Integrazione socio-sanitaria e COVID-19: alcuni spunti di riflessione

 

Viviana Molaschi1

Sommario: 1. Considerazioni preliminari. – 2. L’integrazione socio-sanitaria: un sintetico inquadramento. – 3. Prestazioni socio-sanitarie e pluralità delle formule organizzative. – 4. Integrazione socio-sanitaria e COVID-19. In particolare: alcune problematiche inerenti all’assistenza residenziale e domiciliare.

 

1. Considerazioni preliminari.

Nell’analisi dell’impatto della pandemia dovuta al Coronavirus sui servizi sanitari può essere di interesse formulare qualche spunto di riflessione anche su quella specifica area della sanità che dialoga con l’assistenza sociale (e viceversa), la c.d. integrazione socio-sanitaria2.

Per prestazioni socio-sanitarie, ai sensi dell’art. 3 septies, d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502, introdotto dal d.lgs. 19 giugno 1999, n. 229, si intendono «tutte le attività atte a soddisfare, mediante percorsi assistenziali integrati, bisogni di salute della persona che richiedono unitariamente prestazioni sanitarie e azioni di protezione sociale». Esse sono rivolte, in particolare, a soggetti fragili quali anziani (specie non autosufficienti) e disabili.

Proprio in ragione della vulnerabilità dei beneficiari delle prestazioni, l’integrazione sociosanitaria coniuga cure e care. L’integrazione dei servizi dell’uno e dell’altro tipo mira ad evitare che un problema di salute si trasformi in un problema sociale, così come il processo contrario.

L’integrazione socio-sanitaria rappresenta, a ben vedere, una nuova “frontiera” del principio di globalità, che è uno dei capisaldi del nostro Servizio sanitario nazionale3. Grazie alle politiche e agli interventi che si muovono in questa direzione, la globalità della tutela non si esaurisce nelle tradizionali “triadi” «promozione», «mantenimento», «recupero della salute fisica e psichica» (art. 1, l. 833/1978) ovvero «prevenzione, cura e riabilitazione» (art. 1, d.lgs. 502/1992)4; essa esprime una concezione onnicomprensiva della salute, invero in nuce nella stessa definizione che ne dà l’OMS, estesa anche alla dimensione sociale5.

L’interesse di questo scritto per tale area di attività nasce anche dalla circostanza secondo cui la pandemia, in quasi tutti i settori su cui si è abbattuta, ha esacerbato le problematiche e le difficoltà preesistenti e sono stati proprio i soggetti più fragili ad esserne più colpiti. Valga per tutti l’esempio degli anziani, in particolare quelli ospitati in residenze sanitarie assistenziali, le c.d. Rsa.

Come emerge da un recente Rapporto OCSE, che ha puntato i riflettori sulla lungo-assistenza (Long-Term Care)6, la maggior parte dei decessi per Covid-19 si è verificata tra la popolazione anziana, specialmente quella di età superiore a ottanta anni, che rappresenta il 50% di coloro che ricevono assistenza a lungo termine. I numeri potrebbero essere ancora più elevati in quanto molti soggetti residenti in struttura non sono stati sottoposti a test.

Si tratta di una situazione che non ha riguardato solo l’Italia, come messo in luce dalle ricerche che iniziano ad affacciarsi nel panorama internazionale, come, ad esempio, quella dell’International Long Term Care Policy Network7, che, ferma restando la doverosa cautela nella comparazione dei dati, ha raccolto le prime evidenze sulla mortalità nelle Rsa in ventuno Paesi distribuiti su quattro Continenti.

Nelle pagine seguenti, dopo un breve inquadramento del fenomeno dell’integrazione socio-sanitaria, ambito che, come si rileverà, si presenta altamente differenziato nel panorama italiano, si svolgerà qualche prima riflessione sulle prestazioni e sulle aree di intervento che durante la pandemia hanno mostrato le maggiori criticità, ossia l’assistenza residenziale e quella domiciliare. Alcune osservazioni toccheranno anche l’impatto che il Coronavirus ha avuto sui servizi sanitari potremmo dire “in senso stretto”, ma solo nella misura in cui saranno funzionali a spiegare l’incidenza sull’area dell’integrazione socio-sanitaria, che costituisce il fulcro dell’analisi.

 

2. L’integrazione socio-sanitaria: un sintetico inquadramento.

La distinzione tra le diverse aree del welfare è anche un corollario dell’architettura della nostra Costituzione, che nella parte I reca una serie di disposizioni che garantiscono singolarmente i vari diritti sociali: il diritto alla salute, consacrato dall’art. 32 Cost.; il diritto all’assistenza sociale e il diritto alla previdenza, cui è dedicato l’art. 38 Cost.; il diritto all’istruzione, di cui si occupano gli artt. 33 e 34 Cost.

Tra le conseguenze di tale configurazione vi è anche una differenziazione e graduazione delle tutele apprestate dal sistema di welfare. I vari diritti sociali, infatti, non sono affermati con la stessa forza dalla nostra Carta fondamentale: il diritto all’assistenza sociale, ad esempio, se ci si ferma alla formulazione letterale dell’art. 38 Cost., è sancito in maniera meno incisiva di quello alla salute.

Questa impostazione, inoltre, ha condotto alla nascita e allo sviluppo di distinti servizi sociali e di diversificati plessi amministrativi e organizzativi dedicati alla relativa erogazione.

Le esigenze di protezione dell’individuo, tuttavia, si caratterizzano per una complessità e una interdipendenza crescenti e e richiedono, ai fini di un’efficace risposta, interazioni e sinergie tra i diversi ambiti del welfare, che non possono quindi essere contrassegnati dalla separatezza.

Il perno della nostra Costituzione, d’altra parte, è l’essere umano preso in considerazione nella sua interezza, in termini sia di bisogni che di diritti. I diritti sociali hanno un comune denominatore, riassumibile nel principio personalistico o personalista, ossia nell’obiettivo di promuovere il pieno sviluppo della persona (artt. 2 e 3 Cost.), che permea l’intero assetto costituzionale8.

Ne deriva che, se il valore della persona rappresenta il “collante” di tutte le politiche e gli interventi in materia di servizi sociali, allora le prestazioni volte a soddisfare le necessità dell’individuo non possono che modularsi in ragione delle sue esigenze e debbono essere interconnesse e integrate.

Un significativo esempio di questa filosofia è costituito proprio dall’evoluzione della disciplina in materia di integrazione socio-sanitaria, che si propone di far fronte ad istanze composite sia di tipo sanitario che di protezione sociale attraverso percorsi assistenziali integrati (art. 3 septies, d.lgs. 502/1992).

L’esigenza di una «gestione coordinata e integrata» dei servizi sanitari e di quelli sociali esistenti sul territorio, invero, è emersa sin dall’istituzione del Servizio sanitario nazionale (art. 15, l. 23 dicembre 1978, n. 833), anche se poi ha vissuto alterne vicende, dipendenti dal diverso grado di tutela attribuito dal legislatore ora al diritto alla salute ora al diritto all’assistenza sociale e dal quadro delle competenze normative e amministrative in materia sanitaria e socio-assistenziale. Un’importante svolta del sistema in senso socio-sanitario è stata impressa dal d.lgs. 229/1999, che ha modificato il d.lgs. 502/1992.

Oggi, grazie a questi sviluppi, le prestazioni socio-sanitarie, dapprima definite dal d.p.c.m. 14 febbraio 2001, sono divenute parte dei «livelli essenziali delle prestazioni» e, nello specifico, dei c.d. Lea, come previsto sia dal precedente d.p.c.m. 29 novembre 2001 che dall’attuale d.p.c.m. 12 gennaio 2017, che ha sostituito il primo9.

Emblematico di tale area di attività è l’art. 21, che articola l’integrazione socio-sanitaria in «percorsi assistenziali domiciliari, territoriali, semiresidenziali e residenziali», che contemplano «l’erogazione congiunta di attività e prestazioni afferenti all’area sanitaria e all’area dei servizi sociali». L’articolo in esame stabilisce che «il Servizio sanitario nazionale garantisce l’accesso unitario ai servizi sanitari e sociali, la presa in carico della persona e la valutazione multidimensionale dei bisogni, sotto il profilo clinico, funzionale e sociale», attraverso l’elaborazione di un progetto individuale di assistenza, che tiene conto delle necessità terapeutico-riabilitative e assistenziali della persona, «con il coinvolgimento di tutte le componenti dell’offerta sanitaria, sociosanitaria e sociale, del paziente e della sua famiglia». Il progetto individuale deve altresì tenere in considerazione l’intensità, la complessità e la durata delle prestazioni da fornire.

Tali previsioni, incentrate sulla rilevanza del progetto personalizzato di assistenza, che si costruisce sulla base della valutazione multidimensionale del bisogno, collocano la persona al “centro” della definizione e attuazione delle azioni di assistenza integrata. La realizzazione di queste coinvolge tanto l’amministrazione sanitaria quanto i comuni, secondo soluzioni organizzative suscettibili di una grande variabilità a seconda delle regioni.

 

3. Prestazioni socio-sanitarie e pluralità delle formule organizzative.

Nonostante la definizione ad opera dei d.p.c.m. in materia di Lea di un quadro unitario di prestazioni socio-sanitarie da garantirsi uniformemente sul territorio nazionale, il ruolo delle regioni in materia di integrazione socio-sanitaria resta determinante.

La Corte Costituzionale ha in qualche misura ascritto al concetto di prestazione anche alcuni aspetti organizzativi e ha ritenuto costituzionalmente legittimi livelli essenziali delle prestazioni recanti «standard qualitativi, strutturali, tecnologici, di processo e possibilmente di esito»10. Tuttavia, le opzioni delle regioni riguardanti l’integrazione socio-sanitaria, che peraltro in alcuni casi hanno anticipato il legislatore nazionale, si presentano fortemente differenziate, soprattutto per quanto riguarda le formule organizzative che strutturano gli apparati di erogazione.

Ciò si deve al fatto che il processo decisionale attraverso cui si snodano le scelte di organizzazione è connotato da un panorama assai articolato e multilivello di fonti e di atti.

Anzitutto, l’organizzazione è il frutto dell’interazione, “a monte”, tra le scelte compiute dalle fonti primarie e secondarie, che tratteggiano una cornice macro-organizzativa di base.

L’integrazione socio-sanitaria, avendo una duplice componente sia sanitaria che socio-assistenziale, ai sensi dell’art. 117 Cost. si trova al crocevia di criteri di riparto delle competenze disomogenei, anche se si può ravvisare un’attrazione nella sfera della regolazione sanitaria.

Quanto alla «tutela della salute»11, la Costituzione prevede una potestà legislativa concorrente12, intercettata dalla competenza esclusiva dello Stato in materia di «livelli essenziali delle prestazioni».

Alcune regioni hanno compiuto scelte più vicine ai principi fondamentali contenuti nel d.lgs. 502/1992. È il caso del Piemonte, che ha adottato un «sistema nazional-regionale integrato», anche se, come osservato nell’ambito di alcune ricerche in materia, ciò non significa che tale opzione sia meramente adesiva rispetto al modello nazionale, senza alcuna specificità o capacità innovativa13.

Altre regioni, invece, nel disegnare i propri servizi sanitari regionali, si sono allontanate non poco dalla disciplina statale dettata dal 502/1992. Si pensi alla Lombardia, da ultimo con la l. reg. 11 agosto 2015, n. 23, che ha riformato la l. reg. 30 dicembre 2009, n. 33, «Testo unico delle leggi regionali in materia di sanità». Con tale normativa è stato perfezionato il c.d. “modello lombardo”, il cui sistema aziendale prevede che le funzioni di governo e di committenza, da un lato, e quelle di erogazione delle prestazioni, dall’altro, siano distinte sul piano organizzativo. Tipica del modello lombardo è inoltre la valorizzazione della sanità privata. La normativa lombarda, per quanto qui interessa, si caratterizza per una specifica attenzione all’integrazione socio-sanitaria.

L’assistenza sociale, a sua volta, è attribuita alla potestà legislativa esclusiva regionale, ferma restando la competenza statale relativa alla «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni»14. Sono quindi le leggi regionali a regolare l’organizzazione e il funzionamento dei servizi sociali; in materia interviene, ovviamente, anche la normativa regionale secondaria attuativa.

Una certa influenza, comunque, esercita ancora la l. 8 novembre 2000, n. 328, legge quadro sul sistema integrato di interventi e servizi sociali: essa reca principi espressione di valori costituzionali, che hanno guidato e continueranno ad ispirare anche in futuro il legislatore regionale. Da questo punto di vista, si può constatare come tale legge costituisca in qualche misura un riferimento anche per alcuni principi organizzativi, quindi ben oltre la (sola) vincolatività quale «legge di attuazione di principi costituzionali»15 che le può essere riconosciuta dopo la riforma del Titolo V della Costituzione. Si considerino al riguardo le dimensioni organizzative del principio di sussidiarietà orizzontale o la chiara indicazione nel senso dell’integrazione dei servizi, fatta propria dalla stessa “rubrica” della legge16, che costituisce il tema di queste riflessioni.

All’interno di questa intelaiatura normativa operano le politiche e gli indirizzi definiti negli strumenti di pianificazione. Si pensi, per quanto concerne la sanità, all’importanza che rivestiva un tempo il Piano sanitario nazionale (art. 1, d.lgs. 502/1992), che negli anni ha perso rilevanza e, oggi, ai piani sanitari (art. 1, d.lgs. 502/1992) o socio-sanitari regionali, che stanno acquistando sempre maggiore centralità. A questo proposito occorre rammentare che di norma le leggi regionali prescrivono l’integrazione dei piani regionali degli interventi e dei servizi sociali con i piani sanitari, giungendo anche ad istituire anche degli strumenti di programmazione “misti”, ossia dei piani socio-sanitari17.

A “valle”, si collocano le decisioni di autorganizzazione prese dalle singole aziende, in particolare attraverso l’atto aziendale, che individua le varie strutture dotate di autonomia gestionale o tecnico-professionale (art. 3, c. 1 bis, d.lgs. 502/1992). Le aziende hanno inoltre propri strumenti di programmazione, i piani attuativi locali.

A livello sub-aziendale non ci si può esimere dal menzionare i distretti, articolazione territoriale delle Asl, aventi una dimensione minima di almeno 60.000 abitanti (art. 3 quater, comma 1, d.lgs. 502/1992), che sono responsabili dei servizi sul territorio (art. 3 quinquies, d.lgs. 502/1992). I distretti si fanno carico dell’erogazione dei servizi di assistenza primaria, delle attività sanitarie a rilevanza sociale, di quelle connotate da specifica ed elevata integrazione e di quelle sociali di rilevanza sanitaria se delegate dai comuni. Hanno importanti funzioni di coordinamento, dovendo raccordare le proprie attività con quelle dei dipartimenti e dei servizi aziendali, inclusi i servizi ospedalieri, e di integrazione, quale quella relativa al rapporto ospedale-territorio, che concerne anche le Aziende ospedaliere, oltre che la stessa integrazione socio-sanitaria, che richiede di rapportarsi con gli enti locali.

Le funzioni distrettuali trovano uno strumento di sintesi nel Programma delle attività territoriali (Pat), atto di pianificazione «basato sul principio della intersettorialità degli interventi cui concorrono le diverse strutture operative». Il Pat ha, tra gli altri, il compito di prevedere la localizzazione dei servizi attinenti alle funzioni distrettuali. Determina inoltre le risorse per l’integrazione socio-sanitaria, in particolare le quote rispettivamente a carico delle Asl e dei comuni, nonchè la localizzazione dei presidi nel territorio di competenza (art. 3 quater, comma 3, d.lgs 502/1992).

Tornando al “sociale”, un ruolo fondamentale nell’organizzazione, oltre che nell’erogazione, dei servizi socioassistenziali è assegnato, tanto dalla legge statale quanto dalle leggi regionali, ai comuni, che sono il perno del sistema di welfare, che si qualifica appunto come municipale. Essi, infatti, «programmano, progettano e realizzano il sistema locale dei servizi sociali a rete» (art. 6, l. 328/2000). Tale indicazione è ripresa anche dalle legislazioni regionali.

L’accenno consente di soffermarsi sulle caratteristiche della programmazione, che, a livello regionale (art. 18, l. 328/2000), ha compiti di indirizzo e stabilisce principi di funzionamento, mentre, a livello locale, ove si ha il c.d. piano di zona (art. 19, l. 328/2000), definisce le modalità attraverso le quali nel periodo di vigenza dello strumento sono organizzati e gestiti i sevizi, con un’impronta quindi più operativa.

Nell’ambito della cornice tratteggiata, sono estremamente varie le scelte regionali per coordinare competenze e attività dei diversi soggetti che collaborano nella considerazione dei bisogni e nell’erogazione delle prestazioni socio-sanitarie, vale a dire, dal lato del Servizio sanitario nazionale, principalmente Asl e loro sub-articolazioni, e, sul fronte socio-assistenziali, i comuni, le aziende per i servizi alla persona e i soggetti non profit.

Come accennato, alcune regioni sono rimaste più fedeli al modello nazionale. Tra queste deve essere annoverato il Piemonte. A seguito dell’impulso dato dal d.lgs. 229/1999 all’integrazione socio-sanitaria, la regione si è impegnata nel ricomporre la precedente divaricazione tra il settore sanitario e quello sociale e i relativi ambiti, anche se si segnalano difficoltà a seguito della fusione tra ambiti distrettuali, che ha incrementato i casi di non corrispondenza18. La regione si è inoltre spesa per realizzare una programmazione integrata, specialmente con la l. 6 agosto 2007, n. 18: si pensi ai Profili e Piani di salute (art. 14, l. reg. 18/2007), i cui obiettivi di salute relativi alla rete dei servizi socio-sanitari sono recepiti dai piani attuativi locali (art. 15, l. reg. 18/2007).

Altre regioni, peraltro, sono state più “creative”. La citata l. reg. Lombardia 23/2015, per esempio, prevede soluzioni innovative e sperimentali, come precisato dall’art. 1 bis della stessa legge, introdotto dalla l. 22 dicembre 2015, n. 41, che vanno proprio in tale direzione. Tra queste vi è la creazione delle Aziende sociosanitarie territoriali (Asst) (art. 7, l. reg. Lombardia 33/2009, come riformulato dall’art. 1, l. reg. 23/2015), tertium genus rispetto alla comune dicotomia Asl-Aziende ospedaliere, che, suddivise in due settori aziendali rispettivamente definiti “polo ospedaliero” e “rete territoriale”, dovrebbero favorire l’integrazione delle funzioni sanitarie e sociosanitarie con le funzioni sociali di competenza delle autonomie locali.

Un altro modello peculiare è quello della regione Toscana, che con la l. reg. 10 novembre 2008, n. 60, che ha modificato la l. reg. 24 febbraio 2005, n. 40, «Disciplina del servizio sanitario regionale», ha creato le Società della Salute, consorzi pubblici tra Asl e comuni. L’ambito del consorzio rappresenta il riferimento tanto della programmazione degli interventi sanitari e sociali, attraverso il Piano integrato di salute (PIS), quanto dell’organizzazione, gestione e monitoraggio delle attività svolte.

Pure le esperienze regionali in materia di organizzazione distrettuale sono variegate. Ciò che comunque, al di là delle specifiche discipline, le leggi regionali intendono perseguire è il superamento della separatezza degli interventi sanitari e sociali, al fine di dar vita a sistemi integrati di servizi sanitari, socio-sanitari e socio-assistenziali.

 

4. Integrazione socio-sanitaria e COVID-19. In particolare: alcune questioni inerenti all’assistenza residenziale e domiciliare.

Nell’ambito dei settori che afferiscono all’assistenza socio-sanitaria, le maggiori criticità legate alla pandemia da Covid-19 si sono verificate nelle aree che afferiscono all’assistenza a lungo termine, vale a dire i servizi residenziali e quelli domiciliari19.

Prima di addentrarsi nell’analisi, sono opportune alcune osservazioni, di carattere più generale, attinenti alle condizioni del nostro Servizio sanitario nazionale complessivamente considerato: la crisi sanitaria ha impattato su un sistema già provato da una lunga stagione di riduzione della spesa pubblica, dettata prevalentemente dall’imperativo di sostenere il debito pubblico.

Si può dire che la sanità sia stato uno dei settori più sacrificati dal decisore pubblico. L’affermazione è suffragata dai dati20: il numero di posti letto in Italia è al di sotto della media Ocse ed è diminuito del 30% dal 2000 al 2017; negli ultimi due decenni quelli in terapia intensiva sono passati da 575 a 275 ogni centomila abitanti. Drammatica la perdita di personale: dal 2009 al 2017 più di quarantaseimila unità, di cui oltre ottomila medici e più di tredicimila infermieri.

Alla scure dei tagli non è sfuggita neppure l’integrazione socio-sanitaria. Da più parti si è lamentato come anche i servizi domiciliari abbiano sofferto negli anni di un notevole sotto-finanziamento, il che è oltretutto dimostrato dal fatto che il d.l. 19 maggio 2020, n. 34, c.d. Decreto rilancio, convertito, con modificazioni, dalla l. 17 luglio 2020, n. 77, ha disposto un incremento delle risorse ad essi destinate (art. 1). È auspicabile che queste scelte diventino strutturali21.

Un altro ordine di rilievi concerne gli assetti organizzativi dei servizi, alla cui complessità si è avuto modo di accennare22. Il quadro sinteticamente descritto mette in luce l’eterogeneità dei sistemi di erogazione dei servizi socio-sanitari, che non sempre assegnano la stessa priorità alle tipologie di intervento assistenziale da realizzare e sono connotati da cospicue differenziazioni organizzative.

Tale eterogeneità si è palesata con evidenza durante l’emergenza causata dal Coronavirus, in occasione della quale si è riscontrata una notevole disomogeneità nella capacità di risposta delle regioni alle esigenze di cura che si sono manifestate, da intendersi, per quanto qui rileva, in senso ampio, come comprensive di cure e care23. Si rende quindi necessario comprendere che cosa, a livello delle varie soluzioni organizzative adottate dalle regioni, ha funzionato o meno, nell’ambito sia della sanità che dell’assistenza sociale nonché nel coordinamento/integrazione tra le due24.

Tale indagine richiede uno studio approfondito e interdisciplinare, che muova, oltre che dall’esame delle norme e dei dati, di non facile reperibilità e confronto, dall’ascolto degli operatori. Si possono però fin da ora formulare alcune iniziali riflessioni.

Guardando ai settori più colpiti, che hanno mostrato le maggiori debolezze a fronte della pandemia, si è già avuto modo di sottolineare la tragicità delle problematiche che hanno afflitto i servizi socio-sanitari di tipo residenziale, cioè le Rsa.

Le prime dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS), aggiornate a inizio maggio 202025, rilevano una sensibile variazione, tra regione e regione, della percentuale dei residenti in strutture residenziali e socio-sanitarie risultati positivi al virus, con maggiore frequenza, però, in Lombardia, Veneto, Toscana, Emilia Romagna e Piemonte. Egualmente ci sono differenziazioni in relazione ai decessi totali, sia di soggetti Covid-19 positivi che di individui con polmonite, sintomi di tipo influenzale, ecc., che possono essere ascrivibili all’infezione.

Questi numeri risentono sicuramente della diversa “geografia” del virus, ma anche delle politiche adottate da ciascuna regione, Asl o distretto sanitario, specialmente per quanto riguarda le indicazioni di eseguire test e tamponi.

Pur non potendosi non tenere conto del fatto che il virus si sia propagato con una contagiosità inaspettata per ampiezza e velocità, specie in certe aree del Paese, resta comunque il fatto che molte strutture per anziani (ma il discorso può essere esteso anche a quelle per disabili) hanno tardato non poco nell’individuazione dei contagiati e delle situazioni a rischio, nonché nell’adozione di misure idonee a contrastare la diffusione della malattia.

Oggetto di non pochi dubbi e anche di giudizi fortemente negativi è stata la scelta di alcune regioni, tra cui il Piemonte26 e la Lombardia27, di allentare la pressione sulle strutture pubbliche reperendo posti letto in Rsa sia per pazienti non affetti da Covid-19 sia – ed è questo l’aspetto di maggiore criticità − per pazienti Covid positivi. Le Rsa ospitano persone – generalmente anziani non autosufficienti – molto fragili, aventi pluripatologie e quindi più esposte al virus e alle sue conseguenze.

Il sopracitato rapporto dell’ISS, fondato sul riscontro dato dalle stesse strutture, ha rilevato le seguenti problematicità nella gestione della pandemia: scarse informazioni ricevute circa le procedure da svolgere per contenere l’infezione; mancanza di farmaci; mancanza di dispositivi di protezione individuale; assenze del personale sanitario; difficoltà nel trasferire i residenti affetti da Covid-19 in strutture ospedaliere; difficoltà nell’isolamento dei residenti affetti da Covid-19; impossibilità nel far eseguire i tamponi28.

Per quanto attiene all’assistenza domiciliare, l’emergenza ha messo in risalto le conseguenze nefaste della contrazione, operata da alcune regioni, delle reti di tali servizi, nel quadro, peraltro, del ridimensionamento di quelli territoriali, ivi compresi quelli facenti capo in primo luogo ai medici di base. Si tratta di una delle ragioni alla base del pesante impatto dell’epidemia sul sistema ospedaliero, che ha rischiato il collasso.

Si osservi, inoltre, che sul sovraccarico degli ospedali ha inciso anche il favor di alcune regioni nei confronti della sanità privata, come avvenuto ad esempio in Lombardia, che ha puntato su un sistema sanitario misto pubblico-privato. A fronteggiare l’infezione sono stati però essenzialmente i presidi pubblici, gli unici a disporre in maniera significativa di strutture di terapia intensiva, invece non adeguatamente presenti nel privato, salvo qualche apprezzabile eccezione o riconversione29. Questo spiega perché vi sia stata una migliore risposta alla pandemia in quelle regioni che hanno conservato una sanità pubblica più forte.

Tornando alle problematiche scaturenti dalla riduzione dei servizi domiciliari, allo scopo di rafforzare la gestione “a casa” dei pazienti affetti da Covid-19 per i quali non è necessario il ricovero ospedaliero, sono state istituite le Unità Speciali di Continuità Assistenziale (USCA) (art. 8, d.l. 9 marzo 2020, n. 14 e art. 4 bis, d.l. 17 marzo 2020, n. 18, convertito con modificazioni dalla l. 24 aprile 2020, n. 2730). A queste sono state dapprima attribuite solo competenze di tipo sanitario, in una logica di potenziamento dell’assistenza territoriale, impostazione che emerge anche dall’esame della composizione delle stesse, comprendente personale sanitario31.

Ben presto, però, si è fatta strada l’esigenza di assicurare ai soggetti assistiti a domicilio anche prestazioni socio-sanitarie integrate. Il Decreto rilancio ha quindi affidato alle Aziende sanitarie, tramite i distretti, il compito di «implementare le attività di assistenza domiciliare integrata o equivalenti per i pazienti in isolamento» (art. 1, comma 3). In particolare, si è prescritto che le regioni incrementino e indirizzino azioni terapeutiche e assistenziali a livello domiciliare rivolte non solo ai soggetti contagiati, ma anche a «tutte le persone fragili la cui condizione risulta aggravata dall’emergenza in corso»: un rafforzamento, quindi, dei «servizi di assistenza domiciliare integrata per i pazienti in isolamento domiciliare o quarantenati nonché per i soggetti cronici, disabili, con disturbi mentali, con dipendenze patologiche, non autosufficienti, con bisogni di cure palliative, di terapia del dolore, e in generale per le situazioni di fragilità tutelate ai sensi del Capo IV del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 12 gennaio 2017 “Definizione e aggiornamento dei livelli essenziali di assistenza”» (art. 1, comma 4).

Vi è un ulteriore aspetto da sottolineare. L’assistenza domiciliare integrata, per come è stata intesa e attuata nel nostro Paese, si presenta maggiormente improntata a un approccio di cura clinico (cure) che al sostegno per fronteggiare la non autosufficienza e comunque gli aspetti sociali e di inclusione (care)32. È questa la c.d. “sanitarizzazione” dei servizi33, che talora mina o, quantomeno, indebolisce, l’approccio globale alla persona e ai suoi profili di vulnerabilità che dovrebbe ispirare l’integrazione socio-sanitaria.

Questo disallineamento tra le due modalità di intervento, sanitaria e sociale, che invece dovrebbero essere integrate, avvenuto soprattutto a svantaggio delle azioni di tipo socio-assistenziale, si è accentuato durante l’emergenza seguita al Covid-19, ove l’attenzione si è concentrata, invero anche comprensibilmente, sugli aspetti sanitari.

Sennonché la pretermissione degli aspetti sociali non è da sottovalutare: basti pensare alle necessità correlate al supporto nella vita quotidiana e alle problematiche scaturenti dall’isolamento sociale e dalla solitudine.

Si comprende anche alla luce di tali considerazioni il fatto che il Decreto rilancio abbia disposto che, «ai fini della valutazione multidimensionale dei bisogni dei pazienti e dell’integrazione con i servizi sociali e socio sanitari territoriali», le Unità speciali di continuità assistenziale «possano conferire incarichi di lavoro autonomo, anche di collaborazione coordinata e continuativa, a professionisti del profilo di assistente sociale, regolarmente iscritti all’albo professionale», (art. 1, comma 7)34; per tale scopo sono stati stanziati specifici fondi. Le USCA sono state di conseguenza attratte nel sistema dei servizi socio-sanitari di tipo integrato35, scelta confermata dalla legge di conversione.

Quest’ultima, sempre nell’ottica di potenziare l’assistenza sul territorio e in particolare quella domiciliare, soprattutto per dare tutela ai soggetti più indifesi, ha inoltre previsto che il Ministero della salute, sulla base di un atto di intesa in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, coordini la sperimentazione, per il biennio 2020-2021, di «strutture di prossimità per la promozione della salute e per la prevenzione, nonché per la presa in carico e la riabilitazione delle categorie di persone più fragili, ispirate al principio della piena integrazione socio-sanitaria, con il coinvolgimento delle istituzioni presenti nel territorio, del volontariato locale e degli enti del Terzo settore senza scopo di lucro» (art. 1, comma 4 bis, d.l. 34/2020 cit., introdotto dalla l. 77/2020)36.

Di tale disposizione merita di essere rimarcato anche il coinvolgimento del Terzo settore e, più specificamente, del volontariato, che gioca un ruolo fondamentale nel contrastare l’eccessiva “sanitarizzazione” dei servizi socio-sanitari, promuovendo l’inclusione o, nel caso, il reinserimento della persona nel proprio contesto socio-relazionale37.

 

1 Professore associato di Diritto amministrativo, Università degli Studi di Bergamo.

 

2 Sull’integrazione socio-sanitaria v., ex multis, A. Albanese, L’integrazione socio-sanitaria, in R. Morzenti Pellegrini-V. Molaschi (a cura di), Manuale di legislazione dei servizi sociali, Torino, 2020, in corso di pubblicazione; L. Degani-R. Mozzanica, L’integrazione sociosanitaria, in E. Codini-A. Fossati-S.A. Frego Luppi (a cura di), Manuale di Diritto dei servizi sociali, Torino, 2019, 49 ss.; A. Pioggia, Diritto sanitario e dei servizi sociali, Torino, 2017, 197 ss.

 

3 Sui principi ispiratori del Servizio sanitario nazionale v. R. Balduzzi-D. Servetti, La garanzia costituzionale del diritto alla salute e la sua attuazione nel Servizio sanitario nazionale, in R. Balduzzi-G. Carpani (a cura di), Manuale di diritto sanitario, Bologna, 2013, 78 ss..

 

4 Ci si riferisce alla formulazione antecedente alle modifiche al d.lgs. 502/1992 apportate dal d.lgs. 229/1999.

 

5 Secondo la definizione contenuta nell’atto costitutivo dell’OMS, la salute è «uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non solamente l’assenza di malattie o di infermità».

 

6 OECD, Workforce and Safety in Long-Term Care during the COVID-19 pandemic (ultimo aggiornamento: 22 giugno 2020).

 

7 International Long Term Care Policy Network, Mortality associated with COVID-19 outbreaks in care homes: early international evidence (ultimo aggiornamento: 21 maggio 2020).

 

8 Tale principio, che pone la persona al centro dell’architettura costituzionale, non è un semplice principio, ma «il principio, come ciò che sta appunto all’inizio e, a un tempo, alla fine del percorso costituzionale che con esso si apre e in esso circolarmente si chiude»: A. Ruggeri, Il principio personalista e le sue proiezioni (28 agosto 2013), in federalismi.it, 17/2013, 3.

 

9 Sul rapporto tra i livelli essenziali delle prestazioni e l’integrazione sociosanitaria sia consentito rinviare a V. Molaschi, I rapporti di prestazione nei servizi sociali. Livelli essenziali delle prestazioni e situazioni giuridiche soggettive, Torino, 2008, 215 ss. Per un’analisi più recente v. A. Banchero, Contributi per facilitare l’applicazione degli interventi socio-sanitari dei nuovi Lea, integrati con le attività sociali e riflessioni sulla definizione dei Lep sociali, in Corti Supreme e Salute, 2018, n. 2, 1 ss.

 

10 Corte Cost., 31 marzo 2006, n. 134, in http://www.giurcost.org/, con note di Di Somma, Livelli essenziali di assistenza e leale collaborazione attraverso l’intesa e di Balboni-Rinaldi, Livelli essenziali, standard e leale collaborazione, nonché in Foro it., 2007, I, 364 con nota di richiami. Su tale decisione v. altresì il commento di E. Pesaresi, Art. 117, comma 2, lett. m), Cost.: la determinazione anche delle prestazioni? Tra riserva di legge e leale collaborazione, possibili riviviscenze del potere di indirizzo e coordinamento, in Giur. cost., 2006, 1273 ss.

 

11 Su tale trama di fonti e atti v., con particolare riferimento al Servizio sanitario nazionale, S. Monzani, La articolazione dei servizi sanitari sul territorio tra vincoli pubblicistici ed esigenze aziendali, in M. Andreis (a cura di), La tutela della salute tra tecnica e potere amministrativo, Milano, 2006, 211 ss. Più in generale, per una trattazione dell’organizzazione del Servizio sanitario nazionale v. R. Ferrara, L’ordinamento della sanità, Torino, 2020, in corso di pubblicazione; A. Pioggia, Diritto sanitario e dei servizi sociali, cit., in partic. 43 ss. e 71 ss.; A. Crosetti, Il Servizio sanitario: profili organizzativi, in Trattato di biodiritto, diretto da S. Rodotà-P. Zatti, vol. V, R. Ferrara (a cura di), Salute e sanità, Milano, 2010, 153 ss. In argomento v. altresì E. Menichetti, L’organizzazione aziendale: le aziende unità sanitarie locali, le aziende ospedaliere e le aziende ospedaliero-u­niversitarie, in R. Balduzzi-G. Carpani (a cura di), Manuale di diritto sanitario, cit., 231 ss..

 

12 Sul riparto di potestà legislativa in materia sanitaria v., ex multis, G. Carpani-D. Morana, Le competenze legislative in materia di «tutela della salute», in R. Balduzzi-G. Carpani (a cura di), Manuale di diritto sanitario, cit., 89 ss.

 

13 In tal senso v. il Rapporto di ricerca Esiste un modello sanitario piemontese? (novembre 2017), curato dal CEIMS, Centro d’eccellenza interdipartimentale per il management sanitario dell’Università del Piemonte Orientale, e da Federsanità ANCI Piemonte, in partic. 25 ss.

 

14 Per una panoramica delle fonti che si occupano di servizi sociali e dell’organizzazione amministrativa del settore v. A. Pioggia, Diritto sanitario e dei servizi sociali, cit., 51 ss., 63 ss. e 141 ss. In argomento sia consentito rinviare a V. Molaschi, L’organizzazione amministrativa dei servizi sociali, in R. Morzenti Pellegrini-V. Molaschi (a cura di), Manuale di legislazione dei servizi sociali, cit. Più in generale, per un’analisi critica della l. 8 novembre 2000, n. 328 sul sistema integrato di interventi e servizi sociali è ancora oggi fondamentale E. Balboni – B. Baroni – A. Mattioni – G.Pastori (a cura di), Il sistema integrato dei servizi sociali. Commento alla legge n. 328 del 2000 e ai provvedimenti attuativi dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, Milano, 2007.

 

15 Per tale espressione v. A. Mattioni, La legge-quadro 328/2000: legge di attuazione di principi costituzionali, in E. Balboni-B. Baroni-A. Mattioni-G.Pastori (a cura di), Il sistema integrato dei servizi sociali. Commento alla legge n. 328 del 2000 e ai provvedimenti attuativi dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, cit., 3 ss.

 

16 Il «sistema integrato» di cui alla l. 328/2000 è tale sia per il rapporto pubblico-privato che per le politiche e le azioni dei livelli di governo interessati che per il dialogo e le interazioni tra i vari settori del “sociale”, in senso lato, coinvolti.

 

17 V., ad es., gli artt. 11 l. reg. Piemonte 6 agosto 2007, n. 18 e 16, comma 2, l. reg. Piemonte 8 gennaio 2004, n. 1; 4, l. reg. Lombardia 33/2009, T.U. delle leggi regionali in materia di sanità; 27, l. reg. Toscana 24 febbraio 2005, n. 41, nonché 18 e 19, l. reg. Toscana 24 febbraio 2005, n. 40.

 

18 In tal senso v. il Rapporto di ricerca Esiste un modello sanitario piemontese? (novembre 2017), cit., in partic. 30 ss.

 

19 Per un primo esame delle conseguenze della pandemia in ambito socio-sanitario v. A. Albanese, L’integrazione socio-sanitaria, cit.

 

20 Per questi dati v. A. Pioggia, Coronavirus e sistema sanitario nazionale (16 marzo 2020), in http://www.asimmetrie.org..

 

21 È questo l’auspicio di C. Gori, Voltiamo pagina sull’assistenza agli anziani in casa (22 maggio 2020), in lavoce.info, https://www.lavoce.info/.

 

22 V. il paragrafo precedente.

 

23 In generale, sulla tenuta istituzionale e organizzativa dei diversi servizi sanitari regionali v. G. C. De Martin, Il Servizio sanitario nazionale dopo la pandemia: quale futuro (29 maggio 2020), in Amministrazione In Cammino, https://www.amministrazioneincammino.luiss.it/.

 

24 In generale, sull’incidenza delle scelte organizzative sulla tutela dei diritti sociali sia consentito rinviare a V. Molaschi, La rilevanza dell’organizzazione dei servizi pubblici sull’effettività dei diritti sociali, in M. Renna-C.Miccichè-P. Pantalone (a cura di), La partecipazione dei cittadini all’organizzazione dei servizi sociali. Il caso della metropoli milanese, Napoli, 2020, 27 ss. e, per una lettura alla luce della garanzia del principio di equità, a Id., Programmazione e organizzazione dell’equità in sanità. L’organizzazione come “veicolo” di eguaglianza, in BioLawJournal, 2/2009, 51 ss.

 

25 Ci si riferisce al Report finale, aggiornato al 5 maggio 2020, del Survey nazionale sul contagio COVID-19 nelle strutture residenziali e sociosanitarie, curato dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS). L’ISS, in collaborazione con il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, ha avviato, a partire dal 24 marzo 2020, una raccolta di dati, tramite questionario, sul contagio da Covid-19 nelle residenze sanitarie assistenziali (Rsa). L’indagine ha coinvolto 3417 Rsa presenti in tutte le regioni italiane e nelle due province autonome di Trento e Bolzano, censite e incluse nel sito dell’Osservatorio Demenze dell’ISS, che ricomprende «strutture sanitarie e socio-sanitarie residenziali, pubbliche e/o convenzionate o a contratto, che accolgono persone prevalentemente con demenza», e nei siti delle regioni. I dati presenti nel Report sono stati forniti dai referenti delle Rsa su base volontaria.

 

26 Si v., in particolare, la D.g.r. Piemonte 20 marzo 2020, n. 14-1150, pubblicata il 10 aprile, «Misure emergenziali per far fronte all’epidemia Covid 19. Modalità di attivazione di posti letto in Rsa autorizzate o accreditate. Integrazione alla D.g.r. n. 12-1124 del 13 marzo 2020».

 

27 V. la D.g.r. Lombardia 8 marzo 2020, n. XI/2906, «Ulteriori determinazioni in ordine all’emergenza epidemiologica da Covid – 19».

 

28 Delle 1259 strutture che hanno risposto ai quesiti sulle principali difficoltà incontrate nel corso dell’epidemia, 972 (77,2%) hanno riportato la mancanza di dispositivi di protezione individuale, mentre 263 (20,9%) hanno fatto presente una scarsità di informazioni sulle procedure da svolgere per contenere l’infezione. Inoltre, 123 (9,8%) strutture hanno segnalato una mancanza di farmaci; 425 (33,8%) l’assenza di personale sanitario e 157 (12,5%) difficoltà nel trasferire i residenti affetti da Covid-19 in strutture ospedaliere. Infine, 330 strutture (26,2%) hanno dichiarato di aver avuto difficoltà nell’isolamento dei residenti affetti da Covid-19 e 282 hanno indicato l’impossibilità di far eseguire i tamponi. Poiché questa seconda opzione di risposta è stata aggiunta l’8 aprile, questo numero si riferisce al 52,1% delle strutture che hanno risposto alla domanda come sopra riportata (541). Da ultimo, 272 strutture (21,6%) hanno dichiarato altro.

 

29 Tale aspetto è evidenziato da più autori tra cui G. C. De Martin, Il Servizio sanitario nazionale dopo la pandemia: quale futuro, cit. 3-4.

 

30 La l. 27/2020 ha altresì disposto l’abrogazione del precedente d.l. 14/2020.

 

31 Ai sensi del succitato art. 4 bis, d.l. 18/2020, così come convertito in legge, «Al fine di consentire al medico di medicina generale o al pediatra di libera scelta o al medico di continuità assistenziale di garantire l’attività assistenziale ordinaria, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano istituiscono, entro dieci giorni dalla data del 10 marzo 2020, presso una sede di continuità assistenziale già esistente, una unità speciale ogni 50.000 abitanti per la gestione domiciliare dei pazienti affetti da Covid-19 che non necessitano di ricovero ospedaliero. L’unità speciale è costituita da un numero di medici pari a quelli già presenti nella sede di continuità assistenziale prescelta. Possono far parte dell’unità speciale: i medici titolari o supplenti di continuità assistenziale; i medici che frequentano il corso di formazione specifica in medicina generale; in via residuale, i laureati in medicina e chirurgia abilitati e iscritti all’ordine di competenza».

 

32 Su questi aspetti v. C. Gori, Voltiamo pagina sull’assistenza agli anziani in casa (22 maggio 2020), cit.

 

33 Su tale fenomeno v. M. Consito, La “sanitarizzazione” delle prestazioni di servizio sociale attribuite in via principale alle aziende sanitarie, in R. Cavallo Perin-L. Lenti- G.M. Racca-A. Rossi (a cura di), I diritti sociali come diritti della personalità, Napoli, 2010, in partic. 64 ss.

 

34 A questo riguardo giova ricordare che a tale disposizione l’Unità di Crisi della regione Piemonte ha dato attuazione, in data 25 maggio 2020, con la pubblicazione di un apposito bando.

 

35 In tal senso v. A. Albanese, L’integrazione socio-sanitaria, cit.

 

36 Secondo la disposizione in esame, «I progetti proposti devono prevedere modalità di intervento che riducano le scelte di istituzionalizzazione, favoriscano la domiciliarità e consentano la valutazione dei risultati ottenuti, anche attraverso il ricorso a strumenti innovativi quale il budget di salute individuale e di comunità».

 

37 In tema v., con particolare riferimento alle cure palliative, anch’esse facenti parte della sfera delle attività socio-sanitarie, P. Grazioli, Il ruolo del Terzo settore nel sistema di cure palliative e la sua risposta all’emergenza pandemica, in corso di pubblicazione.