La comunicazione istituzionale della Regione Piemonte di fronte all’emergenza COVID-19. Intervista a Josè Urso, portavoce del presidente della Regione Piemonte e a Osvaldo Bellino, responsabile comunicazione Unità di crisi

Marinella Belluati1

La ragione di fare un’intervista a chi ha gestito direttamente la comunicazione della crisi Covid-19 con responsabilità istituzionali è che durante il momento più critico della pandemia il flusso delle notizie è stato concentrato sul racconto emergenziale e meno sulle strutture che lo hanno gestito sul versante istituzionale. La difficoltà di trattare un tema così delicato e imprevisto a livello narrativo e organizzativo è un dato di sistema importante per gli studi di comunicazione istituzionale. Cos’è successo dal lato della gestione delle risorse e dei flussi di informazione? Come l’istituzione pubblica ha affrontato il proprio ruolo di interposizione e a quali protocolli ha attinto o a creato durante gestione della crisi. Questi interrogativi li abbiamo posti a Josè Urso, portavoce del presidente della Regione Piemonte, e Osvaldo Bellino, responsabile comunicazione unità di crisi, in un’intervista che hanno rilasciato il 15 luglio in cui con precisione analitica hanno ripercorso tre mesi di comunicazione d’emergenza. La ricostruzione è ampia e dettagliate e non vengono nascoste le criticità incontrate; si sarebbe potuto fare diversamente e meglio, come sempre, ma il quadro che emerge è di un approccio ponderato che ha cercato di gestire in brevissimo tempo una situazione inimmaginabile da prevedere.

 

Come la comunicazione della Regione ha affrontato l’emergenza Covid-19?

L’emergenza Covid ha messo in evidenza delle forti tensioni presenti nel nostro lavoro di comunicatori pubblici che si sono dovuti muovere con molta difficoltà tra diritto all’informazione e alla cronaca, diritto alla privacy e obbligo alla trasparenza. Ci sono molte carte etiche che parlano di questi temi, però in momenti di emergenza non funzionano, un po’ perché pensate in un contesto in cui il sistema dell’informazione era differente, un po’ perché limitano proprio alcune azioni emergenziali. Nel momento in cui si deve far informazione pubblica e di servizio in una situazione come quella che abbiamo vissuto ci si rende conto che qualunque cosa si faccia è sbagliata. Quando io vado a dire dove sono i contagi e indico i paesi dove sono avvenuti, più il centro è piccolo e più lo espongo immediatamente al rischio di scatenare la caccia all’untore. Allora cosa fare? Fornire un dato macro può essere una strategia, ma d’altra, per questioni di tutela della propria incolumità, sono lecite anche le richieste dei cittadini richieste di maggior precisione sul dato. Lo stesso giorno riceviamo una email da parte di una cittadina cinese che rientrata in Italia chiede, per sua sicurezza, le vengano forniti i dati precisi sui luoghi del contagio, perché da loro funziona così ed è preoccupata. Contestualmente, ci arriva un’altra mail di una famiglia di un piccolo centro che dopo la nostra pubblicazione dei dati sui decessi, avendo avuto loro un lutto l’unico in paese, si sono sentiti al centro di un’attenzione spropositata. Ricordo anche il caso del vecchietto che voleva lasciare Torino per rifugiarsi in un paesino in val di Susa dove aveva una casa, aveva pur diritto di sapere se lì ci sono contagi? Chi ha ragione? Avranno diritto di sapere e noi di informare! Perché si doveva nascondere il dato? Ma diffondendo quel dato sapevamo che potenzialmente si sarebbero esposte le persone ad un’attenzione pubblica eccessiva. In quel momento e in quella situazione occorreva stabilire una regola equilibrata. Premesso che non abbiamo mai pubblicato nomi, in una situazione normale la cosa non avrebbe sollevato problemi, ma in una situazione come quella che abbiamo vissuto, una semplice informazione, pur generica, rende riconoscibili le famiglie e i soggetti e scatena reazioni dei cittadini alla caccia di untori e dei media alla caccia di notizie. Ora che le acque si sono calmate sarebbe opportuno avviare una riflessione con i giornalisti sull’efficacia e le contraddizioni delle carte deontologiche durante la crisi. La Carta di Torino del 2001 sui temi della salute dice un po’ tutto e il suo contrario. Una settimana prima che scoppiasse il Covid avevamo fatto un corso di formazione per giornalisti organizzato dall’Assessorato alla Salute proprio sull’emergenza per informare e decidere quali eccezioni prevedere. Arrivata la botta però l’impalcatura si è subito mostrata fragile e ora si deve aprire un dibattito. (Osvaldo Bellino)

Oltre al mondo del cittadino si deve gestire anche quello con l’informazione che ha le sue fonti territoriali. Quando il giornalista ottiene un’informazione, addirittura arrivando all’identità delle persone, e chiede conferma all’istituzione, ti ritrovi a dover decidere cosa fare. Confermare? Ma così facendo ledi il diritto alla privacy. Non confermare aprendo altri margini di criticità? Il tema è complesso e si aggiunga che il mondo digitale accelerando moltissimo la propagazione delle informazioni non ne sta aiutando la gestione ponderata, corretta, verificata e tutelante. La fretta di pubblicare prima di qualcun altro e in fretta genera un effetto spesso controproducente anche se in un’ottica di servizio pubblico. Questo si è visto tantissimo nella comunicazione dei decreti e delle ordinanze. Cosa succede quando vengono messi in lavorazione questi strumenti? Vengono condivise delle bozze tra soggetti che hanno il compito di esprimere il loro punto di vista ed integrarle. Quel documento, che viene solitamente condiviso tramite mail o chat interne, nell’arco di pochissimo tempo riesce a finire nelle reti più impensabili, le mamme di una scuola o del gruppo calcetto del martedì, e quello che non è ancora un documento definitivo viene percepito come un atto compiuto generando una serie di reazioni senza fine e un vero e proprio caos di massa. Noi lo abbiamo vissuto con la prima ordinanza di chiusura delle scuole che è stata data per fatta quando ancora era in fase di elaborazione e pubblicata sul sito di una testata che, per esigenza interna, ha forzato il processo dando per certa una decisione ancora in itinere. Se chi scrive un titolo afferma che le scuole l’indomani saranno chiuse per ordinanza, quando la decisione è ancora in corso, genera un effetto differente rispetto al dire che sono allo studio misure per chiuderle. Nel dare informazioni non accertate e prima del tempo si produce incertezza e la gente viene spinta a cercare conferma dalle fonti ufficiali, non trovandola, perché la decisione non è ancora stata presa, prende d’assalto i centralini lancia allarme nelle chat private e così si genera il panico. Durante i primi giorni dell’emergenza si è anche dovuto gestire questo aspetto, in una situazione dove i canali avrebbero dovuto essere lasciati più liberi possibile per affrontare l’emergenza sanitaria, si è assistito ad un intasamento del numero verde e delle linee telefoniche della Regione che ha portato per un giorno intero al collasso della rete rallentando le attività dell’ente. Questo si è riprodotto un po’ ovunque e a tutti i livelli istituzionali, tanto a livello regionale che ministeriale. Far viaggiare le informazioni ufficiose per la fretta di pubblicale, in contesti di emergenza come quello appena vissuto, è risulta gravoso per chi stava gestendo la situazione ma anche per chi la stava subendo. Purtroppo su questo fronte è stato difficile trovare un argine solido, tranne che il selezionare molto le informazioni da condividere, cosa che però si può sempre fare fino ad un certo punto perché il lavoro di gestione necessita anche di diffusione e di implementazione. Che tu sia un organo di informazione, un politico, un funzionario o la mamma in chat, chi diffonde contenuti non certificati, spesso non si rende conto pienamente della gravità del fatto e dell’impatto. anche se dal lato dei media si aggiunge anche la premura di essere i primi a dare la notizia. (Josè Urso)

 

Quali nuove modalità e risorse di comunicazione avete attivato?

La gestione dell’emergenza dal punto di vista operativo sanitario e della protezione civile e dal lato istituzionale ed amministrativo sono state messe in campo delle strategie mirate. Se ci sarà un’onda di ritorno ci sentiamo più robusti perché abbiamo imparato dalla situazione. La pandemia ha segnato una linea tra un prima e un dopo. Di sicuro ha colto l’intero sistema alla sprovvista perché nessuno era preparato a gestire una situazione del genere e il territorio non era strutturato a farlo. Ad esempio, venendo al tema dei tamponi, quando è scoppiato il caos il Piemonte aveva solo due laboratori in grado di eseguire circa 200 tamponi al giorno, oggi ne abbiamo 24 con una media di 10.000 tamponi giornalieri e ciò è accaduto in pochi mesi, non anni. La rete territoriale che poteva fare da prima sentinella non era attrezzata, ma in pochissime settimane il sistema si è ristrutturato ed adesso è più robusto e si è dotato di un protocollo di intervento. Sul fronte della comunicazione sono invece più cauta perché si deve ancora fare una riflessione su cosa è stato e cosa come si può ancora migliorare. Dal punto di vista dell’informazione pubblica i problemi sono stati quelli che dicevamo. Prima di tutto, ci sono oggi troppi soggetti fonte di informazione e canali aperti. Quando sono così tanto estese le fonti ed estesi i veicoli d’informazione, tenerli sotto controllo è veramente difficile. O si stabiliscono in regime di crisi conseguenze penali per chi diffonde informazioni non verificate, ma questo è impensabile perché lede la libertà di espressione e il diritto d’informazione e si entra nel campo minato della censura, un problema che altri contesti come quello cinese non hanno avuto, oppure si punta a far crescere il senso di responsabilità di media e cittadini. Si tenga presente che nei tre mesi di emergenza piena non si è parlato altro di Covid e questo è stato sconvolgente perché sono passate in secondo piano tutte le gestioni ordinarie della salute e dell’attività istituzionale. La verità è che il resto non si era fermato. Però dato che tutta l’attività istituzionale era toccata dall’emergenza, si è deciso di fare un coordinamento con l’unità di crisi affinché la comunicazione fosse condivisa e non sovrapposta. In tempi normali, ai quali stiamo ritornando, non succede così perché ogni assessorato mantiene una capacità autonoma di comunicare sui propri temi e di stabilire modalità di relazionarsi con i cittadini. In situazioni normali la gestione ordinaria avviene attraverso una condivisione attraverso chat o durante incontri settimanali in cui si socializzano decisioni e documenti ufficiali e dove anche gli staff di comunicazione si confrontano. Durante il Covid questa pratica è saltata e adesso che siamo nel post stiamo cercando di riportarla alla normalità anche se, va detto, la modalità smart working non ha ancora permesso di tornare a pieno regime. (Josè Urso)

In quel momento era necessario trasmettere un messaggio unitario e non dispersivo. Inoltre data la tecnicità di alcune informazione la verifica centralizzata era necessaria per evitare incomprensioni e malintesi. Si è reso necessario un coordinamento energico per non correre il rischio di perdere il controllo, per questo si è istituita l’unità di crisi. Prima dell’emergenza non era ovviamente attiva l’unità di crisi, per cui la Regione era attrezzata a fare comunicazione istituzionale attraverso i suoi vari settori ed ogni assessorato ha un proprio staff. Con la costituzione dell’unità di crisi si è deciso di accentrare l’informazione. Questo perché fino a quel momento i soggetti titolati a parlare per il territorio erano tanti. Nel caso della salute, il primo sono le ASL, se ognuno dei virologi e degli epidemiologi delle 18 Aziende Sanitarie presenti sul territorio piemontese avesse detto la sua si sarebbe generato una situazione di caos. All’inizio era un po’ così, ma poi siamo intervenuti. Ci sono stati problemi iniziali legati alla comunicazione dei contagi e dei ricoveri, in quel caso si è deciso di accentrare la comunicazione così come è successo per le informazioni sulla terapia intensiva. L’unità di crisi ha gestito anche la distribuzione dei ricoveri sull’intero territorio. Si è accentrata anche la comunicazione degli stessi assessorati, nel senso che le materie di competenza che andavano ad impattare nel campo dell’emergenza, praticamente tutte, sono state coordinate a livello centrale. (Osvaldo Bellino)

 

Ci sono state delle strategie più efficaci? E altre meno? Fate alcuni esempi.

Per quanto riguarda il mio ruolo di portavoce, anche se ho dato un giudizio negativo degli effetti prodotti dal cattivo uso di Whatsapp in termini di circolazione di rumors e di notizie infondate, allo stesso tempo dal punto di vista del potenziale strumenti come questi consentono nuove possibilità e strategie di comunicazione istituzionale. È successo per esempio con la chat dei giornalisti che ha funzionato di più che di altri strumenti di comunicazione, come le mail, le telefonate o le conferenze stampa. Alcune nuove possibilità, più dirette e informali come questa, ti permettono di creare delle chat broadcast che possono essere usate per diffondere in modo immediato e diretto l’informazione istituzionale. Questo tipo di utilizzo controllato alla fonte è per me una pratica di lavoro normale e lo è diventata ancora di più durante l’emergenza perché mi ha permesso di dare come Regione immediatamente e direttamente le informazioni ufficiali che si riteneva utile dare. Il modo di utilizzare questi strumenti, più informali e meno istituzionali, ma controllati alla fonte, in molti casi, funziona di più e meglio di altre forme più tradizionali. Si tratta però di nuove possibilità che non significa trascurare la comunicazione più tradizionale, durante il lockdown abbiamo curato molto anche i Bollettini regionali con cui davamo le informazioni ufficiali. (Josè Urso)

Nello specifico del Bollettino che prima era accorpato in un’unica pubblicazione di fine giornata e conteneva poche notizie, nel corso dei giorni è diventato qualcosa di più articolato e dettagliato. Ad esempio le notizie erano suddivise per provincia e per notizie sensibili. Questo è stato forse il servizio più utilizzato dai giornalisti e dai cittadini comuni. Abbiamo anche creato una mappa aggiornata dei contagi pubblicata sul sito dove si possono vedere i dati Comune per Comune. Ovviamente ci sono poi stati i problemi di cui si è già accennato rispetto ai piccoli centri. La cosa interessante è che si è attivato un flusso a partire dal territorio che ci forniva informazioni aggiornate in tempo reale, anche prima delle rilevazioni ufficiali. I Sindaci, ad esempio, ci telefonavano regolarmente per darci le loro informazioni così noi avevamo meglio il polso della situazione Questa rete di contatti, la piattaforma e la mappa aggiornata in tempo reale, prima non esistevano e sono stati creati in tempi rapidissimi. Anche il numero verde sanitario 800.19.20.20 è stato messo in piedi in pochissimi giorni, si badi che non è cosa banale attivare un servizio del genere perché significava coprire turni di 24 ore e formare le persone a rispondere in modo appropriato. In un primo momento il numero verde della Regione ha fatto da filtro, poi molto del traffico si è spostato sul 118, ma la risposta attraverso il nuovo numero verde sanitario della Regione è stata risolutiva. In relazione al tema dei social, oggi noi non siamo più i soli detentori della comunicazione istituzionale, ci sono oggi pezzi di società, e non parlo del “cicaleggio” dei privati cittadini, ma penso anche ai sindaci, che usano le loro pagine Facebook per comunicare con i cittadini in modo ufficiale usando i video su Facebook per fare in punto della situazione locale e aggiornare sui contagiati e sul loro stato di salute. Anche questo è un aspetto importante su cui però, noi non abbiamo controllo. Sul piano della Sanità poi accentrare tutta l’informazione è stata un’altra novità. Prima dell’emergenza ogni struttura aveva modalità proprie di comunicazione con il territorio, o non ne aveva alcuna. In quella fase essendo costretti a farlo, l’unità di crisi è stata di supporto e continua ad esserlo l’attività regionale. Nello specifico, le Asl sono diventate molto più consapevoli della necessità di gestire i flussi di informazione, da un lato hanno maturato la necessità di avere informazioni dal centro, dall’altro hanno compreso anche l’importanza del loro ruolo di prossimità nella gestione della situazione. Nel momento più acuto della crisi abbiamo fatto una riunione con i dirigenti delle ASL e abbiamo definito una linea comune. Abbiamo ottenuto che a fare la comunicazione ufficiale fossimo noi, una decisione arbitraria, ma in quel momento necessaria per arginare il panico. Loro hanno risposto bene, anche se è stata interpretata in modo differente, ci sono stati dirigenti che hanno smesso totalmente di dare informazioni ai territori ed altri che le hanno gestite con più buon senso. Ma anche in questo caso la situazione si è complicata, siamo dovuti intervenire anche in alcuni territori in cui le strutture sanitarie hanno smesso di dare notizie generando allarmismo tra le persone che, chiuse in casa, improvvisamente non sapevano più nulla della situazione del pronto soccorso di riferimento, delle terapie intensive, dei protocolli da adottare. In una fase emergenziale inattesa può valere il buon senso, ma non può diventare la regola. L’esigenza di dare e ricevere informazioni rassicuranti resta cruciale soprattutto in una situazione di lockdown dove gli effetti si esasperano. Il cittadino chiuso in casa che vuole avere informazioni sui contagi e sulle strutture deve poter ricevere informazioni costanti, quindi anche la soluzione di smettere di comunicare, rischia di essere controproducente. Per questo è stato necessario trovare un equilibrio, ma è stata una lezione che pensiamo di mettere a regime. (Osvaldo Bellino)

Va anche ricordato il rapporto con il mondo dell’informazione e della politica in generale che nelle prime tre settimane hanno mostrato un atteggiamento molto collaborativo. Quando si era nella fase dell’“andrà tutto bene” la gente si è affidata e fidata delle proprie Istituzioni e anche il sistema politico e il mondo dei media si sono alleati in questo sforzo collettivo mostrando un fair play encomiabile. Ciò è durato tre settimana, se si fosse esaurita lì la reazione e la percezione di tutti sarebbe stata molto differente e molto positiva rispetto all’azione istituzionale. Il prolungamento nel tempo ha, inevitabilmente, generato insofferenza. Dopo tre settimane si è cominciato a pensare che le risposte non arrivassero nei tempi adeguati e soprattutto la situazione che si prospettava non era quella desiderata. Inoltre cominciavano a sorgere i timori legati al lavoro, al danno economico alla possibilità di rivedere i propri cari. Tutto è diventato più complicato e a quel punto anche questa armonia istituzionale è venuto meno. (Josè Urso)

 

Ci sono aspetti che andrebbero ancora potenziati?

Sicuramente dall’emergenza abbiamo messo in atto modelli che si potranno riutilizzare nel futuro, ci possono essere cose da rivedere, ma la strada è quella. Accentrare le competenze sanitarie, prevedere un comitato tecnico scientifico dove discutere i protocolli e pianificare gli interventi diventa fondamentale. Quello che va chiarito meglio è il quadro regolativo, perché ancora oggi ci sono Regioni che hanno fatto scelte differenti, ad esempio non comunicano il dato comunale oppure trasmettendo molte più informazioni. La Regione Piemonte ha fatto una sua scelta ponderata che però non è uguale a quella di altri territori. A differenza di quanto è avvenuto in Veneto, dove il cittadino ha avuto la percezione di essere maggiormente protetto, in Piemonte l’effetto negativo è stato anche dato dal fatto che si è scelto di seguire i protocolli dell’ISS. In Veneto sono state prese decisioni autonome, spesso forzando le direttive, potendo contare su un’altra dotazione di risorse sanitarie e dovendo confrontarsi con un tipo di epidemia più concentrata in Comuni più piccoli facilmente circoscrivibili. Nel caso del Veneto è stato più facile comunicare un modello efficiente. Un altro esempio, il Piemonte è stato associato alla questione delle RSA, ma la situazione regionale è stata molto differente da quella lombarda. Dati alla mano, abbiamo continuato a ripetere ai giornalisti che da noi non c’era quella situazione, ma la nostra versione non è passata sui media. Mentre quando i comitati delle famiglie sono scesi in piazza, giustamente, hanno ottenuto un risalto che comunque ha messo in cattiva luce il nostro operato. (Osvaldo Bellino)

È evidente che lo sforzo di mettere in piedi un modello simile obbliga ad investire moltissime energie nella fase di avvio. Un po’ come quando viene lanciato un nuovo dispositivo tecnologico, per quanto si facciano dei test preliminari è nel momento dell’utilizzo che si capiscano i modi per migliorarlo per l’uso reale. Nel nostro caso è la stessa cosa. Anche se la cosa principale è il senso di responsabilità diffusa nel diffondere le informazioni di cui si è in possesso, ma anche quelle di cui non lo si è. Questo secondo me è un aspetto che non potrà mai avere un margine di controllabilità, ma metterlo a tema impatterà molto sulle scelte future. Occorrerebbe stabilire una sorta di uniformità per dare pari diritti a tutti i cittadini di ricevere le stesse informazioni, tenendo conto di tutelare vari diritti e capire quale debba essere più tutelato. Mi sarebbe anche piaciuto che i media avessero parlato di più delle cose fatte, fermo restando che sono consapevole del detto bad news, good news! La eco di una cattiva notizia ha sempre un impatto maggiore per l’opinione pubblica e per il giornalismo. Il rischio di narrazioni drammatizzanti che “funzionano” di più, in condizione di emergenza e di crisi sociale ed economica produce un impatto molto pesante. Quando una narrazione genera un effetto alone è difficile decostruirla. L’antidoto sinceramente io non lo possiedo perché entrano in gioco molte variabili difficili da controllare, la quantità di soggetti che hanno potere di generare confusione, la situazione di incertezza, il fatto che le notizie cattive impattano più di quelle positive e la mancanza di senso di responsabilità, ma, a volte anche una forma di leggerezza, (Josè Urso)

 

Cosa avete imparato da comunicatori dall’emergenza Covid e non rifareste.

A conti fatti l’esperienza dell’Unità di crisi è stata la scelta giusta. Adesso è stata sostituita con il Dipartimento di Prevenzione inter aziendale, una struttura che ha come obiettivo quello di rendere permanente l’esperienza maturata in tre mesi. Anche questo è un risultato raggiunto. (Osvaldo Bellino)

Se c’è una cosa che mi spiace e che, secondo me, andava chiarita con maggior forza è il discorso sui tamponi. Una delle criticità che si è generata è stata la scarsità di tamponi, non è stato sufficientemente chiarito nella prima fase che i tamponi non si potevano fare perché non c’era la dotazione per gestire l’onda d’urto. Il Piemonte in quel momento ha fatto una richiesta di aiuto alle altre Regioni, ma questo non è stato detto con forza, forse per un eccesso di approccio istituzionale. Anche rispetto al tema delle mascherine e delle dotazioni sanitarie, è passata l’idea che non volessimo distribuirle, ma in realtà non c’erano e non si potevano recuperare in fretta, in un momento in cui non si disponeva di una stima preventiva dei quantitativi necessari a gestire l’emergenza e soprattutto in un momento in cui tutti, da ogni parte del mondo, cercavano di procurarsi dispositivi di protezione. Succedesse di nuovo, sapremo meglio valutare di quante risorse abbiamo necessità, e abbiamo già potenziato le nostre riserve di DPI in vista dell’autunno e della possibilità di un contagio di ritorno. Sul tema dei tamponi avremmo dovuto dire subito e con maggiore chiarezza che avevamo solo due laboratori e ci stavamo rimboccando le maniche per sopperire, cosa che è successa. Ma doveva essere più chiaro che eravamo in una situazione di grave sofferenza. Invece questo ha generato l’idea che i tamponi non si volessero fare e le mascherine non le volessimo distribuire. Va anche ricordato che la Giunta si era insediata da soli sette mesi e si è trovata a gestire una situazione con il sistema sanitario ereditato. In Piemonte ci sono strutture ospedaliere di eccellenza, ma prima dell’emergenza, c’erano poche terapie intensive e sub-intensive, abbiamo duplicato le prime e triplicato le seconde nell’arco di poche settimane. E soprattutto mancava completamente la rete di medicina territoriale, smantellata da decenni di tagli. La carenza nella rete dei laboratori ne è la prova più tangibile. Proprio da questo punto di debolezza adesso la Regione è partita per riprogrammare la sanità futura, a cominciare dal rapporto con i medici di famiglia che rappresentano la prima sentinella sul territorio. Dalla fase due in poi si sta affermando una sorta di sospensione e di stanchezza collettiva, fatta di tante cose, di paura e rabbia e questo inibisce l’ascolto. Adesso si è ancora tutti arrabbiati o disorientati, ma nel momento in cui si ritroverà una pax sociale e le persone ristabiliranno una migliore predisposizione all’ascolto, una cosa che da qui in avanti dovremmo fare di più è spiegare quanto è stato fatto. Quando la situazione si normalizzerà occorrerà raccontare molto e molto bene quello che è stato realizzato nell’arco di poco tempo. Sinceramente non so quante altre Regioni italiane abbiano reagito così in fretta, lo chiedo realmente perché quando possibile mi piacerebbe conoscere la situazione dell’intero paese. Vista dall’esterno l’impressione è che non si sia fatto abbastanza, ma dall’interno assicuro che lo sforzo è stato mastodontico. Questo vorrei diventasse più evidente, quando l’ascolto diventerà più attivo, vorrei fosse reso più chiaro il grande lavoro fatto nell’arco di poche settimane. (Josè Urso)

 

1 Docente di Sociologia della Comunicazione e di Analisi dei Media, Università di Torino.