Il problema del terzo mandato dei presidenti regionali al crocevia fra le contraddizioni del diritto positivo e le indicazioni della cultura costituzionale
Marco Olivetti[1]
ABSTRACT (ITA)
Il saggio affronta la questione dei limiti di mandato dei Presidenti delle giunte regionali nell’ordinamento giuridico italiano. L’analisi si sviluppa su due livelli distinti: da un lato, una riflessione sulla cultura costituzionale, con particolare attenzione alla storia costituzionale, al diritto comparato e al soft law internazionale e, dall’altro, l’esame del diritto positivo vigente nell’ordinamento italiano. La prospettiva adottata si propone di approfondire il tema, spostando il focus dalle contingenze politiche italiane a un quadro più ampio.
ABSTRACT (EN)
The essay deals with the issue of term limits for presidents of regional councils in the Italian legal system. The analysis is developed on two different levels: on the one hand, a reflection on constitutional culture, with particular attention to constitutional history, comparative law and international soft law, and, on the other hand, an examination of the positive law in force in the Italian legal system. The perspective adopted aims to deepen the subject by shifting the focus from Italian political contingencies to a broader framework.
Sommario:
1. Premessa – 2. Potere e tempo: cenni sulla legittimazione delle istituzioni rappresentative – 3. Il problema dei limiti alla rielezione degli organi di vertice dell’esecutivo nei regimi parlamentari: cenni – 4. I limiti alla rielezione dei Presidenti nei regimi presidenziali classici – 5. Alcuni dibattiti sui limiti alla rielezione dei Presidenti – 6. Sulla ratio dei divieti di rielezione – 7. I limiti ai mandati dei presidenti regionali in Italia: premessa – 8. (Segue.) Alcune indicazioni costituzionali – 9. (Segue.) La legislazione ordinaria statale, la giurisprudenza e le strategie di elusione – 10. A mo’ di conclusione
1. Premessa
La questione dei limiti di mandato – o limiti alla rielezione – dei Presidenti delle giunte regionali nell’ordinamento giuridico italiano e negli ordinamenti regionali da esso derivati ha ormai alle sue spalle una storia protrattasi per un quarto di secolo. Essa è per varie ragioni complessa e può essere esaminata da diversi punti di vista. In questa sede si seguirà un approccio che potrà apparire per certi aspetti ‘strabico’, in quanto volto a offrire due chiavi di lettura diverse: quella ricavabile dal diritto positivo vigente nell’ordinamento italiano e quella risultante da una riflessione condotta sul piano della cultura costituzionale. Si procederà cominciando da quest’ultima (parr. 2-6), per poi spostarsi sulla prima (parr. 7-10).
Occorre, però, precisare che le considerazioni che si svilupperanno sulla base della storia costituzionale, del diritto comparato e del soft law internazionale servono ad ‘alzare lo sguardo’, ad allargare la prospettiva rispetto a una micro-vicenda italo-italiana basata su ragioni di potere piuttosto misere, non certo a trovare soluzioni automaticamente trasponibili nel nostro ordinamento giuridico.
2. Potere e tempo: cenni sulla legittimazione delle istituzioni rappresentative
Se si vuole andare alla radice del problema in esame sul piano costituzionale, si può forse individuarla nella questione del rapporto fra potere e tempo.
Al riguardo, le soluzioni istituzionali di tipo monarchico valorizzavano all’estremo l’elemento della continuità e della durata, al punto da assumere come elemento caratterizzante la permanenza in carica a vita del titolare supremo dell’indirizzo politico, il monarca tradizionale, collocato in posizione di comando[2].
La tradizione delle repubbliche, pur non escludendo in radice l’uso di tecniche monarchiche[3], ha in genere incorporato come basilare l’idea della temporaneità delle cariche istituzionali: e questo dato si è rivelato particolarmente forte all’origine del costituzionalismo di fine settecento, sia nordamericano che francese.
Una angolatura particolare è necessaria per tenere in considerazione il rapporto fra tempo e istituzioni rappresentative, una volta che queste abbiano trovato un posto stabile all’interno delle monarchie, che ad esse hanno fatto ricorso in varie fasi, a partire dall’inizio del secondo millennio dell’era cristiana. L’esperienza inglese è al riguardo assai significativa, se si guarda al problema della frequenza della convocazione dei parlamenti e poi a quello della loro durata in carica. Mentre fino al 1641 la tradizione costituzionale britannica non aveva incorporato l’obbligo di convocazione periodica dei parlamenti e lasciava alla prerogativa regia ogni scelta sul punto[4] (con la conseguenza che la convocazione dei parlamenti dipendeva dalle necessità politiche e finanziarie del governo del Re), il Long Parliament introdusse per la prima volta l’obbligo di convocare un parlamento almeno ogni tre anni[5]. Abrogata pochi anni dopo la restaurazione monarchica[6], tale norma fu reintrodotta alla fine del XVII secolo[7] e fu poi affiancata da un’altra regola, volta a stabilire la durata massima triennale dei parlamenti, salvo elezioni anticipate a seguito di uno scioglimento o della morte del monarca. L’agitazione politica provocata dalla frequenza delle elezioni durante i regni degli ultimi monarchi Stuart indusse poi l’oligarchia whig, una volta consolidatasi al potere con l’avvento della dinastia Hannover, a prolungare la durata dei Parlamenti a sette anni (Septennial act del 1716), mantenendo l’obbligo di convocazione del Parlamento, che divenne pertanto un organo continuo[8], a differenza dei parlamenti di molti Stati dell’Europa continentale, che caddero praticamente in disuso durante il XVII e il XVIII secolo.
La lunga durata dei parlamenti inglesi fu variamente contestata nell’età d’oro del costituzionalismo inglese, ma sopravvisse fino al Parliament Act del 1911, anche se nel XIX secolo gli scioglimenti anticipati abbreviarono quasi sempre a sei o a cinque anni la durata delle legislature. Le critiche ai parlamenti settennali furono vivaci sia nelle colonie britanniche dell’America settentrionale che nel riformismo radicale inglese del XIX secolo. In America il pensiero radicale whig arrivò ad associare la democrazia alle elezioni annuali[9] e di questo approccio vi è traccia anche tuttora nella Costituzione federale degli Stati Uniti, nella quale la Camera dei rappresentanti è eletta per un mandato di soli due anni. In Gran Bretagna gli annual parliaments furono, invece, una proposta del cartismo, ma rimasero anche l’unica innovazione cartista che non venne mai implementata[10].
In ogni caso, con riguardo agli organi rappresentativi, la questione del rapporto fra potere e tempo si è manifestata come problema della durata in carica di questi organi e le risposte offerte nei vari ordinamenti si sono addensate attorno al tema della frequenza delle elezioni: ciò in ragione dell’esigenza di consentire all’elettorato di esprimere periodicamente il proprio orientamento politico e di evitare – o quantomeno di attenuare – la separatezza dei rappresentanti dai rappresentati. In tale sfera, la periodicità delle elezioni è stata per lo più ritenuta sufficiente ad assicurare la fluidità del rapporto rappresentativo e il divieto di rielezione dei membri dei parlamenti è una vera e propria rarità costituzionale: esso è stato previsto per quasi un secolo dalla Costituzione messicana del 1917[11] ed è stato parzialmente soppresso nel 2014, quando è stata consentita – con effetto a partire dal 2018 – la rielezione immediata per un solo mandato[12]. A livello di parlamenti substatali, oltre che in Messico, il divieto immediato di rielezione dei membri dei parlamenti statali è stato, invece, previsto in alcune Costituzioni degli Stati Uniti[13], ove il tema dei term limits è stato ampiamente discusso anche per i componenti degli organi parlamentari.
3. Il problema dei limiti alla rielezione degli organi di vertice dell’esecutivo nei regimi parlamentari: cenni
La questione si è, invece, posta in maniera diversa in relazione alla elezione degli organi di vertice del potere esecutivo. Invero, per i vertici degli esecutivi dei regimi parlamentari non sono stati in genere previsti limiti alla rielezione (parlamentare) o alla nuova nomina dei primi ministri. Del resto, nei regimi parlamentari i primi ministri e i governi non sono eletti direttamente dal corpo elettorale e non hanno un mandato predeterminato di durata certa e fissa, ma dipendono dalla fiducia della o delle Camere del Parlamento.
Com’è noto, la storia dei regimi parlamentari (tanto quelli dualisti come quelli monisti e persino quelle monarchie costituzionali a tendenza parlamentare che hanno preceduto storicamente il parlamentarismo dualista) ha offerto vari esempi di primi ministri rimasti in carica per lunghi periodi di tempo (assieme ad esempi di tipo opposto, come nei casi della Terza e della Quarta repubblica francese e del parlamentarismo italiano, sia statutario che repubblicano). Ma la flessibilità dei regimi parlamentari (e la natura a volte ‘nascosta’ della leadership dei primi ministri fino all’inizio del XX secolo[14]) non ha in genere fatto emergere l’esigenza di limitare il numero dei mandati dei primi ministri.
E ciò non è avvenuto neppure nelle costituzioni del parlamentarismo razionalizzato che hanno dato notevole evidenza alla primazia formale del Cancelliere o del Presidente del Governo, come la Legge fondamentale di Bonn del 1949 o la Costituzione spagnola del 1978. Ovviamente, alla luce di quanto si proverà a sostenere nelle righe che seguono, è del tutto legittimo interrogarsi sulla opportunità di introdurre limiti alla rielezione anche in questi ordinamenti, specie laddove la permanenza in carica dei primi ministri è fortemente protetta con meccanismi posti a tutela della stabilità di governo, come la sfiducia costruttiva.
Laddove, invece, vi è predeterminazione della durata in carica – come nel caso dei presidenti delle Repubbliche parlamentari, anche se non eletti a suffragio universale – i limiti alla rielezione, pur non essendo un dato assoluto, non sono infrequenti[15].
In questo caso, l’esigenza di limitare la durata in carica del titolare di questo tipo di organi è stata avvertita in termini meno forti, in ragione, a nostro avviso, di un duplice ordine di fattori: da un lato, l’esigenza di garantire una certa continuità all’organo chiamato a rappresentare simbolicamente lo Stato – la c.d. supremazia in posizione[16] –, ereditando un ruolo monarchico sopravvissuto nelle monarchie costituzionali o parlamentari; dall’altro, la disponibilità, da parte di questi organi, di poteri in genere limitati, ovvero l’assenza di funzioni di indirizzo politico o di una supremazia politica[17].
Ciò spiega la diffusione della prassi della rielezione, laddove non vietata, in vari regimi parlamentari, fra i quali la Terza Repubblica francese, la Repubblica cecoslovacca fra il 1920 ed il 1938, la Repubblica italiana e la Repubblica federale tedesca.
4. I limiti alla rielezione dei Presidenti nei regimi presidenziali classici
La questione qui in esame presenta caratteri del tutto particolari riguardo ai capi del potere esecutivo eletti a suffragio universale e diretto, in particolare nei regimi presidenziali classici.
Invero, la Costituzione federale degli Stati Uniti del 1787 e le costituzioni presidenziali latinoamericane del XIX secolo non avevano originariamente previsto né l’elezione popolare e diretta del Presidente, né i limiti alla rielezione.
Del resto, negli Stati Uniti al Presidente non era stato inizialmente riconosciuta una posizione di guida politica così chiara come quella che si sarebbe delineata a partire dalla fine della prima e soprattutto della seconda guerra mondiale; inoltre, l’assenza di un limite alla rielezione del Presidente nel testo originario della Costituzione statunitense entrato in vigore nel 1789 era stata surrogata da un limite affermatosi per via convenzionale, in virtù del quale nessuno dei presidenti eletti per due mandati dall’entrata in vigore della Costituzione al 1940 cercò mai di ottenerne un terzo[18].
In America latina, invece, l’imitazione del sistema statunitense è stata caratterizzata sin dall’inizio dal rafforzamento della posizione del capo dello Stato, sia in virtù di specifiche previsioni costituzionali, sia in ragione di fattori politici e culturali, che la dottrina giuridica e la storiografia hanno studiato da tempo. Così, man mano che l’elezione diretta del presidente si diffondeva negli Stati a sud del Rio Grande, apparivano i limiti costituzionali alla rielezione del Presidente, sia pure in varie forme, fino a quando il XXII emendamento (1952) ha condotto all’introduzione di un limite alla rielezione anche nella costituzione federale degli Stati Uniti. Così, durante il XX secolo, i limiti alla rielezione sono diventati una vera e propria caratteristica ‘naturale’ (anche se non essenziale)[19] dei regimi presidenziali, al punto che la loro rimozione è stata talora ritenuta indizio di una degenerazione non democratica del sistema politico.
Nei sistemi presidenziali classici si sono date storicamente diverse varianti del limite alla rielezione del Presidente[20]. Alcune di queste varianti si sono succedute all’interno dello stesso ordinamento, a seconda che l’esigenza di consentire una maggiore continuità politica con la immediata rielezione prevalesse o risultasse cedevole rispetto alla spinta a evitare l’accumulazione di potere politico e la perpetuazione nella carica.
La norma più radicale è il divieto assoluto di rielezione dopo un solo mandato presidenziale, prevista in particolare in Messico, in reazione alle sette rielezioni di Porfirio Diaz a cavallo fra ottocento e novecento. Attualmente questo tipo di divieto è previsto dalla Costituzione colombiana[21].
La prassi statunitense della proibizione della rielezione dopo due mandati presidenziali – poi normativizzata, come s’è detto, col XXII emendamento – ha ricevuto diverse formulazioni normative. La più rigida è il divieto assoluto di rielezione dopo due mandati, consecutivi o meno: è questa, appunto, la soluzione statunitense, poi replicata in Colombia fra il 2002 e il 2014. Meno rigida è la costituzione brasiliana: mentre il testo originario della Costituzione del 1988 (così come le costituzioni repubblicane precedenti, comprese quelle ‘militari’ del 1967 e del 1969) vietava la rielezione immediata del Presidente, la riforma costituzionale n. 16 del 4 giugno 1997 ha consentito la rielezione immediata del Capo dello Stato[22], ma ha vietato la rielezione dopo due mandati consecutivi, consentendola, tuttavia, dopo l’intervallo di un mandato. Così Luis Ignacio Lula da Silva, presidente dal 2003 al 2010, è tornato alla presidenza il 1° gennaio 2023. Una ulteriore variante di questo tipo di limite si ritrova in due costituzioni substatali statunitensi, che prevedono un limite massimo di durata in carica per il governatore all’interno di un certo lasso di tempo: così la Costituzione del Montana e quella del Wyoming prevedono che la stessa persona possa occupare la carica di governatore dello Stato per un periodo massimo di 8 anni su 16, mentre quella dello Stato di Washington prevede un massimo di 8 anni in un periodo di 14 (in tutti questi casi il mandato del governatore è di 4 anni, dunque il governatore può essere rieletto al massimo una volta nell’arco di 16 o di 14 anni)[23].
Una terza variante è il divieto di rielezione immediata, ma con possibilità di rielezione dopo l’intervallo di un mandato (è questa la soluzione accolta in Cile a partire dalla Costituzione del 1925 e confermata dalla Costituzione del 1980[24], anche nella versione consolidata del 2005, oggi in vigore) o di due mandati (prevista dalla Costituzione venezuelana del 1961)[25].
5. Alcuni dibattiti sui limiti alla rielezione dei Presidenti
I limiti alla rielezione sono stati assai discussi da vari punti di vista. Talora essi hanno dato corpo a una tradizione rigidamente antirielezionista, che si è spinta fino al punto di considerare tale divieto come un aspetto fondamentale del regime repubblicano: è il caso del Messico, a partire dalla Costituzione del 1917[26]. Il che è ben comprensibile, se si considera che la Rivoluzione messicana – di cui quella costituzione è stata il principale prodotto normativo – è nata attorno al problema della rielezione[27], o almeno ha trovato in essa un elemento catalizzatore.
La diffusione nel costituzionalismo globale delle teorie secondo le quali la revisione costituzionale incontra limiti[28], variamente ricostruiti e configurati e spesso basati sullo schema schmittiano della distinzione fra costituzione e legge costituzionale, ha sollevato il quesito sulla ammissibilità di leggi di revisione costituzionale volti ad eliminare i divieti di rielezione o a ridurne la portata. Le Corti supreme o costituzionali sono state così chiamate a pronunciarsi sulla compatibilità con i principi supremi dei rispettivi ordinamenti costituzionali di norme volte ad alterare le regole costituzionali sui divieti di rielezione.
Fra questi casi si possono segnalare due sentenze della Corte costituzionale della Colombia e una della Corte costituzionale dell’Ecuador. La Corte costituzionale colombiana ha ritenuto nel 2004 che una riforma costituzionale volta a consentire la rielezione immediata del Presidente per un secondo mandato quadriennale non fosse incompatibile con i limiti alla revisione[29]; tuttavia cinque anni più tardi, la stessa Corte, di fronte a una revisione costituzionale volta ad eliminare ogni limite alla rielezione e a consentire la rielezione presidenziale illimitata, ha ritenuto che una modifica costituzionale di tal fatta avrebbe violato i limiti alla revisione costituzionale[30].
Nel 2015, la Corte costituzionale ecuadoriana si è pronunciata in senso opposto a quest’ultima decisione, ritenendo che una revisione costituzionale che aveva eliminato i limiti alla rielezione originariamente previsti dalla Costituzione ecuadoriana del 2008 non solo non avesse alterato le caratteristiche fondamentali della Costituzione, ma, al contrario, avesse ampliato i diritti di partecipazione politica.
La posizione della Corte costituzionale ecuadoriana ha trovato zelanti ed interessati imitatori presso altri giudici supremi del subcontinente latino-americano. I casi più interessanti sono quelli dell’Honduras e del Nicaragua. In questi ordinamenti le Corti supreme si sono spinte a dichiarare incostituzionale il divieto costituzionale di rielezione del Presidente[31] per contrasto con il diritto di partecipazione politica, oltre che con la libertà di espressione e di coscienza. Tali sentenze[32] hanno permesso la rielezione del presidente dell’Honduras Juan Orlando Hernández nel 2017 e la rielezione indefinita di Daniel Ortega Saavedra[33] alla presidenza del Nicaragua.
Tuttavia, la Corte Interamericana dei diritti dell’uomo, in una opinione consultiva, ha escluso che un diritto alla rielezione presidenziale indefinita possa essere ricavato dal diritto di voto dei cittadini e dal diritto ad essere eletti e ha ritenuto che i divieti di rielezione del Presidente previsti in vari ordinamenti latino-americani siano giustificati, fra l’altro, dall’esigenza di evitare che una persona “si perpetui al potere”[34]. In particolare, la Corte interamericana ha osservato che:
“la permanencia en funciones de un mismo gobernante en la Presidencia de la República por un largo período de tiempo tiene efectos nocivos en el régimen plural de partidos y organizaciones políticas, propio de una democracia representativa, porque favorece la hegemonía en el poder de ciertos sectores o ideologías. La democracia representativa, así como la obligación de garantizar los derechos humanos sin discriminación, parten del hecho de que en la sociedad existen una diversidad de corrientes e ideologías políticas. Por ende, no existen opiniones o tendencias que sean unánimemente aceptadas. Independientemente de si la persona en el poder cuenta con el apoyo de la mayoría de los votantes, los Estados deben siempre respetar y garantizar la libertad de expresión y derecho de participación política de las minorías. En este sentido, la Corte reafirma que, en los términos del artículo 1.1 de la Convención, en una sociedad democrática una persona nunca podría ser discriminada por sus opiniones políticas o por ejercer legítimamente derechos políticos. Por lo tanto, este Tribunal considera que la permanencia en funciones de una misma persona en el cargo de la Presidencia de forma ilimitada propicia tendencias hegemónicas que resultan en el menoscabo de los derechos políticos de los grupos minoritarios y que, en consecuencia, minan el régimen plural de partidos y organizaciones políticas.
En segundo lugar, la falta de limitaciones a la reelección presidencial conlleva el debilitamiento de los partidos y movimientos políticos que integran la oposición, al no tener una expectativa clara sobre su posibilidad de acceder al ejercicio del poder. La debilitación de los partidos políticos tiene un impacto negativo en el funcionamiento democrático, ya que estos tienen un papel esencial en el desarrollo del mismo. Esto afecta el pluralismo político que debe existir en una sociedad democrática (…)”.
Di un certo interesse sono poi i rilievi formulati dalla Commissione di Venezia, che si è pronunciata più volte sui limiti alla rielezione dei presidenti relativamente a regimi presidenziali o semipresidenziali dell’Europa orientale[35] e dell’area caucasica o sulla eliminazione di tali limiti. Nel Report adottato in tema di Democrazia, limiti ai mandati e incompatibilità con le funzioni politiche può leggersi:
“61. The theory of limitation of mandate has its followers as well as its opponents.
62. The critics say that the frequent replacement of the holders of public (political) functions in the country can have a negative impact on the quality and on the continuity of the public policies in the country and that it brings about major political uncertainty. The supporters of the limited mandate believe that it is a positive aspect of the system seen through the prism of an influx of fresh ideas, pluralism in political thought, avoidance of political domination and, most importantly, avoidance of the concept of irreplaceability in the political establishment.
63. It is a fact that the effects of the non-existence of limitations for the re-election of a member of parliament are widely softened by the activities of the opposition parties in parliament, as well as by the increased transparency and publicity that the democratic parliaments demonstrate through their activities. Perhaps these two conclusions identify the main reason why most constitutions foresee an unlimited possibility for re-election of members of parliament. Consecutively, we may draw the same conclusion vis-à-vis the re-election of ministers in coalition governments, contrary to homogeneous ones[36].
64. Namely, unlike the homogeneous governments – most often single-party governments – the coalition governments have a greater possibility of controlling their members, as there is a stronger inter-party consensus to open the issue of political responsibility for what has been or has not been done.
65. The majority electoral model, where the election of holders of political functions is done directly by the electorate, is more likely to lead to the admissibility of an unlimited parliamentary mandate than a pure proportional model with closed lists where the political parties have the final word.
66. On the other hand, the unlimited mandate opens the door to the factual strengthening of the position of head of state in the parliamentary systems, and even more so in the semi presidential systems. In the presidential systems, the unlimited mandate creates the danger of having a “republican monarch”.
67. In countries that have no democratic tradition and that do not have a developed civil society, the unlimited mandate of the Head of state could introduce a new “Caesar” or a new “Bonaparte”, regardless of the model of government.
68. The arguments against the limited mandate are most often concentrated around the idea that citizens have the right to say who will govern them, and that they are the only ones who have the right to a free and absolute choice of their politicians, and when the people want one person to lead them for a longer period of time, they should be allowed to have that right.
69. In this context, the critics say that public support usually favours those with greater political experience, which can be decisive for winning the election.
70. Due to the risks for the balance of powers and even for democracy as such involved in the possibility for the incumbent to be re-elected more than once, the Venice Commission reiterates its critical approach towards constitutional provisions allowing for more than one re-election of the head of state in presidential or semi-presidential systems”.
In un più recente rapporto sui limiti ai mandati, la Commissione di Venezia è giunta alla conclusione che:
“96. […] the right to be elected is not an absolute right. Objective and reasonable limits may be placed on the right to be elected. Term limits which most representative democracies put on the right of the incumbent president are a reasonable limit to the right to be elected because they prevent an unlimited exercise of power in the hands of the President and protect other constitutional principles such as checks and balances and the separation of powers. The president has a duty to uphold the constitution and to protect human rights. The president cannot demand his/her political rights against the constitution. The limits on the president’s re-election do not therefore unduly restrict his/her human and political rights”[37].
In ogni caso, la frode alla Costituzione, la riforma costituzionale e il colpo di Stato sono stati in più occasioni utilizzati per aggirare o eliminare i divieti di rielezione. Basterà citare qualche caso fra i molti che potrebbero essere evocati[38].
L’esperienza argentina, nella quale il testo originario della costituzione liberale del 1853 escludeva la rielezione immediata[39] (consentendo invece la rielezione dopo l’intervallo di un mandato[40]), è stata modificata ben due volte per consentire a un presidente uscente di essere rieletto alla conclusione del suo mandato: la prima revisione – voluta dal presidente uscente Juan Domingo Perón in netta contrapposizione con l’opposizione – produsse la Costituzione peronista del 1949, poi abrogata da un regime militare nel 1956; la seconda, gestita consensualmente dal presidente Carlos Menem in accordo col suo predecessore Raúl Alfonsin (c.d. pacto de los Olivos), generò la riforma costituzionale del 1994. In entrambi i casi i testi costituzionali hanno annacquato la norma sulla rielezione con una serie di altre riforme relative alla forma di governo e ai diritti fondamentali, ma la ragione ultima della riforma costituzionale era permettere la rielezione immediata del capo dello Stato.
Non sono mancati casi in cui si è tentato di aggirare il divieto di rielezione con la candidatura alla presidenza di un parente stretto del presidente uscente: così l’elezione di Cristina Fernandez de Kirchner nel 2007 non ha aggirato alcun divieto, dato che il di lei consorte, Nestor Kirchner, era stato eletto nel 2003 e avrebbe potuto essere rieletto alla fine del suo primo mandato (in virtù della riforma costituzionale del 1994, sopra citata). Ma l’alternanza fra consorti alla presidenza avrebbe consentito di prolungare questo singolare caso di presidenzialismo familiare dopo le elezioni del 2011, nelle quali Nestor Kirchner – se rieletto nel 2007 – non avrebbe invece potuto ricandidarsi. Il che non avvenne per via della morte dello stesso Kirchner nel 2010. Dato che i casi di successione alla guida dello Stato fra membri della stessa famiglia si sono verificati in altri Paesi (ad es. in Sri Lanka con i fratelli Rajapaksa, nonché in India, anche se in quest’ultimo caso in un regime parlamentare)[41], vi è qui una evidente lacuna nella forza normativa delle norme che vietano la rielezione. Anche le manovre politiche che in Messico hanno portato a ipotizzare le candidature delle first ladies Marhta Sahagun de Fox e Margarita Zavala de Calderón alla fine dei mandati dei loro consorti testimoniano che l’elusione del divieto di rielezione mediante candidatura di un parente stretto non è una mera ipotesi di scuola.
Ma il Messico offre anche un altro esempio, meno recente, di elusione delle norme sulla rielezione: è la vicenda del c.d. maximato, ovvero del dominio politico del presidente Plutarco Elias Calles (capo dello Stato dal 1924 al 1928) sui tre presidenti che gli succedettero nei sei anni fra il 1928 e il 1934[42]: tale dominio era basato sia sul carisma di Calles come ultimo dei generali della rivoluzione messicana, sia sul suo controllo del partito in cui egli aveva tentato di canalizzare – istituzionalizzandola – l’eredità della rivoluzione (il Partito nazionale rivoluzionario, poi diventato Partito Rivoluzionario Istituzionale). Esso ebbe fine solo quando Lazaro Cárdenas fece esiliare Calles dopo la sua ascesa alla presidenza nel 1934.
I colpi di stato per consentire la rielezione di un presidente vietata dalla Costituzione sono addirittura un classico dell’eversione costituzionale: basta citare il notissimo esempio di Luigi Napoleone nel 1851, cui si possono aggiungere vari casi latino-americani recenti, fra i quali quello dell’autogolpe di Alberto Fujimori in Perù nel 1992, mentre la vicenda che ha riguardato Evo Morales nel 2019 è da ascrivere più correttamente alla fenomenologia della elusione costituzionale o della frode alla Costituzione, seguita da un colpo di stato volto in qualche modo a restaurare la legalità costituzionale violata[43].
6. Sulla ratio dei divieti di rielezione
Ci si può ora chiedere se i dati affastellati nelle righe che precedono siano in grado di aiutarci a cogliere la ratio dei divieti rielezione e il loro ‘posto’ nel diritto costituzionale. Per quale motivo si può agevolmente arrivare a ritenere che – come si diceva sopra – i limiti alla rielezione siano (in una delle varie forme che si sono evocate) un elemento naturale dei regimi caratterizzati da elezione diretta e dalla durata in carica garantita dei capi degli esecutivi?
La risposta deve essere probabilmente duplice, ma essa deve essere preceduta da un breve richiamo degli argomenti in senso opposto, vale a dire favorevoli alla rielezione illimitata, che furono espressi durante il dibattito sulla ratifica della Costituzione federale statunitense. Essi si devono all’autorevole penna di Alexander Hamilton nel Federalist Paper n. 72, che reca la data del 21 marzo 1788[44]. Ad avviso di Hamilton, anzitutto, la stabilità nella conduzione del potere esecutivo è in sé un bene pregevole, in quanto stimola la “propensione e la volontà di bene agire durante il … mandato” e offre “all’opinione pubblica il tempo sufficiente per bene osservare le conseguenze delle misure da lui adottate onde formarsi una idea basata sulla concreta esperienza dei suoi meriti intrinseci”. Sulla base di questa premessa, “la rielezione è … necessaria per permettere al popolo, qualora veda buone ragioni per approvarne la condotta, di confermare il Presidente alla più alta carica così da prolungare l’utilizzazione dei suoi talenti e delle sue virtù e da assicurare al governo il vantaggio della continuità di una saggia condotta amministrativa”[45]. Si tratta del tradizionale argomento anglosassone che sottolinea l’importanza dell’accountability nella democrazia rappresentativa.
Comunque, ad avviso di Hamilton, il divieto di rielezione (assoluto o limitato ad un certo periodo di tempo) diminuirebbe le ragioni che inducono un individuo a ben comportarsi, priverebbe la collettività dell’esperienza acquisita dal capo dello Stato nell’esercizio dei suoi compiti[46], terrebbe lontani da una importante carica pubblica in quei periodi di emergenza in cui i loro servizi sarebbero necessari per il bene di tutti[47] e, infine, finirebbe per “impedire costituzionalmente la stabilità dell’amministrazione”[48].
Il pregio di questi argomenti[49], che non può essere negato, pare però superato dai dati di esperienza che la storia dei poteri esecutivi legittimati democraticamente ha offerto dopo che la Costituzione degli Stati Uniti e le altre costituzioni presidenziali sono state viste alla prova dei fatti.
In primo luogo, va sottolineata la rilevante concentrazione di potere negli esecutivi eletti a suffragio universale e diretto, anzitutto per ragioni di carattere formale, vale a dire per la varietà e l’ampiezza delle prerogative riconosciute ai Presidenti, e in secondo luogo per le garanzie di durata in carica di tali organi.
Si deve notare, infatti, che le costituzioni presidenziali, anzitutto latino-americane, successive a quella degli Stati Uniti hanno in genere ampliato i poteri del Presidente rispetto a quelli previsti dalla Convenzione di Filadelfia.
Ma oltre ai poteri e alle garanzie di stabilità basati sul diritto, la carica presidenziale è stata ulteriormente rafforzata da vari fattori metacostituzionali. Fra essi si possono citare le tradizioni nazionali favorevoli al caudillismo e alla leadership forte proprie delle culture ispano-americane e il dato specifico dell’elezione a suffragio universale di un titolare unico del potere esecutivo, destinato più o meno fatalmente a diventare il leader della nazione. La collocazione del capo del potere esecutivo, in una posizione indipendente dalla maggioranza dell’organo legislativo (dunque al di fuori della logica del regime parlamentare) e con una durata in carica formalmente garantita (si è parlato al riguardo di Regierung auf Zeit), crea una situazione di forza politica fattuale capace di andare al di là delle – pur già ampie – attribuzioni formali del presidente previste in una data costituzione. Le facoltà metacostituzionali dei Presidenti[50] consistono in vari tipi di network di potere, cristallizzati attorno all’autorità o all’autorevolezza di un leader politico consolidato nel suo ruolo.
In questo contesto, si può ritenere che la periodicità delle elezioni non sia una garanzia sufficiente ad assicurare, da un lato, un voto libero e genuino da parte dell’elettorato e, dall’altro, una reale apertura e competitività del processo elettorale. L’accumulazione del potere nelle mani dell’incumbent rischia, infatti, di rendere squilibrata ogni competizione elettorale e di scoraggiare i migliori competitors per la carica politica di vertice, inducendoli a ricercare qualche forma di cooptazione da parte del ‘capo’ e dei gruppi dominanti raccolti attorno ad esso.
La ratio dei divieti di rielezione, pertanto, oltre che ad una esigenza non dissimile da quella che giustifica le norme sulle cause di ineleggibilità (assicurare la genuinità del processo elettorale, evitando gli squilibri derivanti dalla partecipazione alla competizione di soggetti che possano incutere non solo rispetto, ma anche metus all’elettorato), risponde a una esigenza sistemica di rilievo forse anche superiore: quella di garantire l’equilibrio del sistema costituzionale nel suo insieme, limitando nel tempo l’accumulazione di autorità politica nel capo dell’esecutivo, anche ostacolando la trasformazione di una leadership di tipo legale-razionale in una leadership carismatica. Il carisma che deriva dalla permanenza nel potere e dai network di interessi cristallizzati attorno al capo tende, infatti, a separare quest’ultimo dalla comunità politica che è chiamato a governare e consiglia di evitare che la stabilità si trasformi in eternizzazione. Per riprendere un linguaggio squisitamente costituzionalistico – in quanto ricollegato alle origini del costituzionalismo occidentale – è come se alle forme tradizionali di separazione dei poteri (verticale-madisoniana e orizzontale- montesquieuiana) se ne debba aggiungere una terza, radicata nella delimitazione temporale, volta a evitare lo slittamento in direzione monarchica, in cui le elezioni diventino un passaggio per lo più formale e automatico, volto a ungere nuovamente lo stesso leader carismatico.
7. I limiti ai mandati dei presidenti regionali in Italia: premessa
Sul piano del diritto positivo vigente in Italia, la questione dei limiti ai mandati dei presidenti delle Giunte regionali presenta una spiccata articolazione e ha sinora offerto la base per soluzioni diverse. La normazione di rango costituzionale offre alcune indicazioni che sembrano in armonia con quelle emergenti dalle riflessioni di cultura costituzionale sopra formulate, ma la loro traduzione operativa è stata costellata di contraddizioni e da veri e propri errori di diritto, sui quali ha fatto leva, da un certo momento in poi, la possente forza degli interessi politici e personali – il potere, insomma. Il quale del diritto e delle sue contraddizioni suole servirsi per disfarsi dei limiti alle sue scelte ed attività.
Anzitutto, appare necessario sgombrare il campo da un equivoco di fondo, relativo alla natura della forma di governo ad elezione diretta del primo ministro, cui sono a nostro avviso riconducibili tanto il sistema di governo in vigore a livello comunale (nonché, fino all’entrata in vigore della legge n. 56/2014, a livello provinciale), quanto quello in vigore per le Regioni ordinarie e speciali[51] e per le Province autonome. È vero, infatti, che la natura di tale forma di governo è discussa in dottrina[52], sia ai tempi della sua elaborazione sul piano teorico, sia una volta che ne è stata data traduzione operativa (legge n. 81/1993, leggi cost. n. 1/1999 e n. 2/2001, statuti regionali ordinari, leggi statutarie delle regioni speciali) e ciò vale a maggior ragione quando se ne tenta una traduzione per così dire spuria, magari in nome di interessi di partito a breve respiro[53]. Ma se tale sistema va distinto dai regimi presidenziali classici[54], non è però riconducibile ai regimi di tipo parlamentare (o “neoparlamentare”), costituendo, piuttosto, un tipo intermedio fra tali due sistemi, originato – come il sistema semipresidenziale – dalla loro ibridazione. Si tratta di un sistema che combina l’elezione diretta del vertice dell’esecutivo con una garanzia assai forte della sua durata in carica per tutta la legislatura, rimessa al c.d. principio simul stabunt simul cadent. Inoltre, nel modo poco equilibrato in cui tale sistema è stato attuato in Italia a livello regionale e comunale, esso garantisce al capo dell’esecutivo dell’ente territoriale una maggioranza nell’organo rappresentativo, che in fatto difficilmente può venire meno durante il mandato presidenziale e consiliare. Ciò è dimostrato dall’esperienza delle Regioni italiane ordinarie e speciali dal 2000 al 2025, ove le crisi di Giunta che hanno condotto all’anticipo delle elezioni sono state determinate solo da vicende personali e politiche che hanno coinvolto il presidente regionale, conducendo alle sue dimissioni. In tale sistema, i problemi di concentrazione dell’autorità politica e di durata in carica che hanno indotto a prevedere i limiti alla rielezione nei sistemi presidenziali sembrano sussistere con modalità non differenti. Come in tali sistemi, sul piano sia del sein che del sollen (un sollen, diciamo così, di sistema), qualche forma di term limit sembra affiancarsi al sistema di governo in vigore a livello comunale e regionale quasi come un corollario ad un teorema.
8. (Segue.) Alcune indicazioni costituzionali
La principale indicazione di diritto costituzionale in favore di un limite alla rieleggibilità dei presidenti regionali si trova nell’art. 9.4 dello statuto della Regione siciliana, introdotto in tale fonte dalla legge cost. n. 2/2001. Tale disposizione recita: “la carica di Presidente della Regione non può essere esercitata per più di due mandati consecutivi”. L’opzione del legislatore di revisione è stata pertanto netta: al momento dell’introduzione dell’elezione diretta del presidente regionale siciliano, è stato previsto anche un limite alla sua rieleggibilità[55]. È tuttavia singolare che la legge cost. n. 2/2001 non abbia proceduto in maniera analoga per le altre regioni a statuto speciale e province autonome per le quali, pure, ha introdotto l’elezione diretta: Sardegna, Friuli-Venezia Giulia, Provincia di Trento e Provincia di Bolzano. Per tali Regioni, la previsione di eventuali limiti alla rielezione rientra nell’ambito di competenza delle leggi statutarie.
Non solo: un limite di questo tipo non è stato introdotto neppure nella legge cost. n. 1/1999, che ha regolato in maniera incisivamente innovativa la forma di governo delle Regioni ordinarie – introducendo con norma transitoria e immediatamente operativa, ma derogabile dagli statuti, l’elezione diretta dei presidenti delle Giunte regionali – e ampliato la sfera di competenza dell’autonomia statutaria. La questione del limite dei mandati, com’è noto, non rimase estranea ai lavori preparatori della legge costituzionale ora citata, ma il legislatore di revisione preferì lasciarla all’autonomia statutaria, di cui stava ampliando la sfera di competenza rispetto a quanto vi era incluso in base al testo originario della Costituzione[56]. Era comunque chiaro dal dibattito parlamentare che la fonte competente a disciplinare la questione avrebbe dovuto essere lo statuto della Regione ordinaria, trattandosi di un meccanismo equilibratore della forma di governo[57] e non di un profilo delle norme in materia di incompatibilità e di ineleggibilità del Presidente e degli altri membri della Giunta[58], oltre che del Consiglio regionale, che la stessa legge cost. n. 1/1999 rimetteva alla sfera di competenza della legge statale di principio e della legge regionale di dettaglio, secondo il collaudato schema della competenza concorrente.
Tuttavia, questo dato risultante così chiaramente dai lavori preparatori è stato inopinatamente ignorato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 2/2004[59], nella quale il divieto di rielezione del Presidente della Giunta previsto nella delibera di statuto calabrese venne dichiarato costituzionalmente illegittimo con l’argomento che tale materia sarebbe dovuta rientrare non nell’ambito della competenza dello statuto regionale ma in quello della legislazione concorrente ex art. 122, 1° comma. In tal modo, la sentenza n. 2/2004, oltre ad avviare la lettura decostruttiva dell’art. 123 Cost., successivamente estesa a tutto il titolo V[60], ha posto un freno a una tendenza che sembrava delinearsi nei primi statuti regionali adottati dopo la riforma del 1999: che si muoveva proprio nel senso della previsione regione per regione di un limite alla rielezione del Presidente della Giunta. Si deve al riguardo sottolineare che quella sede di disciplina sarebbe stata più adeguata da diversi punti di vista: se è vero che la relativa scelta sarebbe spettata alle maggioranze politiche regionali – e quindi avrebbe potuto essere elusa nell’interesse di qualche “governatore” che aspirasse ad eternizzarsi al potere – è tuttavia anche vero che nella seconda stagione statutaria (avviata dopo le elezioni regionali del 2000) ciò appariva meno probabile. Non è un caso che il primo statuto approvato in quegli anni – quello calabrese – prevedesse effettivamente un limite alla rielezione[61]. Inoltre, una volta prevista in statuto, la norma sulla rielezione non sarebbe stata agevolmente modificabile, in ragione della procedura prevista dall’art. 123 Cost., e in particolare della possibilità di richiedere un referendum oppositivo-confermativo sui progetti di legge di revisione dello statuto stesso: uno strumento che avrebbe potuto essere utilizzato dall’opposizione consiliare a un presidente che cercasse di rimuovere o aggirare il divieto di rielezione con una legge di revisione statutaria.
9. (Segue.) La legislazione ordinaria statale, la giurisprudenza e le strategie di elusione
Il clima favorevole alla previsione di limiti alla rielezione del capo dell’esecutivo regionale condusse comunque alla adozione dell’art. 2, 1° comma, lett. f) della legge n. 165/2004[62], il quale, disciplinando le cause di ineleggibilità del Presidente della giunta regionale, stabilì che la legge regionale avrebbe dovuto prevedere la “… non immediata rieleggibilità allo scadere del secondo mandato consecutivo del Presidente della Giunta regionale eletto a suffragio universale e diretto, sulla base della normativa regionale adottata in materia”. Questa disposizione, del tutto condivisibile nel merito alla luce dei ragionamenti formulati in queste pagine, offriva tuttavia il destro a una serie di obiezioni, che stanno alla radice della situazione attuale.
In primo luogo la disposizione, in base all’art. 122, 1° comma, Cost., era tenuta a configurarsi come un principio fondamentale in una materia di competenza concorrente[63] ma era ben difficile ricondurla alla forma di una norma di principio[64], quantomeno nel senso minimo da riconoscersi a tale fenomeno normativo, vale a dire quello di essere una norma generale suscettibile di più traduzioni normative diverse da parte della legislazione regionale di dettaglio. La norma ora citata appariva invece completa, restando alla legge regionale solo la scelta di riprodurla, con il conseguente dubbio sulla sua costituzionalità, dato che la legislazione ex art. 122, 1° comma, Cost. dovrebbe essere limitata ai principi ed insuscettibile di tradursi in norme di dettaglio e che i casi di principi fondamentali non suscettibili di specificazioni alternative, pur talora giustificati dalla giurisprudenza costituzionale, costituiscono una contradictio in adjectis.
Inoltre, l’art. 2, 1° comma, lett. f) della legge n. 165, pur essendo ‘completa’ non era autoapplicativa[65], dato che era configurata non come un comando rivolto ai consociati e all’amministrazione, ma come un vincolo per il legislatore regionale, chiamato a renderla operativa: la legge di principio aveva pur sempre bisogno della norma regionale di dettaglio, anche se meramente riproduttiva e priva di discrezionalità. E ciò è dimostrato sul piano storico-fattuale dalle vicende che hanno interessato questa disposizione nei due decenni trascorsi dalla sua entrata in vigore: essa è stata talora ignorata dalla legislazione regionale, talaltra recepita[66], talaltra ancora recepita e poi modificata per eluderla[67]. La dottrina ha attentamente seguito queste vicende, sottolineandone le contraddizioni.
La giurisprudenza di merito[68] ci ha messo del suo, abbracciando un approccio formalista che può forse essere apprezzato in un tempo dominato dal sostanzialismo e dalla ricerca a tutti i costi della giustizia del caso concreto, ma che può apparire anche un modo per eludere la questione lasciandola nel campo dei rapporti fra forze politiche. Tale giurisprudenza ha evidenziato che, sino a quando le regioni non adottino la norma di dettaglio richiesta dall’art. 2, 1° comma, lett. f), della legge n. 165/2004, il limite alla rielezione non è operativo. Non solo: una volta che le Regioni adottino tale norma, essa vale solo pro futuro e non si applica ai mandati presidenziali già svolti e in corso di svolgimento. Su questo sfondo, i ‘giochini’ per aggirare i limiti ai mandati noti all’esperienza latinoamericana sono stati ampiamente riprodotti, in una desolante commedia degli inganni.
I governi nazionali, dal canto loro, hanno adottato su questo tema un approccio di politique politicienne, rinunciando a impugnare ex art. 127 Cost. le leggi adottate da maggioranze regionali loro omogenee (così fece il governo Renzi di fronte alla legge regionale marchigiana del 2015 e così ha fatto il governo Meloni di fronte alla legge regionale piemontese del 2023), salvo, di recente, impugnare norme analoghe adottate da maggioranze consiliari di segno opposto (questa la recente scelta del governo Meloni di fronte alla legge regionale campana del 2024).
Da ultimo la giurisprudenza costituzionale – per nulla immune da colpe in questa vicenda (si ricordi la sent. n. 2/2004) – è tornata sul punto con alcune importanti riflessioni che si possono leggere nella sent. n. 60/2023, e che è bene riportare letteralmente: “La previsione del numero massimo dei mandati consecutivi – in stretta connessione con l’elezione diretta dell’organo di vertice dell’ente locale, a cui fa da ponderato contraltare – riflette infatti una scelta normativa idonea a inverare e garantire ulteriori fondamentali diritti e principi costituzionali: l’effettiva par condicio tra i candidati, la libertà di voto dei singoli elettori e la genuinità complessiva della competizione elettorale, il fisiologico ricambio della rappresentanza politica e, in definitiva, la stessa democraticità degli enti locali”[69].
Tali riflessioni hanno ad oggetto i limiti alla rielezione dei sindaci dei Comuni con più di 5000 abitanti prevista dall’art. 51, 2° co., del Testo Unico sugli enti locali, utilizzato come parametro della potestà legislativa regionale sarda in materia di sistema di elezione degli enti locali: pertanto, non può essere dato per scontato che esse possano essere utilizzate per il diverso fine di ritenere implicito in Costituzione un limite alla rielezione dei Presidenti regionali o per ritenere immediatamente operativa una norma di legge ordinaria – l’art. 1, 1° comma, lett. f) della legge n. 165/2004 – che la giurisprudenza di merito non ha sinora ritenuto tale. Si torna così allo strabismo fra le buone ragioni costituzionali dei limiti alla rielezione e i meandri del diritto vigente, creati dai diversi poteri dello Stato e delle regioni nell’arco di un quarto di secolo.
10. A mo’ di conclusione
Non spetta ad un modesto osservatore indicare vie d’uscita da questo labirinto, soprattutto se per vie d’uscita si intendono acrobazie interpretative che un giudice dovrebbe utilizzare per tagliare i nodi interpretativi esistenti. In particolare, alla Corte costituzionale non si deve richiedere la prestazione della giustizia nel caso concreto, ma un giudizio sulla legittimità costituzionale delle leggi. Le leggi regionali che aggirano i limiti di mandato ci paiono politicamente pessime e persino fraudolente: ma si tratta di una frode non rivolta direttamente contro la Costituzione, bensì contro una legislazione statale che a sua volta non è la sedes materiae più adeguata e non è configurata in maniera congrua rispetto ai crismi della legislazione concorrente.
Forse la soluzione, in un mondo ordinato, potrebbe essere una riforma costituzionale volta ad introdurre il limite in questione nell’art. 121 o nell’art. 122 Cost.[70], come ipotizzato un quarto di secolo fa nei lavori preparatori della legge cost. n. 1/1999. Ma questo auspicio appare sicuramente eccessivo in un mondo – quello del diritto regionale italiano – che appare tutto fuorché ordinato.
- Il contributo è stato presentato al Comitato di redazione della Rivista in data 31 marzo 2025; nelle more della pubblicazione è intervenuto il comunicato della Corte costituzionale del 9 aprile 2025, che dà conto della dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 1 legge della Regione Campania 11 novembre 2024, n. 16 (recante Disposizioni in materia di ineleggibilità alla carica di Presidente della Giunta regionale, in recepimento dell’articolo 2, comma 1, lettera f) della legge 2 luglio 2004, n. 165). Professore ordinario di Diritto costituzionale presso LUMSA, Roma. ↑
- Esposito C. (1960), Capo dello Stato, in Enc. Dir., vol. VI, Giuffrè, Milano, p. 227. ↑
- A parte i casi delle repubbliche oligarchiche premoderne, si può forse citare la proposta di Alexander Hamilton alla Convenzione di Filadelfia di eleggere a vita il Presidente degli Stati Uniti. ↑
- Più precisamente, si deve rilevare che alcune leggi medievali (del 1330 e del 1362) avevano previsto l’obbligo per il monarca di convocare ogni anno un Parlamento, ma non era stata prevista una procedura per implementare tale regola, con la conseguenza che la convocazione effettiva dei parlamenti rimase nelle mani del monarca. L’ampiezza del margine di discrezionalità di cui godevano i monarchi fu ben evidente durante i regni di Giacomo I e di Carlo I fra il 1603 e il 1640 e in particolare durante la c.d. eleven years tyranny (1629-1640), in cui nessun Parlamento fu mai convocato. ↑
- Triennial Act, 1641. Tale legge prevedeva, inoltre, una procedura di convocazione automatica del Parlamento qualora il Re fosse venuto meno ai suoi doveri. ↑
- Meeting of Parliament Act, 1664 (noto anche come Triennial Act, 1664). ↑
- Triennial Act, 1694. ↑
- La continuità del Parlamento fu peraltro assicurata anche sul piano convenzionale. Per un quadro dettagliato delle norme rilevanti si v. Randall J. G. (1916), The Frequency and Duration of Parliaments, in American Political Science Review, n.4, pp. 654-682, nonché Blackburn R. (1989), The summoning and meeting of new Parliaments in the United Kingdom, in Legal Studies, n. 2, pp. 165-176. ↑
- Si v. Wood G. S. (1969), The Creation of the American Republic 1776-1787, W.W. Norton, New York, 1993 (rist. dell’ed. 1969), pp. 160-161. ↑
- Si v. al riguardo Adams G. B. (1938), Constitutional History of England, Jonathan Cape, Toronto/London, pp. 448-449. ↑
- Si v. Dworak F. F. (a cura di, 2003), El legislador a examen. El debate sobre la reelección legislativa en México, Camara de Diputados-Fondo de Cultura económica, Città del Messico. ↑
- Si v. l’art. 59 della Costituzione messicana del 1917, come riformata dalla legge cost. del 10 febbraio 2014 ↑
- Maddex R.L. (1998), State constitutions of the United States, Congressional Quarterly, Washington D. C., p. XIII, p. XXVII ss.. ↑
- In questa sede può forse bastare l’evocazione dell’efficient secret della Costituzione inglese messo in evidenza da Walter Bagehot (1867), The English Constitution, nell’ed. della Fontana Library, VI rist., 1968, p. 65. ↑
- Si v. ad es. art. 29.2 Cost. francese del 1946, 54.2 L.f. tedesca del 1949; art. 10.3 L.f. ungherese del 2011; art. 39 Cost. Lettone del 1922 (massimo di otto anni consecutivi); art. 80 della Costituzione estone del 1992. ↑
- Esposito C. (1960), Capo dello Stato, cit., p. 232. ↑
- Senza entrare in questa sede nel merito della questione, mi pare che nel regime parlamentare italiano la rielezione del presidente della Repubblica non offra il destro a particolari obiezioni, proprio in ragione delle funzioni di garanzia e di moderazione, ma non di direzione politica, che, almeno in circostanze ordinarie, ne caratterizzano il ruolo. ↑
- L’unica eccezione è quella di Theodore Roosevelt, che cercò di ottenere un terzo mandato nelle elezioni del 1913, ma non fu rieletto. Si trattava, del resto, di una eccezione parziale, dato che il primo mandato presidenziale di Theodore Roosevelt era la prosecuzione del mandato del presidente McKinley, sicché egli fu eletto per la prima volta solo nel 1904 e comunque non si ricandidò nel 1908, dopo quasi 8 anni alla Casa Bianca. ↑
- Per la distinzione fra elementi essenziali ed elementi naturali delle forme di governo v. L. Elia (1970), Governo (forme di), in Enc. Dir., vol., XIX, Giuffrè, Milano, p. 642. ↑
- Per una classificazione non molto diversa da quella riportata nel testo si v. il Rapporto della Commissione di Venezia: European Commission for Democracy through Law (Venice Commission), Report on Term-Limits, Part. I, Presidents, Adopted by the Venice Commission at its 114th Plenary Session (Venice, 16-17 March 2018), nr. 7: a) assenza di limiti alla rielezione; b) esclusione solo della rielezione immediata; c) divieto di rielezione dopo due mandati; d) divieto di rielezione immediata dopo due mandati; e) divieto assoluto di rielezione. ↑
- L’art. 197 della Costituzione colombiana del 1991, in seguito a una riforma costituzionale adottata nel 2015, stabilisce che “No podrá ser elegido Presidente de la República el ciudadano que a cualquier título hubiere ejercido la Presidencia. Esta prohibición no cobija al Vicepresidente cuando la ha ejercido por menos de tres meses, en forma continua o discontinua, durante el cuatrienio. La prohibición de la reelección solo podrá ser reformada o derogada mediante referendo de iniciativa popular o asamblea constituyente”. ↑
- Si v. l’art. 43 della Cost. del 1891, l’art. 52 della Cost. del 1934, l’art. 139-I-a della Cost. del 1946, l’art. 146-I-a della Cost. del 1967 e l’art. 151 della riforma costituzionale del 1969 e l’art. 14-V della Cost. del 1988. Si v. al riguardo de Moraes A. (2013), Presidencialismo, Atlas, Säo Paulo, pp.114 ss.. ↑
- Maddex R.L. (1998), State constitution, cit., p. XX e pp. XXIV ss.. ↑
- Art. 25, 2° comma. Le disposizioni transitorie XIV e ss, prevedevano però un regime speciale volto a consentire la permanenza del generale Pinochet alla presidenza fino al 1990. ↑
- Durante i 38 anni di vigenza di tale Costituzione, due presidenti furono rieletti: Carlos Andrés Pérez (1974-79 e 1989-92) e Rafael Caldera (1969-74 e 1993-98). ↑
- Il divieto di rielezione è ora previsto nell’art. 83. Tale norma fu modificata nel 1927 per consentire la rielezione di Alvaro Obregón nel 1928, ma, dopo che questi venne ucciso prima del suo insediamento, il divieto venne reintrodotto e divenne un pilastro della strategia di istituzionalizzazione della rivoluzione perseguita da Plutarco E. Calles, assieme alla fondazione di un partito che raccogliesse tutti i leaders rivoluzionari. ↑
- Si v. Madero F.I. (2006), La sucesión presidencial en 1910, 1980, ristampa Colofón, Città del Messico. ↑
- Si v. Roznai Y. (2013), Unconstitutional Constitutional Amendments—The Migration and Success of a Constitutional Idea, in The American Journal of Comparative Law, n. 3, pp. 657-719. ↑
- Nel linguaggio utilizzato da tale Corte, la previsione della possibilità della rielezione per un secondo mandato non determinava una ‘sostituzione’ della Costituzione (che avrebbe richiesto la convocazione di una Assemblea costituente), ma ne costituiva una riforma, ammissibile secondo le norme procedurali costituzionalmente previste. ↑
- Si v. Jaramillo Pérez J.F. (2016), La reelección presidencial inmediata en Colombia, in Centro de Estudios de Derecho, Justicia y Sociedad, Constitución, democracia y derechos, Bogotá, Dejusticia, pp. 238 ss.. ↑
- Il divieto di rielezione previsto nella Costituzione dell’Honduras era accompagnato da un divieto di proporre la revisione di tale norma e persino di discuterla: “El ciudadano que haya desempeñado la titularidad del Poder Ejecutivo no podrá ser Presidente o Designado. El que quebrante esta disposición o proponga su reforma, así como aquellos que lo apoyen directa o indirectamente, cesarán de inmediato en el desempeño de sus respectivos cargos y quedarán inhabilitados por diez años para el ejercicio de toda función pública” (art. 239, 2° co.). Tale divieto era implementato dall’art. 330 del Codice penale dell’Honduras. ↑
- Si v. la sentenza della Sala costituzionale della Corte suprema dell’Honduras del 22 aprile 2015. ↑
- Cfr. Salinas Maldonado (2009), C., El Tribunal Supremo de Nicaragua da vía libre a la reelección de Ortega, in El Pais, 21.10.2009, p. 1.8. Si v. inoltre la sentenza del 18 ottobre 2024 della Corte internamericana de Derechos humanos, caso Gadea Mantilla vs. Nicaragua, (Fondo, Reparaciones y Costas), spec. nr. 33. ↑
- Corte Interamericana de Derechos Humanos – Opinión Consultiva OC-28/21 de 7 de junio de 2021 solicitada por la República de Colombia – La figura de la reelección presidencial indefinida en sistemas presidenciales en el contexto del sistema internamericano de derechos humanos, nr. 84: “este Tribunal considera que los principios de la democracia representativa incluyen, además de la periodicidad de las elecciones y el pluralismo político, las obligaciones de evitar que una persona se perpetúe en el poder, y de garantizar la alternancia en el poder y la separación de poderes”. Si v. altresì il nr. 119. ↑
- Si v. i noti casi della Bielorussia, della Federazione russa e dell’Azerbaigian. ↑
- European Commission for Democracy through Law (Venice Commission), Report on Democracy, limitation of mandates and incompatibility of political functions, Adopted by the Venice Commission at its 93rd Plenary Session (Venice, 14-15 December 2012). ↑
- European Commission for Democracy through Law (Venice Commission), Report on Term-Limits, Part. I, Presidents, Adopted by the Venice Commission at its 114th Plenary Session (Venice, 16-17 March 2018), nr. 96. ↑
- Si v. Ríos Vega L.E.-Spigno I. (a cura di, 2020), La Reelección en América Latina en el Siglo XXI, Tirant lo Blanch, Città del Messico. ↑
- Si v. l’art. 77, testo originario, di tale Costituzione. ↑
- In effetti i presidenti Julio Argentino Roca (1880-1886 e 1898-1904) e Hypolito Irigoyen (1916-22 e 1928-30) furono effettivamente rieletti dopo un intervallo. ↑
- Il fenomeno dell’intreccio fra vincoli familiari e leadership politica, proprio – anzi costitutivo – delle monarchie esibisce ormai numerosi esempi anche negli ordinamenti delle repubbliche rappresentative degli ultimi due secoli e meriterebbe uno studio comparato. Si possono menzionare una serie di casi asiatici che hanno visto vedove o figlie subentrare al potere a mariti o padri: fra l’altro, si tratta anche dei primi casi al mondo di donne presidenti o primi ministri (Bandaranaike e poi Kumaratunga nello Sri Lanka, Indira Gandhi in India, Corazon Aquino nelle Filippine, Benazir Bhutto in Pakistan, Yinglut Shinawatra e ora Paetongtarn Shinawatra in Thailandia, Khaleda Zia e Sheik Hasina in Bangladesh; limitatamente alla vicepresidenza: Sara Duterte nelle Filippine). Ma casi di un qualche interesse non sono mancati anche al cuore delle democrazie euro-atlantiche: da Bush a Clinton, da Trudeau a Kallas, da von der Leyen alla coppia Hollande-Royal fino a Charles e Louis Michel, per non citare che alcuni casi (e per tacere di regimi comunisti con deriva dinastica, come quello nordcoreano o quello cubano). Qui interessa solo notare che in taluni casi la successione all’interno di una famiglia potrebbe consentire di vanificare le finalità perseguite con i divieti di rielezione. ↑
- Medin T. (1982), El minimato presidencial: historia política del maximato 1928-1935, Ediciones Era, Città del Messico, rist. 2003. ↑
- I divieti di rielezione, si è visto, possono essere il risultato di una prassi o di una convenzione costituzionale, come nel citato caso degli Stati Uniti dal 1787 al 1952. Ma il divieto può trovare la sua sede anche in norme di diritto privato, come quelle stabilite dai partiti politici. Qui è fin troppo ovvio citare il limite dei due mandati parlamentari previsti nel Movimento cinquestelle italiano o quello dei tre mandati previsto dal Partito Democratico, ma si può aggiungere il ben più rilevante divieto di elezione per più di due mandati alla presidenza del Partito Liberaldemocratico del Giappone, che per circa mezzo secolo si è tradotto automaticamente in un limite alla permanenza in carica del Primo ministro giapponese, dato che la presidenza del LDP proiettava il suo titolare alla guida del governo nipponico. I divieti di rielezione stabiliti dai partiti politici ci riportano, però, ai regimi parlamentari, in cui, fra l’altro, non è infrequente il cumulo della posizione di leader del partito più forte con quella di primo ministro. Nei regimi presidenziali classici, invece, il presidente non può essere al tempo stesso anche capo di un partito, non solo in quanto le costituzioni gli impongono di rappresentare l’unità nazionale e non una forza politica, ma anche in quanto il consolidamento dei partiti e dei sistemi di partito è in genere un processo problematico nei regimi di tipo presidenziale. ↑
- Si v. ad es. l’edizione a cura di Ambrosini G.-Negri G.-D’Addio M. (1955), Il federalista, Nistri Lischi, Pisa, pp. 493-499. ↑
- Ibidem, p. 494. ↑
- Ibidem, p. 496. ↑
- Ibidem, p. 497. ↑
- Ibidem, p. 497. ↑
- Nonché di altri, in parte analoghi, sintetizzati efficacemente da Lupo N. (2024), Il No al terzo mandato come garanzia costituzionale, in La rivista del mulino online, 17 gennaio 2024. ↑
- Su tali facoltà, per il Messico, si v. Carpizo J. (1998), El presidencialismo mexicano, XIV ed., Siglo XXI editores, Mexico, e Id. (1983) , Notas sobre el presidencialismo mexicano, in Carpizo J. (a cura di), Estudios constitucionales, LGEM- Universidad Nacional Autónoma de México, Città del Messico, pp. 327-342. ↑
- … con l’eccezione, come è noto, delle Regioni Valle d’Aosta e Trentino-Alto Adige. ↑
- Mi sono occupato della questione in tempi ormai lontani: v. Olivetti M. (1997), L’elezione diretta del Primo ministro e la teoria delle forme di governo, in Studi parl, e di pol. cost., pp. 59-87 e Id. (2002), Nuovi statuti e forma di governo delle Regioni, Il Mulino-Arel, Bologna-Roma, pp. 223 ss.. ↑
- Quest’ultimo è, a mio avviso, il caso del progetto di legge costituzionale presentato dal governo Meloni sul c.d. premierato, sinora approvato dal Senato (A.S. 935, XIX legisl.) e attualmente all’esame della Camera dei deputati (A.C. 1921 XIX legisl.). ↑
- Nei quali, com’è noto, non sono di norma previsti né la sfiducia né lo scioglimento anticipato dell’organo legislativo-rappresentativo, pur se esistono eccezioni a questa regola di fondo, su cui v. Valadés D. (2007), La parlamentarización de los sistemas presidenciales, Universidad Nacional Autónoma de México – El Colegio Nacional, Città del Messico, 2007. ↑
- Cfr. Pagano F.F. (2025), Il divieto di svolgimento di un terzo mandato consecutivo per i Presidenti delle regioni alla luce delle previsioni dello Statuto speciale siciliano, reperibile al seguente link www.forumcostituzionale.it, consultato in data 6 aprile 2025. ↑
- Su alcune di tali questioni, ho avuto modo di soffermarmi in tempi non recenti, sostenendo, fra l’altro, che il divieto di rielezione dei presidenti è un istituto giuridico che ha in comune con le cause di ineleggibilità, di cui ragiona l’art. 122 Cost., poco più del nome e che esso è, invece, un profilo della forma di governo regionale, con la conseguenza che la fonte competente a regolare la questione non è la legge statale di cornice con la connessa legge regionale di dettaglio, ma lo statuto della regione ordinaria ai sensi dell’art. 123: cfr. al riguardo Olivetti M. (2002), Nuovi statuti e forma di governo delle Regioni ordinarie, Il Mulino/Arel, Bologna/Roma, 2002, p. 257 e Id. (2005), Commento alla legge n. 165 del 2004, in Giornale di diritto amministrativo, 2005, n. 1, p. 11-18. Accoglie questa tesi, fra gli altri, Cosulich M. (2008), Il sistema elettorale del Consiglio regionale tra fonti Statali e fonti regionali, Cedam, Padova, p. 279. ↑
- Lo stesso dicasi per eventuali norme sulla incompatibilità fra la posizione di consigliere regionale e di membro della Giunta. ↑
- Per una articolata analisi dei problemi posti dai limiti di mandato, se inquadrati nell’ottica delle cause di ineleggibilità, si v. Castelli L. (2009), Profili costituzionali del terzo mandato dei Presidenti di Regione, in www.astrid-online.it, nonché in Le Regioni, n. 3-4/2009. ↑
- La quale continua ad apparirmi, anche a distanza di più di venti anni, assai peregrina (per ragioni spiegate in più sedi e che quindi non è necessario qui ripetere). ↑
- Il testo, letto alla luce della giurisprudenza costituzionale, risulta irriconoscibile se confrontato al suo significato originario. ↑
- Un residuo di questa propensione è l’art. 65, 5° co., dello Statuto della Regione Umbria del 2004, secondo il quale il Presidente può essere rieletto solo per un mandato consecutivo. Tale disposizione non fu impugnata dal governo al momento dell’adozione dello statuto umbro. ↑
- Su questa legge si v. fra gli altri Caravita B. (a cura di, 2005), La legge quadro n. 165/2004 sulle elezioni regionali, Giuffrè, Milano; Raveraira M. (2009), Le leggi elettorali regionali, Editoriale Scientifica, Napoli; M. Cosulich (2008), Il sistema elettorale del Consiglio regionale, cit.. ↑
- Sulla natura concorrente della competenza legislativa di cui all’art. 122, 1° co., Cost., si v. Cosulich M. (2008), Il sistema elettorale del Consiglio regionale, cit., p. 212. ↑
- In questo senso Coduti D. (2015), Il limite ai mandati del Presidente della Giunta e i suoi aspetti problematici. Riflessioni a margine della l. reg. Marche 5/2015, in www.forumcostituzionale.it, Rassegna 6/2015 (6 luglio 2015). ↑
- Cfr. sempre Coduti D. (2015), Il limite dei mandati, cit. Sul problema dell’immediata applicabilità della norma si v. Galdi M. (2021), Il terzo mandato del Presidente di regione di fronte al limite dei princìpi fondamentali stabiliti con “legge della Repubblica”, in Nuove autonomie, n. 3/2021, pp. 649 ss.. ↑
- Art. 12.5 della legge reg. Toscana n. 51/2014. ↑
- Si v. le leggi regionali n. 5/2012, n. 5/2015 delle Marche, n. 12/2023 del Piemonte (artt. 5 e 34), n. 16/2024 della Campania. ↑
- Corte d’Appello di Milano, sez. IV civ., sentt. 1403 e 1404/2011 e Corte d’Appello di Bologna, sez. I civ., sent. 453/2011. ↑
- Sent. n. 60/2023, nr. 8 del Cons. in diritto. ↑
- Per un analogo auspicio si v. da ultimo anche Arghittu A. (2025), “Non c’è due senza tre (e il quattro vien da sé)”. Il limite del doppio mandato del presidente della regione alla luce della nuova disciplina elettorale della Campania, in www.federalismi.it, 25 marzo 2025, pp. 45-47. ↑