Le Regioni speciali nel contesto dell’attuale disegno di revisione costituzionale

Annamaria Poggi 1

 

1. Introduzione.

A ogni ipotesi di revisione costituzionale del Titolo V si riaccende il dibattito sulla sua estensione o meno alle Regioni speciali. Come noto, nel 2001 la scelta fu quella di introdurre la cosiddetta clausola di maggior favore. Dopo quasi quindici anni di applicazione è a tutti evidente come quella clausola – nell’interpretazione che ne ha dato al Corte costituzionale – abbia modificato (a volte ampliando, a volte restringendo) contenuto ed effettività della specialità.

Andando forse oltre le intenzioni di coloro che la proposero – prendere tempo rispetto alle decisioni politiche in merito alla revisione degli statuti speciali – gli esiti concreti sono stati almeno due: aver introdotto l’idea che specialità equivalga necessariamente a maggiori funzioni legislative e amministrative e aver spostato sul terreno giurisprudenziale una dialettica che avrebbe dovuto svilupparsi sul terreno della politica.

Ora, nel testo appena approvato in Senato, l’originario tenore dell’articolo 39, comma 12 (che come noto taceva sulla clausola di maggior favore) è stato integrato da un emendamento proposto dal Governo secondo cui: “Le disposizioni di cui al capo IV della presente legge costituzionale non si applicano alle Regioni a statuto speciale e alle Province autonome di Trento e di Bolzano fino alla revisione dei rispettivi statuti sulla base di intese con le medesime Regioni e Province autonome. A decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge costituzionale, e sino alla revisione dei predetti statuti speciali, alle Regioni a statuto speciale e alle Province autonome si applicano le disposizioni di cui all’articolo 116, terzo comma, ad esclusione di quelle che si riferiscono alle materie di cui all’articolo 117, terzo comma, della Costituzione, nel testo vigente fino alla data di entrata in vigore della presente legge costituzionale e resta ferma la disciplina vigente prevista dai medesimi statuti e dalle relative norme di attuazione ai fini di quanto previsto dall’articolo 120 della Costituzione; a seguito della suddetta revisione, alle medesime Regioni a statuto speciale e Province autonome si applicano le disposizioni di cui all’articolo 116, terzo comma, della Costituzione, come modificato dalla presente legge costituzionale”.

A sua volta anche l’articolo 116, terzo comma è stato oggetto di un emendamento del Governo e risulta, nel testo appena approvato, il seguente: “Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie di cui all’articolo 117, secondo comma, lettera l, limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace, m) limitatamente alle disposizioni generali e comuni per le politiche sociali; n),o) limitatamente alle politiche attive del lavoro e all’istruzione e formazione professionale, q) limitatamente al commercio con l’estero; s) e u) limitatamente al governo del territorio, possono essere attribuite ad altre Regioni, con legge dello Stato, anche su richiesta delle stesse, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei principi di cui all’articolo 119, purché la Regione sia in condizione di equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio. La legge è approvata da entrambe le Camere, sulla base di una intesa tra lo Stato e la Regione interessata”.

A questo punto, e sempre che l’ultimo passaggio della prima lettura ovvero quelli successivi non modifichino nulla, ovvero che il referendum (oppositivo) dia esito negativo (cioè consenta la promulgazione-pubblicazione della legge di revisione), la situazione che si andrebbe delineando è la seguente: si salva la clausola di maggior favore per gli effetti già prodotti (soprattutto attraverso le norme di attuazione); si consente nel “transitorio” alle Regioni speciali di avvalersi della possibilità di chiedere ulteriori competenze rispetto alla giustizia di pace, alle norme generali sull’istruzione e alla tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali; nel regime definitivo, in cui si dovrebbe entrare con le revisioni statutarie, non si applicherebbe più la clausola di maggior favore, bensì il ”nuovo” 116, comma terzo, al pari delle Regioni ordinarie.

Dal punto di vista interpretativo la situazione è certamente più chiara rispetto a quella del silenzio che si era tenuto nel precedente testo dell’articolo 39 sulla clausola di maggior favore. Si introduce, tuttavia, un nuovo criterio possibile di acquisizione di altre materie legislative (e ovviamente amministrative, dato il parallelismo ancora vigente): quello dell’applicazione ad esse dell’istituto del regionalismo differenziato, che nel 2001 era stato esplicitamente pensato per le Regioni ordinarie.

Sarà in grado questa innovazione di frenare la “crisi” della specialità e di darci qualche certezza in più su dove potrebbero andare le Regioni speciali (per riprendere una nota espressione di Antonio D’Atena)?

Forse per rispondere a questa domanda a ragion veduta e provvisti di tutti gli elementi necessari occorre ripercorrere alcuni passaggi nodali e soprattutto due: la situazione pre-2001 e gli esiti della clausola di maggior favore, per poi valutare se la formula contenuta nella versione dell’articolo 39 appena approvata risponda o meno alle esigenze e alle difficoltà emerse con riguardo all’attuazione della specialità.

 

2. Il “principio” di specialità come specialità legislativa e le norme di attuazione.

La specialità è stata storicamente garantita da uno statuto (frutto di un’iniziativa regionale) approvato con legge costituzionale (per consentire la deroga del Titolo V) in cui veniva riconosciuta una potestà legislativa piena o esclusiva su materie individuate negli statuti stessi 2.

La legislazione come fulcro della specialità, come noto, è comprovata dal fatto che il primo statuto speciale elaborato e approvato, cioè quello siciliano, all’articolo 14 introduceva il concetto di legislazione piena ed esclusiva quale corollario, appunto, della specialità. 3 È altrettanto nota la vicenda che condusse gradatamente a un ridimensionamento della potestà legislativa esclusiva contenuta nell’articolo 14 dello statuto siciliano e la sua omologazione, nei limiti a quelli previsti negli altri statuti speciali.

Tale essenza della specialità si evince in maniera più chiara se la confrontiamo con l’istituto del regionalismo differenziato di cui all’articolo 116, comma 3, introdotto con la revisione costituzionale del 2001.

Il regionalismo differenziato, infatti, attiene a una dimensione “quantitativa” di potere legislativo che non ha alla base un “fatto” differenziante.

Proprio l’esistenza di tale “fatto” differenziante (testimoniato dalla genesi storica della specialità fortemente partecipata in sede locale) 4 non consente di aderire alla tesi secondo cui con l’introduzione dell’istituto del regionalismo differenziato di cui all’articolo 116, comma terzo la specialità sarebbe scomparsa per lasciare il posto a un nuovo binomio: diritto comune (cui dovrebbero sottostare tutte le Regioni) e diritti differenziali (cui di nuovo dovrebbero sottostare tutte le Regioni e rispetto ai quali quelle speciali avrebbero peculiarità maggiori) 5.

L’istituto del regionalismo differenziato di cui al terzo comma del 116, infatti, non è principio contrapponibile alla specialità: il Titolo V è pieno di applicazioni di differenziazioni possibili per le Regioni ordinarie. In altri termini l’istituto di cui al terzo comma dell’articolo 116 non è un genus ma è una species (insieme alle altre…) del più generale principio di differenziazione introdotto per le Regioni ordinarie. 6

La Costituzione, dunque, pone il principio della specialità (principio di “regime” secondo l’espressione coniata da Labriola) e il principio della differenziazione (per le Regioni ordinarie).

Il principio di differenziazione, dunque, è cosa diversa dalle ragioni della specialità poiché questa, fintanto continuerà ad avere il fondamento costituzionale (ma prima ancora storico, culturale e linguistico) che ha nel nostro ordinamento, deve fondarsi su “fatti differenziali”. 7] 

La differenziazione è una clausola generale, di cui possono valersi tutte le Regioni, diversamente, la specialità non può che essere attribuita caso per caso.

La specialità legislativa richiede di essere concretizzata attraverso le norme di attuazione.

Queste, infatti, a differenza delle leggi atipiche prodotte dall’attuazione del regionalismo differenziato, non definiscono ambiti di competenze o livelli di autonomia (già previsti negli statuti) mentre “dovrebbero costituire la prosecuzione degli statuti speciali e (…) realizzare una disciplina comune tra Stato e Regione speciale” 8. In sostanza con la norma di attuazione la specialità viene introdotta nell’ordinamento generale, attraverso un determinato assetto organizzativo e strumentale.

Le norme di attuazione, come noto, aldilà delle differenti formulazioni contenute negli statuti, possono considerarsi coagulate intorno a due compiti: l’attuazione degli statuti e il passaggio degli uffici dallo Stato alla Regione.

Perciò, il nesso tra le previsioni statutarie che contemplano le potestà legislative e le norme di attuazione non pare avere alternative: cosi come per le Regioni ordinarie i trasferimenti di funzioni amministrative sono indispensabili per l’esercizio del potere legislativo previsto dalla Costituzione, allo stesso modo buona parte delle norme statutarie speciali richiedono norme di attuazione, non essendo direttamente attivabili dalle Regioni speciali.

Il carattere “permanente” dell’attuazione è sostenuto da autorevole dottrina e motivato sulla base di una delega contenuta in ciascuna disposizione statutaria 9. Esso è stato altresì ribadito dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 22 del 1961 con riguardo all’annosa vicenda della Commissione paritetica sarda e, soprattutto, in relazione alla tesi sostenuta dalla Regione nel ricorso circa la transitorietà dell’organo stesso dopo la prima attuazione dello statuto. La Corte nella sentenza in oggetto precisò che la Commissione paritetica deve avere il carattere della rappresentatività, poiché ciò risulta indispensabile alla funzione di attuazione dello statuto.

 

3. L’ effettività delle norme di attuazione.

L’effettività del sistema delle norme di attuazione come momento di precipitazione delle ragioni della specialità si è dimostrata meno lineare di quanto le premesse teoriche lasciassero supporre.

È lo stesso carattere pattizio a rivelarsi di difficile definizione nel concreto, essendo profondamente diversi gli interessi delle parti: quello della Regione che tende all’affermazione della specialità e quello dello Stato che tende alla riconduzione della specialità nell’ordinamento 10.

Ciò nondimeno, se si segue il filo dei ragionamenti sinora esplicitati dovrebbe essere conseguente l’idea che l’iniziativa dell’attuazione debba provenire dalla Regione, e cioè dal soggetto istituzionale che impersona giuridicamente il “fatto” differenziante.

Ora, al di là delle differenti formulazioni contenute negli statuti 11, e dunque delle possibili interpretazioni scaturite in varie sedi (dottrinale e giurisprudenziale), la prassi restituisce situazioni e fasi alterne (a volte a prevalenza d’iniziativa statale, a volte regionale) il che rende evidenti almeno due cose.

La prima è che le stesse Regioni speciali non hanno saputo interpretare la specialità quale emersione delle reali particolari condizioni necessitanti autonomia richieste dall’articolo 116 della Costituzione; la seconda è che l’andamento alterno è forse stato causato dalle contingenze della politica, sia regionale sia nazionale, e cioè dalle persone fisiche che hanno composto le Commissioni, ovvero dai ministri o dai sottosegretari pro-tempore.

I numeri dei decreti di attuazione sinora adottati sembrerebbero in parte confermare questa impressione: Sicilia n. 24; Sardegna n. 26; Friuli Venezia Giulia n. 44; Valle d’Aosta n. 46; Trentino Alto Adige n. 170.

Peraltro, anche la Corte costituzionale ha revocato in dubbio, sin dall’inizio, la natura “pattizia” delle norme di attuazione. Il caso da cui originò la sentenza n. 20 del 1956 – con cui la Corte ammette, per la prima volta, una questione di legittimità sollevata da una da Regione contro un decreto legislativo di attuazione – chiarì immediatamente il significato che la Corte riconduceva al termine “patrizio”. Gli undici ricorsi della Regione Sardegna si appuntavano contro il D.P.R. 19 maggio 1949, n. 250 recante norme di attuazione dello statuto speciale. Tra le altre doglianze la Regione contestava il carattere pattizio del decreto, per il semplice motivo che i rappresentanti della Commissione paritetica erano stati nominati dall’Alto Commissario per la Sardegna (organo statale che esercitò le proprie funzioni tra il 1944 e il 1949 e fu, alla sua estinzione, riassorbito negli uffici statali di controllo della Regione) e non dalla Regione e, dunque, con tutta evidenza, non potevano esprimere la volontà regionale.

La Corte assunse un atteggiamento assolutamente formalistico e ricondusse l’atto adottato nell’articolo 87 della Costituzione e, dunque, all’interno di un procedimento che vede l’iniziativa del Governo e l’adozione ad opera del Capo dello Stato.

La giurisprudenza successiva non si è discostata da questo indirizzo 12, e, pur con fasi alterne, ha tuttavia sostanzialmente legittimato le norme di attuazione come procedimento formalmente e sostanzialmente governativo. La dottrina ha registrato tali passaggi e, quando aderendo e quando discostandosi da tale impostazione, ha comunque descritto il procedimento come necessariamente governativo (per la necessità di comporre unitariamente interessi diversi), seppure ispirato a un principio di bilateralità 13.

Altro terreno su cui l’effettività delle norme di attuazione si è rivelata assai debole – sempre in linea generale – è stato quello del nesso tra esercizio della potestà legislativa e trasferimento delle funzioni, degli uffici e del personale.

L’orientamento del Governo in proposito fu subito netto, 14 propendendo per la necessità di una preventiva emanazione delle norme di attuazione quale condizione di esercizio della potestà legislativa. 15

Anche su questo terreno la sponda offerta dalla Corte costituzionale è risultata essenziale.

Sin dalle prime sentenze, infatti, (n. 1 del 1958; n 22 e n. 74 del 1961; n. 14 del 1962) la Corte elabora il criterio della cosiddetta definizione sufficiente della materia da parte dello Statuto, quale unica situazione in presenza della quale possono ritenersi superflue le norme di attuazione per l’esercizio della competenza legislativa (attribuzione definita della funzione amministrativa a un determinato ente e delimitazione regionale degli interessi).

Al contrario, ogniqualvolta vi sia, anche solo in via indiretta e minimale, una possibile interferenza con una competenza statale, occorrono le norme d’attuazione quale presupposto dell’esercizio della competenza legislativa: “l’appartenenza alle Regioni delle competenze ad essa attribuite dallo statuto non è di per se sufficiente a consentirle l’esercizio in concreto delle medesime (sempre che esse abbiano attinenza con l’ordinamento e le funzioni di uffici statali) fino a quando non sia intervenuto l’apposito decreto legislativo del Capo dello Stato, al quale esclusivamente spettano le determinazioni necessarie per l’inizio delle attività regionali” (n. 22 del 1961).

Le norme di attuazione quale presupposto per l’esercizio della potestà legislativa possono escludersi unicamente nei casi in cui lo statuto definisca precisamente l’ente competente alla funzione e tale competenza “non turbi interessi statali o non ne impedisca la protezione” (n. 136 del 1969). Mentre sicuramente rientrano in tale ambito tutti i casi di competenza legislativa “integrativa” (n. 95 del 1971), per quanto concerne le altre tipologie di competenze valgono i criteri suddetti: “il trasferimento di funzioni, uffici e personale che ricadono in tali materie” 16 e “la connessione delle materie di competenza regionale con ambiti di competenza statale che inevitabilmente richiedono un coordinamento realizzabile solo con norme di attuazione”. 17 Il che ha comportato la conseguente dichiarazione di incostituzionalità di leggi regionali che, pur ricadenti in ambiti di competenza regionale, interferivano con funzioni non ancora trasferite dallo Stato alla Regione speciale. L’ultimo pezzo del discorso riguarda il nesso tra funzioni amministrative e autonomia finanziaria. Procedendo per rapidi cenni va sommariamente richiamato il trattamento tributario delle singole Regioni:

– alla Sicilia è attribuito il gettito di tutti i tributi erariali riscossi nel territorio, ad eccezione delle imposte doganali, delle accise e dei proventi del monopolio dei tabacchi e del lotto;

– alla Sardegna sono assegnati i 10/10 dei canoni delle concessioni idroelettriche, i 9/10 dell’Iva, dell’imposta sui tabacchi, delle imposte di fabbricazione, bollo, registro, concessioni governative, i 7/10 dell’Irpef e dell’Ires, i 5/10 dell’imposta sulle successioni e sulle donazioni, i 7/10 di tutte le altre entrate erariali, dirette e indirette comunque denominate, ad eccezione di quelle di spettanza di altri enti pubblici (anche il regime doganale è riservato allo Stato);

– alla Valle d’Aosta è devoluto l’intero gettito percepito sul territorio regionale dell’Irpef, dell’Ires, dell’Iva, dell’accisa sull’energia elettrica, sulla benzina e sui tabacchi e delle tasse sull’auto, mentre per tutte le altre imposte e tasse è prevista la devoluzione dei 9/10;- al Friuli Venezia Giulia sono riservati i 6/10 dell’Irpef, i 4,5/10 dell’Ires, i 9,1/10 dell’Iva, il 29,75% del gettito dell’accisa sulle benzine, il 30,34% del gettito dell’accisa sul gasolio e i 9/10 di alcune altre imposte;- al Trentino Alto Adige spettano le imposte ipotecarie, i 9/10 delle imposte sulle successioni e sulle donazioni, i proventi del lotto e di 1/10 dell’Iva, mentre alle Province autonome di Trento e di Bolzano va l’intero gettito dell’Irap e i 9/10 di tutte le imposte erariali (8/10 per l’Iva) con eccezione di quelle spettanti alla Regione.

Inoltre, per alcune Regioni si aggiungono ulteriori fonti finanziarie statali.

In particolare, per la Regione siciliana è previsto che lo Stato versi annualmente alla Regione, a titolo di solidarietà̀ nazionale, una somma da impiegarsi, in base a un piano economico, nell’esecuzione di lavori pubblici. La somma viene aggiornata ogni cinque anni.

Per la Valle d’Aosta è previsto che lo Stato assegni contributi speciali per scopi determinati, che non rientrano nelle funzioni ordinarie.

Alla Sardegna si riconosce il concorso dello Stato per la rinascita economica e sociale dell’isola attraverso un piano organico di interventi.

Per il Trentino Alto Adige si prevede che il Ministero competente possa assegnare alle Province quote degli stanziamenti annuali iscritti nel bilancio dello Stato per l’attuazione di leggi statali che dispongono interventi finanziari per l’incremento delle attività industriali.

Il regime tributario delle Regioni speciali risulta, dunque di particolare favore. Ma rispetto a cosa? Cioè quale parametro occorre utilizzare per stabilire se si tratta di un regime di favore o meno?

La Corte dei conti, nel testo dell’Audizione sulle problematiche concernenti l’attuazione degli statuti delle Regioni speciali, richiesta dalla Commissione parlamentare per le questioni regionali del 23 aprile 2015, individua un corretto percorso di ragionamento: “Si evidenzia come gli statuti speciali, pur con analogie di fondo, presentino diversità rilevanti sia per la numerosità delle materie per le quali conferiscono alla Regione potestà legislativa – e quindi per le quali il finanziamento è a carico del bilancio regionale – sia per l’ampiezza e la qualificazione della potestà medesima. Per le autonomie differenziate la finanza regionale è fondata prevalentemente su quote di compartecipazione ai gettiti tributari erariali riscossi sul territorio regionale, oltre che sui tributi regionali e locali; tali quote, che risultano significativamente differenziate tra le diverse Regioni, sono prefissate in modo rigido dallo statuto o dalle correlate norme di attuazione, a differenza delle autonomie ordinarie (articolo 119 della Costituzione). Va altresì posta in evidenza la diversa capacità fiscale di ciascun territorio, dipendente dalle disomogenee condizioni socio-economiche tra le autonomie speciali e, quindi, dalla differente evoluzione del prodotto interno lordo (pro capite) dagli anni Settanta ad oggi. Situazione, questa, che si riverbera sull’entità delle compartecipazioni regionali ai gettiti erariali. A tale dimensionamento rigido e differenziato delle quote di compartecipazione ai gettiti erariali si associa anche la mancanza di criteri oggettivi di connessione tra livelli di compartecipazione e fabbisogni finanziari derivanti dall’esercizio delle funzioni nelle materie attribuite alla competenza delle Regioni e delle Province autonome, proprie e trasferite dallo Stato (insieme alle risorse umane e strumentali)”.

Si tratta, dunque, di un trattamento tributario “pattizio”, diverso da Regione speciale a Regione speciale, ultimamente realizzato anche attraverso leggi ordinarie atipiche (la legge ordinaria adottata sulla base dell’intesa con la singola Regione), non dotato di meccanismi di stabilità e di certezza e, soprattutto, non correlato ai fabbisogni finanziari derivanti dall’esercizio delle funzioni nelle materie attribuite alla loro competenza.

Tale principio bilaterale non si esaurisce, però, nelle norme di attuazione ma conosce articolazioni ulteriori riferite agli statuti stessi attraverso una “decostituzionalizzazione” della disciplina per cui le norme statutarie possono essere integrate e modificate attraverso una legge ordinaria dello Stato 18]. Alcune Regioni speciali hanno avviato il percorso di adeguamento degli statuti speciali, passando per l’appunto attraverso lo strumento degli accordi siglati con il Governo. In questo quadro si collocano gli Accordi siglati tra tre Regioni speciali e lo Stato tra il 2009 e il 2010.

Il primo ad essere siglato è stato il cosiddetto “Accordo di Milano”, stipulato il 30 novembre 2009 tra il Governo e le Province autonome di Trento e di Bolzano. Successivamente, il 29 ottobre 2010, è stato siglato il protocollo d’intesa tra Governo e Regione Friuli Venezia Giulia e, infine, l’11 novembre dello stesso anno, quello con la Valle d’Aosta. Una volta siglati, infatti, i contenuti sono confluiti, il primo (siglato dal Trentino Alto Adige), nella legge n. 191 del 2009, all’articolo 2, commi 107-125; e, gli altri due, nella legge n. 220 del 2010, all’articolo 1, commi 151-159 (l’Accordo siglato dal Friuli Venezia Giulia) e commi 160-164 (il testo siglato dalla Valle d’Aosta). Dunque, prima ancora che tradursi nelle norme di attuazione, la definizione bilaterale delle misure da assumere per gli obiettivi di coordinamento della finanza pubblica ha trovato sanzione legislativa, attraverso leggi ordinarie (seppure rinforzate) volte a modificare le disposizioni statutarie in materia di ordinamento finanziario.

Le norme di attuazione dovrebbero logicamente seguire, ma così non è stato, con la conseguenza, opportunamente sottolineata dalla Corte dei conti che, mentre la dismissione statale delle funzioni non opera, gli oneri finanziari passano da subito a carico delle autonomie speciali. Dunque “assumono oneri per assolvere al dovere di concorso finanziario relativamente a nuove competenze che però risultano ancora in larga parte non definite dal contratto concluso con lo Stato”.

Ciò, per inciso, rende estremamente opaco tutto il sistema e, soprattutto, non consente di valutare appieno se vi sia una corrispondenza o meno tra le funzioni effettivamente trasferite attraverso le norme di attuazione e le risorse attribuite per il loro esercizio.

 

4. La crisi del sistema pattizio: ovvero lo smarrimento della ratio della specialità.

Si comprende a questo punto perché l’intero sistema della specialità, perlomeno nei suoi presupposti teorici, sia entrato in crisi. 19

Tra i tanti, almeno due fattori vanno sottolineati come nodi ancora aperti nel sistema.

In primo luogo non è più evidente la specialità: le norme di attuazione adottate dal 1997 in poi in linea generale e salvo eccezioni (Trentino e Valle d’Aosta) riproducono per le Regioni speciali i trasferimenti del 112 del 1998, senza più alcun effettivo riferimento alla necessità di attualizzare la specialità.

In secondo luogo, si è progressivamente sganciata l’attribuzione delle risorse tributarie alla corrispondenza con le funzioni esercitate. Anche nella giurisprudenza costituzionale tale nesso si è mostrato assai labile poiché la Corte si è riferita più facilmente al soddisfacimento del fabbisogno finanziario della Regione (n. 260 del 1990 con riguardo alla Sicilia e alla tassa automobilistica).

A questa crisi della specialità la revisione costituzionale del 2001 risponde in maniera del tutto insoddisfacente: ponendo l’orizzonte “ultimo” dell’adeguamento degli statuti speciali e introducendo, invece, il criterio “immediato” della clausola di maggior favore.

Anziché avviarsi decisamente sulla strada delle revisioni statutarie, affrontando di petto il tema della coerenza tra ragioni della specialità, materie assegnate e risorse attribuite, anche attraverso un ridisegno delle Commissioni paritetiche, ma più in generale verso la via dell’enucleazione di un “nuovo” diritto della specialità, anche a fronte degli innovativi principi posti dal Titolo V (pari-ordinazione degli enti, sussidiarietà…), si è preferito non affrontare il problema, non prevedendo, tuttavia gli effetti disastrosi che tale clausola avrebbe introdotto nel sistema.

L’introduzione della clausola di maggior favore, infatti: non ha risolto i problemi delle Regioni speciali; non ha guidato la transizione verso le revisioni statutarie; ha allargato la distanza tra Regioni ordinarie e speciali e ha reso ancor più critica la difesa della specialità.

Ma procediamo con ordine.

La revisione del 2001 ha costituzionalizzato l’idea secondo cui la specialità coincida comunque e sempre con maggiori ambiti di autonomia legislativa, salvo che gli statuti prevedano diversamente. Si tratta di un’idea mutuata da una giurisprudenza costituzionale assai poco condivisibile e che ha proceduto per obiter senza motivazioni particolari:

“…Sull’ovvio rilievo che alle regioni ordinarie non può essere riservato un trattamento più favorevole rispetto a quelle con statuto speciale” (sentenza n. 216 del 1985);

” a parte il generale problema dei rapporti tra le competenze delle regioni a statuto ordinario e le competenze delle regioni a statuto speciale, non certo risolubile nel senso che a queste ultime possano essere riconosciute competenze più ridotte” (sentenza n. 223 del 1984).

Teorizzare che prevalga sempre e automaticamente la forma di più ampia autonomia, 20 significa sovrapporre alle “condizioni particolari” di autonomia contenute negli statuti (articolo 116, comma 1) una maggiore autonomia derivante dalle norme del Titolo V, anche non necessariamente collegata con le ragioni della specialità. Tale cambio di paradigma può giungere all’estremo limite di considerare abrogati gli statuti speciali (nella parte competenziale) a favore dell’applicazione del Titolo V, qualora questo si considerasse più favorevole 21. A questo punto, tuttavia occorreva porsi un problema: il significato di continuare a coltivare una distinzione tra Regioni speciali e Regioni ordinarie.

 

5. Clausola di maggior favore e competenze legislative.

Quale è stata la “resa” complessiva dell’introduzione della clausola di maggior favore?

Commentando tale clausola Silvestri ha osservato:

Purtroppo quando si vogliono definire le competenze con l’impiego di aggettivi si va incontro a un duplice inconveniente: a) si attribuisce un grande potere definitorio al giudice di eventuali, e pressoché inevitabili controversie; b) si lascia aperta la strada, senza particolari precisazioni, all’introduzione, negli ordinamenti regionali speciali, di nuove materie corredate dai loro limiti intrinseci, calibrati sul sistema generale emergente dall’intero Titolo V e non su quelli speciali 22.

Ed è effettivamente quello che è successo. 23

Come è noto, la Corte costituzionale si è trovata subito dinanzi tale difficoltà perché si trattava spesso di confrontare formule linguistiche che, pur indicando analoghi ambiti materiali, non erano immediatamente sovrapponibili, per cui nella maggior parte dei casi era pressoché impossibile verificare se le competenze dedotte dalle disposizioni del Titolo V della Costituzione (in virtù dell’art. 10, Legge costituzionale n. 3/2001) costituissero o meno una condizione più vantaggiosa rispetto alla corrispondente attribuzione statutaria, come si è rilevato nella famosa sentenza sul controllo delle leggi della Regione siciliana (n. 314 del 2003).

Ma anche quando non era possibile applicare la cosiddetta “clausola di maggior favore”, era egualmente problematico definire i contenuti della materia: l’interpretazione doveva tener conto delle formule statutarie concepite tra il 1946 e il 1948 inserite, per di più, in un sistema profondamente diverso rispetto a quello vigente al momento.

Il risultato complessivo è un insieme di attribuzioni, che manca di un testo di riferimento certo: alcune competenze statutarie infatti non vengono più applicate, mentre è possibile esercitare altre nuove funzioni, in virtù della clausola di maggior favore.

In più, la resa in termini di aumento per le Regioni speciali è quantomeno dubbia: le nuove competenze acquisite in virtù della clausola, infatti, sottostanno a tutti i limiti previsti per il loro esercizio da parte delle Regioni ordinarie.

Altra prospettiva da cui valutare la resa della clausola di maggior favore è quella delle norme di attuazione, rispetto alla quale occorre porsi la seguente domanda: le ulteriori competenze acquisite dalle Regioni speciali hanno prodotto conseguenti norme di attuazione? Ma, più a fondo: delle norme di attuazione adottate dopo il 2001 quante costituiscono conseguenza della specialità regionale e quante, invece, costituiscono acquisizioni di maggiori e ulteriori competenze che poco hanno a che vedere con la specialità regionale?

Si tratta di una distinzione di enorme rilevanza per l’economia di questa indagine.

Se, infatti, le norme di attuazione adottate contribuiscono all’attuazione della specialità regionale (del “fatto differenziante”) allora potremmo dire che si è nella giusta direzione.

Viceversa, se le norme di attuazione post 2001 hanno semplicemente contribuito a espandere al massimo possibile l’autonomia legislativa della Regione interessata, al di là della connessione con la specialità, allora la clausola di maggior favore ha operato nei confronti delle Regioni speciali allo stesso modo in cui ha operato nei confronti di quelle ordinarie. Con un duplice effetto negativo:

a) aver innestato un circolo assai poco virtuoso: l’aumento delle competenze produrrà ulteriore drenaggio di risorse finanziarie verso le Regioni speciali interessate (a causa del regime tributario estremamente favorevole), completamente sganciato dalle ragioni della specialità;b) una volta adottate le norme di attuazione, le materie ulteriori, anche non previste nello statuto, sono automaticamente parte del patrimonio competenziale della Regione con il consueto (e irrituale) effetto traino al contrario: le norme di attuazione (le funzioni amministrative) definiscono i confini degli elenchi statutari (cioè della funzione legislativa).

Alla luce di questa chiave interpretativa, esaminiamo, ora, lo stato dell’arte.

Per quanto riguarda il Friuli Venezia Giulia, dei 17 decreti di attuazione adottati dopo il 2001, è indubbio che quasi tutti sono conseguenza delle nuove attribuzioni acquisite dalla Regione in applicazione della clausola di maggior favore e con riguardo a materie o non previste dallo statuto (energia, ad esempio), ovvero previste ma in forma meno ampia (tutela della salute).

Per quanto riguarda la Valle d’Aosta, almeno 6 dei 19 decreti di attuazione adottati dopo il 2001 costituiscono conseguenza dell’applicazione della clausola di maggior favore vertendo su materie legislative non previste dagli elenchi dello statuto: così per la materia del lavoro (decreto legislativo n. 183/2001); per la previdenza complementare (decreto legislativo n.197/2006); per la tutela della salute (decreto legislativo n. 26/2008 e n. 192/2010); per l’edilizia residenziale pubblica (decreto legislativo n. 193/2010) e per il trasporto pubblico regionale (decreto legislativo n.194/2010).

Per quanto riguarda il Trentino Alto Adige, dei 39 decreti attuativi post 2001 pochissimi possono considerarsi conseguenze dell’attuazione in sede amministrativa della clausola di maggior favore (per esempio il decreto legislativo n. 221/2001 in materia di previdenza e assicurazioni sociali e il decreto legislativo n. 174/2001 in materia di trasporto pubblico locale), mentre tutti gli altri concernono l’attuazione della specialità statutaria in materia di proporzionale etnica linguistica e ordinamento dell’istruzione nel suo complesso.

L’ordinamento della Sardegna dopo il 2001 è stato integrato da 6 decreti di attuazione.

Veniamo infine al caso della Sicilia, che dal 2001 risulta aver concordato con lo Stato solo 9 decreti d’attuazione, di cui nessuno pare essere stato assunto quale conseguenza della clausola di maggior favore.

Il quadro che emerge, sia riguardo alle revisioni statutarie sia alle norme di attuazione, pare non convincere neppure le parti regionali direttamente interessate.

Dall’Indagine conoscitiva sulle problematiche l’attuazione degli statuti ad autonomia speciale con particolare riguardo al ruolo delle Commissione paritetiche previste dagli statuti medesimi, promossa dalla Commissione parlamentare per le questioni regionali avviata nel 2015 e che ha visto le audizioni dei presidenti delle Regioni, dei presidenti dei Consigli regionali e dei componenti delle Commissioni paritetiche, emerge una generale considerazione negativa della clausola di maggior favore che non ha prodotto gli esiti sperati, in primo luogo le revisioni statutarie, che avrebbero dovuto costituire il vero orizzonte della riforma del 2001.

Anche in questa circostanza potremmo dire che si avvera il noto detto secondo cui non vi è nulla di più definitivo del transitorio.

Alla luce dell’analisi svolta nei paragrafi precedenti è difficile sfuggire all’impressione di una inutilità “dannosa” della clausola di cui all’articolo 0 della Legge costituzionale n. 3 del 2001.

Se i motivi della sua elaborazione poggiavano sull’idea di rivitalizzare le autonomie speciali, essi sono falliti; come pure è fallito l’obiettivo delle revisioni statutarie.

Non solo, ma il fallimento di tale obiettivo ha aperto la strada a una situazione estremamente caotica di fonti atipiche, che intervengono al posto delle revisioni statutarie e delle norme di attuazione, il che ha contribuito ad acuire il divario tra Regioni ordinarie (che continuano a sottostare a normative uniformi e uniformanti) e Regioni speciali che contrattano bilateralmente con lo stato condizione di “favore” più che le condizioni particolari di autonomia di cui all’articolo 116 della Costituzione.

Il principio pattizio ha smarrito quasi completamente la propria natura, per cui quelli che avrebbero dovuto essere momenti di raccordo istituzionale si sono trasformati in “pratiche politiche di do ut des, ma si è anche accresciuto il già elevato tasso di incertezza del diritto e di dispersione della responsabilità presenti nel sistema dei rapporti tra Stato e Regione” 24.

Come dimostra l’analisi precedente, inoltre, mentre le Regioni speciali del Nord (soprattutto Trentino Alto Adige e Valle d’Aosta) sono riuscite a far progredire la loro specialità, mantenendone sostanzialmente inalterate le ragioni di fondo (proporzionale etnica, bilinguismo); le Regioni speciali del Sud hanno progressivamente smarrito tale attitudine e non hanno saputo valorizzare il versante della specialità soprattutto sul terreno economico e della coesione sociale 25.

Da questo punto di vista la clausola di maggior favore non le ha favorite per nulla, poiché ha spostato il fuoco dell’obiettivo: dal recupero delle ragioni della specialità all’omologazione verso il regionalismo ordinario.

 

6. Il problema del comma 12 dell’articolo 39 del d.d.l. di revisione costituzionale.

La “resa” della clausola di maggior favore (v. i paragrafi 10 e 11) non la fa rimpiangere: alla sua espulsione dall’ordinamento costituzionale non si può che plaudire. 26 Del resto i problemi che l’assenza di tale clausola avrebbe comportato sono noti, come pure è noto il vivace dibattito che su talea “assenza” si era instaurato.

Prima di giungere all’attuale dizione, all’originario testo approvato dal Senato l’8 agosto 2014 e rubricato come articolo 38, comma 11, “Le disposizioni di cui al capo IV della presente legge costituzionale non si applicano alle Regioni a statuto speciale e alle Province autonome di Trento e di Bolzano fino all’adeguamento dei rispettivi statuti sulla base di intese con le medesime Regioni e Province autonome”, la Camera aveva aggiunto la seguente dizione “Fino alla revisione dei predetti statuti speciali, resta altresì ferma la disciplina vigente prevista dai medesimi stati e dalle relative norme di attuazione ai fini di quanto previsto dall’articolo 120 della Costituzione” (art. 39, comma 12, approvato il 10 marzo 2015).

Della mancata inclusione di tale clausola nell’attuale disegno di legge di revisione costituzionale sono state date letture diverse.

Secondo alcuni l’assenza della clausola, unita alla previsione del loro futuro adeguamento, avrebbe provocato una provvisoria, anche se “paradossale”, “ultrattività del Titolo V versione 2001” 27 che sarebbe scaturita dalla previsione dell’inapplicabilità delle disposizioni contenute nel disegno di legge di revisione e dalla contestuale norma che prevede l’adeguamento degli statuti.

Sempre in questa prospettiva altri aggiungeva che occorreva comunque individuare una disciplina costituzionale di integrazione degli statuti speciali, non essendo essi autosufficienti. Se, dunque, il disegno di legge attuale si autoescludeva dal costituire tale diritto comune, era evidente che questo non potesse che essere rintracciato nel Titolo V 28. In realtà, sarebbe stato pressoché impossibile non applicare il futuro Titolo V alle Regioni speciali, sia perché almeno due disposizioni fanno espresso riferimento alle Regioni speciali (quella sul potere sostitutivo e sulla partecipazione alla formazione degli atti comunitari), sia perché l’assenza della riproposizione della clausola avrebbe potuto facilmente essere riportata dinanzi alla Corte costituzionale, che, dati i costanti precedenti, non avrebbe fatto fatica a dichiararla “vigente”, anche se in via transitoria. Lo stesso ragionamento potrebbe facilmente coinvolgere anche la clausola di supremazia (posto che più volte l’interesse nazionale è stato fatto valere nei confronti di tutte le Regioni, speciali comprese).

Secondo altri, invece, l’articolo 10 “è stato pensato nel presupposto della vigenza delle norme della stessa legge del 2001 che lo contiene; fa cioè tutt’uno con queste” 29. Essendo impensabile aver escluso le autonomie speciali da ipotetiche eventualità di veder aumentare la propria possibilità di azione “occorrerebbe comunque riprodurre la clausola di maggior favore anche nella nuova legge” 30. Se, invece, la formula della norma rimanesse identica allora non vi sarebbe altra soluzione che quella di una “interpretazione adeguatrice (e, appunto, sanante), relativizzandone la portata sì da far rivivere la clausola stessa” 31.

A questo punto, e se le cose non si modificano ulteriormente, il destino della clausola di maggior favore è segnato, e con esso diventa inattuale tutto il filone della giurisprudenza della Corte costituzionale che l’aveva costantemente supportata.

I suoi effetti sono da considerarsi stabilizzati solo con riguardo a quelle ulteriori competenze legislative e amministrative che sono state tradotte o in revisioni degli statuti o in norme di attuazione. 32 Tutte le altre, seppure riconosciute dalla Corte costituzionale, dovrebbero considerarsi cadute non essendo possibile tradurle in norme di attuazione, se non hanno negli statuti speciali il loro fondamento competenziale.

Rimane ferma la distinzione tra specialità e regionalismo differenziato, e quest’ultimo viene esteso anche alle Regioni speciali in maniera esplicita.

Rimane un punto importante da chiarire, e cioè che la dizione attuale dell’articolo 39, se interpretata letteralmente, potrebbe condurre a ritenere che le ulteriori competenze richieste dalle Regioni speciali ex articolo 116 della Costituzione (testo attuale ed eventuale testo futuro) si possano richiedere attivando unicamente il procedimento di cui, appunto, all’articolo 116. Così, invece, non dovrebbe essere richiedendosi sempre successivamente la normativa di attuazione, pena ricadere nel terribile caos di fonti e sovrapposizioni di competenze cui abbiamo assistito dal 2001 ad oggi.

Sullo sfondo, ovviamente, anche la possibilità che la riforma costituzionale si arresti. A questo punto per impedire il protrarsi nefasto della clausola di maggior favore non vi sarebbe altra strada che quella delle revisioni statutarie, ovvero delle norme di attuazione.

 

7. Il vero problema: l’assenza di una politica “nazionale” regionale.

Che dire alla fine di questo percorso?

La sensazione, divenuta ormai certezza con il passare del tempo, è che da troppo manchi una politica “nazionale” regionale. La Corte ha fatto quello che ha potuto, ma gli evidenti limiti di sistema (mancanza di una Camera autenticamente territoriale, composizione stessa della Corte) non le hanno consentito di supplire adeguatamente a tale mancanza.

Il terreno dei rapporti Stato-Regioni, del resto, è terreno di politica e di politica costituzionale, come ben si aveva presente negli anni Settanta quando l’avvio dell’esperienza delle Regioni ordinarie aveva condotto la dottrina più sensibile e attenta ad indicare la strada: le Regioni per la riforma dello Stato.

La carenza di una politica nazionale regionale è visibile:

– dall’assenza di politiche che aggrediscano coraggiosamente il divario Nord-Sud;

– dall’assenza d’integrazione tra le politiche nazionali e quelle regionali.

Sotto il primo profilo, anzi, i Governi nazionali hanno in qualche misura perpetuato quel divario attraverso differenziazioni quantomeno discutibili, anche solo dal punto di vista economico (sviluppo industriale al Nord e servizi pubblici e incremento di reddito al Sud).

Dall’altro versante, le politiche regionali non sono mai entrate a far parte di una strategia di sviluppo nazionale.

A questo punto, tuttavia, si aprirebbe un formidabile tema, che meriterebbe ben altri approfondimenti.

1 Professoressa Ordinaria Istituzioni di Diritto Pubblico presso l’Università degli Studi di Torino.
2 S. Labriola, Il principio di specialità nel regionalismo italiano in S. Ortino, P. Penthaler (a cura di), Il punto di vista delle autonomie speciali. La riforma costituzionale in senso federale, Bolzano-Trento, 1997, pag. 61 e ss.
3 Sulle vicende di tale potestà legislativa v. l’approfondita analisi di L. Cassetti, La potestà legislativa regionale tra autonomie speciali in trasformazione, competenze esclusive e nuove forme di specialità in A. Ferrara e G. M. Salerno (a cura di), Le nuove specialità nella riforma dell’ordinamento regionale, Milano, Giuffrè, 2003, pag. 78 e ss.
4 Sulla partecipazione delle forze politiche e sociali locali nella stesura degli statuti speciali v. G. Mor, Le regioni a statuto speciale nel processo di riforma costituzionale, Le Regioni, 1999, pag. 199; R. Bifulco, Le Regioni, Il Mulino, Bologna, 2004, pag. 10; A. Poggi, Revisione della “forma di stato” e funzione giurisdizionale: una diversa ripartizione di competenze tra Stato e Regioni?, Le Regioni, 1996, pag. 51 e ss.
5 Così M. Cecchetti, Attualità e prospettive della specialità regionale alla luce del regionalismo differenziato come principio di sistema, www.federalismi.it, n. 23/2008, pag. 2 e ss.
6 Sul punto sia consentito rinviare ad A. Poggi, Esiste nel Titolo V un “principio di differenziazione” oltre la “clausola di differenziazione del 116, comma 3? In A. Mastromarino e J. M. Castellà Andreu, Esperienze di regionalismo differenziato. Il caso italiano e quello spagnolo a confronto, Milano, Giuffrè, 2009 pag. 27 e ss.
7 L.Antonini, Il regionalismo differenziato. La politica delle differenze. Welfare Society e le prospettive del regionalismo italiano anche nel confronto con la riforma del regime speciale del T.A.A., Milano, Giuffrè, 2000, pag. 195.
8 M.Sias, Le norme di attuazione degli statuti speciali. Dall’autonomia differenziata all’autonomia speciale, Napoli, Jovene, 2012, pag. 117.
9 C. Mortati, Atti con forza di legge e sindacato di costituzionalità, Milano, 1964, pag. 18.
10 M. Sias, op. cit., 71.
11 L’art. 56 dello statuto sardo prevede che la Commissione “proponga” le norme di attuazione; lo statuto siciliano prevede che la Commissioni le “determini”; lo statuto valdostano dispone che la Commissione “elabori” gli schemi di decreti; gli statuti trentino e friulano, invece, dispongono che le Commissioni siano “sentite” sugli schemi di decreti.
12 Su cui v. amplius M. Sias, op. cit. pag. 53 e ss. Parte della dottrina criticò tale modo di procedere della Corte costituzionale: A. Piras, La Corte costituzionale e le Regioni speciali in AA.VV., Atti del IV Convegno di studi giuridici regionali, Milano, 1965, pag 102 e ss.; V. Crisafulli, Le Regioni davanti alla Corte costituzionale, Riv. trim. dir. pubbl., 1963, pag. 537 e ss.; G. Guarino, Stato e Regioni speciali nella giurisprudenza della Corte costituzionale in AA.VV., Atti del IV Convegno di studi giuridici regionali cit., pag. 61 e ss.
13 V.per tutti S. Bartole, Articolo 116 della Costituzione in AA.VV., Commentario della Costituzione, Articoli 114-120, Tomo I, Roma-Bologna, 1985.
14 In quel lungo periodo d’inattività lo Stato interveniva nelle Regioni speciali attraverso programmi statali (v. Cassa per il Mezzogiorno) e solo a partire dagli anni Sessanta coinvolgeva le stesse Regioni nei suoi piani di intervento (v. il Piano di rinascita economica e sociale della Sardegna del 1962).
15 Secondo U. De Siervo, Gli Statuti regionali, Milano, Giuffre, 1974, pag. 367, lo svuotamento che in tal modo si sarebbe verificato delle competenze delle Regioni speciali sarebbe stato causato dal clima di netto antiregionalismo “manifestatosi specialmente negli scarsi e disorganici trasferimenti di funzioni, e che ha fatto (almeno in parte) giustificare ben più gravi inadempienze delle regioni speciali” (nota 8).
16 M. Sias, op.cit., pag. 163.
17 Ibidem.
18 Si veda l’articolo 104 dello statuto Trentino Alto Adige, ai sensi del quale “Fermo quanto disposto dall’articolo 103 le norme del titolo VI (Finanza della Regione e delle Province) e quelle dell’articolo 13 possono essere modificate con legge ordinaria dello Stato su concorde richiesta del Governo e, per quanto di rispettiva competenza, della Regione o delle due Province”. L’articolo 63, quinto comma, dello statuto Friuli Venezia Giulia: “Le disposizioni contenute nel titolo IV (Finanze. Demanio e patrimonio della Regione) possono essere modificate con leggi ordinarie, su proposta di ciascun membro delle Camere, del Governo e della Regione, e, in ogni caso, sentita la Regione”. L’articolo 50, quinto comma, dello statuto Valle d’Aosta: “Entro due anni dall’elezione del Consiglio della Valle, con legge dello Stato, in accordo con la Giunta regionale, sarà stabilito, a modifica degli articoli 12 e 13 (Disposizioni in materia di ordinamento finanziario), un ordinamento finanziario della Regione”. E, l’articolo 54, quinto comma, dello statuto Sardegna: “Le disposizioni del Titolo III (Finanze. Demanio e patrimonio) del presente statuto possono essere modificate con leggi ordinarie della Repubblica su proposta del Governo o della regione, in ogni caso sentita la Regione”.Analoga disposizione non è invece contenuta nello statuto della Sicilia.
19 Da tempo la dottrina si interroga sul significato della specialità: v., tra gli altri, A. Pizzorusso, Regioni speciali: motivazioni storiche ed esigenze attuali, Quad. reg., 1989, pag. 1025 e ss.; L. Paladin, Spunti per la ricerca di una nuova specialità, Le Regioni, 1993, pag. 643 e ss.; G. Mor, Le autonomie speciali, Le Regioni, 1997, pag. 1031 e ss.; M. Luciani, Le Regioni a statuto speciale nella trasformazione del regionalismo italiano (con alcune considerazioni sulle proposte di revisione dello statuto della Regione Trentino Alto Adige), Riv. dir. cost., 1999, pag. 220 e ss.; G. Pitruzzella, Sul “federalismo all’italiana” nel progetto di revisione costituzionale, Le Regioni, 2000, pag. 7 e ss..; P. Caretti, La faticosa marcia di avvicinamento ad un assetto razionale del regionalismo italiano, Le Regioni, 2000, pag. 797 e ss.; L. Antonini, Il regionalismo differenziato, Milano, Giuffrè, 2001, pag. 24 e ss.; S. Bartole, Esiste oggi una dottrina delle autonomie regionali e provinciali speciali?, Le Regioni 2010, pag. 863 e ss.; F. Palermo, Federalismo fiscale e Regioni a statuto speciale. Vecchi nodi vengono al pettine, Le istituzioni del federalismo, 2012, pag. 9 e ss.
20 Che si tratti di un’operazione automatica e “imposta” dall’articolo 10 della l.c. 3 del 2001 non dubitano minimamente S. Pajno, L’adeguamento automatico degli statuti speciali, www.federalismi.it, n. 23/2008; C. Padula, L.cost. n. 3/2001 e statuti speciali: dal confronto fra norme al (mancato) confronto tra sistemi (commento a sent. n. 314 del 2003), www.forumcostituzionale.it, 2003.
21 Contra S. Mangiameli, La riforma del regionalismo italiano, Torino, Giappichelli, 2002, pag. 141 e ss. secondo cui al di là della clausola di maggior favore, la vera partita della specialità andava giocata nella revisione degli statuti.
22 Le autonomie regionali speciali: una risorsa costituzionale da valorizzare (discorso tenuto in occasione della seduta solenne in ricordo del 50° dell’Assemblea legislativa regionale, Trieste, 26 maggio2014).
23 Dettaglia analiticamente l’estrema difficoltà di applicazione della clausola I. Ruggiu, Le “nuove” materie spettanti alle Regioni speciali in virtù dell’art. 10 della legge costituzionale 3/2001, Le Regioni, 2011.
24 V. Teotonico, La specialità e la crisi del regionalismo, Rivista AIC, 4/2014, 7 sulla scia della posizione di A. Baldassare.
25 Sulla differenza tra autonomie speciali del Nord e del Sud v. anche O. Chessa, Specialità e asimmetria nel sistema regionale italiano, www.dirittoestoria, 2011; F. Salvia, Autonomie speciali e altre forme di autonomia differenziata, Dir. e soc., 2002, pag. 463 e ss.; S. Mangiameli, Audizione dinanzi alla Commissione parlamentare per le questioni regionali, nell’ambito dell’indagine conoscitiva sulle questioni connesse al regionalismo ad autonomia differenziata, www.issirfa.cnr.it, 2014.
26 Così S. Baroncelli, Il disegno di riforma costituzionale Renzi-Boschi e i suoi riflessi sulle autonomie speciali fra tendenze centralistiche, clausola di maggior favore e principio dell’intesa, www.osservatoriosullefonti.it, 1/2015, 7
27 A. D’Atena, Passato, presente…e futuro delle autonomie regionali speciali, Rivista AIC, 4/2014, pag. 15.
28 A. Ambrosi, Riforma del Titolo V e autonomie differenziate: il difficile tentativo di separare la strada delle regioni ordinarie da quella delle regioni speciali e delle Province di Trento e di Bolzano, Le Regioni, 1/2015, pag. 22.
29 A. Ruggeri, La riforma Renzi e la specialità regionale: problemi aperti e soluzioni sbagliate, ovverosia ciò che non c’è e che dovrebbe esserci e ciò che invece c’è e non dovrebbe esserci, Rivista ASIC, 3/2015, pag. 5.
30 Ibidem.
31 A. Ruggeri, Una riforma che non da ristori a regioni assetate di autonomia, Le Regioni, 1/2015, pag. 255.

32 Del resto la Corte costituzionale nella sentenza n. 236 del 2004 aveva ampiamente chiarito questo punto: “Per le ulteriori più ampie competenze che le Regioni speciali e le Province autonome traggano dalla Costituzione, in virtù della clausola di maggior favore, troverà invece applicazione l’articolo 11 della legge n. 131 del 2003 e quindi il trasferimento delle funzioni avrà luogo secondo le modalità previste dalle norme di attuazione e con l’indefettibile partecipazione della commissione paritetica”.