I marchi regionali di qualità agro-alimentare

Massimo Cavino1 

 

Il testo ripropone, aggiornandolo, l’intervento al convegno del CNR – Istituto di Diritto Agrario Internazionale e Comparato, Alessandria, 21-22 maggio 2015.

 

Sommario: 1. I marchi regionali di qualità nella “smaterializzazione” della funzione legislativa. 2. Il percorso della giurisprudenza costituzionale: la scelta del parametro. 3. Un momentaneo cambiamento di prospettiva. 4. Considerazioni conclusive.

 

1. Nel corso degli ultimi anni la Corte costituzionale ha avuto modo di pronunciarsi sulla legittimità di leggi regionali istitutive di marchi di qualità, finalizzati alla promozione dei prodotti del territorio ed alla corretta informazione e tutela dei consumatori.

In alcune occasioni il marchio di qualità è stato istituito per distinguere l’origine regionale di prodotti agro-alimentari che, notoriamente, rappresentano una delle eccellenze dell’economia italiana e assai spesso sono oggetto di contraffazione.

La possibilità di istituire marchi regionali di qualità ha posto però una seria questione di competenza rispetto al riparto della funzione legislativa tra Stato e regioni, e di compatibilità rispetto alle norme comunitarie sul divieto di restrizione alla libera circolazione delle merci.

Le due questioni tendono a sovrapporsi e la seconda finisce per prevalere sulla prima.

L’istituzione di un marchio regionale di qualità agro-alimentare tocca una pluralità di interessi ascrivibili a differenti materie, ora di potestà legislativa esclusiva statale (concorrenza, ambiente, ordinamento civile), ora di potestà concorrente (tutela della salute, alimentazione), ora di potestà residuale esclusiva delle regioni (agricoltura).

Nel giudicare il rispetto del riparto della funzione legislativa tra Stato e regioni, relativamente a questioni implicanti interessi riferibili ad una pluralità di materie, la Corte costituzionale segue il criterio della prevalenza (ex plurimis cfr. la sentenza n. 58 del 2015) quando appaia evidente l’appartenenza del nucleo essenziale di un complesso normativo ad una materia piuttosto che ad altre (sentenze n. 50 del 2005 e n. 370 del 2003), ovvero quando l’azione unitaria dello Stato risulti giustificata dalla necessità di garantire livelli adeguati e non riducibili di tutela su tutto il territorio nazionale (sentenza n. 67 del 2014).

L’applicazione del criterio della prevalenza è stato uno degli strumenti più efficaci di quella che è stata definita come la smaterializzazione delle competenze legislative statali. 

La Corte costituzionale (sentenza n. 303 del 2003), pronunciandosi sulla vicenda della attrazione in sussidiarietà, ha chiarito che l’elenco di cui al secondo comma dell’articolo 117 deve essere letto in modo elastico poiché «limitare l’attività unificante dello Stato alle sole materie espressamente attribuitegli in potestà esclusiva o alla determinazione dei principî nelle materie di potestà concorrente, […], significherebbe bensì circondare le competenze legislative delle Regioni di garanzie ferree, ma vorrebbe anche dire svalutare oltremisura istanze unitarie che pure in assetti costituzionali fortemente pervasi da pluralismo istituzionale giustificano, a determinate condizioni, una deroga alla normale ripartizione di competenze (basti pensare al riguardo alla legislazione concorrente dell’ordinamento costituzionale tedesco konkurrierende Gesetzgebung, o alla clausola di supremazia nel sistema federale statunitense Supremacy Clause). Anche nel nostro sistema costituzionale sono presenti congegni volti a rendere più flessibile un disegno che, in ambiti nei quali coesistono, intrecciate, attribuzioni e funzioni diverse, rischierebbe di vanificare, per l’ampia articolazione delle competenze, istanze di unificazione presenti nei più svariati contesti di vita, le quali, sul piano dei principî giuridici, trovano sostegno nella proclamazione di unità e indivisibilità della Repubblica».

In presenza di interessi nazionali unitari lo Stato può dunque esercitare una competenza trasversale e garantire una funzione unificante andando a comprimere la competenza regionale.

Chiaro appare che questa interpretazione del riparto della funzione legislativa sbilancia quasi sempre a favore dello Stato la valutazione della prevalenza nella definizione della materia cui riferire una disciplina legislativa relativa ad una pluralità di interessi, statali e regionali.

E in effetti avremo modo di vedere che le questioni relative alla disciplina dei marchi regionali di qualità agro-alimentare sono state risolte con una compressione della autonomia regionale, giustificata dalla ritenuta prevalenza della riferibilità alla materia “tutela della concorrenza” piuttosto che alla materia “agricoltura”.

La giurisprudenza costituzionale sui marchi regionali di qualità agro-alimentare presenta però un aspetto di particolare interesse rispetto alle altre ipotesi di smaterializzazione delle competenze legislative statali.

Avremo modo di vedere che la scelta del parametro utilizzato dalla Corte costituzionale per giudicare la legittimità delle leggi impugnate ha finito per mettere in discussione la possibilità di istituire marchi di qualità non solo per le regioni ma anche per lo Stato. 

2. L’ultima pronuncia della Corte costituzionale sul tema dei marchi regionali di qualità è stata l’ordinanza n. 134 del 2015 relativa alla legge della Regione autonoma Sardegna 7 agosto 2014, n. 16, recante “Norme in materia di agricoltura e sviluppo rurale: agrobiodiversità, marchio collettivo, distretti”, che istituiva un marchio collettivo di qualità agroalimentare e prevedeva sanzioni amministrative per il suo uso non autorizzato (artt. 11 e da 15 a 24).

L’ordinanza n. 134 del 2015 ha dichiarato l’estinzione del processo costituzionale poiché nelle more del giudizio il Governo aveva rinunciato al ricorso a seguito della approvazione della legge regionale 4 dicembre 2014, n. 30, recante «Modifiche ed integrazioni alla legge regionale 7 agosto 2014, n. 16 (Norme in materia di agricoltura e sviluppo rurale: agrobiodiversità, marchio collettivo, distretti)», che ha modificato la normativa impugnata, abrogando gli artt. 11, 22, comma 3, e 24 e sopprimendo il riferimento al carattere regionale del settore alimentare contenuto nell’art. 15, nonché la limitazione del marchio alle sole imprese aventi sede legale in Sardegna, prevista dall’art. 18, comma 2.

Ciò non dimeno è di particolare interesse la lettura del ricorso presentato dal Governo che, in larga misura, sintetizza il percorso fino ad ora compiuto dalla giurisprudenza costituzionale sul tema.

In primo luogo il Governo rileva che benché la Regione Sardegna, in base all’art. 3, primo comma, lettera d) dello Statuto speciale di autonomia, abbia competenza legislativa primaria in materia di «agricoltura e foreste; piccole bonifiche e opere di miglioramento agrario e fondiario», tale competenza, ai sensi della medesima norma statutaria, debba essere esercitata «in armonia con la Costituzione e i principi dell’ordinamento giuridico della Repubblica e col rispetto degli obblighi internazionali e degli interessi nazionali, nonché delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali della Repubblica».

In particolare il Governo ha ricordato che «la Corte di Giustizia ha sottolineato che una legislazione nazionale che regoli o applichi misure di marcatura di origine – sia che si tratti di marchi obbligatori sia che si tratti di marchi volontari – è contraria agli obiettivi del mercato interno, perché può rendere più difficile la vendita, in uno Stato membro, della merce prodotta in un altro Stato membro, ostacolando gli scambi intracomunitari e facendo così venir meno i benefici del mercato interno. Nella sentenza del 5 novembre 2002 (C-325/00), la Corte ha ritenuto che un sistema di marcatura, seppure facoltativo, nel momento in cui viene avocato all’autorità pubblica, ha effetti, almeno potenzialmente, restrittivi sulla libera circolazione delle merci tra Stati membri, in quanto l’uso del marchio “favorisce, o è atto a favorire, lo smercio dei prodotti in questione rispetto ai prodotti che non possono fregiarsene”. È incompatibile con il mercato unico la presunzione di qualità legata alla localizzazione nel territorio nazionale di tutto o parte del processo produttivo «la quale di per ciò stesso limita o svantaggia un processo produttivo le cui fasi si svolgono in tutto o in parte in altri Stati Membri» (Corte di Giustizia sentenza del 12 ottobre 1978, causa 13/78)».

Il parametro invocato dal Governo è dunque il primo comma dell’articolo 117 Cost., con riferimento ai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario.

La Corte costituzionale era stata chiamata a pronunciarsi in relazione allo stesso parametro nel giudizio concluso con la sentenza n. 86 del 2012, che ha dichiarato la illegittimità costituzionale delle disposizioni della legge regionale comunitaria per l’anno 2011 della Regione Marche, che introducevano il marchio di origine e di qualità denominato MEA (Marche Eccellenza Artigiana).

Il marchio istituito dalla regione Marche non era relativo a prodotti agro-alimentari: esso era finalizzato alla promozione dell’artigianato artistico, tradizionale e tipico delle Marche.

La Corte costituzionale ha motivato la propria decisione (n. 4 del considerato in diritto) ricordando che «ai sensi dell’art. 34 del TFUE (già art. 28 del TCE), “Sono vietate tra gli Stati membri le restrizioni quantitative all’importazione nonché qualsiasi misura di effetto equivalente”. Il successivo art. 35 (già articolo 29 del TCE) dispone che “Sono vietate tra gli Stati membri le restrizioni quantitative all’esportazione e qualsiasi misura di effetto equivalente”. L’art. 36 del TFUE (già art. 30 del TCE), infine, stabilisce che “Le disposizioni degli articoli 34 e 35 lasciano impregiudicati i divieti o restrizioni all’importazione, all’esportazione e al transito giustificati da motivi di moralità pubblica, di ordine pubblico, di pubblica sicurezza, di tutela della salute e della vita delle persone e degli animali o di preservazione dei vegetali, di protezione del patrimonio artistico, storico o archeologico nazionale, o di tutela della proprietà industriale e commerciale. Tuttavia, tali divieti o restrizioni non devono costituire un mezzo di discriminazione arbitraria, né una restrizione dissimulata al commercio tra gli Stati membri”. Dalle suddette disposizioni si evince il rilievo centrale che, nella disciplina del mercato comune delle merci, ha il divieto di restrizioni quantitative degli scambi e di misure di effetto equivalente, concernente sia le importazioni, sia le esportazioni. In particolare, la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea ha elaborato una nozione ampia di “misura di effetto equivalente”, nozione riassunta nel principio secondo cui “ogni normativa commerciale degli Stati membri che possa ostacolare direttamente o indirettamente, in atto o in potenza, gli scambi intracomunitari va considerata come una misura di effetto equivalente a restrizioni quantitative” (Corte di giustizia, sentenza 11 luglio 1974, in causa 8/1974, Dassonville contro Belgio). Nel quadro di tale principio, la Corte suddetta ha affermato che la concessione, da parte di uno Stato membro, di un marchio di qualità a prodotti finiti fabbricati in quello Stato, comportava per esso il venir meno agli obblighi derivanti dall’art. 30 del Trattato CE, divenuto, in seguito a modifica, art. 28 CE (Corte di giustizia, sentenza 5 novembre 2002 in causa C-325/2000, Commissione contro Repubblica Federale di Germania). Ad avviso della Corte, la disciplina controversa aveva, quanto meno potenzialmente, effetti restrittivi sulla libera circolazione delle merci fra Stati membri. Infatti una simile disciplina, introdotta al fine di promuovere la commercializzazione dei prodotti agroalimentari realizzati in Germania ed il cui messaggio pubblicitario sottolineava la provenienza tedesca dei prodotti interessati, poteva indurre i consumatori ad acquistare i prodotti recanti il marchio CMA, escludendo i prodotti importati. A conclusioni analoghe la stessa Corte è pervenuta con sentenza 6 marzo 2003 in causa C-6/2002, Commissione delle Comunità europee contro Repubblica Francese, relativa alla protezione giuridica nazionale concessa ad alcuni marchi regionali. Orbene, la norma in questa sede censurata introduce un marchio di origine e di qualità, denominato Marche Eccellenza Artigiana (MEA), che, con la chiara indicazione di provenienza territoriale («Marche»), mira a promuovere i prodotti artigianali realizzati in ambito regionale, garantendone per l’appunto l’origine e la qualità. Quanto meno la possibilità di produrre effetti restrittivi sulla libera circolazione delle merci tra Stati membri è, dunque, innegabile, alla luce della nozione comunitaria di “misura ad effetto equivalente” elaborata dalla Corte di giustizia e dalla giurisprudenza dianzi richiamata».

In forza di questa argomentazione la Corte costituzionale ha dichiarato la illegittimità costituzionale della disposizione regionale per violazione, per norma interposta (rappresentata dai principi comunitari), del primo comma dell’articolo 117 Cost.

Si faccia molta attenzione. La disciplina legislativa regionale viene censurata perché sostanzialmente lesiva del principio di libera concorrenza. Il Governo però non denuncia il vizio di costituzionalità in ordine ad un eccesso di competenza legislativa, assumendo come parametro il secondo comma dell’articolo 117, lettera e), che attribuisce alla potestà esclusiva dello Stato la disciplina della tutela della concorrenza; e, in ossequio al principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, il Giudice delle leggi indica nel primo comma dell’articolo 117 il parametro del thema decidendum, ovvero nel rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario, assunti come norma interposta.

Un percorso argomentativo del tutto analogo è stato seguito dalla Corte costituzionale quando ha pronunciato la sentenza n. 66 del 2013 con cui ha dichiarato la illegittimità costituzionale della legge della Regione Lazio 28 marzo 2012, n. 1 recante «Disposizioni per il sostegno dei sistemi di qualità e tracciabilità dei prodotti agricoli e agroalimentari. Modifica alla legge regionale 10 gennaio 1995, n. 2 (Istituzione dell’Agenzia regionale per lo sviluppo e l’innovazione dell’agricoltura del Lazio – ARSIAL) e successive modificazioni».

La legge regionale istituiva un “marchio regionale collettivo di qualità” allo scopo di «assicurare ai consumatori la qualità dei prodotti agricoli ed agroalimentari e di incentivare la valorizzazione e la promozione della cultura enogastronomica tipica regionale». 

Anche in questo la Corte costituzionale, richiamando la giurisprudenza della Corte di giustizia sulle misure ad effetto equivalente alla restrizione della libera circolazione delle merci, ha concluso per la illegittimità costituzionale della legge regionale, per violazione del primo comma dell’articolo 117 Cost., che era stato indicato dal Governo quale parametro del giudizio

Anche questa questione non è stata dunque decisa con riferimento ai parametri costituzionali che ripartiscono la funzione legislativa tra lo Stato e le regioni ma con riferimento ai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario. Al riparto di potestà legislativa, di cui ai commi 2 e seguenti dell’articolo 117 Cost., la Corte ha riservato un rapido cenno, per sostenere l’irrilevanza della finalità di tutela del consumatore e della ultraterritorialità del marchio che erano state richiamate dalla difesa regionale. La Corte precisa che la tutela del consumatore rientra nella materia “ordinamento civile” di competenza esclusiva del legislatore statale e che non compete alla regione certificare la qualità di un prodotto sull’intero territorio nazionale o su quello di altri Stati europei. Ma si tratta, come dicevamo, di un rapido cenno, che non sposta i termini della questione.

 

3. È possibile registrare un momentaneo cambiamento di prospettiva soltanto con la sentenza n. 209 del 2013.

La Corte costituzionale era stata chiamata dal Governo a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale della legge della regione Basilicata 13 luglio 2012, n. 12 (Norme per orientare e sostenere il consumo dei prodotti agricoli di origine regionale a chilometri zero).

La legge prevedeva tre differenti tipi di intervento a sostegno dei prodotti agricoli di origine regionale: la previsione che negli appalti pubblici di servizi o di forniture di derrate alimentari ed agroalimentari, destinati alla ristorazione collettiva, costituisse titolo preferenziale per l’aggiudicazione, l’utilizzo di prodotti agricoli di origine regionale; la previsione che i comuni riservassero agli imprenditori agricoli esercenti la vendita diretta di prodotti agricoli lucani, ai sensi dell’articolo 4 del decreto legislativo 18 maggio 2001, n. 228, almeno il 20 per cento del totale dei posteggi nei mercati al dettaglio in aree pubbliche; la previsione che alle imprese esercenti attività di ristorazione o di vendita al pubblico ed operanti nel territorio regionale che, nell’ambito degli acquisti di prodotti agricoli effettuati nel corso dell’anno, si approvvigionassero per almeno il 30 per cento, in termini di valore, di prodotti agricoli di origine regionale, a chilometri zero, venisse assegnato un contrassegno con lo stemma della Regione da collocare all’esterno dell’esercizio e utilizzabile nell’attività promozionale.

In questa occasione il Governo ha indicato quali parametri del giudizio di costituzionalità il primo comma, ma anche il secondo comma, lettera e), dell’art. 117 Cost.

Ciò ha permesso alla Corte costituzionale di prendere le mosse da premesse argomentative differenti rispetto ai propri immediati precedenti e di affermare (n. 3 del Considerato in diritto) che «le censure del ricorrente relative all’asserita violazione del riparto interno, tra Stato e Regioni, delle competenze legislative – in specie, per avvenuta lesione della competenza esclusiva dello Stato in materia di “tutela della concorrenza” (art. 117, secondo comma, lettera e, Cost.) – assumono carattere pregiudiziale, sotto il profilo logico-giuridico, rispetto alle censure intese a denunciare la violazione dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario, che investono i contenuti delle scelte legislative concretamente operate».

Il parametro del giudizio è dunque rappresentato dalle norme sulla tutela della concorrenza ma la disposizione costituzionale su cui è poggiato è il secondo comma dell’articolo 117 Cost., non il primo.

E ciò benché la Corte costituzionale affermi che «la giurisprudenza di questa Corte è costante nell’affermare che la nozione di “concorrenza”, di cui al secondo comma, lettera e), dell’art. 117 Cost., riflette quella operante in ambito comunitario. Essa comprende, pertanto, sia le misure legislative di tutela in senso proprio, intese a contrastare gli atti e i comportamenti delle imprese che incidono negativamente sull’assetto concorrenziale dei mercati; sia le misure legislative di promozione, volte ad eliminare limiti e vincoli alla libera esplicazione della capacità imprenditoriale e della competizione tra imprese (concorrenza “nel mercato”), ovvero a prefigurare procedure concorsuali di garanzia che assicurino la più ampia apertura del mercato a tutti gli operatori economici (concorrenza “per il mercato”) (ex plurimis, sentenze n. 291 e n. 200 del 2012, n. 45 del 2010). In questa seconda accezione, attraverso la “tutela della concorrenza”, vengono perseguite finalità di ampliamento dell’area di libera scelta dei cittadini e delle imprese, queste ultime anche quali fruitrici, a loro volta, di beni e di servizi (sentenze n. 299 del 2012 e n. 401 del 2007). Ove la suddetta materia, considerato il suo carattere finalistico e “trasversale”, interferisse anche con materie attribuite alla competenza legislativa delle Regioni, queste ultime potrebbero dettare una disciplina con “effetti pro-concorrenziali”, purché tali effetti siano indiretti e marginali e non si pongano in contrasto con gli obiettivi posti dalle norme statali che tutelano e promuovono la concorrenza (sentenze n. 43 del 2011 e n. 431 del 2007)».

Dunque, nella identità di contenuti delle norme costituzionali e comunitarie in tema di concorrenza, la Corte ritiene di assumere le prime quale parametro di costituzionalità per il proprio giudizio.

E sulla base di tale parametro dichiara la illegittimità costituzionale delle norme istitutive dei primi due tipi di intervento a favore degli imprenditori agricoli lucani, ma anche di quelle istitutive del contrassegno di origine regionale dei prodotti utilizzati.

Rispetto a queste ultime la Corte costituzionale (n. 7 del Considerato in diritto) utilizza il criterio della prevalenza che, ancora una volta, conduce ad una compressione della autonomia regionale.

La Corte ricorda come « il concetto di “segno distintivo”, inteso in senso ampio, abbracci un complesso di istituti, qualificati con denominazioni eterogenee dalla legislazione vigente (quali, ad esempio, quelle di marchi di impresa, marchi collettivi, denominazioni di origine o denominazioni di provenienza) e destinati ad assolvere funzioni parzialmente diverse (ora, cioè, di prevalente di tutela dei produttori contro la concorrenza sleale, ora, invece, di certificazione della qualità del prodotto, a garanzia, almeno in via principale, del consumatore). Su tale premessa, la Corte ha rilevato, altresì, come la disciplina dei segni distintivi sia suscettibile di incidere su plurimi interessi (dei produttori, dei consumatori, della collettività al rispetto del principio di verità, del corretto svolgimento della concorrenza), interferendo, correlativamente, su una molteplicità di materie: interferenza che può essere, peraltro, composta facendo ricorso al criterio della prevalenza. Al pari che in altri casi in precedenza scrutinati (sentenze n. 368 del 2008 e n. 175 del 2005), tale criterio porta a ricondurre anche le disposizioni oggi in esame alla materia, riservata alla legislazione dello Stato, della «tutela della concorrenza». A tale materia risulta, infatti, ascrivibile il nucleo essenziale della disciplina recata dalle norme in discussione, avuto riguardo al loro contenuto e alla loro ratio, che si identifica essenzialmente nell’intento di orientare la preferenza del mercato verso una determinata categoria di prodotti, qualificata dal mero territorio di provenienza».

Il cambiamento di prospettiva, come abbiamo detto, è stato temporaneo.

Con la sentenza n. 260 del 2014 la Corte costituzionale è dovuta tornare nel solco segnato dalla giurisprudenza sui marchi regionali di qualità.

Essa era stata chiamata a pronunciarsi in via principale sulla legge delle regione Lombardia 19 febbraio 2014, n. 11 (Impresa Lombardia: per la libertà di impresa, il lavoro e la competitività), volta a promuovere la crescita e le innovazioni del sistema produttivo regionale.

La legge regionale prevedeva varie forme di intervento a sostegno delle imprese lombarde, compresa l’istituzione di un marchio “made in Lombardia” che permettesse di distinguere l’origine dei prodotti del territorio.

Rispetto alla istituzione del marchio regionale il ricorso del Governo tornava a lamentare la violazione del solo primo comma dell’articolo 117 Cost., in relazione alle norme comunitarie che vietano di adottare misure restrittive della libera circolazione delle merci.

Successivamente alla proposizione del ricorso, la Regione Lombardia ha emanato la legge regionale 5 agosto 2014, n. 24, il cui art. 21, comma 3, ha inciso su tutte le disposizioni denunciate.

Il Governo non ha rinunciato al ricorso ma si è rimesso al giudizio della Corte costituzionale affinché valutasse se le nuove disposizioni di legge fossero satisfattive rispetto alle censure di costituzionalità mosse alla disciplina regionale precedente.

Per quanto attiene alle disposizioni che in questa sede più ci interessano, quelle relative al marchio “made in Lombardia”, la Corte costituzionale (n. 3.1 del Considerato in diritto) ha rilevato che «la disposizione di cui all’art. 3, comma 1, lettera g), della citata legge n. 11 del 2014 − attributiva alla Giunta regionale del compito di istituire “il riconoscimento del “made in Lombardia” finalizzato alla certificazione della provenienza del prodotto” − è stata denunciata, infatti, per contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., sul presupposto che l’imputazione ad una autorità pubblica del “sistema di marcatura” avrebbe effetti, almeno potenzialmente, restrittivi sulla libertà di circolazione delle merci tra Stati membri, in violazione delle prescrizioni comunitarie (artt. 34 e 35 del TFUE). Nel testo della predetta disposizione, risultante dalle modifiche apportatevi dall’art. 21, comma 3, della successiva legge regionale n. 24 del 2014, risulta ora, però, eliminato il marchio “made in Lombardia” e, in luogo dello stesso, è prevista l’istituzione di “marchi collettivi regionali, secondo la disciplina nazionale ed europea vigente”, da rinvenirsi, quest’ultima, negli artt. 66 e 67 del Regolamento CE n. 207/09 del Consiglio, del 26 febbraio 2009, che attiene ai “Marchi comunitari collettivi”. Ai sensi dell’art. 66 citato, detti marchi sono, in particolare, “idonei a distinguere i prodotti o servizi dei membri dell’associazione titolare da quelli di altre imprese”, anche in relazione alla loro provenienza geografica, e possono essere depositati da “associazioni di fabbricanti, produttori, prestatori di servizi o commercianti”. L’operato rinvio alla disciplina europea ha così mutato la portata precettiva della norma originaria in esame, che risulta, quindi, non più orientata ad un intervento diretto della Regione nella istituzione del marchio di origine, bensì volta a promuovere l’istituzione di marchi collettivi in ambito regionale, lasciati, però, all’iniziativa privata. Dal che la sua attuale compatibilità con i parametri evocati».

Il parametro del giudizio è dunque tornato ad essere il primo comma dell’articolo 117 Cost. La pregiudizialità del rispetto delle norme di cui ai commi successivi dello stesso articolo 117 Cost..

 

4.  Il percorso giurisprudenziale appena descritto permette di giungere ad alcune rapide conclusioni.

Per quanto attiene agli aspetti processuali del giudizio di legittimità costituzionale è interessante notare che la Corte costituzionale potendo scegliere tra un parametro costituzionale diretto (il secondo comma, lettera e) dell’articolo 117 Cost.) ed un parametro costituzionale indiretto (il primo comma dello stesso articolo) preferisca la prima soluzione ribadendo la pregiudizialità delle norme costituzionali sul riparto della funzione legislativa rispetto ai possibili ulteriori vizi delle norme censurate.

Quando invece tale possibilità non le sia concessa (allorché la questione sollevata indica quale unico parametro il primo comma dell’articolo 117 Cost.), la Corte costituzionale segue molto strettamente il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato e non allarga il giudizio alla conformità a parametri ulteriori rispetto a quello indicato nel ricorso.

E ciò anche quando il parametro costituzionale indiretto e quello diretto abbiano lo stesso contenuto, come nel caso delle norme sulla tutela della concorrenza.

La Corte costituzionale non ha del resto molte alternative: l’esatta indicazione del parametro è elemento essenziale per la valutazione della ammissibilità del ricorso nel giudizio in via principale.

Quanto alla possibilità di estendere il giudizio a parametri non espressamente indicati la Corte ha mostrato qualche apertura, per altro nell’ambito del giudizio in via incidentale, stabilendo però (sentenza n. 170 del 2008, n. 8 del Considerato in diritto) che «la questione deve essere scrutinata avendo riguardo anche ai parametri costituzionali non formalmente evocati, ma desumibili in modo univoco dall’ordinanza di rimessione (sentenza n. 69 del 1999), qualora tale atto faccia ad essi chiaro riferimento, sia pure implicito (sentenze n. 26 del 2003; n. 99 del 1997), mediante il richiamo dei principi da questi enunciati».

E l’espresso riferimento ai vincoli comunitari in materia di concorrenza non può certo essere considerato come un implicito richiamo al secondo comma, lettera e) dell’articolo 117 Cost. poiché i vincoli comunitari incidono sulla portata normativa delle disposizioni censurate e non sulla definizione materiale/competenziale del riparto della funzione legislativa tra Stato e regioni.

Alla luce di queste considerazioni – posto che i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario operano anche sul legislatore statale – possiamo leggere i ricorsi governativi che indicano nel primo comma dell’articolo 117 Cost. il parametro di illegittimità delle leggi regionali che istituiscono marchi di qualità quale una implicita rinuncia da parte dello Stato ad introdurre discipline analoghe con propria legge.

  Né il quadro potrà essere modificato dalla approvazione del disegno di revisione costituzionale n. 1429 – B che, pur sostituendo l’articolo 117 Cost., non introdurrà alcuna modifica rispetto ai parametri di cui abbiamo ragionato.

1 Professore di Diritto Pubblico e Diritto Costituzionale presso l’Università degli Studi del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro”.