Le recenti statuizioni della Corte costituzionale sulla caccia. A margine delle sentenze Corte cost. nn. 7/2019, 10/2019 e 16/2019

Silvia Gimigliano[1]

 

Sommario: 1. Introduzione. 2. Corte cost., sent. 17 gennaio 2019, n. 7, circa le specie cacciabili. 3. Corte cost., sent. 25 gennaio 2019, n. 10, circa le zone destinate al solo allenamento dei cani. 4. Corte cost., sent. 8 febbraio 2019, n. 16, circa l’accesso dei cacciatori ad ambiti territoriali diversi. 5. Considerazioni conclusive.

 

1. Introduzione.

Questo scritto, essenzialmente ricognitivo, si propone di offrire un quadro delle recenti statuizioni della Corte costituzionale sull’eventuale violazione dell’art. 117, co. 2, lett. s), Cost. da parte di alcune disposizioni regionali in materia di caccia (per contrasto fra queste ultime e, quale norma interposta, la l. 11 febbraio 1992, n. 157, recante «Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio»[2]).

Come noto, la riforma del titolo V, parte II, della Costituzione, realizzata con l. cost. 18 ottobre 2001, n. 3, ha profondamente inciso sul riparto di competenze legislative in materia ambientale.

Per quanto d’interesse ai fini del presente scritto, prima della sostituzione dell’art. 117 Cost. ad opera dell’art. 3 l. cost. 3/2001, (i) nella Costituzione mancava un riferimento testuale all’ambiente[3] e (ii) la caccia era indicata fra le materie di competenza concorrente (art. 117, co. 1, previgente). Per contro, in seguito alla riforma, l’art. 117 Cost. (i) riserva alla legislazione esclusiva statale la materia «tutela dell’ambiente» e «dell’ecosistema» (art. 117, co. 2, lett. s) e (ii) non menziona più la caccia, che risulta, pertanto, rimessa alla potestà residuale regionale ai sensi del co. 4.

A fronte delle profonde modifiche che hanno interessato l’art. 117 Cost., si può rilevare una costante nella giurisprudenza costituzionale precedente e successiva alla riforma del 2001: la concezione dell’ambiente «come “valore” costituzionalmente protetto, che, in quanto tale, delinea una sorta di materia “trasversale”, in ordine alla quale si manifestano competenze diverse, che ben possono essere regionali, spettando allo Stato le determinazioni che rispondono ad esigenze meritevoli di disciplina uniforme sull’intero territorio nazionale»[4].

Dopo l’entrata in vigore della l. cost. 3/2001, la Corte ha individuato una «conferma» di questa linea interpretativa proprio nel co. 2, lett. s), del nuovo art. 117[5], rilevando che la disposizione «esprime una esigenza unitaria per ciò che concerne la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, ponendo un limite agli interventi a livello regionale che possano pregiudicare gli equilibri ambientali»[6].

Nel delineare i rapporti tra art. 117, co. 2, lett. s), Cost. e potestà residuale regionale in materia venatoria, ha quindi chiarito che le Regioni sono tenute al rispetto della «disciplina statale rivolta alla tutela dell’ambiente e dell’ecosistema… ove l’intervento statale sia rivolto a garantire standards minimi e uniformi di tutela della fauna, trattandosi di limiti unificanti che rispondono a esigenze riconducibili ad ambiti riservati alla competenza esclusiva dello Stato»[7].

Attraverso le sentenze nn. 7/2019, 10/2019 e 16/2019 la Corte si esprime sulla costituzionalità di disposizioni legislative regionali rispettivamente in tema di specie cacciabili, zone destinate al solo allenamento dei cani ed accesso dei cacciatori ad ambiti territoriali diversi.

 

2. Corte cost., sent. 17 gennaio 2019, n. 7, circa le specie cacciabili.

Questa pronuncia ribadisce il principio in base al quale le Regioni, nell’esercizio della propria competenza legislativa in materia venatoria, possono restringere il novero delle specie cacciabili, derogando in melius ai livelli minimi di tutela fissati dalla l. 157/1992.

La sentenza origina da una serie di questioni di legittimità costituzionale sollevate dal TAR Piemonte relativamente agli artt. 39, co. 1, l. Regione Piemonte 22 dicembre 2015, n. 26, e 1, co. 1, l. Regione Piemonte 27 dicembre 2016, n. 27[8]. Il giudice a quo ipotizzava che tali disposizioni violassero gli artt. 102, co. 1, e 117, co. 1 e 2, lett. s), Cost.

La Corte non ha accolto nessuna delle questioni di costituzionalità sottoposte al suo esame.

L’ordinanza di rimessione ravvisava anzitutto un possibile contrasto, sotto due distinti profili, fra le disposizioni censurate e l’art. 117, co. 2, lett. s), Cost.

Il primo asserito profilo di contrasto si fondava sul rilievo che gli artt. 39, co. 1, l. Regione Piemonte 26/2015 e 1, co. 1, l. Regione Piemonte 27/2016 vietano l’abbattimento, la cattura e la caccia di specie che risultano, per contro, cacciabili in base all’art. 18, co. 1, l. 157/1992.

Il TAR Piemonte deduceva che le disposizioni regionali ledessero regole minime uniformi di tutela dell’ambiente, fissate appunto dalla legge statale.

La Corte non condivide questa tesi, ritenendo che essa si basi sul presupposto che, in seguito alla riforma del titolo V del 2001, la l. 157/1992 avrebbe cessato di essere una legge quadro e non sarebbe in alcun modo suscettibile di essere derogata dalla legislazione regionale.

Invero, atteso il «carattere trasversale» della materia «tutela dell’ambiente» e «dell’ecosistema»[9], le Regioni possono senz’altro, nell’esercizio delle proprie competenze legislative, derogare in melius ai livelli minimi di tutela fissati dalla l. 157/1992[10].

Le disposizioni impugnate risultano in linea con il sopraddetto principio. Infatti, come evidenzia la Corte nel solco di sue precedenti pronunce[11], «sia l’art. 39, comma 1, della legge reg. Piemonte n. 26 del 2015, sia l’art. 1, comma 1, della legge reg. Piemonte n. 27 del 2016, estendendo il divieto di caccia a specie che, sulla scorta dell’art. 18, comma 1, della legge n. 157 del 1992, sarebbero cacciabili, non si risolvono in una riduzione della soglia minima di tutela della fauna selvatica, ma risultano, al contrario, più rigorosi rispetto alla disciplina statale, nella direzione quindi di un legittimo incremento della suddetta protezione minima».

La Corte sviluppa le relative argomentazioni ricorrendo a più tecniche interpretative[12], e nello specifico: (i) all’argomento ab exemplo, attraverso il costante riferimento a propri precedenti[13]; (ii) all’argomento storico, ove sottolinea che «la natura di valore universale» ascrivibile all’ambiente, «già ricavabile» prima della riforma del titolo V «dagli artt. 9 e 32 della Costituzione, trova ora conferma» nell’art. 117, co. 2, lett. s), Cost.; (iii) all’argomento a fortiori, nel passo in cui osserva che la facoltà di derogare in melius alla disciplina statale va riconosciuta alle Regioni, a maggior ragione, in materia di caccia[14]; (iv) all’argomento sistematico, ove ravvisa nelle disposizioni impugnate «una coerente attuazione del principio autonomista», in continuità con la previgente normativa venatoria piemontese; (v) all’argomento naturalistico, al quale pare in qualche misura riconducibile l’accenno alla «particolare sensibilità della comunità regionale piemontese al valore costituzionale dell’ambiente e dell’ecosistema».

Il secondo asserito profilo di contrasto con l’art. 117, co. 2, lett. s), Cost. si fondava sulla pretesa violazione del principio, ricavabile dall’art. 18, co. 2 e 4, l. 157/1992, secondo cui il calendario venatorio dev’essere adottato dalle Regioni tramite atto amministrativo.

La Corte smentisce l’impostazione del rimettente, chiarendo che con gli artt. 39, co. 1, l. Regione Piemonte 26/2015 e 1, co. 1, l. Regione Piemonte 27/2016 non è stato approvato alcun calendario venatorio, perciò essi «in nessun modo hanno inciso in peius sugli standard minimi e uniformi di protezione della fauna».

A sostegno della constatazione, adduce l’argomento c.d. economico: evidenzia che durante la vigenza delle disposizioni impugnate sono stati sì approvati calendari venatori, ma con deliberazioni di Giunta regionale[15].

Di qui l’infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate con riferimento all’art. 117, co. 2, lett. s), Cost.

Le ulteriori questioni all’attenzione della Corte[16] sono state dalla stessa dichiarate inammissibili perché non sorrette da sufficiente motivazione.

 

3. Corte cost., sent. 25 gennaio 2019, n. 10, circa le zone destinate al solo allenamento dei cani.

Con questa pronuncia la Corte costituzionale, adita in via principale dal Governo, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 17, co. 50, lett. i), n. 5), l. Regione Lazio 14 agosto 2017, n. 9.

La disposizione, modificativa dell’art. 17, co. 9, l. Regione Lazio 2 maggio 1995, n. 17, definiva il periodo di operatività e l’ampiezza delle zone destinate al solo allenamento dei cani ai fini dell’esercizio venatorio[17]. Si poneva, pertanto, in contrasto con l’art. 10 l. 157/1992[18], che affida la disciplina di tali aspetti al piano faunistico-venatorio.

Nell’argomentare in proposito, la Corte si serve (i) dell’argomento ab exemplo, richiamando propri precedenti[19], e (ii) dell’argomento teleologico, ove valorizza la ratio della disciplina statale sulla pianificazione, consistente nell’assicurare «garanzie procedimentali… funzionali all’equilibrio degli interessi in gioco, esprimendo una regola di tutela ambientale inderogabile per le Regioni».

Di qui il rilievo secondo cui «la disposizione impugnata eccede la competenza regionale relativa alla caccia e, pertanto, determina la violazione dedotta dal Presidente del Consiglio dei ministri, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost.».

 

4. Corte cost., sent. 8 febbraio 2019, n. 16, circa l’accesso dei cacciatori ad ambiti territoriali diversi.

Con questa pronuncia è stato definito il giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 67, co. 1, l. Regione Veneto 29 dicembre 2017, n. 45, promosso in via principale dal Governo.

La disposizione introduce nella l. Regione Veneto 9 dicembre 1993, n. 50 l’art. 19-bis, recante «Sistema regionale di prenotazione e disciplina per l’esercizio della mobilità venatoria dei cacciatori del Veneto»[20].

Il Presidente del Consiglio dei ministri lamentava la violazione della competenza esclusiva statale in materia di tutela dell’ambiente in relazione agli artt. 12[21], co. 5, e 14[22], co. 5, l. 157/1992.

Quanto alla prima disposizione interposta, in base alla prospettazione del Presidente del Consiglio dei ministri il nuovo art. 19-bis l. Regione Veneto 50/1993 avrebbe consentito di esercitare la caccia «in forme e modalità ulteriori rispetto a quelle individuate dall’art. 12», co. 5, l. 157/1992[23].

Tale censura viene giudicata dalla Corte «inammissibile per radicale difetto di motivazione».

Quanto alla seconda disposizione interposta, il ricorrente lamentava l’introduzione, da parte dell’art. 19-bis, di «un sistema “automatizzato” di autorizzazione all’accesso di ciascun cacciatore in un ambito territoriale di caccia diverso da quello in cui risulta iscritto, senza prevedere che tale accesso sia subordinato, come prescrive… l’art. 14, comma 5, della legge n. 157 del 1992, al previo consenso degli organi di gestione dell’ambito territoriale nel quale l’accesso deve essere autorizzato».

Nell’esaminare questa censura, la Corte evidenzia anzitutto che «la materia della caccia rientra, dopo la revisione del Titolo V…, nella potestà legislativa residuale delle Regioni, le quali sono nondimeno tenute a rispettare i criteri fissati dalla legge n. 157 del 1992 a salvaguardia dell’ambiente, che costituisce oggetto di una competenza statale esclusiva, di carattere trasversale. Più precisamente, tale

legge stabilisce il punto di equilibrio tra «il primario obiettivo dell’adeguata salvaguardia del patrimonio faunistico nazionale e l’interesse […] all’esercizio dell’attività venatoria» …; conseguentemente, i livelli di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema da questa fissati non sono derogabili in peius dalla legislazione regionale».

Scarta, in base all’argomento letterale e all’argomento c.d. psicologico[24], la tesi della Regione Veneto, secondo cui il sistema in parola avrebbe consentito ai cacciatori di ottenere una mera prenotazione.

Rileva tuttavia, impiegando l’argomento teleologico, come il sistema prescritto dall’art. 19-bis risulti in linea con la ratio del «previo consenso» degli «organi di gestione» di cui all’art. 14, co. 5, l. 157/1992 (consistente nel «permettere un’attività di controllo da parte dell’amministrazione competente» circa «l’adeguatezza del rapporto tra i cacciatori autorizzati e la porzione di territorio interessata»)[25].

Di qui l’affermazione che la disciplina impugnata non comporta «una deroga in peius del livello di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema garantito dalla legislazione statale, e in particolare dell’art. 14, comma 5, della legge n. 157 del 1992».

La questione è, dunque, giudicata infondata.

 

5. Considerazioni conclusive.

Volendo tirare le fila di quanto finora esposto, si può osservare che le sentenze annotate precisano, sotto differenti aspetti, il rapporto fra materia “trasversale” della tutela dell’ambiente e materia venatoria, con riferimento, in particolare, alla necessità che il legislatore regionale si attenga a regole minime uniformi stabilite dalla l. 157/1992.

Le soluzioni offerte dalla Corte sono riconducibili a diversi filoni interpretativi (principio della derogabilità in melius, teoria del punto di equilibrio e/o principio dell’inderogabilità in peius, da parte delle Regioni, dei livelli minimi di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema fissati dalla legge statale)[26].

In ultima analisi ed in estrema sintesi:

—   la sentenza n. 7/2019 ribadisce il principio in base al quale le Regioni possono derogare in melius alla soglia di tutela fissata dall’art. 18, co. 1, l. 157/1992, restringendo il novero delle specie cacciabili. Il ragionamento della Corte sul punto è sviluppato attraverso più argomenti interpretativi. La stessa sentenza nega, inoltre, che le disposizioni regionali impugnate violino il principio (ricavabile dall’art. 18, co. 2 e 4, l. 157/1992) secondo cui il calendario venatorio dev’essere adottato dalle Regioni tramite atto amministrativo, ricorrendo all’argomento economico e deducendo il rispetto del principio dell’inderogabilità in peius;

—   la sentenza n. 10/2019 chiarisce che le Regioni non possono definire con legge il periodo di operatività e l’ampiezza di zone destinate all’allenamento dei cani, trattandosi di aspetti affidati dall’art. 10 l. 157/1992 al piano faunistico-venatorio. La statuizione è motivata con l’argomento teleologico; questo stesso argomento consente alla Corte di introdurre nella propria riflessione considerazioni riconducibili alla teoria del punto di equilibrio, ove sottolinea che la disciplina sulla pianificazione di cui alla l. 157/1992 individua in via definitiva l’«equilibrio degli interessi in gioco, esprimendo una regola di tutela ambientale inderogabile per le Regioni»;

—   la sentenza n. 16/2019 chiarisce che è costituzionalmente legittima una disposizione regionale la quale, pur introducendo un sistema di autorizzazione automatica all’esercizio della caccia in ambito territoriale diverso da quello di iscrizione, soddisfi l’esigenza di verifica sottesa al requisito del «previo consenso» degli «organi di gestione» prescritto dall’art. 14, co. 5, l. 157/1992. L’uso dell’argomento teleologico emerge qui con particolarmente evidenza. La Corte adotta anche in questo caso la teoria del punto di equilibrio, precisando, al contempo, che la disposizione impugnata non ha implicato una deroga in peius del livello di tutela garantito dalla legge statale.


 


[1] Dottoranda di ricerca in “Autonomie, servizi, diritti” presso l’Università del Piemonte Orientale – Componente di OPAL (Osservatorio per le Autonomie Locali), struttura di ricerca incardinata nell’ambito del curriculum giuridico in “Autonomie, Servizi, Diritti” del dottorato dell’Università del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro”.

 

[2] La l. 157/1992 delinea un sistema di caccia “programmata” e tende ad accordare (almeno sul piano teorico) prevalenza all’interesse pubblico alla conservazione del patrimonio faunistico rispetto all’interesse privato ad esercitare l’attività venatoria. In questo senso, in particolare, l’art. 1, co. 2, a mente del quale detto esercizio «è consentito purché non contrasti con l’esigenza di conservazione della fauna selvatica…».

Sull’evoluzione della disciplina italiana in materia di caccia, ex multis, B. Caravita – L. Cassetti – A. Morrone (a cura di), Diritto dell’ambiente, Bologna, 2016, pp. 266-268; A. Porporato, La tutela della fauna, della flora e della biodiversità, in R. Ferrara – M.A. Sandulli, Trattato di diritto dell’ambiente, vol. III, A. Crosetti (a cura di), La tutela della natura e del paesaggio, Milano, 2014, pp. 769 e 771 ss.

 

[3] Nel silenzio del vecchio art. 117 Cost., le opzioni interpretative erano due: considerarlo di competenza statale esclusiva, in quanto materia autonoma; oppure di competenza anche regionale, in quanto «sottomateria» compresa in materie di potestà concorrente ex art. 117, co. 1, previgente.

La Corte costituzionale, rilevata la trasversalità della materia ambientale (su cui v. infra), l’aveva ricondotta alla competenza concorrente regionale (G. ROSSI (a cura di), Diritto dell’ambiente, 4a ed., Torino, 2017, pp. 50 e 157; F. Giampietro, La nozione di ambiente nelle recenti decisioni della Corte Costituzionale e gli effetti sul riparto di competenze tra Stato e Regioni), in Ambiente & Sviluppo, 2009, 6, pp. 505-506).

 

[4] Ex multis, Corte cost., sent. 26 luglio 2002, n. 407, recentemente richiamata da Corte cost., sent. 13 giugno 2018, n. 121. Come è stato evidenziato, la configurazione dell’ambiente come valore di rango costituzionale genera conseguenze sul piano (i) della produzione normativa, posto che «il “valore” identifica… una preferenza generale dell’ordinamento, capace di orientare le scelte che il legislatore è chiamato ad operare», (ii) dell’interpretazione, in quanto «il processo ermeneutico deve svolgersi sulla base dei principi generali dell’ordinamento e secondo i canoni di un’interpretazione costituzionalmente orientata», nonché (iii) dell’azione amministrativa e dell’operato dei privati, che «non potranno, nello Stato-comunità, venir meno all’osservanza dei valori conclamati nell’ordine costituzionale» (D. PORENA, La protezione dell’Ambiente tra Costituzione italiana e «Costituzione globale», Torino, 2009, pp. 154-156). Sotto il profilo dell’interpretazione giudiziale, si può notare come la Corte costituzionale goda di una notevole discrezionalità ove si tratti di bilanciare il valore ambientale con altri valori e interessi potenzialmente in conflitto: ciò in quanto «la Costituzione, non prevedendo il valore ambientale tra i principi fondamentali, non predetermina», appunto, «alcun bilanciamento» (ivi, p. 170).

 

[5] Corte cost., sent. 20 dicembre 2002, n. 536. È stato osservato come la riaffermazione, dopo la riforma del titolo V, dell’ambiente in termini di valore trasversale consentisse al Giudice delle leggi, in buona sostanza, di continuare a basarsi sul pregresso sistema di riparto delle competenze (ex multis, S.R. Masera, Il valore costituzionale dell’ambiente nella nuova formulazione dell’art. 117 della Costituzione (commento a Corte cost., 28 marzo 2003, n. 96), in Urbanistica e appalti, 2003, 10, p. 1157). Nondimeno, la dottrina maggioritaria ha escluso un contrasto con l’attribuzione della materia alla potestà statale esclusiva ex art. 117, co. 2, lett. s), Cost.: fra i vari argomenti addotti in proposito, è stato sottolineato come uno degli scopi della riforma fosse «la realizzazione di un rapporto paritario tra Stato e Regione», in ossequio al disposto del nuovo art. 114, co. 1, Cost. (ivi, p. 1158).

 

[6] Corte cost., sent. 4 luglio 2003, n. 226.

 

[7] Corte cost., sent. 4 luglio 2003, n. 226. Cfr. Corte cost., sent. 20 dicembre 2002, n. 536.

 

[8] Le disposizioni impugnate modificavano l’ora abrogato art. 40, co. 4, l. Regione Piemonte 4 maggio 2012, n. 5, introducendo il divieto di cacciare determinate specie animali. Nello specifico, in seguito all’aggiunta delle lettere f-ter) e f-quater) rispettivamente ad opera dell’art. 39, co. 1, l. Regione Piemonte 26/2015 e dell’art. 1, co. 1, l. Regione Piemonte 27/2016, l’art. 40, co. 4, l. Regione Piemonte 5/2012 stabiliva che: «Oltre a quanto previsto dalla legge 157/1992 è vietato: // … // … abbattere, catturare o cacciare le specie pernice bianca (Lagopus mutus), allodola (Alauda arvensis) e lepre variabile (Lepus timidus); // … abbattere o catturare le specie fischione (Anas penelope), canapiglia (Anas strepera), mestolone (Anas clypeata), codone (Anas acuta), marzaiola (Anas querquedula), folaga (Fulica atra), porciglione (Rallus aquaticus), frullino (Lymnocryptes minimum), pavoncella (Vanellus vanellus), moretta (Aythya fuligula), moriglione (Aythya ferina), combattente (Philomachus pugnax), merlo (Turdus merula)». L’art. 40 l. Regione Piemonte 5/2012 è stato successivamente abrogato dall’art. 29 l. Regione Piemonte 19 giugno 2018, n. 5. Quest’ultima legge regionale, all’art. 2, co. 5, ha escluso dal prelievo venatorio le medesime specie menzionate dal co. 4, lett. f-ter) e f-quater), dell’art. 40 predetto, ad eccezione della moretta. La Corte ha statuito l’irrilevanza di tali modifiche normative rispetto al giudizio di costituzionalità alla sua attenzione.

 

[9] La Corte cita un passaggio della sentenza Corte cost., 20 dicembre 2002, n. 536 ― la prima intervenuta, dopo la riforma del titolo V, sul riparto di competenze legislative con riferimento alla caccia ―, secondo cui la «natura» dell’ambiente «di valore trasversale, idoneo ad incidere anche su materie di competenza di altri enti nella forma degli standards minimi di tutela, già ricavabile dagli artt. 9 e 32 della Costituzione, trova ora conferma nella previsione contenuta nella lettera s) del secondo comma dell’art. 117 della Costituzione, che affida allo Stato il compito di garantire la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema».

 

[10] Già con la sentenza n. 536/2002 la Corte chiariva che «L’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione esprime una esigenza unitaria per ciò che concerne la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, ponendo un limite agli interventi a livello regionale che possano pregiudicare gli equilibri ambientali. Come già affermato…, la tutela dell’ambiente non può ritenersi propriamente una “materia”, essendo invece l’ambiente da considerarsi come un “valore” costituzionalmente protetto che non esclude la titolarità in capo alle Regioni di competenze legislative su materie (governo del territorio, tutela della salute, ecc.) per le quali quel valore costituzionale assume rilievo (sentenza n. 407 del 2002). E, in funzione di quel valore, lo Stato può dettare standards di tutela uniformi sull’intero territorio nazionale anche incidenti sulle competenze legislative regionali ex art. 117 della Costituzione» (Corte cost., sent. 20 dicembre 2002, n. 536). Come ha sottolineato la dottrina, viene in considerazione una «tecnica di riparto delle competenze legislative… che utilizza alcune previsioni del 2° comma dell’art. 117», fra cui appunto la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, «come strumenti per salvaguardare interessi nazionali unitari anche nei confronti di competenze regionali residuali-esclusive» (A. Porporato, La tutela, cit., pp. 778-779; cfr. S. OGGIANU, Gli interventi a protezione della natura, in Trattato di diritto dell’ambiente, diretto da P. Dell’Anno – E. Picozza, vol. III, AA.VV., Tutele parallele. Norme processuali, Padova, 2015, pp. 400-401).

 

[11] La Corte richiama, in particolare, le sentenze costituzionali 28 dicembre 1990, n. 577, 4 luglio 2003, n. 227, 1° luglio 2010, n. 233 e 14 giugno 2017, n. 139.

 

[12] Sugli argomenti interpretativi v. G. Tarello, L’interpretazione della legge, in Trattato di diritto civile e commerciale, già diretto da A. Cicu – F. Messineo, continuato da L. Mengoni, vol. I, t. 2, Milano, 1980, p. 341 ss.

 

[13] Queste, segnatamente, le pronunce citate: Corte cost., sent. 28 dicembre 1990, n. 577; 20 dicembre 2002, n. 536; 4 luglio 2003, n. 227; 1° luglio 2010, n. 233; 14 giugno 2017, n. 139; 13 luglio 2017, n. 174.

 

[14] Sul punto, la Corte afferma che «… tra le materie in astratto riconducibili al quarto comma dell’art. 117 Cost., occorre distinguere quelle che prima della riforma del Titolo V erano esplicitamente elencate nell’ambito della competenza concorrente», come appunto la caccia, «da quelle che, invece, non lo erano: per le prime, ancor più nettamente che per le seconde, è del tutto evidente la volontà del legislatore costituzionale di farle assurgere al rango della competenza residuale regionale, che, come tale, non incontra più i limiti di quella concorrente».

 

[15] Trattasi delle delibere 11 aprile 2016, n. 21-3140; 4 agosto 2016, n. 97-3835; 9 gennaio 2017, n. 10-4551.

 

[16] Concernenti, rispettivamente, l’asserita lesione dell’art. 102, co. 1, Cost. da parte dell’art. 1, co. 1, l. Regione Piemonte 27/2016 e l’asserita lesione dell’art. 117, co. 1, Cost. (in relazione al considerando n. 32 della decisione n. 1600/2002/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 22 luglio 2002, che istituisce il sesto programma comunitario di azione in materia di ambiente, e agli artt. 114 e 193 TFUE) da parte di entrambe le disposizioni impugnate.

 

[17] L’art. 17, co. 50, lett. i), n. 5), l. Regione Lazio 9/2017 disponeva, infatti, che al co. 9 dell’art. 17 l. Regione Lazio 17/1995 «dopo le parole: “l’istituzione di zone” è inserita la seguente: “temporanee” e l’ultimo periodo è sostituito dal seguente: “Tali zone, la cui operatività è prevista nel periodo 1° giugno – 31 agosto, non possono avere superficie superiore ai 20 ettari”». Il modificato co. 9 veniva conseguentemente a prevedere che «I comitati di gestione degli ambiti territoriali di caccia autorizzano, su richiesta delle locali associazioni venatorie nazionalmente riconosciute, l’istituzione di zone temporanee destinate al solo allenamento dei cani, previo assenso dei proprietari o conduttori dei fondi. Tali zone, la cui operatività è prevista nel periodo 1° giugno – 31 agosto, non possono avere superficie superiore ai 20 ettari».

 

[18] In precedenza, hanno dichiarato l’illegittimità costituzionale di disposizioni legislative regionali per violazione dell’art. 117, co. 2, lett. s), Cost., in relazione all’art. 10 l. 157/1992, le sentenze Corte cost., 29 maggio 2009, n. 165; 1° luglio 2010, n. 233; 17 luglio 2013, n. 193; 12 dicembre 2013, n. 303; 14 giugno 2017, n. 139; 13 luglio 2017, n. 174.

 

[19] Queste, segnatamente, le pronunce citate: Corte cost., sent. 16 luglio 1991, n. 350; 29 maggio 2009, n. 165; 9 febbraio 2012, n. 20; 26 aprile 2012, n. 105; 10 maggio 2012, n. 116; 22 maggio 2013, n. 90; 17 luglio 2013, n. 193; 17 gennaio 2019, n. 7.

 

[20] Questo il contenuto dell’art. 19-bis l. Regione Veneto 50/1993: «1. La Giunta regionale sviluppa il sistema regionale di prenotazione per il rilascio dell’autorizzazione ai cacciatori del Veneto ad esercitare l’attività venatoria in mobilità alla selvaggina migratoria e di supporto informatico a ricerche, studi, analisi scientifiche e statistiche inerenti la fauna selvatica del Veneto. // 2. A partire dal 1 ottobre di ogni anno, i cacciatori residenti in Veneto possono esercitare la caccia in mobilità alla selvaggina migratoria fino ad un massimo di trenta giornate nel corso della stagione venatoria anche in Ambiti territoriali di caccia del Veneto diversi da quelli a cui risultano iscritti, con esclusione della Zona Lagunare e Valliva, previa autorizzazione rilasciata dal sistema informativo di cui al comma 1. // 3. Il sistema informativo regionale autorizza l’accesso giornaliero ad un numero di cacciatori comunque non superiore alla differenza tra i cacciatori iscritti all’Ambito territoriale di caccia ed i cacciatori ammissibili sulla base dell’indice di densità venatoria massima stabilito annualmente dalla Giunta regionale. // 4. La Giunta regionale, con propria deliberazione, stabilisce le modalità di accesso al sistema regionale di prenotazione, le modalità e le regole di esercizio della mobilità venatoria sul territorio regionale».

 

[21] In precedenza, hanno dichiarato l’illegittimità costituzionale di disposizioni legislative regionali per violazione dell’art. 117, co. 2, lett. s), Cost., in relazione all’art. 12 l. 157/1992, le sentenze Corte cost. 10 maggio 2012, n. 116; 22 maggio 2013, n. 90; 14 giugno 2017, n. 139; 13 luglio 2017, n. 174.

 

[22] In precedenza, hanno dichiarato l’illegittimità costituzionale di disposizioni legislative regionali per violazione dell’art. 117, co. 2, lett. s), Cost., in relazione all’art. 14 l. 157/1992, le sentenze Corte cost. 29 maggio 2009, n. 165; 22 luglio 2010, n. 268; 20 giugno 2013, n. 142; 12 dicembre 2013, n. 303; 1° giugno 2016, n. 124; 13 luglio 2017, n. 174.

 

[23] Segnatamente, in base all’art. 12, co. 5, l. 157/1992, «Fatto salvo l’esercizio venatorio con l’arco o con il falco, l’esercizio venatorio stesso può essere praticato in via esclusiva in una delle seguenti forme: // a) vagante in zona Alpi; // b) da appostamento fisso; // c) nell’insieme delle altre forme di attività venatoria consentite dalla presente legge e praticate nel rimanente territorio destinato all’attività venatoria programmata».

 

[24] Il riferimento della Corte è ai «lavori preparatori della disciplina impugnata» ed in particolare alla circostanza che «il subemendamento n. C0210… diretto… a subordinare l’accesso negli ambiti territoriali di caccia al consenso espresso dei relativi organi di gestione» è «stato respinto dal Consiglio regionale».

 

[25] Evidenzia, sotto questo profilo, che «il sistema informatico regolato dalla disciplina regionale impugnata non» può «autorizzare automaticamente l’accesso in un determinato ambito territoriale di un numero di cacciatori superiore all’indice venatorio massimo, in assenza dell’apposita delibera dell’organo di gestione»: ciò che di per sé «esclude… ogni possibile effetto pregiudizievole della disciplina regionale medesima».

 

[26] Su cui v. M. Michetti, La tutela dell’ambiente nella giurisprudenza della Corte costituzionale, in Scritti in onore di Antonio D’Atena, Milano, 2015, p. 1921 ss.