si tratta certamente di una misura di semplificazione amministrativa.

Solo che – e questo è il punto di svolta, a mio avviso, non condivisibile, e forse in contrasto con la nostra Costituzione (cfr., ex multis, gli articoli 9 e 32 della Costituzione) e con il diritto dell’Unione europea che non pare aver mai manifestato un importante apprezzamento per il c.d. silenzio decisorio (Vera Parisio, I silenzi della pubblica amministrazione. La rinuncia alla garanzia dell’atto scritto, Milano, 1996) – prima della recente novella legislativa gli interessi c.d. sensibili (ambiente, paesaggio, beni culturali, salute) non potevano essere sacrificati sull’altare della semplificazione più radicale, e anzi persino selvaggia.

Se si è inteso privilegiare a tutto campo la cura di interessi e valori di altro tipo (quelli della crescita esponenziale, senza se e senza ma) in un paese già caratterizzato da devastanti operazioni di consumo del suolo, con altissimi, drammatici, livelli di dissesto idrogeologico, e tuttavia capace di ospitare come nessun altro bellezze naturali e paesaggi creati dall’uomo oltre a una massa ingente (unica al mondo) di beni culturali, beh lo si dica espressamente senza ipocrite schermature.

Non so davvero, comunque, se il silenzio-assenso a carattere endoprocedimentale che in questo modo viene a formarsi, possa passare indenne al vaglio di costituzionalità della Consulta e ancora se esso possa essere ritenuto in linea con i principi fondamentali del diritto dell’Unione europea. E non so neppure se una scelta siffatta sia perfettamente in sintonia con le politiche e i principi di trasparenza che orientano le attività pubbliche di contrasto alla corruzione (cfr., fra l’altro, l’articolo 7 della legge n. 124/2015).

Ma tant’è, non ci resta che attendere la (e confidare nella) futura legislazione delegata!

Legislazione delegata la quale dovrebbe, a mio avviso, soprattutto cercare di curare un male antico e altamente pernicioso del nostro ordinamento, e cioè la devastante instabilità delle regole, il loro affollarsi in modo caotico, con caratteri di evidente provvisorietà, al punto da determinare una spesso preoccupante incertezza delle regole (e delle regolarità) che debbono trovare applicazione specialmente ad opera degli apparati amministrativi (cfr., se si vuole, Rosario Ferrara, L’incertezza delle regole tra indirizzo politico e “funzione definitoria” della giurisprudenza, in, Dir. amm., 2014, 651 ss.).

Vale la pena di ricordare quanto affermato da uno dei nostri più importanti maestri (Alexis De Tocqueville, La democrazia in America, trad.it., Milano, 1992, passim), ad avviso del quale la frequenza delle leggi è un “male in assoluto”, quando pure siano buone, ed aggiungere, sotto questo riguardo, una doppia considerazione: la riforma dell’amministrazione non può essere un cantiere perennemente aperto, in eterno sommovimento, nel senso che occorre una ragionevole durata, nel tempo e nello spazio, delle regole destinate a disciplinare le attività private sottoposte in qualche modo a controllo amministrativo; la certezza delle regole, in quanto fondamentale principio ordinante dei modelli di Stato costituzionale, ci dice che lo Stato di diritto deve essere comunque “il punto logico di partenza” di ogni ragionamento, facendosi in questo modo (anche) il bene dell’economia (cfr. i contributi, su questo tema, pubblicati sul sito dell’Aipda, e ivi il cit. lavoro di Maria Alessandra Sandulli, nonché di Giovanni Greco, Mario R. Spasiano e altri).

Dico subito che non sembra essere di particolare interesse la parte della nostra legge di delega dedicata alla riforma dell’organizzazione dell’amministrazione dello Stato e, segnatamente, al problema della dirigenza pubblica. Non mancano, ovviamente, proposte e soluzioni di un certo rilievo, e persino “coraggiose” (ad esempio, all’articolo 19 sul “riordino della disciplina dei servizi pubblici locali di interesse economico generale”)… e tuttavia due paiono essere, a mio modo di vedere, gli elementi di debolezza strutturale del “pacchetto” riformatore che ci viene proposto.

In primo luogo, l’approccio del legislatore è, come già detto, sicuramente olistico, globale e – anzi – totalizzante. La riforma dell’amministrazione, tutta e subito, materializza un progetto sicuramente accattivante, e persino affascinante, ma di non agevole realizzazione; non voglio dire che si debba procedere “a pezzi”, al di fuori cioè di un disegno complessivo (il quale c’è già, ed è quello delineato nella nostra Costituzione!), ma forse un approccio maggiormente cauto, e quindi un procedere step by step potrebbero risultare preferibili.

In secondo luogo, sembra di rileggere quanto uno dei nostri più autorevoli maestri (Aldo Mazzini Sandulli) aveva acutamente denunciato già all’indomani della promulgazione della legge n. 833/1978, istitutiva del servizio sanitario nazionale, e cioè che molte (troppe!) leggi che dovrebbero avere un carattere oggettivamente strutturale (e ristrutturante) finiscono col divenire, per una perversa eterogenesi dei fini, normative sulla sistemazione del personale delle amministrazioni pubbliche.

E dunque?

Ha verosimilmente ragione, a mio avviso, chi mette a nudo i “rischi di una cura senza la diagnosi” (Paolo De Joanna, nel citato commento pubblicato su La Repubblica).

E tuttavia non è neppure facile tentare una pur cauta e provvisoria “diagnosi” dei mali della nostra amministrazione pubblica, i quali sono certamente antichi e persistenti essendo, peraltro, molto (troppo) spesso lo specchio fedele delle criticità e delle défaillances del sistema paese. Oltretutto, contro le pubbliche amministrazioni vengono sovente rivolti attacchi del tutto ingenerosi, nel senso che aveva sicuramente ragione Benedetto Croce quando già negli anni ’30 del secolo scorso denunciava un diffuso “sport nazionale”: prendersela sempre e comunque con le amministrazioni pubbliche, “a prescindere”, a voler usare una simpatica espressione di un nostro grande attore.

E dunque?

Una diagnosi completa non è certo agevole, e forse neppure possibile, ma un punto fermo (“un punto logico di partenza” ma anche di non ritorno) può essere tuttavia individuato, e lo troviamo tutto, ben visibile nella sua plastica evidenza, nel motto antico di Sidney Sonnino: “torniamo allo Statuto”, ossia alla legalità formale/materiale dello Stato di diritto.

1 Professore Ordinario di Diritto Amministrativo e Diritto dell’Ambiente presso l’Università degli Studi di Torino.