Rassegna 2019-2020 (2)

 

LA GIUNTA REGIONALE RINUNCIA AL GIUDIZIO PROMOSSO PER SOLLEVARE LA QUESTIONE DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE DEL C.D. “DECRETO SICUREZZA SALVINI”

(D.G.R. 22 maggio 2020, n. 7-1392)

La Giunta regionale, all’unanimità, ha autorizzato il suo Presidente a rinunciare al giudizio promosso dalla Regione Piemonte con ricorso in via principale n. 19/2019 dinanzi alla Corte Costituzionale e relativo alla questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, 12, 13, 14, 21, 30 e 31ter del D.L. 4.10.2018 n. 113 (cd “decreto sicurezza Salvini”) recante “Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell’Interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata” convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della L. 1.12.2018 n. 132. La decisione è avvenuta sulla base della nota del 10/06/2019 con cui il Presidente della Regione Alberto Cirio, in vista dell’udienza di discussione innanzi alla Corte Costituzionale prevista per il 19 giugno 2019, aveva richiesto e ottenuto un rinvio dell’udienza, in considerazione del fatto che, essendosi costituita la nuova Giunta il 17 giugno 2019, era necessario un approfondimento e un riesame della questione. Nella deliberazione pubblicata sul B.U. del 18 giugno scorso si legge che non sussiste più in capo alla nuova Giunta – a ormai un anno dal suo insediamento – alcun interesse a coltivare il ricorso in oggetto.

Il ricorso, promosso a fine mandato dall’amministrazione Chiamparino, aveva fatto da apripista rispetto ad altri immediatamente successivi, proposti dalla Regione autonoma Sardegna e dalle Regioni Umbria, Emilia-Romagna, Basilicata, Marche, Toscana e Calabria, dichiarati in parte inammissibili e in parte respinti dalle sentenze n. 194 e 195 del 2019 della Corte costituzionale. Proprio alla luce delle citate pronunce, lo stesso difensore della Regione Piemonte nel giudizio in questione, il Prof. Ugo Mattei, aveva recentemente pronosticato un esito sfavorevole, dato che le questioni erano in parte sovrapponibili a quelle sollevate dalle altre citate Regioni.

Si tratta, dunque, di una decisione prennunciata, che si pone senza dubbio in linea con il nuovo corso delineato dalla Giunta Cirio. [M. Calvo]

  

IL FATTORE FAMIGLIA È UN LEGITTIMO INDICATORE INTEGRATIVO DELL’ISEE CHE RIGUARDA UNICAMENTE PRESTAZIONI PER LE QUALI NON OPERA IL CRITERIO DI UNIFORMITÀ SULL’INTERO TERRITORIO NAZIONALE

(Corte costituzionale, sent. 15 maggio 2020, n. 91, Pres. Cartabia, Red. Carosi)

Sul tema si vedano gli approfondimenti di M. Bergo e T. Cerruti, in questa Rivista n. 2/2020

 

La Corte costituzionale ha definito il giudizio di legittimità costituzionale relativo agli artt. 3, comma 1, lettera a), e 4 della legge della Regione Piemonte 9 aprile 2019, n. 16, in riferimento agli artt. 3 e 117, terzo comma, Cost., promosso in via principale dal Governo, fornendo una «interpretazione costituzionalmente orientata» del c.d. “Fattore Famiglia”. Esso è definito dalla citata legge regionale piemontese uno «specifico strumento integrativo per la determinazione dell’accesso alle prestazioni erogate dalla Regione e dai soggetti aventi titolo» (art. 1), nonché un «indicatore sintetico della situazione reddituale e patrimoniale che integra ogni altro indicatore, coefficiente o quoziente, comunque denominato» (art. 2). Due le questioni di legittimità costituzionale sollevate: la prima avente a oggetto la sua applicazione nell’ambito delle «prestazioni sociali e sanitarie, comprese le compartecipazioni alla spesa» (art. 3), la seconda in relazione ai criteri e alle modalità attuative di cui all’art. 4.

Secondo la tesi sostenuta dall’Avvocatura dello Stato, detto indicatore violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera m), e terzo comma, Cost., con riguardo ai principi fondamentali in materia di «coordinamento della finanza pubblica» dettati dall’art. 8, comma 15, della legge n. 537 del 1993 e dall’art. 17, comma 6, del d.l. n. 98 del 2011. Il censurato art. 3, non essendo sufficientemente chiaro nella parte in cui disciplina l’utilizzo del suddetto indicatore con riguardo all’accesso e alle compartecipazioni alla spesa relativa alle prestazioni di carattere sanitario, si porrebbe in contrasto con la richiamata normativa nazionale. Quest’ultima infatti, stabilendo la quota a carico dell’assistito della spesa per l’assistenza specialistica ambulatoriale, non contemplerebbe la possibilità di rimodulazione in base alla situazione economica del soggetto.

Inoltre, il Presidente del Consiglio dei Ministri lamentava l’illegittimità dell’art. 4 della disciplina piemontese il quale, demandando alla Giunta regionale la «definizione di specifiche agevolazioni integrative di quelle previste dalla normativa statale», sarebbe lesivo della competenza legislativa esclusiva statale in materia di determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale (art. 117, secondo comma, lettera m, Cost.), perché si sovrapporrebbe alla regolamentazione statale nella determinazione e nell’applicazione dell’indicatore della situazione economica (ISEE) ai fini dell’accesso alle prestazioni sociali agevolate.

La Consulta, dopo aver ricostruito il quadro normativo statale riguardante le modalità di accesso e di compartecipazione al costo delle prestazioni sanitarie (c.d. ticket), anche alla luce dei precedenti indirizzi giurisprudenziali, ha affermato che il censurato art. 3 colliderebbe con i parametri evocati ove fosse interpretato nel senso che «l’applicazione del Fattore famiglia alteri – incrementandolo o riducendolo – l’indefettibile assetto unitario delle compartecipazioni dirette degli utenti fissate dalla normativa statale». È invece possibile, secondo la Corte, giungere a un’interpretazione costituzionalmente orientata partendo dalla ratio legis «ispirata a un intervento d’insieme, per favorire l’accesso e la fruizione delle prestazioni in relazione alla situazione complessiva della famiglia». Secondo il Giudice delle leggi il c.d. “Fattore Famiglia” «non comporta alcuna integrazione normativa del regime delle compartecipazioni alle spese socio-sanitarie (…) come fissato dalla legislazione statale, riguardando unicamente la possibilità di modulare i costi individuali relativi alle altre tipologie di prestazioni per le quali non opera il criterio di uniformità sull’intero territorio nazionale».

Anche la seconda delle questioni sollevate è stata ritenuta non fondata. La Corte costituzionale, nel ricostruire la normativa ISEE di cui al d.P.C.m 159/2013, ha affermato che «la competenza statale di cui all’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost. – alla quale è stata ricondotta la normativa dell’ISEE (…) – non attiene a una “materia” in senso stretto, ma costituisce una competenza esclusiva e “trasversale”, idonea a investire una pluralità di materie». Essa «incide in modo significativo sulla competenza residuale regionale in materia di “servizi sociali” e, almeno potenzialmente, sulle finanze della Regione, che sopporta l’onere economico di tali servizi». In quest’ottica l’applicazione delle metodologie ISEE, ascrivibili alla competenza esclusiva statale, lascerebbe ampie prerogative alle Regioni le quali possono dunque prevedere, accanto all’ISEE, criteri ulteriori di selezione volti a identificare specifiche platee di beneficiari, tenuto conto delle attribuzioni regionali specificamente dettate in tema di servizi sociali e socio-sanitari. Pertanto, conclude la Corte «l’ascrivibilità della disposizione impugnata anche alla materia regionale residuale “servizi sociali” legittima l’esercizio della potestà legislativa regionale».

A parere di chi scrive, la pronuncia in esame, se da un lato sembra essere chiara e condivisibile con riguardo alla seconda delle questioni sottoposte all’attenzione della Corte, non sembra altrettanto esaustiva nel fornire un’interpretazione «costituzionalmente orientata» dell’art. 3 cit., lasciando parecchi interrogativi circa la reale portata applicativa della norma in questione. Per un maggiore approfondimento sul punto si rimanda alla nota a sentenza contenuta all’interno del presente numero della rivista. [M. Calvo]

  

STOP ALLA STABILIZZAZIONE DEI MEDICI DEL 118 PRIVI DEL TITOLO DI FORMAZIONE SPECIFICA IN MEDICINA GENERALE..IN PIENA EMERGENZA CORONAVIRUS

(Corte costituzionale, sent. 6 marzo 2020, n. 38, Pres. Cartabia, Red. Prosperetti) 

 

Con la pronuncia in oggetto è stato definito il giudizio di legittimità costituzionale relativo all’art. 135 della legge della Regione Piemonte 17 dicembre 2018, n. 19 (Legge annuale di riordino dell’ordinamento regionale. Anno 2018), in riferimento agli artt. 3 e 117, terzo comma, Cost., promosso in via principale dal Governo. Il Presidente del Consiglio dei Ministri lamentava l’illegittimità del suddetto art. 135, rubricato «Servizi di emergenza e urgenza territoriale 118», a norma del quale: «il personale medico, in servizio presso le strutture del sistema di emergenza-urgenza territoriale 118 delle ASR della Regione Piemonte che (…) ha maturato un’anzianità lavorativa di tre anni, può accedere alle procedure di assegnazione degli incarichi convenzionali a tempo indeterminato destinate al servizio di emergenza-urgenza 118». Tale norma consentiva l’assunzione di personale medico privo del diploma di formazione specifica in medicina generale – anche se in via subordinata – prevedendo per questi ultimi un’apposita graduatoria distinta da quella riservata ai medici in possesso del suddetto titolo. La norma prevedeva, inoltre, come requisito essenziale ai fini dell’assunzione a tempo indeterminato, il possesso dell’attestato d’idoneità all’esercizio dell’emergenza sanitaria territoriale. In ogni caso, alle suddette procedure di assegnazione degli incarichi era consentita la partecipazione anche di coloro che, privi dell’attestato d’idoneità, risultassero iscritti allo specifico corso volto a ottenerlo. Il mancato conseguimento del titolo entro il termine previsto avrebbe costituito giusta causa di decadenza dall’incarico stesso.

Secondo il ricorrente, la normativa piemontese si sarebbe posta in contrasto sia con l’art. 117, terzo comma Cost., sia con l’art. 3 Cost. In riferimento al primo parametro, vi sarebbe stato un contrasto con i principi fondamentali della legislazione statale nelle materie di legislazione concorrente «professioni» e «tutela della salute», desumibili dal combinato disposto dell’art. 21 del d.lgs. n. 368 del 1999, dell’art. 66 del D.P.R. n. 270 del 2000, dell’art. 16 dell’Accordo collettivo nazionale (ACN) del 23 marzo 2005, nonché dell’art. 3 dell’ACN del 21 giugno 2018. In riferimento al secondo, invece, la norma censurata avrebbe determinato «una evidente disparità di trattamento tra i medici che partecipano alle procedure di conferimento dei detti incarichi in Piemonte e quelli che invece vi prendono parte in altre Regioni».

Con riguardo alle asserite violazioni, la difesa regionale piemontese ha formulato diverse eccezioni. In rito, le censure dell’Avvocatura Generale dello Stato sarebbero state prive di adeguate motivazione e senza una precisa indicazione dei principi fondamentali violati. Nel merito, invece: a) la normativa censurata sarebbe stata posta in essere allo scopo di far fronte alla cronica carenza di personale medico addetto al servizio di emergenza-urgenza territoriale 118; b) il conferimento dell’incarico sarebbe avvenuto soltanto in via subordinata rispetto all’assunzione di medici con entrambi i requisiti; c) non vi sarebbe stata alcuna modifica in pejus dei livelli di tutela degli assistiti in quanto i titoli richiesti per l’assunzione a tempo indeterminato sarebbero stati uguali a quelli previsti dalla normativa statale per il conferimento degli stessi incarichi a tempo determinato; d) non vi sarebbe stata alcuna lesione al principio di uguaglianza in quanto alle suddette procedure avrebbero potuto partecipare i medici operanti presso qualsiasi struttura delle aziende del Servizio sanitario nazionale italiano. A integrare tali argomentazioni, la difesa della Regione Piemonte aveva depositato una memoria nella quale aveva evidenziato come la norma censurata fosse perfettamente in linea con quanto stabilito dal legislatore statale, sia nel d.l. n. 135 del 2018, convertito, con modificazioni, nella legge n. 12 del 2019, sia nel d.l. n. 35 del 2019, convertito, con modificazioni, nella legge n. 60 del 2019. Tali norme consentono, infatti, ai laureati in medicina e chirurgia, abilitati all’esercizio professionale e iscritti al corso di formazione specifica in medicina generale, di partecipare all’assegnazione degli incarichi convenzionali. Inoltre, ai medici che negli ultimi dieci anni abbiano svolto almeno ventiquattro mesi di attività, anche non continuativi, nelle funzioni della medicina generale e che siano risultati idonei a uno dei concorsi precedenti per il triennio di formazione specifica, è permesso accedere al relativo corso tramite graduatoria riservata. Secondo la difesa regionale, la norma censurata era da ritenersi «perfettamente coerente con il complessivo quadro normativo che privilegia l’esperienza professionale del medico rispetto alla necessità del completamento di un percorso formativo specifico». Sia la normativa piemontese, sia i citati interventi statali, erano accomunati dalla medesima ratio, consistente nella volontà di «superare la ormai cronica carenza di personale nel SSN determinatasi negli anni a seguito del blocco del turn-over anche in relazione, in particolar modo, ai limiti di spesa previsti dalla legislazione vigente».

Questa tesi è stata bocciata in toto dalla Corte costituzionale che, con la sentenza in esame, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’intero art. 135 della l. reg. Piemonte n. 19 del 2018, per violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., ribadendo il principio della necessità del possesso dell’attestato di formazione in medicina generale, salvo le deroghe disposte dal legislatore statale. A riguardo, pare opportuno ricordare che il regime normativo circa l’accesso alle professioni mediche è da tempo oggetto di forti critiche, stante la carenza di personale che ha costretto molte Regioni a ricorrere all’assunzione con contratti a tempo determinato di medici specializzandi e medici in quiescenza, tra le quali proprio quelle che hanno fatto ricorso al procedimento per una differenziazione ex art. 116, co. 3 Cost. (sul punto si veda: D. Servetti, Mani legate per le Regioni? Considerazioni intorno al ricorso governativo in tema di stabilizzazione del personale medico convenzionato, in «Osservatorio sulle fonti», Fascicolo 3/2019).

Questa situazione si è trasformata nell’arco di poche settimane in una vera e propria emergenza, a causa della pandemia da Coronavirus, che ha reso necessario un intervento urgente da parte del Governo. In data 10 marzo 2020, infatti, è entrato in vigore il decreto legge n. 14/2020 che, nel Capo I intitolato “Potenziamento delle risorse umane del Servizio sanitario nazionale” (artt. 1 – 4), ha previsto l’assunzione di 20 mila unità di personale medico (Oss, medici e infermieri) – senza bandire un concorso pubblico – con contratto individuale a tempo determinato di durata iniziale pari a 6 mesi, prorogabili in caso di eventuale prosecuzione dell’emergenza. Tra questi, potranno essere assunti i laureati in medicina e chirurgia abilitati, anche durante la loro iscrizione ai corsi di specializzazione o ai corsi di formazione specifica in medicina generale. Le Regioni, a loro volta, avranno facoltà di rideterminare i piani di fabbisogno del personale e potranno richiamare in servizio i medici e gli operatori sanitari in pensione.

La pronuncia in esame suscita molte perplessità, soprattutto in un momento come quello attuale in cui l’emergenza epidemiologica da COVID-19 ha determinato una situazione di forte stress per l’intero SSN, ma in particolar modo per i diversi SSR maggiormente colpiti dal contagio. Le misure palliative adottate dal Governo hanno previsto il ricorso a forme straordinarie di assunzioni di personale medico e socio-sanitario, ma comporteranno presto la necessità di avviare un dibattito politico molto più serio e articolato. Al termine dell’emergenza, infatti, occorrerà pensare a tempi e modalità di stabilizzazione di migliaia di professionisti. In questa prospettiva, se i tempi necessari per una riforma organica del settore sembrano essere lunghi e, forse, ancora lontani, l’auspicio è che il periodo di “quarantena” possa servire a una riflessione profonda. (M. Calvo)

 

NON È ILLEGITTIMA L’ADDIZIONALE IRES NEI CONFRONTI DI OPERATORI DEL MERCATO FINANZIARIO AVENTI NUOVE E PIÙ EVOLUTE FORME DI CAPACITÀ CONTRIBUTIVA

(Corte costituzionale, sent. 23 dicembre 2019, n. 288, Pres. Carosi, Red. Antonini)

Con la sentenza in esame sono stati definiti i giudizi di legittimità costituzionale relativi all’art. 2, comma 2, del decreto-legge 30 novembre 2013, n. 133 (Disposizioni urgenti concernenti l’IMU, l’alienazione di immobili pubblici e la Banca d’Italia), convertito, con modificazioni, nella legge 29 gennaio 2014, n. 5, sollevati in via incidentale rispettivamente dalla Commissione tributaria regionale per il Piemonte e dalla Commissione tributaria di secondo grado di Trento. 

Le questioni sono sorte nell’ambito di giudizi che traevano origine da due ricorsi presentati rispettivamente dalla società finanziaria Online SIM S.p.A. e dalla società assicuratrice ITAS VITA S.p.A., avverso il silenzio-rifiuto formatosi sulle loro istanze di rimborso relative al pagamento dell’addizionale IRES per l’anno d’imposta 2013. 

Le principali doglianze mosse dai giudici a quibus riguardavano: a) l’asserita violazione dell’art. 77, secondo comma, Cost., in quanto le norme di cui al provvedimento statale sarebbero state adottate in assenza dei requisiti di legittimità della decretazione d’urgenza; b) l’asserito contrasto del decreto-legge con gli artt. 3 e 53 Cost. 

In relazione alla prima censura, entrambe le Commissioni tributarie hanno ritenuto che non vi fosse alcuna situazione straordinaria preesistente: il decreto-legge sarebbe stato adottato in una fase di congiuntura economica negativa iniziata nel 2008 e pertanto divenuta ormai ordinaria, sicché vi sarebbe stato un palese difetto dei requisiti di necessità e urgenza. Inoltre, la norma denunciata sarebbe stata funzionale alla copertura finanziaria del minore gettito fiscale derivante dall’abolizione della seconda rata dell’IMU per il 2013, disposta dall’art. 1, comma 1, del medesimo d.l. n. 133 del 2013. L’addizionale avrebbe, pertanto, risposto a una necessità che non preesisteva alla decretazione d’urgenza, essendo stata determinata contestualmente dal Governo stesso. Dunque «la medesima decretazione di urgenza sarebbe stata l’origine dei propri presupposti di straordinaria necessità e urgenza più che la tempestiva risposta ad essi», determinando così un vulnus all’art. 77, secondo comma, Cost. 

Con riferimento alla lesione degli artt. 3 e 53 Cost. veniva, invece, contestato che «dalle caratteristiche dei settori creditizio, finanziario e assicurativo possano essere desunti fatti economici sintomatici di una peculiare ed effettiva capacità contributiva», determinando così un’irragionevole disparità di trattamento impositivo nei confronti di soggetti privi, in concreto, di una «ricchezza maggiore» rispetto «alle altre imprese egualmente soggette all’IRES ma escluse dal pesante aggravio fiscale», consistente in un’addizionale di ben 8,5 punti percentuali.

A una conclusione totalmente differente è giunta la Corte costituzionale che, nel dichiarare non fondate le censure all’art. 2, secondo comma, del decreto legge n. 133 del 2013, ha anzitutto escluso che vi sia stata quell’evidente insussistenza dei presupposti di necessità e urgenza tale da ravvisare, nel caso di specie, l’incostituzionalità del decreto-legge in parola. Secondo la Consulta, infatti, «benché sia corretta la premessa da cui muove la CTR piemontese, non è altrettanto condivisibile la conseguenza che essa ne trae in ordine alla dedotta violazione dell’art. 77, secondo comma, Cost. (…) La finalità della norma, infatti, conduce, al contrario, a escludere che nella fattispecie ricorra un’ipotesi di evidente mancanza dei presupposti di straordinaria necessità e urgenza (…)». In particolare, dalla constatazione che «la preesistenza (…) del caso straordinario di necessità e d’urgenza (…) rappresenta un presupposto della decretazione d’urgenza, (…) non si può inferire un generale corollario per cui la situazione posta a fondamento del decreto-legge dovrebbe indefettibilmente precedere l’intervento normativo urgente». Nel caso di specie «l’esigenza che il censurato art. 2, comma 2, del d.l. n. 133 del 2013 mira a soddisfare è difatti preordinata (…) al rispetto del principio di copertura finanziaria posto dall’art. 81, terzo comma, Cost. (…): il legislatore, altrimenti, sarebbe venuto meno all’obbligo di indicare la relativa fonte di copertura». Secondo la Corte, una diversa interpretazione condurrebbe paradossalmente a «ritenere che non sia mai consentito, in sede di decretazione d’urgenza, adottare norme che comportino nuove spese e/o minori entrate, poiché il Governo non potrebbe mai rispettare il dettato costituzionale provvedendo contestualmente a reperirne la relativa copertura finanziaria. Ma una siffatta conclusione si pone in contrasto con (…) l’obbligo, imposto dall’art. 81 Cost., di darsi carico delle conseguenze finanziarie delle leggi». Peraltro, secondo il Giudice delle leggi, lo specifico contesto nel quale la disposizione è stata dettata e la sua specifica finalità, consistente nell’apprestare un rimedio funzionale a sostenere i soggetti ritenuti in maggiore difficoltà, condurrebbero a escludere «che nella specie possa ritenersi con evidenza insussistente il presupposto della straordinaria necessità e urgenza di provvedere». 

Per quanto concerne, invece, il merito della norma censurata, la Corte ha espresso importanti principi, in parte riassunti nel comunicato stampa pubblicato il 23 dicembre 2019. Anzitutto, è stato ribadito che «il dovere tributario è un valore costituzionale e si configura come dovere inderogabile di solidarietà in quanto preordinato a finanziare il sistema dei diritti costituzionali (sociali e civili), i quali, per diventare effettivi, richiedono ingenti quantità di risorse. Disattenderlo significa quindi pregiudicare proprio il dovere di solidarietà e la tutela dei diritti costituzionali. Peraltro, i valori di altissima civiltà giuridica sottesi al dovere tributario si mantengono evidenti fintantoché il sistema rimanga saldamente ancorato al complesso dei princìpi e dei relativi bilanciamenti che la Costituzione prevede e consente, tra i quali il rispetto della capacità contributiva (articolo 53 Cost.)». 

Nel caso di specie, la Consulta ha escluso che con l’introduzione dell’addizionale IRES a carico delle sole imprese finanziarie, creditizie e assicurative il legislatore sia sconfinato nell’arbitrarietà dell’imposizione. Secondo la Corte, infatti, tale tributo «si inseriva in un contesto di interventi che hanno prodotto nel sistema tributario significativi effetti compensativi per gli stessi soggetti passivi».  Inoltre, «nella comparazione con il mercato industriale, il legislatore ha desunto, solo per il 2013, dall’appartenenza al mercato finanziario uno specifico e autonomo indice di capacità contributiva; al tempo stesso, però, ha mostrato di bilanciare gli interessi in gioco venendo incontro a una puntuale esigenza dei settori finanziario, creditizio e assicurativo, perché è intervenuto sul regime delle svalutazioni e delle perdite deducibili, introducendo un’attenuazione dell’imposizione ordinaria IRES e IRAP». Secondo la Corte, dunque, in un contesto «in cui la capacità contributiva presenta elementi di accentuata dinamicità, l’introduzione della sovraimposta censurata è servita a dare copertura finanziaria a un’operazione redistributiva per alleggerire, in un periodo di difficile e critica congiuntura economica, il carico fiscale derivante dal pagamento della seconda rata IMU». 

Importante è il principio enunciato dalla Corte in ordine ai “nuovi indici di capacità contributiva”: accanto a quelli tradizionali come il patrimonio e il reddito possono rilevare anche altre e più evolute forme di capacità, in grado di denotare una certa forza o potenzialità economica. 

All’indomani della pubblicazione della sentenza in esame, l’attenzione della dottrina si è concentrata sul confronto con il noto precedente costituito dalla sentenza n. 10 del 2015, con la quale la Corte aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale della c.d. Robin Tax, ossia dell’addizionale IRES, introdotta nel 2008 dal Governo, nei confronti delle imprese operanti in settori quali la produzione e la commercializzazione di benzine, petroli e gas, che avessero conseguito nel periodo d’imposta precedente ricavi superiori a una certa soglia. Anche in quel caso la maggiorazione d’imposta era stata concepita dall’esecutivo come una misura eccezionale, legata alla particolare congiuntura economica e finalizzata a trasferire, in chiave redistributiva, il peso fiscale dai consumatori alle imprese. Tuttavia, ad avviso di chi scrive, pare opportuno segnalare che rispetto al suddetto precedente vi sono alcune significative differenze che giustificano quello che, a prima vista, potrebbe apparire come un vero e proprio revirement della Corte. Anche nel caso precedente, lo scopo perseguito dal legislatore era stato considerato «in sé e per sé legittimo», stante l’eccezionale crisi economica, all’epoca appena scoppiata. Tuttavia, la Robin Tax presentava alcune peculiarità che consentono di giungere a soluzioni differenti. Infatti: a) diversamente dall’addizionale IRES di cui all’art. 2, comma 2, del d.l. n. 133/2013, prevista solo per il periodo d’imposta 2013, la Robin Tax era diventata una misura a carattere permanente, strutturale e, dunque, del tutto slegata dalla situazione congiunturale che ne aveva giustificato l’istituzione; b) essa non era rivolta a soggetti economici dotati di specifici e autonomi indici di capacità contributiva, ma soltanto a quei soggetti che, per una mera circostanza eccezionale, costituita dal repentino aumento del prezzo petrolio, avevano potuto conseguire ricavi straordinari; c) essa avrebbe dovuto colpire soltanto i sovra-profitti e non l’intero ammontare del reddito d’impresa. Dunque, seppur in astratto legittima, il modo in cui è stata applicata in concreto ha condotto la Corte a dichiararla illegittima «sotto il profilo della ragionevolezza e della proporzionalità, per l’incongruità dei mezzi approntati dal legislatore rispetto allo scopo».

In questa prospettiva, pare quindi corretta la diversa conclusione alla quale è giunta la Corte nel diverso caso analizzato. (M. Calvo)