Volume “Vent’anni di Costituzione (1993-2013). Dibattiti e riforme nell’Italia tra due secoli” (a cura di Stefano Sicardi, Massimo Cavino, Luca Imarisio)

Presentazione Consiglio regionale del Piemonte, Palazzo Lascaris- 22 giugno 2015

  

 Mario Dogliani1

È ovviamente difficile parlare di un libro così grande, variegato e denso, non solo per il gran numero dei temi trattati, ma anche per la profondità con cui i temi sono affrontati e per la complessa ricostruzione di vicende e dibattiti. Mi limiterò dunque a qualche considerazione generalissima.

Leggendo questo libro, si ha l’impressione di una storia istituzionale più convulsa che ricca, e che continua a ruotare attorno a nodi non sciolti; e parlo della cultura giuridica più che delle vicende politiche. Mi pare di scorgere – riflesso nel libro, proprio per l’equilibrio delle ricostruzioni – lo sforzo, compiuto dalla cultura costituzionalistica, di dominare (nel senso di chiarire, spiegare, interpretare …) la complicata vita istituzionale di questo ventennio, senza esser più, però, in grado di ritrovare il bandolo della matassa, il “senso” dei quadri giuridici e delle vicende politiche, e trovarsi così costretta ad arroccarsi sul piano analitico (sia storico che giuridico), senza più implicitamente essere sorretta da quella dimensione di “politica costituzionale” che caratterizzava il costituzionalismo italiano negli anni passati, e che esso lasciava trasparire.

La spiegazione che cerco di dare a questa non facile situazione è la seguente: c’è stato, al di là delle vicende politiche, economiche e sociali, un cambiamento molto profondo., una trasformazione in quella che Fioravanti chiama “cultura costituzionale”, ma che io preferirei chiamare “immaginario costituzionale”.

Il ruolo di questo immaginario è importantissimo. Ilenia Massa Pinto, parlando delle vicende europee, gioca molto su questo elemento, cioè sulla rappresentazione diffusa dell’intera vicenda. Lei usa il termine “narrazione”, ma vuol dire la stessa cosa. Cha cosa significa questa trasformazione dell’immaginario costituzionale, alla quale fanno riferimento Cavino, e anche Sobrino, pur con altre parole? Significa che nella società cambia il modo di intendere il rapporto tra la società stessa e la Costituzione. Vale a dire che alla domanda “che cosa ti aspetti dalla Costituzione?”, cambiano le risposte dei cittadini, e con esse quelle dei costituzionalisti. Fino a non molti anni fa, anche durante i duri scontri che accompagnarono i tentativi di revisione, alla stessa domanda molti avrebbero risposto risposto in modo pressoché corale: “dalla Costituzione mi aspetto una guida per lo sviluppo della società italiana verso gli obiettivi che essa stessa fissa.” L’immaginario collettivo vedeva nella Costituzione un orizzonte e un quadro di riferimento, e la individuazione degli strumenti (perfezionabili, o riformabili, o ricostruibili) che avrebbero dovuto e potuto accompagnare il cammino verso questo quadro. Oggi questo immaginario è tramontato: pur essendo essenzialmente sloganistica – e non precisamente descritta e misurata, come dovrebbe – la proclamazione del cambiamento delle “cose” economiche o delle “cose” sociologiche, indubbiamente è mutato il modo di interrogare la Costituzione. Come ha esattamente affermato Pietro Costa la nostra società non chiede più che cosa dice di fare la Costituzione, ma si chiede invece quale senso siamo disposti ad attribuirle a partire da un contesto che assumiamo ormai come discontinuo rispetto alla stagione costituente.

Dalla lettura del libro mi pare emerga continuamente questa difficoltà preliminare. Secondo l’impostazione che ha dato nelle parti introduttive del testo, Sicardi insiste nel dire che dobbiamo continuare a considerare la Costituzione come un quadro normativo che ci aiuta, che continua ad aiutarci e che continuerà a guidarci. Tuttavia tale espressione, rispetto al significato che essa aveva molti anni fa, assume un tono difensivo: in passato, infatti, si sarebbe parlato di prospettive da conquistare e a cui tendere. Oggi, piuttosto, di evitare deragliamenti, si scongiurare cesure irrimediabili.

Quanto problema percorre tutto il libro, che si presenta complessivamente animato dall’interrogativo di come coniugare il compito che il giurista si assume, cioè il compito di salvaguardare e confermare la validità della Costituzione anche di fronte ai fatti che se ne allontanano, e che potrebbero consentire di dichiararne la desuetudine. Il giurista si trova in mezzo alle onde: pur vedendo benissimo che le onde sono altissime, deve continuare a sostenere che è necessario riconoscere e preservare la validità della Costituzione.

Si potrebbe dire – malgrado i marosi che hanno agitato i miseri dibattiti parlamentari attraverso cui si è snodata la revisione in corso – che non c’è nessuno che, alla fine del ventennio 1993-2013, ritiene che non c’è più niente da fare, che la Costituzione è solo un ferrovecchio, come si sosteneva agli inizi del ventennio stesso, e che c’è un “nuovo” tutto da cogliere e da realizzare. Nel contesto attuale mi sembra che non si paragoni più la Costituzione ad un museo delle cere al quale nessuno vorrebbe più ritornare, né che si usino più espressioni altrettanto sprezzanti, abbagliate dal nuovo che avanza. Ma la sostanza è analoga. La differenza sta solo in questo: che l’ordinamento costituzionale dello Stato ha subito profondi rimaneggiamenti (per usare parole neutre) in nome di una linea di politica costituzionale chiara, che considera irrimediabilmente persa la possibilità della rappresentazione partitica e della mediazione politica, su cui si reggeva l’intero impianto rappresentativo, e dunque la forma di governo. Ma è cambiato l’atteggiamento nei confronti dei principi fondamentali. Quanto alla forma di governo c’è dunque continuità con l’insoddisfazione del passato. Quanto ai principi fondamentali c’è invece smarrimento. Qui sta la differenza. Sotto le bandiere del neoliberismo trionfante solo gli sciocchi e gli ignoranti invasati sorridono. In realtà c’è angoscia. Non è (solo) che non si sappia come uscire dalla cd. crisi. E’ che non si sa esattamente che cosa sia questa crisi; come possa durare indefinitamente lo strapotere della finanza; come si possa uscire da questa contesto di sovraproduzione e contemporaneamente di miseria; come si possa scongiurare la stagnazione secolare, perché la questione del ruolo dello Stato nell’economia non è affatto risolta, malgrado gli slogan; quale contesto geopolitico si profila …

Quindi, sui principi fondamentali della struttura politico-economica – dalle chiacchiere quotidiane messi in non cale – silenzio assoluto sul piano costituzionale.

Tutti i saggi raccolti nel volume ruotano – come ho già detto – attorno al compito che gli autori si sono assunti: di essere onesti dal punto di vista storico, ma, al contempo, di essere fermi nel tentativo di non far derivare dal giudizio storico un giudizio di invalidità sopravvenuta della Costituzione.

Vorrei sottolineare la difficoltà di questa posizione. Possiamo certo continuare ad attribuirci questo compito. La società affida ai costituzionalisti la difficile funzione pubblica di preservare la la continuità della Costituzione. Ma quanto può durare?

Fino a che punto posso svolgere il mio ruolo di custode della Costituzione in divaricazione con i giudizi storici che pure pratico? Qui è il nodo più problematico: dove attingere le forze – morali e intellettuali, innanzi tutto interne, nella cultura costituzionalistica consapevole, e poi esterne, nel mondo culturale e politico – per salvaguardare ruolo e validità della Costituzione?

Su questi aspetti, nel libro, mi sembra che si divarichino due filoni: alcuni, come Sicardi, credono che questa difesa possa continuare, che quest’impegno debba essere proseguito, e che ciò sia non solo doveroso ma possibile. Altri, invece come Cavino, sono poco fiduciosi su questa prospettiva.

Mentre Sicardi parte dal presupposto che, per preservare la Costituzione è necessario prestare attenzione ai nuovi snodi, ed estende quindi l’analisi alla democrazia europea, terreno obbligato sul quale combattere la battaglia, Cavino parte da un’osservazione più pessimista: denuncia il fatto che quel cambiamento di immaginario di cui parlavo all’inizio non è stato capito da nessuna forza politica. Tutte hanno infatti continuato a riutilizzare strumenti concettuali del Novecento, e non hanno condotto una vera battaglia politica per cambiare la Costituzione pur mantenendo il principio costituzionale. Cavino non sostiene che è la prospettiva stessa del costituzionalismo che deve essere abbandonata. Occorre, secondo lui, mantenere la prospettiva del costituzionalismo, quindi dell’esistenza di una legge più alta, però dai contenuti profondamente diversi dagli attuali. Poiché nessuna forza politica è riuscita a capire le ragioni, i sintomi e i contenuti della trasformazione ormai intercorsa si sono fatte chiacchiere inutili, perché non si è riusciti a proporre niente di adatto ad affrontare la situazione che sta emergendo nella realtà sociale e nell’immaginario collettivo.

Io dubito di questa diagnosi, perché sono convinto che, al di là delle volgarità penose di cui la discussione sulle riforme costituzionali in corso è intessuta, sia stato perseguito un disegno dotato di una sua (per me cattiva) razionalità. E tale disegno è consistito nel consegnare il potere di governo all'”opinione della maggioranza”, senza mediazioni culturali e politiche: direttamente alla mera opinione così come conformata da chi ha la disponibilità dei mezzi di persuasione.

E allora bisognerebbe esattamente dire di che cosa ci sarebbe bisogno “in più” di quel che oggi viene fatto. 

Per questo non accetto l’attuale situazione. Sono stato abituato a pensare alla Costituzione come ad un qualcosa che si oppone all’effettività e all’essere della società, come ad un qualcosa di diverso che esercita uno sforzo contro la spontaneità sociale. In altre parole, ho sempre visto nella Costituzione una forza in parte coercitiva, contraria, artificiale, non spontanea, non “sdraiata” sulla storia. Una concezione fortemente costruttivista della Costituzione è una funzione che si esercita in qualche modo in polemica con il reale. E dunque richiede che esistano soggetti in grado di sostenere questa polemica; in grado di sostenere questo artificialismo. Oggi questi soggetti non esistono; e tutto viene di conseguenza.

Se dovessi dare un giudizio sui costituzionalisti di oggi nel loro complesso – non parlo degli autori di questo libro, i cui argomenti molto specifici sono trattati con profondità – partendo dalla lettura delle pagine scritte da Crisafulli e da Mortati che erano profondi conoscitori della realtà storica della società italiana e avevano una loro visione della società italiana futura, mi permetterei di affermare che dubito che i costituzionalisti di oggi posseggano un’approfondita conoscenza della realtà in cui si collocano.

Una parte di costituzionalisti non è in grado di “aggrapparsi” ai nervi della società odierna e tra questi vi sono anche coloro che oppongono un rifiuto a priori e radicale intorno alla modificabilità – non usiamo la parola “riforme” – della Costituzione. Tant’è che questa corrente – alla quale questo libro non può essere ascritto – considera il pregio dell’immutabilità della Costituzione non dal punto di vista dello sviluppo politico del paese, ma essenzialmente dal punto di vista giurisdizionale. Per gli esponenti di questa corrente la Costituzione è uno strumento che sta essenzialmente nelle mani dei giudici, e che nelle loro mani funziona. Quindi non è necessario modificarla. E quando si oppongono alle modifiche, avanzano solo argomenti giuridici buoni per un Tribunale, ma che nemmeno sfiorano lo stato di degrado politico in cui la nostra forma di governo (attuale) versa, e le cause che l’hanno determinata, e le azioni politiche che potrebbero essere utili per contrastare l’avvento del premierato assoluto o della autocrazia elettiva che si sta profilando.

Dall’altro lato, c’è una corrente di costituzionalisti che ha in qualche modo sostenuto la necessità di riforme radicali. A questa corrente appartengono studiosi che hanno ben chiari gli obiettivi che intendono raggiungere. Io non condivido quegli obiettivi, ma i fautori delle recenti riforme danno un giudizio realistico, fortemente pessimista sulla situazione attuale, e hanno individuato una strada che loro ritengono giusta e che è quella che tutti sappiamo, e che sopra ho riassunto.

Ciò premesso, dobbiamo prendere atto che chi continua – come me – a ritenere che l’equilibrio raggiunto dallo “Stato sociale”, e dalla Costituzione del ’47, sia tuttora concettualmente insuperabile si trova in una situazione estremamente difficile. Da un lato, l’aspirazione alla comprensione profonda del mutamento sociale, alla serietà, all’onestà storica. Dall’altro l’impossibilità, mentre pronunciamo certi giudizi storici, di pronunciare giudizi di valore coerenti con quei giudizi storici stessi. E’ su questo piano traballante che ci troviamo quando sul piano del valore difendiamo la validità della Costituzione e la sua normatività, sapendo che non esistono più i “portatori” materiali di quella Costituzione.

Dal punto di vista della politica costituzionale non abbiamo chiara la strada da percorrere: i presupposti dell’immaginario costituzionale che reggeva la Costituzione dei Costituenti sono venuti meno; la Costituzione dei Costituenti non è più la Costituzione attuale. Lo Stato di diritto garantito del controllo di costituzionalità (voluto dalla Costituzione) è altra cosa rispetto a quello che oggi chiamiamo Stato costituzionale. Il primo era uno Stato consapevole del fatto che la rappresentanza politica e il suo prodotto, cioè la legge, fossero gli strumenti fondamentali per l’elaborazione dell’ordinamento. Oggi, invece, non c’è più l’idea che il fulcro dello sviluppo dell’ordinamento sia la legge in quanto prodotta dalla rappresentanza parlamentare.

Oggi si magnifica il ruolo della giurisdizione padrona dell’interpretazione dei principi, e si considera un “avanzamento” il fatto che che siano finiti i tempi in cui la discussione intellettuale e politica elaborava i principi e in cui, dopo queste discussioni, bisognava attendere il bon plaisir del Parlamento. Il giudice oggi fa di tutto per fare a meno di questo bon plaisir. Ma, già questa definizione è irridente, e poi: è “vera gloria” dello stato costituzionale considerarlo solo un intoppo? I diritti hanno mangiato la rappresentanza?

E’ vero che c’è stata una discontinuità. Si può parlare di una crisi di legittimazione dei partiti, di una crisi di legittimazione del Parlamento, ma resta il fatto che abbiamo perso l’idea che la legislazione – come punto d’approdo del lavoro di “eleborazione politico-culturale di massa” dei partiti – sia la prima forma di attuazione della Costituzione. Quell’investimento sull’attività rappresentativa e sulle sue conseguenze è venuto meno.

Sulla base di queste considerazioni non si può negare che emergano due Costituzioni in parte diverse, quella dei Costituenti e quella oggi in vigore. Però tutti – i costituzionalisti consapevoli del loro pubblico – ci affanniamo a dire che c’è continuità e che la validità della Costituzione non è interrotta, che non c’è un vuoto costituzionale, che la Costituzione mantiene la sua capacità normativa.

Questo libro ripercorre la storia di questo mutamento o almeno dell’ultima parte del medesimo. Non vorrei aver introdotto un clima troppo pessimistico o smobilitante; tutt’altro. Voglio solo rimarcare con forza che quella dialettica tra giudizio storico e giudizio di valore/giudizio di validità dobbiamo praticarla in modo molto sincero e molto “scoperto”. Sì, molto “scoperto”, da parte dei costituzionalisti intesi come “intellettuali generali” e non come esegeti di disposizioni costituzionali o di sentenze, perché mi rifiuto di consegnare il problema della validità della Costituzione soltanto all’attività giurisdizionale. Una costituzione, la Costituzione, è sempre una loi politique, prima di ogni altra cosa. Il diritto costituzionale è un tutto normativo che riflette un equilibrio politico raggiunto da una società.

Come si possa praticare in modo più scoperto, più sincero e più spregiudicato questa dialettica tra giudizio storico e giudizio giuridico, non mi è chiaro, se non in questo punto: che l’unica risposta – provvisoria, ma chiara – sta nel mantenere viva la prospettiva di una politica costituzionale riflessiva, e dunque di un innalzamento della cultura politica dei ceti dirigenti (in primis del ceto politico, ma non solo).

Ulteriore problematica, connessa con quanto esposto precedentemente, riguarda gli effetti che possono derivare dalla “evaporazione” (a causa del caos indecoroso in cui è stata svolta l’attuale fase delle “riforme”) della rigidità della Costituzione. Non si può pretendere di scrivere una costituzione rigida al grido “abbiamo i voti, e dunque tireremo diritto”. In altri termini la posizione del costituzionalista dovrebbe ridiventare molto più profonda di quella dell’esegeta del testo. Penso che una buona parte della lezione della scuola storica sia ancora viva. Certo che è poi difficile tracciare il confine tra le preferenze soggettive e la ricostruzione – come diceva Weber – appassionatamente concreta della realtà.

In conclusione: di fronte al quadro che ci viene in questo libro tracciato, qual è il futuro della Costituzione, per riprendere una frase famosa?

Penso che tutti saremmo disposti a condividere una risposta: cioè, che il futuro della Costituzione sta nel continuare a lavorare su questo patrimonio di elaborazioni che qui vengono riportate a sintesi. La cultura che ha prodotto tutto ciò che qui viene condensato è una ricchezza nazionale, è una ricchezza del Paese.

Però non è una risposta sufficiente, anche se può soddisfarci come professionisti del diritto costituzionale. Perché tutti siamo, o almeno dovremmo essere, convinti che ci troviamo in un momento in cui quell’allontanamento dall’immaginario costituzionale dei Costituenti si sta profilando come una vera discontinuità. La risposta non può essere che una: la ripresa di un costituzionalismo militante. Ma non di un costituzionalismo dell’esegesi la cui militanza si riduce ad abbarbicarsi alla teoria della rigidità. Quel che è necessario è un “costituzionalismo politico”: un costituzionalismo che sappia ricostruire le condizioni attraverso le quali uscire di nuovo dallo stato di natura in cui ci troviamo e dar vita ad una società politica efficace, che dunque sappia verso dove guidare la società.

È un libro di persone innamorate della Costituzione che hanno approfondito i doni che la Costituzione ha fatto alla cultura giuridica italiana, anche se sono un po’… spaventate.

Chiuderei in questo modo. Sottolineando entrambe le cose: la dichiarazione d’amore e anche lo spavento. 

Massimo Cavino2

Darei la parola al professor Sicardi, che è stato chiamato direttamente a riflettere su alcune questioni, poi a Imarisio, così chiudiamo il tavolo.

Tra l’altro  si discute con gli autori presenti, e ce ne sono anche altri che sono qui. È stata evocata Ilenia Massa Pinto, che ha scritto un bellissimo saggio sull’integrazione europea, sulla partecipazione dell’Italia al processo di integrazione europea.

Intanto diamo la parola al professor Sicardi, poi naturalmente ragioniamo insieme.

Stefano Sicardi 3

Le argomentazioni appena prospettate meriterebbero di poter essere meditate un tantino di più dell’istantaneità. Lo dico sinceramente, senza alcuna piaggeria, ho ascoltato cose veramente molto interessanti e molto profonde. Quindi, il rischio è che quando s’interviene così a caldo l’interlocuzione possa sembrare un po’ pedestre, se così si può dire.

Per le pochissime considerazioni che voglio fare partirei da un concetto espresso in conclusione: la democrazia costituzionale.

Sono convinto che la democrazia costituzionale, o se vogliamo, lo Stato costituzionale, si regga su due gambe, un po’ come il colosso di Rodi. Una è la gamba della politica, della rappresentanza, delle elezioni, della decisione politica e anche dell’intermediazione politica. L’altra è la gamba delle garanzie. Ho l’impressione che se uno di questi elementi – ed è un equilibrio instabile – prenda il sopravvento sull’altro fino a vanificarlo, la democrazia politica crolli.

La democrazia politica è una sintesi difficile. Potremmo usare l’espressione che ha usato Mario Dogliani, cioè armistizio o, se si vuole, compromesso, ma armistizio ci consegna un’immagine ancora più fragile.

Se si punta tutto sul versante politico, allora la democrazia rischia di scatenarsi e di diventare democrazia totalitaria, populistica, demagogica, plebiscitaria eccetera. Se però si punta tutto sull’altro elemento, quello della garanzia, rischia di non esserci più democrazia, perché la democrazia significa che le pulsioni, che poi devono diventare qualcosa di più che pulsioni, si manifestino e determinino delle politiche e che tali politiche si trasmettano e si trasformino in qualcosa che non può essere soltanto la giurisdizione.

Vi è poi – mi scuso, perché dimenticherò tantissimi aspetti, ma non voglio esagerare con il tempo a disposizione – il problema della Costituzione, e precisamente della Costituzione com’era quando fu approvata e della Costituzione come si è evoluta. È indiscutibile che la realtà sia profondamente mutata, come è stato detto.  Io mi permetto di sostenere che ciò che è scritto nella Costituzione ha una valenza che si stacca dal momento storico preciso della sua genesi e che, di conseguenza, la Costituzione può essere reinterpretata senza essere tradita, e deve essere reinterpretata dalle generazioni future.

Mi viene in mente, anche se  adesso può sembrare un po’ semplicistico rispetto alle cose che ho sentito, che la Costituzione la possiamo – diciamo così – condividere e non solo difendere soltanto se riusciamo a tradurre quello che c’è scritto in un linguaggio decifrabile per l’oggi. Se riusciamo cioè a trasferire quello che è stato detto in un certo linguaggio, ma che ha una valenza profonda, che può essere l’uguaglianza, la solidarietà o quello che sia, in un linguaggio decifrabile, intercettabile nel momento presente. Il che non è facile, perché tutta una serie di principi che hanno innervato la Costituzione spesso, nell’attuale realtà, non sono più particolarmente “alla moda”.

A me sembra, che la difesa della Costituzione passi anche per l’”evoluzione costituzionale” o, se si vuole, il “riformismo costituzionale”; rottura no, perché se è rottura, si inaugura un altro sistema, ed infatti non sono certo stato tenero con quello che si è visto in certe concezioni costituzionali del ventennio scorso, che mi hanno trovato completamente in disaccordo.

Allo stesso tempo, però, secondo me c’è stata un’eccessiva timidezza, un eccessivo arroccamento rispetto a coloro i quali la Costituzione la volevano continuare a considerare viva e vitale. È per questo che cerco di non dire “difendere”, perché lo considero troppo statico e non propositivo. Il problema è che per l’evoluzione costituzionale ci vuole – credo – qualcosa di più della semplice manutenzione costituzionale; cioè la Costituzione vive perché le forze che ne comprendono i principi e i valori sono anche capaci di proporre un percorso di aggiornamento attraverso la realtà che muta, non per rassegnarsi all’esistente ma per disegnare un cambiamento.

Resistere, resistere, resistere è atteggiamento nobile. Però, per resistere, resistere, resistere davvero, bisogna anche muovere all’attacco in qualche modo, cioè costruire. Non è facile. Si potrebbe obiettare che non è compito dei costituzionalisti, è compito dei politici; ma anche i costituzionalisti possono (e forse debbono) dare il loro contributo.

Da questo punto di vista, secondo me c’è stato in passato un po’ troppo gioco di rimessa, per cui in questo ventennio chi proponeva innovazioni non si confrontava solo con legittime critiche ma anche, non di rado, con atteggiamenti aprioristici, volti a cambiare il meno possibile, a ritenere di per sé pericolosa la possibilità di aggiornamenti costituzionali. Certo non poche proposte erano assai perigliose, ma questa non mi sembra una buona ragione per dire solo dei no.

Luca Imarisio4

Ringrazio il professor Sicardi per il lavoro prezioso di ispirazione e di coordinamento che ha svolto nell’elaborazione di questo volume. Ringrazio il professor Dogliani per l’introduzione e ringrazio Massimo Cavino per il lavoro veramente intenso che ha condotto nella gestazione e nella cura di questo volume.

Io mi limiterò molto brevemente a qualche osservazione, in primo luogo cercando di svolgere alcune riflessioni relative alla sezione di cui mi sono occupato, alla luce delle considerazioni che sin qui sono state svolte.

Il tema dei diritti e delle libertà fondamentali nel dibattito costituzionale dell’ultimo ventennio non è certamente rimasto al di fuori, ma sicuramente è rimasto un po’ a lato, rispetto alle grandi direttrici del confronto e dello scontro politico.

Il confronto sulla Costituzione dei diritti è stato attraversato infatti da linee di frattura più articolate e spezzate ed è stato caratterizzato dall’operare di un insieme di penetranti fattori di condizionamento, anche esterni, che ho cercato di enucleare, dando a questo elemento uno spazio anche maggiore rispetto alla trattazione delle linee evolutive relative alle singole famiglie dei diritti. Questo perché mi sembra che emerga come dato d’insieme la circostanza per cui, tra tutti questi elementi (il processo d’integrazione europea, l’articolazione multilivello dell’ordinamento, i fenomeni migratori e l’emersione delle problematiche legate al multiculturalismo e alle società multietiche, il dialogo e il confronto tra legislazione e giurisdizione, la lotta al terrorismo e l’enfasi sul tema della “sicurezza”, nonché, non da ultimo, la crisi fiscale dello Stato e la crisi economica globale coi i loro riflessi soprattutto sul piano dei diritti sociali) un fattore di evoluzione che è mancato è appunto una forte idea di politica costituzionale dei diritti o la possibilità di individuare due (o più) contrapposte ed alternative idee di politica costituzionale dei diritti.

Certamente si trovano dei nuclei forti relativi a talune identità culturali (e religiose) che si sono manifestate, ad esempio, in relazione alle così dette “materie eticamente controverse”, a cui hanno fatto riscontro posizioni anche molto radicali e radicate in ordine alle correlate scelte normative da promuovere o da contrastare. Però, al di fuori di questi ambiti, mi sembra che il dibattito intorno all’evoluzione dei diritti e delle libertà si sia svolto senza essere illuminato da quelle prospettive alternative, che comunque – criticabili o meno – si sono manifestate in modo più netto in relazione alla costituzione dei poteri: in questo senso, la contrapposizione tra una cultura dell’innovazione costituzionale e una cultura della resistenza costituzionale è stata meno netta e, quando si è delineata, lo ha fatto lungo crinali politici maggiormente trasversali. Del resto, “grandi riforme”  in tema di disciplina costituzionale dei diritti fondamentali non sono state prospettate da nessuna parte politica e culturale (al di là del richiamo, da parte di taluni settori più ferventemente orientati in senso neo-liberista, all’opportunità di correggere l’impianto, asserito eccessivamente “sociale”, della costituzione economica: correzione che peraltro andrebbe nel senso di un adeguamento formale ad evoluzioni che si sono già in larga parte determinate in ragione di quei “fattori esterni” di condizionamento a cui si è fatto cenno). Ed anche dal punto di vista della disciplina legislativa in tema di diritti e libertà, nessuna grande riforma è stata non solo approvata me neppure prospettata, mentre le evoluzioni che pure si sono determinate, sono stare frutto di interventi assai settoriali e condotti per lo più o sulla spinta dell’azione della magistratura (ordinaria e costituzionale) o in un confronto anche dielettico con essa. Questo ruolo determinante della magistratura lo si può in effetti leggere anche in relazione ai pochi interventi normativi adottati su iniziativa parlamentare (come in materia di disciplina dell’immigrazione, de consumo di sostanze stupefacenti o della fecondazione medicalmente assistita): in questi casi, ad un intervento normativo parlamentare di segno restrittivo (volto dunque ad un restringimento o un contenimento dell’area rimessa alle libere scelte individuali), hanno fatto seguito interventi giurisprudenziali di progressivo (e talora drastico) riorientamento della disciplina nella direzione di una più ampia tutela delle istanze di autonomia e libertà individuale.

Al di là di questi rilievi, mi sembra comunque che sotto traccia emergano alcune linee di tendenza di fondo: ad esempio la tendenza ad uno spostamento da una dimensione personalista (relazionale e “sociale”) dei diritti fondamentali a una dimensione più nettamente individualista. In particolare, tale fattore si riscontra in relazione ai diritti della sfera economica ed all’erosione progressiva del ruolo dei corpi sociali intermedi: come questo elemento si inserisca nel dibattito e nel confronto sulle dinamiche della costituzione dei poteri mi sembra un tema ancora abbastanza sottovalutato.

In relazione, invece, alle considerazioni di carattere più generale sul volume di cui stiamo discutendo, mi pare di poter affermare che sicuramente questo lavoro non è stato pensato come un manuale di “resistenza costituzionale” e sicuramente l’affetto che immagino tutti gli autori del volume hanno avuto e hanno per la nostra Costituzione è stato declinato da ciascun autore secondo sensibilità in parte anche diverse. Credo tuttavia che da molti dei contributi emerga, pur con queste sensibilità diverse, l’aspetto sottolineato prima dal professor Sicardi per cui una resistenza costituzionale non può in ogni caso essere soltanto basata su di una conservazione costituzionale, e questo anche dal punto di vista della politica costituzionale dei diritti, nel senso che indubbiamente il complessivo e fondamentale “progetto di liberazione” che è alla radice della struttura della nostra Costituzione è qualcosa di dinamico, di evolutivo, non è qualcosa di unicamente statico. Per cui, anche da questo punto di vista, credo che il declinare il discorso in termini di resistenza sulla costituzione dei diritti possa essere limitativo e riduttivo. Ma lascio la parola nuovamente al professor Dogliani, che sicuramente avrà altri argomenti da offrire al dibattito.

Mario Dogliani

Dici che la polemica ha riguardato la costituzione dei poteri, mentre invece sulla costituzione dei diritti ci sarebbe stata una linea spezzata, meno decifrabile, meno individuabile. Non ne sono sicuro, ma penso anch’io che sia stato così. A proposito della “costituzione dei poteri” era in discussione il ruolo da riconoscere alle soggettività politiche e alla possibilità di indirizzi politici diversi, alla possibilità che siano ragionevolmente considerati attuabili indirizzi politici diversi, contradditori e contrastanti. Un atteggiamento tipico di una certa area di costituzionalisti è dire, per esempio, che uno degli effetti dell’Unione Europea è stato quello di cancellare la possibilità di indirizzi politici realmente diversi.

Ma sulla costituzione dei diritti, al di là di resistenze sociali di gruppi, c’è stata una vera contrapposizione, cioè c’è stata una vera linea di frattura? Non mi pare, perché l’orientamento diffuso è tutto favorevole all’ampliamento e al potenziamento dei diritti. Non mi sembra dunque che ci sia stato un vero e proprio conflitto costituzionale nella cultura giuridica italiana intorno a questi aspetti; ci saranno state alcune posizioni un po’ più caute e altre un po’ meno caute. Ma i diritti sociali sono un’altra cosa, riguardano la costituzione politica nella sua essenza. Nel mio intervento non pensavo ai diritti sociali, pensavo ai diritti di libertà. Sui diritti di libertà mi sembra che ci sia uno schieramento piuttosto uniforme, non mi sembra un campo di battaglia. Mi sembra un campo in cui ci sono tantissime cose da fare, dove però, in ogni caso, il ruolo della legge – il ruolo della politica, il ruolo delle leggi ordinatrici – è perso, perché è stato vinto da questo discorso del “perché no?” alla mia domanda singola, individuale.

Vorrei anche intervenire sul problema di quello che Stefano Sicardi ha chiamato “eccessivo timore delle riforme”. Il problema è molto complicato, perché intanto uno degli effetti negativi (molto negativi) della Costituzione rigida e scritta è stato quello di impedire alle forze politiche di produrre delle convenzioni costituzionali, che infatti in Italia si contano sulle dita di una mano, mentre invece questo avrebbe potuto essere uno sfogo per la dinamica della forma di governo. Da noi, un po’ a causa delle forze politiche incapaci e pasticcione, un po’ a causa della cultura giuridica, tuttora esegetica, tutto questo campo del diritto costituzionale, che in altri Paesi è il campo principale del diritto costituzionale stesso, non è stato coltivato.

Avrei visto positivamente delle dinamiche incentrate sulle convenzioni, ma purtroppo delle questioni profonde si è parlato soltanto in momenti in cui la situazione politica era “isterica”. Di fatto i partiti repubblicani non sono stati in grado di fare quel che fecero le parti politiche nel parlamento subalpino.

Adesso la situazione è peggiorata perché, da un lato, questo irrigidirsi sulla costituzione giurisdizionale ha fatto dire al parlamento, da moltissimi, che, occuparsi di riforme “non è cosa vostra”: frase quanto mai infelice. A moltissimi, ai troppi che sono intervenuti in modi assolutamente volgari, vorrei ricordare a tutti che Onida e Cheli hanno scritto una lettera pubblica, ai giornali, in cui dicevano ai loro colleghi costituzionalisti: “cercate di mantenervi nei limiti della buona educazione, nel fare critiche”. Ho detto Onida e Cheli.

C’è stata dunque questa rivolta dei giuristi esegeti contro ogni tentativo di avviare un discorso serio. In realtà, il problema profondo della forma di governo parlamentare è veramente difficile da dipanare, allo stadio cui siamo giunti. Come è stato possibile arrivare a ragionare come se ci fosse un diritto “anteriore” a fare ciò che dici che farai se vinci, e poi, se non vinci, e devi cercare alleanze, tutto diventa sporco. La non vittoria come segno di inaccettabilità del sistema: come si può non pensare che tutto ciò porti a incoraggiare la diminuzione dei votanti, la manipolazione dei (pochi) voti, e la incoronazione di una autocrazia elettiva (Bovero)?

È questo il punto fondamentale: l’idea che la politica nazionale debba nascere da una mediazione non è più praticata, non è più pensata, non è più concepita. Questo è un nodo fondamentale, in quanto è in gioco la democrazia costituzionale, perché non esiste – a mio parere – una democrazia costituzionale se non c’è una qualche disponibilità a fare del Parlamento quello che deve essere, cioè un luogo in cui sono possibili mediazioni.

Ora, dicevo prima, c’è gente lucida in questo momento, cioè gente lucida perché pensa che queste cose vadano messe da parte. È questa la linea politica oggi vincente. E’ fondata su questo principio: è inutile cercare la maggioranza, una volta che hai una minoranza sufficientemente forte.

C’è una corrente – io la rispetto, perché sa quello che vuole, anche se cerco in tutti i modi di contrastarla – per cui una minoranza rilevante deve poter governare e bisogna consentirle di farlo. Punto e basta. Il resto non importa. Il punto pericolosissimo di questa tesi è l’indifferenza rispetto alle formazioni sociali, alla partecipazione politica, il disinteresse per le differenti culture politiche e per l’importanza di una cultura costituzionale che tenga insieme la nazione: l’unico elemento rilevante sembra essere la percentuale necessaria per governare.

Deus dementat quos vult perdere: è forse per questo che non riusciamo a capire dove si collochi il confine tra la saggia riforma costituzionale e l’efficace riforma costituzionale?

Massimo Cavino

Darei la parola agli altri autori presenti, ma non solo agli autori.

Intanto, vorrei ricordare che il libro è il risultato di un gruppo di lavoro piuttosto ampio, al quale hanno dato un contributo significativo anche dei giovani che hanno scritto bellissime note bibliografiche che rendono prezioso il libro per chi vuole approfondire questi temi. Parliamo sempre degli autori, ma gli autori, in molte circostanze, sono stati affiancati da validissimi collaboratori. Una volta il professor Sicardi mi ha detto che ci sono libri dai quali è bene attingere e noi speriamo che questo libro, oltre a stimolare il dibattito, possa essere anche utile per chi vuole approfondire per proprio conto e andare avanti nella ricerca.

Detto questo, se vogliono intervenire gli autori presenti in sala sono ovviamente i benvenuti, ma non solo gli autori: chi ritiene di voler dare un contributo a questa nostra chiacchierata può farlo; insomma, siamo in una prospettiva davvero più che amichevole.

Giorgio Grasso5

Il mio sarà un intervento che parte più dal dibattito che dalla parte che ho curato, che è quella sulle autorità amministrative indipendenti.

In relazione all’introduzione che è stata fatta da Massimo Cavino e poi da Stefano Sicardi, mi chiedevo: chissà se tra vent’anni si potrà riscrivere un volume come questo, nel senso che magari tra vent’anni ci sarà Massimo Cavino che avrà questo ruolo di garante e di tutore di un altro gruppo di più giovani studiosi? Lo dico così, con un po’ di provocazione, perché è chiaro che tra vent’anni un volume come questo si potrebbe riscrivere, soltanto se ci sarà una riforma del testo costituzionale e soprattutto se si potrà avere, com’è stato per questo testo, un punto di partenza.

Utilizzare il 1993 come momento, in qualche modo, anche di frattura e di ripartenza per capire poi nei vent’anni successivi cosa è accaduto, mi è parso di grande significato. È vero che quello che è accaduto nel 1993, se ci pensiamo a fondo, è qualcosa che non ha toccato i rami alti del sistema costituzionale, nel senso che c’è stato questo passaggio alla “seconda repubblica” che io, a lezione con i miei studenti, non riesco mai a definire così, con un tono prevalentemente giornalistico. Dico eventualmente che c’è stato il passaggio dalla fase proporzionale alla fase maggioritaria di funzionamento della nostra forma di governo (con l’approvazione del Mattarellum), però certamente “Tangentopoli”, l’inchiesta di “Mani Pulite”, la legge di riforma dell’elezione diretta dei Sindaci, la riforma dell’articolo 68 e molto altro hanno dato poi l’avvio per un ragionamento così ampio su questi vent’anni.

Ecco, se ci sarà la riforma – io spero che non ci sia la riforma, come formulata nel testo in discussione, vorrei dirlo con molta chiarezza,  probabilmente ci sarebbe l’occasione di vedere come tutta una serie di istituti, di questioni, di temi che abbiamo affrontato potranno, a seguito della revisione costituzionale – se ci sarà – trovare nuova linfa e nuovo sviluppo.

Perché dico che spero che questa riforma non ci sia?

Voglio provare a fare un tentativo e a stare a metà tra chi ha cercato solo di difendere la Costituzione e chi vuole superarla a tutti i costi. Il professor Sicardi correttamente sosteneva che non possiamo accontentarci solo di una semplice manutenzione. Probabilmente la nostra Costituzione ha bisogna di una manutenzione straordinaria, ma penso che tale “manutenzione” non sia presente nel testo di  riforma Boschi-Renzi o Renzi-Boschi, che dir si voglia. Bisognerebbe forse trovare una posizione intermedia tra coloro i quali hanno detto soltanto dei “no” e la linea di coloro che dicono troppi “sì” –  il professor Dogliani citava la linea molto chiara e molto netta del professor Barbera -, una linea che tende a giustificare tutto o quasi tutto ciò che è presente nel testo modificato e nelle scelte di indirizzo politico di questi anni. In altri termini, quando si leggono alcuni commenti su questioni come la riforma del mercato del lavoro, il Jobs Act per esempio, che va a toccare profondamente l’impianto del nostro testo costituzionale, per non parlare poi dell’Italicum, penso che si dovrebbe trovare una linea mediana che tanti anni fa, quando la Costituzione fu scritta, fu trovata tra posizioni radicalmente contrapposte.

Quindi il problema è che quel punto d’incontro, così difficile da raggiungere, dovrebbe fare a meno sia delle posizioni di chi dice troppi “no”, pregiudizialmente, sia delle opinioni di chi, invece, tende a giustificare forse anche l’ingiustificabile. Vi ringrazio.

Massimo Cavino

Grazie. Un bel problema, però, effettivamente.

Prima di riaprire naturalmente il dibattito a tutti, rispetto all’introduzione del professor Dogliani, vorrei precisare che anche per me la Costituzione è polemica e performativa rispetto alla spontaneità sociale. Quando dico che è mancata una vera lotta per la Costituzione perché le forze e gli attori politici non hanno capito la necessità di cambiamento, dico proprio questo.

Tutto il dibattito sulle riforme costituzionali è stato un dibattito che ha portato come esito una conservazione di ciò che spontaneamente si è prodotto nel nostro Paese. Il problema costituzionale oggi parte proprio delle profonde esigenze di cambiamento economico e sociale.

Comincio dall’economico, perché ritengo che sia forse l’aspetto più urgente. Il dibattito, nell’ultimo ventennio non ha saputo cogliere ciò che spontaneamente, a partire dalla seconda metà degli anni ’80, si è prodotto nel nostro Paese, e in questo modo ha conservato. La Costituzione come capacità di rompere e costringere la spontaneità sociale in un progetto politico non c’è. Questo è il tema.

Io trovo estremamente interessante il dibattito che si sta sviluppando in Spagna in questo momento. Ci sono alcuni giovani studiosi che hanno dato vita a quello che loro hanno chiamato Comitato per l’Assemblea Costituente. In particolare ce n’è uno che si chiama Martinez Dalmau, è un giovane di 43 anni. La riflessione dalla quale partono è proprio la necessità di riprendere un percorso costituente per superare la crisi. Loro, come soggetto culturale, sono molto vicini a Podemos. E c’è una riflessione sulla ricerca in una nuova stagione costituente e sugli strumenti per modificare la realtà sociale che ha condotto la crisi.

L’impressione è che, a partire dalla seconda metà degli anni ’80, proprio con la caduta del muro di Berlino e le ben note vicende successive, ad un certo punto sia mancata la lucidità per indicare una nuova strada politica. Si è ritenuto che la caduta del muro e il superamento delle ideologie avesse portato alla fine della storia e quindi non fosse più necessario investire in progetto politico. Questo è il vero problema.

La Costituzione deve essere un progetto politico. Se non è un progetto politico di cambiamento, non è più una Costituzione. La difesa della validità della Costituzione deve partire da questi elementi. L’impressione è che oggi ciò che davvero non ci fa trovare il bandolo della matassa è l’incapacità di formulare un preciso indirizzo politico, un indirizzo politico costituzionale nuovo. Tra dire troppi sì e dire troppi no, qui il problema è capire se oggi l’idea – e uso un’espressione davvero forte – di uomo e di persona, che era alla base della riflessione negli anni immediatamente successivi al secondo conflitto mondiale, è ancora un’idea condivisa oppure no.

Dobbiamo riflettere sulla possibilità di ripensare, e lì viene in gioco il tema terribile della cittadinanza che ha evocato Giorgio Grasso.  Quindi il contenuto della cittadinanza, se la cittadinanza è ancora importante per definire – e uso un’altra parola che non ha usato lui, ma che è una parola con la quale dobbiamo fare i conti – la sovranità, se la sovranità è ancora utile e se ci diciamo che la Costituzione è soprattutto un progetto politico, perché faccio fatica a pensare di poter archiviare, il concetto di sovranità. Questi sono i temi.

Io non credo che, da qui a vent’anni, avremo risolto questo dibattito, anche perché questo è un dibattito del nuovo secolo. Verosimilmente, siamo di fronte a quello che una volta avremmo definito “cambiamento di paradigma”.

L’idea di uomo alla quale pensiamo, l’uomo come fine, la persona come fine del progetto costituzionale, è il contenuto che dobbiamo dare. Da lì bisogna partire, dopodiché mi rendo conto che è uno spostare di livello il dibattito.

Il Ministro delle Finanze tedesco ha dichiarato che oggi non sarà un giorno decisivo per chiudere la questione greca, ma sentiamo dire dalla piazza davanti al Parlamento di Atene che è stato eletto un Governo per dire dei “no” e invece quel Governo probabilmente dovrà dire dei “sì”. Queste sono questioni che hanno a che fare con la sovranità, con l’idea del rapporto tra politica ed economia, con l’idea stessa del diritto costituzionale come strumento per far sì che l’economia e la politica non vadano a detrimento dei diritti.

Queste, evidentemente, sono questioni fondamentali sulle quali dobbiamo interrogarci.

Nonostante le sensibilità diverse sui temi trattati credo però che l’idea comune della Costituzione come strumento necessario per costruire politiche per la tutela dei diritti e della Costituzione – uso ancora una parola di quelle persino esagerate – come strumento di progresso sia un’idea assolutamente condivisa.

Ho parlato davvero troppo e di nuovo allargo naturalmente il dibattito ad autori e non autori.

Jörg Luther6

Del libro posso solo dire che lo leggerò con attenzione e grande interesse; del titolo posso dire che abbiamo, negli ultimi vent’anni, avuto più dibattiti che riforme. Questo ventennio è stato per due terzi nel nuovo secolo e per un terzo nel vecchio secolo: si può leggere questo tempo in due modi diversi, e anche questo è già emerso dalla discussione e dalla presentazione.

Sono vent’anni di crisi, oppure sono vent’anni nei quali comunque la Costituzione, nonostante tutte le tempeste e tutto ciò che è cambiato nel paese, è rimasta efficace e ha dimostrato una stasi forse inaspettata? Mano sul cuore, 15 anni fa avremmo detto che adesso ci trovassimo ancora con una Costituzione non ulteriormente riformata? Ecco, è possibile una lettura più ottimista e una lettura più pessimista, a seconda delle aspettative.  Si potrebbe dire che quello che produrrà la riforma sarà una nuova Costituzione, una revisione che ne rinnova la visione dello Stato e della società, ma può anche darsi che la riforma non sia una revisione in questo senso, piuttosto una semplice deformazione del disegno originale, cioè una reformatio in peius che registra un parziale insuccesso della costituzione e della sua riforma principale del 2001. Le intenzioni sono sempre buone, non vanno processate, ma i risultati li vedremo tuttavia solo in futuro, li potremo giudicare solo ex post.

Però, Mario Dogliani, amichevolmente, questa visione della giurisdizionalizzazione della Costituzione l’avrei riferita piuttosto al ventennio precedente, l’ultimo ventennio, cioè agli anni settanta e ottanta quando si parlava ancora di “nuovi diritti”. Piuttosto, vedo dei momenti di indebolimento della Corte Costituzionale, vedo dei momenti di indebolimento della Magistratura e vedo dei momenti di indebolimento del discorso dei diritti che non sono più tanto tutelati e non procurano più tanti voti. I diritti sono certo ancora importanti, però mi sembra che negli ultimi vent’anni si sia verificato già un grande dibattito sulla giurisdizionalizzazione. La Corte costituzionale è sempre più criticata e marginale. La narrazione che Mani Pulite abbia fatto crollare il sistema politico è ingiallita, l’auto-amministrazione della giustizia improduttiva. Pertanto non sono così sicuro che gli ultimi vent’anni, in una storia bicentenaria, siano davvero i vent’anni della massima giurisdizionalizzazione. Su questo sarei un po’ più cauto. Forse la giurisdizionalizzazione si è realizzata più a livello di diritto dell’Unione Europea, ma abbiamo avuto la revisione dei Trattati e restano irrisolte le tensioni tra Lussemburgo, Strasburgo e i custodi dei controlimiti. Forse la giurisdizionalizzazione è progredita nel diritto internazionale, guardando però, anche qui, alle resistenze e agli arbitrati degiurisdizionalizzati  non esagererei.

Insomma, forse stiamo sopravvalutando la realtà della “giurisdizionalizzazione”.

Massimo Cavino

C’è disaccordo.

Lasciamo esprimere il disaccordo…

Stefano Sicardi

Amichevolmente, non sono d’accordo con quanto ha detto Jörg Luther. Io penso invece che la giurisdizionalizzazione proceda a tappe forzate in una ragnatela dove ci sono i giudici comuni, i giudici amministrativi, le Corti Costituzionali, la Corte di Strasburgo e quella di Lussemburgo e chi più ne ha, più ne metta. Cioè, mi sembra che si stia assistendo a un’intelaiatura che ha anche i suoi pregi, per certi versi, però che incide profondissimamente.

I giudici in ogni caso intervengono sempre più su tutta una serie di questioni, inventano diritti fondamentali, condizionano in profondo, incidono in qualche modo sulle politiche, perché è indubbio che incidono anche fortemente sulle politiche e, comunque, mettono talvolta in difficoltà i politici e i legislatori, per esempio in tema di retroattività di certe sentenze della Consulta, suscettibili di aprire scenari apocalittici sul bilancio dello Stato. Anche le pronunce della Corte di Strasburgo incidono continuamente sulla legislazione italiana da tutti i punti i vista, sul diritto penale, sul diritto di famiglia, sulla fecondazione artificiale, sul problema della legislazione, sul fine vita.

Mario Dogliani

Al di là del dato quantitativo, c’è il fatto che le giurisdizioni sono sempre più un qualcosa che si avvicina a quel che pensava Ferdinando IV quando, nel 1774, emanò un Reale Dispaccio – che è citato in genere per quanto riguarda il problema delle lacune dell’ordinamento – in cui si diceva che, «quando il caso sia nuovo, o totalmente dubbio che non possa decidersi colla legge, né con l’argomento della legge, allora vuole il re che si riferisca alla maestà sua per ottenere il sovrano oracolo». Il riferimento è interessante, perché testimonia che il référé législatif non l’hanno inventato i rivoluzionari francesi bensì i monarchi assoluti. Però, ed è questo l’elemento che qui interessa, non si può negare che l’aspetto oracolare delle supreme giurisdizioni sia sempre più evidente.

Avevamo incominciato a fare un sito per schedare le argomentazioni delle sentenze della Corte, per fare una banca dati sulle argomentazioni, nell’idea che l’argomentazione fosse il pilastro della giurisdizione e, quindi, per consolidare le modalità di utilizzo degli argomenti, e dunque gli strumenti di intervento, della Corte.

Adesso, francamente, come è possibile continuare su questa strada? Quando con una riga di obiter dictum si mandano al macero decenni di dottrina e di giurisprudenza?

Luca Imarisio

Aggiungo una considerazione connessa alla riflessione di Jörg Luther.

La giurisprudenza (comune, costituzionale, sovranazionale) ha sicuramente avuto uno sviluppo alluvionale in molti settori, mostrando talora la capacità di conformare in modo penetrante l’ordinamento; non so però quale sia stata la sua effettiva capacità di incidere sulla struttura economica della società. Le stesse sentenze della Corte Costituzionale in materia economica sono sempre più soggette a un significativo selfrestraint (la valutazione delle conseguenze economiche delle pronunce, la considerazione, quale elemento di bilanciamento con i diritti fondamentali in gioco, delle esigenze di bilancio derivanti dalla crisi economica, etc…) e, quando non lo sono, sono talora oggetto di interpretazione e applicazione molto relativa, se non di sostanziale “neutralizzazione” ad opera del legislatore. Per cui pare di poter rilevare che gli spazi della conformazione giurisprudenziale dell’ordinamento sono sicuramente ampi, ma possono agire soprattutto ove non si tratti di mettere in discussione l’organizzazione e la struttura economica della società. Peraltro anche questo non è detto che sia un dato acquisito perché ad esempio, a quanto pare, nel nuovo trattato di libero scambio che come Unione Europea andiamo a discutere con gli Stati Uniti (il TTIP) ci saranno Corti arbitrali sovranazionali che potranno mettere in discussione addirittura la legislazione statale qualora sia lamentata la lesione di interessi di imprese private, quindi a quel punto forse si compirà un ulteriore passo ancora in avanti verso il “governo dei giudici”, o degli arbitri (certo un governo abilitato ad intervenire solo in una certa direzione, a tutela di certe categorie di interessi).

Ma lascio chiudere la discussione a Massimo Cavino.

Massimo Cavino

Chiudo intanto per ragioni di tempo, perché ci abbiamo messo più di tre anni per fare il libro e verosimilmente continueremo a discutere di queste cose, intanto perché è il nostro mestiere, poi perché ci piace e quindi verosimilmente continueremo a discuterne sempre. Però direi che è stato un dibattito sufficientemente ricco.

Ringrazio quanti sono intervenuti davvero di cuore e mi auguro che, come dicevo, sia l’occasione per riprendere questi temi che noi abbiamo, ovviamente senza pretesa di completezza, affrontato.

Ci diamo appuntamento ad altre occasioni nelle quali incontrarci e ragionare ancora insieme.

1 Professore Ordinario di Diritto Costituzionale presso l’Università degli Studi di Torino.

 

2 Professore di Diritto Pubblico e Diritto Costituzionale presso l’Università degli Studi del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro”.

 

3 Professore Ordinario di Diritto Costituzionale presso l’Università degli Studi di Torino.

 

4 Professore Associato di Diritto Costituzionale presso l’Università degli Studi di Torino.

 

5 Professore Associato confermato di Istituzioni di Diritto Pubblico presso l’Università dell’Insubria – Dipartimento di Diritto, Economia e Culture. Direttore del Centro di Ricerca su Federalismo e autonomie locali e Direttore della Collana di Studi “Sovranità, Federalismo, Diritti”.

 

6 Professore Ordinario di Istituzioni di Diritto Pubblico presso l’Università del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro”.