Terre incolte e abbandonate: un percorso difficile tra Stato, Regioni, Comuni

Alessandro Crosetti[1]

(ABSTRACT) ITA

L’articolo esplora il fenomeno storico e contemporaneo delle terre incolte e abbandonate in Italia, con particolare attenzione al Piemonte. Partendo dall’analisi del Conte Antonio Piola nel XIX secolo, che identificò le cause del degrado agricolo nella parcellizzazione delle proprietà e nella scarsa redditività dei terreni, l’autore traccia l’evoluzione delle politiche legislative per contrastare l’abbandono delle aree rurali. Vengono esaminate le normative dal primo Novecento, come i decreti luogotenenziali e le leggi sulla bonifica integrale, fino alle recenti iniziative regionali, tra cui la Legge Piemonte n. 21/2016, che promuove la costituzione di associazioni fondiarie per il recupero produttivo dei terreni. L’articolo evidenzia le difficoltà attuative delle normative, la frammentazione delle proprietà e l’importanza di modelli associativi e cooperativi per rivitalizzare le aree marginali, concludendo con una riflessione sul ruolo dell’associazionismo fondiario nella tutela del paesaggio agrario e nello sviluppo sostenibile.

(ABSTRACT) ENG

The article examines the historical and contemporary issue of uncultivated and abandoned lands in Italy, focusing on the Piedmont region. Starting with the analysis by Count Antonio Piola in the 19th century, who identified the causes of agricultural decline in land fragmentation and low productivity, the author traces the evolution of legislative policies aimed at addressing rural abandonment. The study covers early 20th-century regulations, such as lieutenant decrees and land reformation laws, up to recent regional initiatives, including Piedmont’s Law No. 21/2016, which encourages the establishment of land associations for productive land recovery. The article highlights the challenges in implementing these policies, property fragmentation, and the significance of associative and cooperative models in revitalizing marginal areas. It concludes with a reflection on the role of land associations in preserving agricultural landscapes and promoting sustainable development.

Sommario:

1. Premessa introduttiva. La crisi della proprietà fondiaria negli Stati sabaudi di antico regime tra arretratezza e pauperismo. Il contributo del Conte Piola – 2. Il problema risalente. L’esodo e l’abbandono delle aree rurali, la “questione agraria” e relativo dibattito legislativo – 3. Le normative del primo novecento sulle terre incolte o mal coltivate: profili critici – 4. Le normative sulla ricomposizione obbligatoria dei fondi frammentati. La lotta al “minifondo”, la “minima unità colturale” e relative difficoltà attuative – 5. Le funzioni di ausilio alle imprese agro-forestali: i modelli associativi e cooperativi – 6. La normativa sull’utilizzazione delle terre incolte, abbandonate o insufficientemente coltivate: il revival di un modello inattuato e desueto – 7. I successivi interventi normativi a favore delle aree montane o “svantaggiate” tra diritto interno ed europeo – 8. La ricerca di nuove soluzioni per la gestione sostenibile delle aree marginali – 9. Le proposte per l’accorpamento e il recupero produttivo delle superfici abbandonate ed incolte. Le Associazioni fondiarie. Profili funzionali ed organizzativi – 10. La prima legge regionale per la costituzione di associazioni fondiarie: L.R. n. 21/ 2016 della Regione Piemonte. Finalità, ambito di applicazione, istituzione, funzionamento, ruolo dei Comuni – 11. Brevi considerazioni conclusive: associazionismo fondiario e tutela del paesaggio agrario

1. Premessa introduttiva. La crisi della proprietà fondiaria negli Stati sabaudi di antico regime tra arretratezza e pauperismo. Il contributo del Conte Piola.

Le cause della povertà agricola negli Stati sabaudi di antico regime hanno origini antiche e lontane segnatamente riconducibili nella diffusa parcellizzazione delle proprietà fondiarie e nella scarsa redditività dei terreni agro-forestali come rilevato da tempo[2], nonostante il fecondo apporto di alcune rilevanti colture come la seta e la vite[3] ed una asserita fertilità dei terreni[4]. Tali condizionamenti hanno avuto pesanti effetti riflessi sino al sette-ottocento anche per le forme arretrate di coltivazione. [5]

Del tutto insufficienti e frammentari gli interventi pubblici[6] che hanno dovuto spesso misurarsi con le proprietà fondiarie nobiliari ove la vecchia aristocrazia traeva dalle terre una fonte di reddito fondata essenzialmente sull’istituto della mezzadria[7]. La gravità della situazione era ben presente tanto da essere oggetto di riflessioni sulle cause e sulle possibilità di affrontare il problema nelle terre agricole sia di pianura che di valle [8] onde trovare soluzioni al problema che veniva ascritto nel più ampio contesto del c.d. pauperismo. [9]

In questo confronto e dibattito un contributo oltremodo rilevante è stato dato dal Conte Antonio Piola che, su ordine di Carlo Alberto che lo incaricava di studiare il fenomeno e suggerire possibili soluzioni[10], pubblicava nel 1836 Considerazioni sulle terre incolte del Piemonte con indicazioni dei mezzi e dei metodi di dissodamento applicabili anche ad altre terre incolte d’Italia nell’interesse del pauperismo [11]. Lo studio del Piola è estremamente preciso e accurato e costituisce una prima analitica rilevazione della presenza quantitativa e qualitativa, nei vari Comuni piemontesi, della diffusione delle terre incolte, variamente e localmente denominate anche brughiere, baraggie, vaude o gerbidi [12]. Lo studio, peraltro, in ottemperanza all’incarico ricevuto, non si limita ad una mera constatazione sia pure analitica del diffuso fenomeno, ma passa ad analizzare le cause che costituiscono motivo del grave degrado economico e sociale. Nel Capo III, il conte Piola registra come il fenomeno, già in allora, siamo nella prima metà dell’ottocento, fosse riconducibile ad un impoverimento demografico dei territori piemontesi e relativo regresso delle capacità colturali. Oltremodo interessante è il Capo IV dello studio che esamina le “operazioni governative” poste in essere per il dissodamento ed il recupero dei suoli incolti, sin dal Settecento sotto i regni di Carlo Emanuele I, di Carlo Emanuele III e di Vittorio Amedeo III, con vari progetti (segnatamente di irrigazione dei terreni asciutti) registrando molta attenzione istituzionale ma scarsi risultati pratici. Il Capo IV si preoccupa di analizzare gli effetti del grave danno economico sia all’Erario che alla popolazione civile contadina con conseguente deleteri effetti migratori per cercare altrove migliori condizioni di vita. Come è dato di constatare il quadro che se ne ricava appare non solo di mero valore storico ma di grande attualità e prospettiva. Le considerazioni del conte Piola, che più interessano in questa sede, sono contenute nei Cap. XI e XII ove lo studio affronta, in modo molto anticipatore, i possibili modi e mezzi per affrontare e risolvere l’annoso problema delle terre incolte e conseguente abbandono economico e demografico. In questi capitoli, in considerazione dell’impoverimento e della parcelizzazione fondiaria, vengono avanzate soluzioni che, pur in un’ottica paternalistica, tendono a favorire il recupereo e la assegnazione delle terre, tramite il coacervo di proprietà sia private che pubbliche, per aumentarne la fecondità dei terreni e conseguentemente la redditività[13].

Le soluzioni proposte dal conte Piola, pur nei limiti della politica assistenziale del tempo, costituiscono un’importante anticipazione del modello associativo e consortile per la ricomposizione delle terre incolte ed abbandonate che sono in tempi successivi verrà a trovare spazio e considerazione nella normativa italiana dedicata al perdurante fenomeno dell’abbandono e dell’incuria del territorio.

2. Il problema risalente. L’esodo e l’abbandono delle aree rurali, la “questione agraria” e relativo dibattito legislativo.

Come già evidenziato i cruciali problemi delle aree rurali hanno origini lontane principalmente dovute all’esodo e al conseguente abbandono delle terre per mancanza di redditività già nella metà dell’Ottocento del secolo scorso [14]. Il fenomeno, dapprima contrassegnato da un’emigrazione stagionale [15], si è venuto aggravando tra le due guerre del novecento con una emigrazione definitiva, impoverendo gravemente il tessuto sociale ed economico delle popolazioni locali alpine e collinari . L’abbandono e lo spopolamento hanno segnato diffusamente tutti i versanti delle Alpi assumendo proporzioni sempre più gravi con esiti irreversibili e con pesanti ricadute negative su tutta l’economia e la vita montana che hanno, da tempo, sollecitato studi [16] e ricerche volte a cercare di arginare, anche se ormai tardivamente, il fenomeno [17].

Le conseguenze più pesanti derivanti dallo spopolamento e dalla riduzione dell’antropizzazione hanno comportato un diffuso frazionamento e una massiccia dispersione della proprietà rurale e forestale [18]. La dispersione dei terreni frammentati è, peraltro, problema risalente (v. infra). Molte volte gli appezzamenti di terreno appartenenti allo stesso proprietario mancano già in origine di continuità, perché divisi da altri e in quanto appartenenti a proprietari diversi. Questa parcellizzazione immobiliare è, da sempre, causa di molti inconvenienti che hanno generato gravi difficoltà nella coltivazione e conduzione dei fondi, conseguenti maggiori spese di lavorazione, diseconomie di gestione, necessità di organizzazione del lavoro, liti tra i proprietari confinanti e conseguente abbandono della gestione delle terre.

Questi ed altri reali danni all’economia rurale e montana, avvertiti da tempo[19], hanno dato luogo a diverse opinioni e diverse opzioni anche normative. Talune opzioni, in omaggio al principio di libertà, non hanno visto altro rimedio possibile se non l’opera spontanea degli stessi proprietari, che per mezzo sia di contratti di acquisto o di permuta, ma anche di forme di associazionismo potessero giungere alla compattazione di fondi più estesi e contigui; altre opzioni, invece, facendo leva sulla prevalenza che l’interesse pubblico della produzione e conduzione deve avere su quello privato, hanno sostenuto, quale via preferenziale, le procedure di permute e trasferimenti coattivi attraverso atti di imperio della pubblica amministrazione [20].

I profili di attenzione naturalistica, ambientale, paesaggistica ed ecologica delle aree montane, pur così esponenziali e rilevanti, non hanno trovato alcun ingresso nel panorama normativo italiano se non in tempi relativamente recenti per effetto di una crescente sensibilizzazione nei confronti di beni a rilevanza collettiva e diffusa (v. infra).

Onde arginare il problema della “fuga” dai terreni rurali e collinari, vanno registrati non sempre lineari percorsi battuti dal legislatore, sia prima che dopo la Carta costituzionale, per tentare di affrontare quella che, da tempo, è stata definita, con espressione assai generica (e quindi ambigua), la c.d. “questione agraria” [21] che ha largamente interessato anche vasti territori abbandonati.

Quello della guida pubblica della proprietà e/o dell’impresa agraria e forestale è problema che, per l’Italia, si trascina dallo scorso secolo con dibattiti ed interventi legislativi assolutamente eterogenei e molto spesso incoerenti.

Da un lato, vi sono stati studiosi (segnatamente gli economisti) che hanno ritenuto che una guida pubblica della produzione agraria sia possibile solo nel quadro di una politica economica “autarchica”, altrimenti le leggi dei mercati internazionali agricoli avrebbero una prevalenza dominante, in tal senso, i pubblici poteri sarebbero chiamati a dare meri indirizzi ed assistenza tecnica agli agricoltori al fine di orientamento onde conseguire una produzione agricola e forestale più qualificata e competitiva. L’esperienza ha, tuttavia, evidenziato che le imposizioni pubbliche di produzioni quantitative non hanno avuto gli esiti sperati, anzi hanno creato forti scompensi non tenendo in sufficiente conto le dinamiche del mercato sia interno che esterno.

Per contro, vi sono stati altri studiosi (segnatamente i giuristi) che hanno sostenuto che lo Stato debba porsi come autorità, normativa ed amministrativa, nel settore della produzione e gestione agricola e forestale, onde evitare che si vengano a creare squilibri sia sociali che produttivi [22].

Questo percorso normativo, è stato contrassegnato, nel tempo, da svariati obiettivi, tra loro non sempre coerenti ed omogenei ed anzi spesso contraddittori, che vanno dal più razionale sfruttamento del suolo, ai più equilibrati rapporti sociali e demografici, ai recuperi di produttività agricola e forestale. Gli strumenti di intervento legislativo si sono orientati in modo assai disparato, a seconda del momento storico e di tendenza. Si è passati dagli obblighi e vincoli per la proprietà rurale privata, ai limiti sulla sua estensione secondo le regioni agrarie e forestali, agli interventi di bonifica delle terre agricole, alla limitazione e trasformazione del latifondo, nonché alla ricostituzione (volontaria o coattiva) delle unità produttive. Il ventaglio di tali strumenti normativi ha evidenziato, nel corso del tempo, tutta la episodicità e la conseguente fragilità (e talora inutilità) attuativa, con scarse, per non dire nulle, ricadute sui processi di degrado delle aree rurali [23].

3. Le normative del primo novecento sulle terre incolte o mal coltivate: profili critici.

Il principio e l’obiettivo del dovere del proprietario di non lasciare incolti i terreni e di aumentarne la produttività entrò nel nostro ordinamento con una serie di decreti luogotenenziali e reali, emanati già durante la prima guerra mondiale e negli anni immediatamente successivi .[24] Tali provvedimenti furono poi raccolti e radunati nel T.U. 15 dicembre 1921 n. 2047 sulla coltivazione delle terre, che, a sua volta, fu modificato da vari provvedimenti successivi, e fu quindi abrogato con R.D. 11 gennaio 1923 n. 252 in coincidenza con le prime leggi sulla bonifica integrale e poi ripristinata nel 1944.

Con tale abrogazione il governo fascista sembrò voler riaffermare il carattere essenzialmente individuale del diritto di proprietà con conseguente libertà di fronte allo Stato; senonchè, successivamente, con D. Lgs. 16 settembre 1926 n. 1606, sull’Opera nazionale dei combattenti, autorizzava l’Opera stessa a chiedere il trasferimento in sua proprietà degli immobili soggetti ad obblighi di bonifica o suscettibili di importanti trasformazioni fondiarie, quando tali opere non fossero state eseguite dai rispettivi proprietari (artt. 14-32 in seguito modificati col D. L. 11 novembre 1938 n. 1824). Tale indirizzo normativo ebbe ulteriore svolgimento nella citata legge n. 215 sulla bonifica integrale, che ponendo alcune opere a carico dei proprietari ne sanzionava con l’espropriazione la relativa inadempienza (art. 42).

La normativa sulle terre incolte, già abrogata con il citato decreto n. 252 del 1923, risorse a nuova vita con il R.D.Lgt. 19 ottobre 1944 n. 279, come risposta alle medesime tensioni sociali esplose, ancora una volta, a seguito della drammatica situazione congiunturale post bellica.

L’iter del procedimento amministrativo di concessione, era strutturato in modo assai sommario, assolutamente privo di contraddittorio (art. 5 D. Lgt 279/1944). La Commissione provinciale, aveva sia compiti istruttori che decisori con assoluta discrezionalità. Ma ciò che più rileva era la del tutto generica definizione contenuta nell’art. 1 di “terreni incolti o insufficientemente coltivati”, mentre completamente assente era l’indicazione dei requisiti che la cooperativa di contadini doveva possedere per beneficiare dell’assegnazione. Il decreto, genericamente individuava quali soggetti attivi del rapporto “le associazioni di contadini, regolarmente costituite in cooperative o altri enti”, imponendo quindi la costituzione di un ente di natura economica.

Dall’ambiguità della disciplina emerge con chiarezza come l’obiettivo del provvedimento non fosse tanto quello di garantire un più razionale sfruttamento ed utilizzazione delle terre, migliorandone il livello produttivo, bensì quello dell’”ordine pubblico”, di assorbire la disoccupazione bracciantile. La conferma di tale orientamento è stata data dalla giurisprudenza della Cassazione sulla “natura” del rapporto di concessione quale atto di imperio della pubblica amministrazione e non di libera volontà delle parti. [25]

I dati statistici hanno poi documentato un’applicazione “distorta” della normativa: delle terre concesse alle cooperative, di fatto, solo il 10% fu gestito collettivamente.

L’istituto aveva poi trovato ulteriore codificazione nella “concessione delle terre incolte”, regolato in parte dall’art. 838 del Codice civile del 1942. [26] In questa sede, è opportuno mettere in luce che oggetto della disposizione non era soltanto la proprietà fondiaria, e quindi l’attività agricola, ma qualunque bene destinato alla produzione e qualunque forma di attività produttiva ivi compresa la coltura boschiva. I doveri che la legge imponeva ai proprietari non si limitavano alla conservazione e al miglioramento dei beni, ma si estendevano all’esercizio, ossia all’utilizzazione di essi, onde indurre il proprietario a dispiegare la necessaria attività per farli produrre nel modo più economico e più redditizio. In caso di negligenza nella conservazione e nella utilizzazione dei beni la legislazione aveva portato a giustificare lo strumento dell’espropriazione quale conseguenza del grave danno comportato alla produzione ed all’economia generale. [27] É appena il caso di evidenziare che tali politiche non ebbero a portare alcun beneficio alle colture agricole e boschive oltremodo marginali agli obiettivi di incentivazione produttiva. [28]

Onde assicurare i diversi obiettivi e le finalità produttive, era ovvio che il sistema facesse perno su un’organizzazione fortemente accentrata e centralizzata che faceva capo al Ministero dell’agricoltura e delle foreste ed, in particolare, per quanto attiene al settore specificamente forestale, alla Direzione generale dell’economia montana e delle foreste e alla Direzione generale della bonifica e della colonizzazione. [29]

Le citate disposizioni rimasero in larga misura inattuate, l’avvento dello Stato democratico non ha ritenuto di abrogare tale normativa, ma ha, tuttavia, sostituito all’espropriazione, quale strumento coattivo (sostanzialmente e finanziariamente disatteso), la semplice sottrazione temporanea del godimento e dell’amministrazione dei beni al proprietario e la concessione dei medesimi ad associazione di contadini.

Gli articoli citati del Codice civile sono rimasti teoricamente in vigore per la generalità dei beni destinati alla produzione, anche se applicabili soltanto alla materia delle terre incolte.

Ai fini della presente indagine, è utile rilevare che l’art. 1 del D. luogotenenziale 19 ottobre 1944 n. 279 (modificato da successivi decreti del Capo provvisorio dello Stato 6 settembre 1946 n. 89 e 27 dicembre 1947 n. 1710, nonché dalle leggi 6 agosto 1948 n. 1095 e 18 aprile 1950 n. 199) ha, per la prima volta cercato di favorire l’associazionismo rurale disponendo: ”Le associazioni di contadini, costituite in cooperative o in altri enti, possono ottenere la concessione di terreni di proprietà privata o di enti pubblici, che risultino incolti o insufficientemente coltivati, cioè tali da potervi praticare colture o metodi colturali più attivi ed intensivi, in relazione anche alle necessità della produzione agricola”. Chiara emerge l’intenzione del legislatore di promuovere l’aggregazione dei fondi tramite strumenti di tipo associativo e cooperativo onde conseguire obiettivi di più adeguata e competitiva produttività agraria.

Il profilo più critico di tale formulazione normativa ha, tuttavia, evidenziato un ampio potere discrezionale dell’autorità amministrativa nel valutare la sufficiente o meno coltivazione dei terreni in relazione alle necessità della produzione agricola nazionale. Tale giudizio era, infatti, attribuito ad una Commissione provinciale, composta da un funzionario tecnico designato dal Ministero dell’agricoltura, quale presidente, e da quattro membri nominati dal prefetto su designazione delle rispettive organizzazioni sindacali, nonché da un funzionario della prefettura. La Commissione aveva il compito di svolgere un’istruttoria sulle condizioni dei terreni e sulle loro attitudini ad una più proficua coltivazione, al fine di decidere sulla concessione richiesta, stabilendo un’indennità da corrispondere al proprietario.

Va anche qui evidenziato che tale meccanismo di assegnazione non ha sortito gli effetti voluti dal legislatore, anche perché a seguito del decreto di assegnazione, l’Ispettorato agrario era chiamato a predisporre il piano dei lavori di miglioramento e di coltivazione, che il concessionario era tenuto ad eseguire con conseguenti oneri sanzionatori in caso di inadempienza anche solo parziale.

Il modello della concessione delle terre incolte ai contadini, ascrivibile agli interventi normativi di tipo autoritativo, non era, peraltro, una concessione in senso tecnico, in quanto si sostanziava essenzialmente nell’imposizione di obblighi produttivi al proprietario e, in caso di inerzia del medesimo, nella costituzione coattiva di un rapporto, contenuto simile alla locazione, tra il proprietario ed una famiglia o una cooperativa colonica, alla quale veniva affidata la coltivazione del fondo. La debolezza di tale modello ha poi indotto il legislatore a soppiantare tale meccanismo con le leggi c.d. di riforma agraria del 1950 anche se con scarsi effetti (su cui infra)

4. Le normative sulla ricomposizione obbligatoria dei fondi frammentati. La lotta al “minifondo”, la “minima unità colturale” e relative difficoltà attuative.

In Italia, come del resto è accaduto anche in altri paesi europei, non si è mai seguito un indirizzo normativo preciso e coerente in quanto troppo spesso influenzato dalla contingenza e dalla causalità. Considerate nel loro insieme, sia pur disordinato e caotico, già secondo un’autorevole lettura [30], le funzioni promosse dal legislatore a favore dell’economia agricola, si possono suddividere in due grandi gruppi: quelle attinenti alle cose, altrimenti detti beni, con riferimento alle valenze e attività produttive, ovvero quelle attinenti ai beni come luoghi fisici e territoriali con interventi di recupero ed assetto territoriale.

A. Il primo gruppo di funzioni hanno riguardato sia le abilitazioni dei terreni agro-forestali sia la loro conservazione. Le funzioni di abilitazione si sono orientate a rendere produttiva, o maggiormente produttiva, la terra in quanto possibile bene in senso giuridico. [31] Esse hanno compreso gli interventi di assetto idrogeologico, di bonifica, di rimboschimento, di riassetto delle zone montane, nonchè interventi infrastrutturali di vario genere (sistemazioni dei corsi dei fiumi e di torrenti, apertura e sistemazione di canali ed assetti viari). Tutte queste normazioni poco hanno aiutato e favorito la singola proprietà agro-forestale nella sua produttività. Per compensare tali diseconomie il legislatore italiano ha diffusamente utilizzato gli strumenti di incentivazione nella forma dei contributi e dei finanziamenti ai proprietari dei fondi marginali impoveriti.

L’ausilio pubblico all’impresa agro-forestale, ha tratto convincimento dal fatto che tali imprese fossero capitalisticamente deboli e fragili e fossero quindi da sostenere finanziariamente [32]. L’incentivazione dei miglioramenti agrari e fondiari ha così sperimentato una gamma assai ampia di strumenti creditizi attraverso contributi in conto capitale, crediti agevolati, contributi su interessi volti alla costruzione di abitazioni rurali e di impianti tecnici, la costruzione di impianti per l’elettrificazione, per l’irrigazione, la costruzione di strade poderali, l’esecuzione di dissodamenti, di piantagioni.

B. Accanto e contestualmente alle funzioni conservative dei territori, si sono sviluppate le normative più propriamente finalizzate alla produzione delle superfici agro-forestali. Gli orientamenti legislativi sono stati rivolti a stabilire le dimensioni ottimali delle organizzazioni produttive rurali, sia come singole imprese sia come associazione di imprese, con una finalità di razionalizzazione fondiaria, dovuta alla coesistenza sul territorio di latifondi e di proprietà “polvere” [33].

La lotta al c.d. “minifondo” [34] è risalente nel tempo e si è venuta articolando lungo due filoni: quelli a carattere preventivo e quelli a carattere successivo. Tra i primi vanno ascritte, la disposizione dell’art. 846 c.c. del 1942 sulla “minima unità colturale” per la quale era vietato, a pena di annullamento del negozio (art. 848 c.c.), il frazionamento dei fondi rustici al di sotto della superficie necessaria e sufficiente per il lavoro di una famiglia agricola o, se il terreno, non fosse appoderato, al di sotto della estensione occorrente per esercitarvi una conveniente coltivazione secondo le regole della buona tecnica agraria (art. 847 c.c.) . Disposizione rimasta inattuata a causa della mancata indicazione dell’autorità amministrativa competente ad individuare le superfici secondo la regola suindicata, con conseguente inattuazione delle disposizioni e degli istituti di riordinamento fondiario regolati dall’art. 849 c.c. (acquisto, in modo coattivo, delle intercluse particelle, da parte del proprietario del terreno intercludente) e dagli artt. 850 c.c. (gestione unitaria delle particelle di dimensione insufficiente) e 851 c.c. (espropri e trasferimenti coattivi previsti nel teorico piano di riordinamento predisposto dal Consorzio dei proprietari terrieri della zona), istituti tutti basati sulla minima unità colturale [35].

Dei rimedi preventivi hanno fatto parte le varie disposizioni che vietavano i frazionamenti inter vivos e mortis causa in tema di successioni delle unità poderali in comprensori di bonifica ed in zone di riforma, anche queste con scarsa ricaduta pratica.

Lo scorporo dei latifondi è avvenuto principalmente con la piccola riforma fondiaria negli anni 1950 (leggi n. 230 e 841) con un meccanismo di funzionalizzazione delle imprese dei piccoli proprietari tramite lo strumento delle assegnazioni dirigistiche che però scarse ricadute hanno portato alla produttività agraria. Per l’accorpamento delle proprietà polvere, o come era stata denominata, “ricomposizione fondiaria” [36], si sarebbero dovuti utilizzare essenzialmente strumenti autoritativi, tramite l’espropriazione del piccolo fondo a favore di accorpamenti territoriali funzionali ad una maggiore produttività, oppure tramite la vendita o permuta al coltivatore non proprietario, o in via preferenziale, al proprietario finitimo (v. leggi n. 590 del 1965, n. 817 del 1971), ma i costi dei procedimenti espropriativi e relativi contenziosi hanno diffusamente scoraggiato tali strumenti.

Altro modello, volto alla funzione produttiva, più volte utilizzato (già D. L. C.P. 6 settembre 1946 n. 89 e quindi Legge 4 agosto 1978 n. 440 v. infra), anche se con esiti fallimentari, è stata la concessione di terre incolte o insufficientemente coltivate. Attraverso la concessione, le cooperative o singoli coltivatori, avrebbero potuto ottenere l’assegnazione di terre incolte o abbandonate a causa della loro insufficiente produttività ma l’efficacia di tale strumento ha registrato una diffusa difficoltà attuativa [37].

Com’è dato di constatare il legislatore ha proceduto, per lo più, in modo empirico e quasi sempre casuale e non tramite un disegno organico. Il fatto è che, nell’ordinamento positivo italiano. hanno, da sempre, convissuto, due indirizzi e orientamenti profondamente contraddittori: da un lato, un favor legis per la conservazione e l’incremento della piccola proprietà contadina, dall’altro, la consapevolezza che tale dimensione è tecnologicamente ed economicamente obsoleta [38], di qui il favor verso la costituzione di consorzi, obbligatori e facoltativi, che rappresentano lo strumento di matrice associativa ritenuto l’unico capace di affrontare e arginare l’abbandono dei terreni agricoli soprattutto nelle aree marginali montane e collinari (v. infra).

5. Le funzioni di ausilio alle imprese agro-forestali: i modelli associativi e cooperativi.

Nel panorama delle stratificazioni normative pregresse in funzione di ausilio alle imprese agro-forestali, due sono stati i modelli che hanno goduto maggiore favore da parte del legislatore: il modello associativo e quello cooperativo che costituiscono due facce della stessa medaglia.

La promozione dell’associazionismo agrario ha origini lontane [39] e non ha seguito mai un percorso lineare ed organico ed anzi ha portato spesso ad esiti ed esperimenti non sempre positivi [40].

La dottrina ha distinto tra consorzi reali (tra proprietari) e consorzi tra produttori (di imprese) anche se la distinzione non è mai stata così netta [41]. Fra i primi sono stati ascritti i consorzi di bonifica (secondo il R.D. n. 215 del 1933 citato erano enti pubblici ad appartenenza necessaria o coattiva ope legis, in quanto il soggetto pubblico investiva gli stessi proprietari consortisti di un’attività pubblica, sottoposta a direttive e vigilanza e con poteri sostitutivi) ed anche i consorzi per il miglioramento fondiario per opere comuni a più proprietari (come ad esempio l’irrigazione).

Un ruolo rilevante hanno assunto i Consorzi agrari provinciali (d. lgs. n. 1235 del 1948) enti di tipo cooperativo, sottoposti a controllo da parte della pubblica amministrazione, con un’assemblea che elegge un consiglio di amministrazione, da cui promana un comitato esecutivo. In realtà, tali consorzi fra proprietari fondiari erano stati essenzialmente concepiti per provvedere all’acquisto e alla vendita collettiva di materie utili all’agricoltura; in origine, avevano carattere di società private, sottoposte al regime delle società commerciali e delle cooperative (v. infra), con D. L. 5 settembre 1938 n. 1593, furono trasformati in enti morali e sottoposti al Ministero per l’agricoltura [42].

L’altro modello perseguito, anche in termini paralleli, è stato quello cooperativo. Le cooperative agrarie fra proprietari e/o fra produttori vanno ascritte nell’antico solco della cooperazione mutualistica intesa come azione rivolta in comune per il perseguimento di un fine economico tra i vari consociati. [43] È un fenomeno oltremodo diffuso, da tempo, in ogni campo dell’attività umana. I caratteri più salienti, sotto il profilo giuridico, di tale forme associative cooperative, oltre alla funzione sociale intrinseca, sono la strumentalità del diritto ad un interesse comune di gruppo, la vincolatezza della destinazione del bene come pure la plurisoggettività, lo scopo comune e l’eguaglianza dei poteri [44].

In funzione di tali obiettivi, nel settore agricolo, numerose sono state le forme e tipologie di cooperazione (dal credito, all’acquisto e produzione di materie prime) ma anche per la migliore rendita delle risorse agro-forestali (tramite l’acquisizione di terreni in proprietà o in affitto). [45] Di qui la creazione di associazioni cooperative di produzione quali caseifici, cantine sociali, allevamenti comunitari e associati e conseguenti agevolazioni tributarie [46].

L’avvento dello Stato costituzionale ha offerto nuova e più adeguata legittimazione e diffusione del modello cooperativo con l’esplicito riconoscimento della funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza speculazione privata nel disposto dell’art. 45 Cost. che ne ha promosso e favorito l’incremento [47].

6. La normativa sull’utilizzazione delle terre incolte, abbandonate o insufficientemente coltivate: il revival di un modello inattuato e desueto.

Il legislatore italiano degli anni settanta dello scorso secolo ha inteso recuperare e riattivare la pregressa normativa sull’utilizzazione delle terre incolte, già sperimentata con esiti assai discutibili negli anni del regime, onde far fronte ad un periodo di crescente crisi produttiva e di ulteriore impoverimento sociale delle aree montane e collinari. L’orientamento normativo non traeva più motivo da rivendicazioni contadine, ma dalla sempre più pressante necessità di un razionale sfruttamento dei suoli agro-forestali, in coerenza con i principi costituzionali della funzione sociale della proprietà dei beni produttivi in aree marginali anche sulla spinta delle legislazioni regionali di quegli anni [48].

Con la legge 4 agosto 1978 n. 440 (Norme per l’utilizzazione delle terre incolte, abbandonate o insufficientemente coltivate), l’intenzione legislativa avrebbe voluto ricostruire in modo nuovo la originaria funzione dell’assegnazione di terre incolte “non più come disciplina delle situazioni soggettive o dei beni, bensì come disciplina delle attività di utilizzazione del territorio” [49] onde raggiungere adeguati obiettivi di sviluppo economico-sociale, strettamente collegati alle peculiari esigenze dei territori marginali e montani.

La normativa aveva previsto un complesso procedimento amministrativo, affidato alle amministrazioni regionali che si sono dimostrate inadeguate all’effettiva applicazione delle previsioni attuative, nonostante numerose siano state le normative poste in campo dalle regioni per il raggiungimento degli obiettivi. [50]

Le difficoltà attuative hanno riguardato essenzialmente i parametri per la determinazione del carattere del terreno “incolto” o “insufficientemente coltivato”, quali presupposti per l’assegnazione dello stesso. Si definivano, infatti, terreni incolti o abbandonati quei terreni suscettibili di coltivazione agraria che non fossero stati destinati ad utilizzazione agraria da almeno due anni. Più dettagliata era, anche rispetto al passato, la definizione di terreni insufficientemente coltivati quali quelli le cui produzioni ordinarie, unitarie medie, dell’ultimo triennio non avessero raggiunto il 40% di quelle ottenute, per le stesse colture, nel medesimo periodo in terreni della stessa zona censuaria, con le stesse caratteristiche catastali, tenendo conto delle vocazioni colturali della zona. Le incertezze individuative erano state riscontrate anche in giurisprudenza dove erano emerse difficoltà interpretative nel differenziare i terreni incolti da quelli abbandonati [51].

Il modello normativo aveva poi trovato ulteriore complicazione anche in relazione ai profili amministrativi. L’individuazione dei terreni incolti avrebbe dovuto avvenire attraverso un censimento da parte delle regioni per le zone caratterizzate da estesi fenomeni di abbandono; tuttavia, occorreva che il terreno fosse censito e classificato come incolto per poterlo dare in concessione. Contro una simile evenienza, al proprietario era data la possibilità di impegnarsi a coltivare direttamente le sue terre, onde evitare il procedimento ablatorio, secondo un piano elaborato e concordato con la regione, con una sorta di remissione in termini per l’adeguamento dell’obbligo di buona coltivazione. Si trattava, di un evidente procedimento di carattere coattivo ed impositivo che non ha certo trovato facile adesione da parte dei proprietari delle superfici incolte.

L’impianto normativo del 1978 presupponeva, inoltre, un complesso procedimento di iniziativa pubblica per la classificazione dei terreni incolti o abbandonati e il relativo accertamento dei requisiti di cui all’art. 2 onde fare luogo all’assegnazione con conseguenti ipotesi di revoca-sanzione. Il problema più delicato era rappresentato dai terreni c.d. silenti con proprietari non identificabili da molti anni e pur non ascrivibili alla categoria dei terreni abbandonati in quanto potenzialmente rivendicabili.

A queste difficoltà procedimentali non vanno poi sottaciuti i problemi inerenti la legittimazione attiva a richiedere l’assegnazione, prevista dalla legge n. 440 (art. 5, 3 comma) in capo ai titolari di imprese singole o associate. Tuttavia, va detto che il chiaro favor normativo nei confronti delle cooperative di giovani tra i soggetti privilegiati nell’assegnazione [52], portava ad escludere automaticamente i singoli ed isolati proprietari così diffusi nei territori marginali montani e collinari.

Una semplice analisi di tali complessi adempimenti amministrativi e procedurali ha portato a constatare la sostanziale inattuazione del disegno normativo, superato anche dagli indirizzi di politica comunitaria della estensivizzazione delle colture e del set-aside [53].

7. I successivi interventi normativi a favore delle aree montane o “svantaggiate” tra diritto interno ed europeo.

Per tentare di contrastare e di arginare il fenomeno dell’abbandono ma anche per tentare di superare la settorialità e la centralizzazione degli interventi, il legislatore, onde dare voce e occasione di espressione alle popolazioni montane, si orientò ad introdurre, agli inizi degli anni ’70 del 900, nuove forme di autogoverno locale, attraverso l’istituzione delle comunità montane con la legge 3 dicembre 1971 n. 1102. [54]

Sorte per superare il modello associativo dei Consigli di valle [55], alle Comunità montane la legge ha, come noto, affidato compiti di promozione e valorizzazione delle zone e dei territori montani, soprattutto quelli più degradati e marginali [56]. In particolare, l’art. 9 aveva previsto espressamente in capo alle comunità montane l’esercizio di funzioni per la riattivazione di colture agrarie in territori montani non più utilizzati a coltura agraria o nudi o cespugliati o anche parzialmente boscati per destinarli alla formazione di boschi. In particolare, tale norma aveva previsto la facoltà da parte della Comunità montana di acquistare e prendere in affitto terreni per destinarli alla formazione di boschi, prati, pascoli o riserve naturali (o di espropriarli in funzione della difesa del suolo) in funzione di rivitalizzazione dell’economia locale [57].

Specifiche leggi regionali avevano poi provveduto a disporre ulteriori attribuzioni e risorse alle comunità montane per la valorizzazione del patrimonio rurale e boschivo.

Va tuttavia avvertito che anche tali previsioni normative non sono riuscite a restituire alla coltura agro-forestale quella dignità ed importanza che è chiamata ad avere dalle sempre più impellenti esigenze non solo quale presidio del territorio ma anche quale risorsa produttiva in un mutato quadro di crisi economica internazionale. [58] Ormai il degrado del tessuto sociale dovuto al massiccio esodo ed abbandono aveva irrimediabilmente compromesso l’ecosistema dei territori montani.

I gravi problemi socio-economici delle terre montane erano stati, peraltro, avvertiti e affrontati anche a livello europeo. La Direttiva 28 aprile 1975 n. 268/75 aveva già proposto, con norma di principio, “di promuovere l’attività agricola necessaria per il mantenimento di un livello minimo di popolazione o per la conservazione dell’ambiente naturale” nelle zone svantaggiate, tra le quali rientrano, ovviamente, le zone di montagna. L’obiettivo è stato ribadito dal Regolamento n. 1257 del 1999 sullo sviluppo rurale, il cui 24° considerando ha rilevato che “il sostegno alle zone svantaggiate dovrebbe contribuire ad un uso continuato delle superfici agricole, alla cura dello spazio naturale, al mantenimento e alla promozione di sistemi di produzione agricola sostenibili”.

Alle zone di montagna sono state poi assimilate le zone svantaggiate, cioè le aree caratterizzate da scarsa densità demografica o tendenza alla regressione, da una popolazione dipendente in modo preponderante dall’attività agricola nonché dall’esistenza di terre poco produttive con risultati inferiori alla media europea [59].

Tali indicazioni permettono di comprendere le ragioni per le quali diverse disposizioni normative sono state dettate a favore degli imprenditori agricoli che operano in montagna o nelle zone svantaggiate, in quanto la natura montana dei fondi hanno una ricaduta di notevole rilievo sull’esercizio funzionale e produttivo dell’impresa agricola.

Dunque, la percezione del problema appare diffusamente condivisa (anche a livello europeo [60]), ma gli strumenti normativi volti ad una generale crescita economica e produttiva dei territori montani, hanno fatto registrare vistose carenze e fallimenti.

Né migliori risultati ha ottenuto la successiva legge 31 gennaio 1994 n. 97 che va ascritta nel solco della legislazione per le zone povere (o depresse) quali appunto le zone montane [61]. Anche tale normazione intendeva farsi carico e riprendere quelle indicazioni di politica legislativa (più volte enunciate) di creare nelle zone rurali montane quelle condizioni di auto-sostenibilità, le sole capaci di superare e doppiare quegli squilibri di natura sociale ed economica con le altre zone (soprattutto di pianura) e di recuperare quella presenza umana troppo spesso trascurata e tradita. All’interno di questo intento di carattere generale, gli interventi erano rivolti essenzialmente alla rivitalizzazione delle attività agro-silvo-pastorali nell’ambito di una concezione basata sulla facilitazione della permanenza degli insediamenti umani nelle zone montane e sullo sviluppo dei nuclei familiari pluri-reddito (art. 3 ss, 13 e 17 L. n. 97/1994).

La legge n. 97/1994 cercava, infatti, di modulare nuove forme di gestione del patrimonio agro-forestale, da parte delle Comunità montane, attraverso strumenti pattizi (le convenzioni con i proprietari) e consensuali (le intese con i Comuni ed altri enti pubblici) nell’ottica dei modelli contrattati dell’azione amministrativa. Solo in via successiva, le Comunità avrebbero potuto passare alla costituzione coattiva (ma qualora lo avessero richiesto i proprietari di almeno i tre quarti della superficie interessata) di consorzi per la gestione del patrimonio agro-forestale [62].

L’obiettivo principale e prioritario rimaneva quello del coinvolgimento e della partecipazione dei proprietari locali. Questo intento emerge chiaramente dal 3 comma dell’art. 9 di detta legge, dove espressamente si diceva che le Comunità montane, nell’individuare “idonei ambiti territoriali per la razionale gestione e manutenzione dei boschi”, erano chiamate a promuovere la costituzione di consorzi di miglioramento fondiario a sensi degli artt. 71 e ss. della citata legge del 1933 n. 215, ovvero di associazioni di proprietà ritenute idonee ai compiti di rimboschimento e di coltura agraria.

Il modello dell’autogestione delle popolazioni montane, del resto, era la linea dominante del dibattito, non solo giuridico, derivante dal constatato declino delle zone montane, generalmente collegato a quello demografico, assunto come specchio della marginalità economico-sociale di quei territori [63]. Tale declino, come ben noto, ha assunto espressioni specifiche nella carenza dei servizi sociali, nel regresso delle attività produttive segnatamente agricole e forestali con il conseguente impoverimento del tessuto sociale [64].

8. La ricerca di nuove soluzioni per la gestione sostenibile delle aree marginali.

Come è già stato messo in luce, dal secondo dopoguerra in particolare, il rapido cambiamento delle condizioni sociali ed economiche del settore agro-forestale, è venuto determinando un rilevante e grave spopolamento degli areali montani e alto-collinari italiani, anche se con profonde differenze in relazione alla morfologia dei settori montuosi più o meno favorevoli ad un’attività agricola stanziale montana e a seguito del diritto ereditario storicamente adottato con conseguente parcellizzazione delle proprietà in mappali “polvere” [65].

La stretta connessione tra l’ambiente e l’agricoltura è emersa con particolare evidenza nelle zone montane e collinari, in quanto in queste aree l’abbandono dell’attività agricola è (stata) causa di un veloce degrado del territorio. In tali aree la presenza dell’uomo, e dell’uomo che coltiva il terreno,è, infatti, un’esigenza indefettibile. Di conseguenza, l’attività agro-forestale si mostra come un modo di una razionale utilizzazione e adeguato sfruttamento del suolo montano, nella misura in cui la sua assenza è capace di pregiudicare la conservazione di un ambiente compatibile con la vita e l’esistenza stessa della collettività.

La “radiografia” di tali problemi non è sfuggita anche al legislatore europeo, che nell’art.18 del citato Regolamento n. 1257 del 1999, ha ben inquadrato le “zone di montagna” come quelle caratterizzate “da una notevole limitazione delle possibilità di utilizzazione delle terre e da un notevole aumento del costo del lavoro dovuti all’altitudine o all’esistenza, nella maggior parte del territorio, di forti pendii che rendono impossibile la meccanizzazione o richiedono l’impiego di materiale speciale assai oneroso”.

La conseguente importante riduzione del numero delle aziende agricole e pastorali-zootecniche e forestali non è stata compensata da un corrispondente aumento della superficie media aziendale in quasi tutti i territori montuosi e alto-collinari. Il fenomeno dell’abbandono delle terre marginali montane e collinari, nonostante la pioggia di interventi normativi e di sostegno finanziario, è così divenuto oltremodo crescente e drammatico, nella maggior parte delle varie regioni. La persistente sotto-utilizzazione delle risorse agro-forestali, ha portato ad una diffusa esclusione sociale dei residenti, di età media sempre più avanzata [66].

Le negative conseguenze e ricadute passive del fenomeno sono ormai evidenti e diffusamente registrate. Oggi, si deve, purtroppo amaramente constatare che, in molti settori alpini, a seguito di un avanzato stato di abbandono delle tradizionali attività primarie agro-forestali, ogni riduzione dell’antropizzazione nelle zone considerate ha determinato una netta perdita di fruibilità e di sostenibilità ambientale ed economica. L’abbandono registra costi sociali elevatissimi in tutti gli areali montani e collinari, come ben documentato da tutte le amministrazioni dei piccoli Comuni di quelle aree.

Si è purtroppo constatato come i vari interventi normativi, succedutesi nel tempo, hanno avuto spesso il carattere dell’episodicità e non dell’organicità, registrando non solo diffuse carenze attuative ma anche vistosi fallimenti [67] .

Le politiche di sostegno, fino ad oggi attuate, con distribuzione a pioggia di risorse e sussidi finanziari, si sono rivelate assai poco efficaci, soprattutto perché volte alla sopravvivenza dell’esistente e non alla promozione e valorizzazione di nuovi strumenti di aggregazione, gli unici capaci di assicurare sostenibilità e futuro ai sistemi produttivi montani.

A fronte di questo quadro desolante, si è venuta con sempre maggiore urgenza l’esigenza di ricerca di nuove soluzioni (anche giuridiche) atte ad affrontare l’abbandono, il frazionamento fondiario, le ridotte dimensioni aziendali, la perdita di opportunità produttive oltremodo potenziali nelle aree montane e collinari.

Le importanti acquisizioni tecnico-scientifiche, rilevate negli ultimi decenni sulla gestione sostenibile delle terre marginali (segnatamente nelle aree montane e collinari), hanno evidenziato che la conservazione e rivitalizzazione delle attività agro-forestali e pastorali (e conseguentemente del paesaggio montano e collinare), può essere affrontata (e risolta) solo attraverso una maggiore redditività delle aziende, conseguibile principalmente con l’ampliamento funzionale delle loro dimensioni onde assicurare la difesa del territorio e la continuità dei relativi prodotti.

Le rilevanti variazioni demografiche e produttive riscontrate negli ultimi decenni negli ambienti marginali sono venute imponendo soluzioni aggiornate di antiche tecniche di gestione territoriale aggregata e collettiva [68], per conservare ed incentivare la conservazione di porzioni significative di superfici abbandonate e degradate. Questo obiettivo è naturalmente possibile solo tramite aziende agro-forestali di sufficiente ampiezza e adeguata conduzione.

Va tuttavia osservato che, se le aziende agro-forestali intendono promuovere produzioni di qualità e di competitività (in relazione alla loro diversità e tipicità collegata alle risorse territoriali presenti) il problema delle loro dimensioni rimane insoluto ed, anzi, sempre più problematico. Le prospettive del sistema prato-pascolivo e selvicolturale appaiono sempre più strettamente collegate alla dimensione ed ampiezza delle aziende che devono necessariamente crescere per non “morire”.

In questo contesto appaiono oltremodo significative le situazioni riscontrabili sulle Alpi, segnatamente occidentali, in relazione alle differenti modalità d’uso dei terreni vallivi e delle porzioni sommitali. Alle maggiori altitudini è possibile riscontrare ampie unità gestionali ancora utilizzate e ricercate, gli alpeggi, più frequentemente di proprietà pubblica comunale ma originariamente proprietà collettive a utilizzazione indivisa, ove la bassa produttività unitaria, determinata dalle difficili condizioni climatiche, è compensata dalla estensione superficiale. Nella media e bassa montagna, invece, così come nella collina, la maggiore produttività unitaria ha giustificato nel passato la proprietà e la gestione individuale delle superfici ed il conseguente e successivo frazionamento ereditario delle stesse. Fino a quando il lavoro è stato quasi esclusivamente manuale, la produttività di quelle terre ne ha comunque garantita l’utilizzazione, anche con notevoli sacrifici umani e sociali (lavoro quasi esclusivamente femminile, migrazioni temporanee della forza lavoro maschile, ecc.). Dal secondo dopoguerra in particolare, la ridotta produttività comparativa del lavoro sui frazionati appezzamenti agricoli ne ha decretato il rapido abbandono e desertificazione umana [69].

L’esperienza (anche normativa pregressa) insegna che, in presenza di terreni abbandonati, incolti, estremamente frazionati, non sono assolutamente più proponibili i tradizionali e sterili strumenti di ricomposizione fondiaria, (per lo più fallimentari anche nelle zone di pianura), quali l’acquisto, la permuta, l’affitto indotto delle superfici di interesse, in ragione dell’alto costo delle operazioni e per le difficoltà di reperire i proprietari o gli eredi (spesso emigrati) di superfici indivise. Tali percorsi, già sperimentati con risultati deludenti, richiederebbero elevati contributi ed interventi pubblici considerati, da sempre ed ancor più oggi in ragione in della crisi economica generale, improponibili per i costi sproporzionati.

9. Le proposte per l’accorpamento e il recupero produttivo delle superfici abbandonate ed incolte. Le Associazioni fondiarie. Profili funzionali ed organizzativi.

La legislazione francese ha offerto, fin dal 1972, soluzioni oltremodo interessanti per l’accorpamento gestionale delle superfici abbandonate ed incolte [70]. La problematica è stata affrontata promuovendo l’Association Foncière pastorale e i Groupements pastoraux, volti a costituire delle basi territoriali adeguate all’utilizzazione agro-forestale e pastorale organizzata tramite il diretto apporto di associazioni di proprietari e produttori [71]. La legislazione francese, al riguardo, è risultata funzionale e l’iniziativa è incentrata sul ruolo promotore dello Stato e delle Comunità locali. Queste esperienze, nel loro complesso positive, hanno indicato una possibile via da percorrere per affrontare il problema dello spopolamento montano e alto collinare e per conservare in quei territori il settore produttivo primario.

In Italia, è possibile, sulla base dei principi costituzionali (art. 18 Cost.) e delle norme codicistiche (artt. 15 ss del c.c.) [72], procedere sulla stessa via, tramite la costituzione di Associazioni volontarie fra i proprietari di terreni abbandonati appartenenti sia a soggetti pubblici (quali il Comune o Comuni limitrofi) sia a privati onde renderli più funzionali e produttivi.

Attualmente, anche a seguito di anticipazioni fornite dalla giurisprudenza in risposta al problema relativo alle ipotesi di cooperazione e di associazionismo economico tra imprenditori agricoli finalizzato alla trasformazione, lavorazione e vendita dei prodotti agricoli (e forestali) è intervenuta la novella legislativa introdotta con il d. lgs 18 maggio 2001 n. 228. Infatti, il comma 2 dell’art.1 di tale decreto, ha modificato l’art. 2135 del c.c. ed ha stabilito che “si considerano imprenditori agricoli le cooperative di imprenditori agricoli e loro consorzi quando utilizzano per lo svolgimento delle attività di cui all’art. 2135 c.c., prevalentemente prodotti dei soci, ovvero forniscono ai soci beni e servizi diretti alla cura e allo sviluppo del ciclo biologico”. Con questa norma, l’associazionismo economico tra gli imprenditori agricoli, ha ottenuto una consacrazione legislativa ad ampio raggio a proposito della qualificazione giuridica dell’attività economica esercitata [73]. Il limite di questa normativa purtroppo sta, per i territori montani e collinari, tradizionalmente aree povere e “svantaggiate”, sia economicamente che demograficamente, nei costi di costituzione di tali imprese agricole collettive anche in considerazione dei già denunciati problemi di aggregazione dei singoli proprietari non imprenditori agricoli a titolo principale.

A favore di utilizzazione di modelli associativi anche più recentemente il T.U. delle foreste e filiere forestali di cui al d. lgs n. 34 del 2018 (noto come T. U. Forestale), recante norme per garantire la salvaguardia delle foreste e del patrimonio forestale, nonché la promozione dell’economia agricola e delle relative filiere produttive, ha evidenziato (v. art. 10, 5 comma) l’associazione fondiaria tra gli strumenti utili per migliorare la gestione dei terreni abbandonati e delle attività selvicolturali[74].

L’Associazione fondiaria, di matrice spontanea, vuole essere uno strumento snello e non costoso per contrastare la parcellizzazione fondiaria che ha reso e rende impossibile la valorizzazione di talune superfici agro-forestali in zone marginali e montane, tramite un processo aggregativo tra i singoli e sparsi proprietari delle superfici fondiarie. L’Associazione fondiaria intende facilitare la salvaguardia e la valorizzazione di singole proprietà fondiarie che individualmente non hanno alcuna validità economica e produttiva. L’Associazione, in tal senso, si pone quale unico interlocutore gestionale di una moltitudine di piccole proprietà parcellizzate all’interno di un più ampio comprensorio terriero. Il coacervo di proprietà anche differenziate consente di valorizzare diverse finalità produttive altrimenti non conseguibili: agro-pastorali, forestali, idrogeologiche, turistiche.

La finalità primaria dell’Associazione fondiaria è, infatti, il recupero produttivo delle proprietà fondiarie frammentate e dei terreni agricoli abbandonati o incolti. Il modello dell’associazionismo fondiario, nel superamento delle pregresse registrate negative esperienze, tende a proporre una logica incentivante e di sensibilizzazione civica, antitetica a quella fallimentare dei conferimenti obbligatori sanzionati attraverso atti di imperio con effetti ablatori.

L’associazionismo fondiario intende essere lo strumento (anche ma non solo giuridico) per riavviare il miglioramento dei fondi agro-forestali marginali e la ricostituzione di unità di coltivazione produttive ed economicamente sostenibili, che possano favorire l’occupazione, il consolidamento e la costituzione di nuove imprese agrarie e forestali quali “attività di interesse generale” sulla base del principio di sussidiarietà orizzontale sancito dall’art. 118 u.c. Cost. [75].

La gestione associata di piccole proprietà terriere, secondo le buone pratiche agro-forestali, consente, infatti, ai proprietari di valorizzare il loro patrimonio, non solo in termini economici, ma anche in funzione di tutela ambientale e paesaggistica (v. infra). In tal senso, un adeguato recupero del suolo concorre all’applicazione delle misure di lotta obbligatoria degli organismi nocivi ai vegetali, alla prevenzione del rischio idrogeologico e degli incendi non meno che alla tutela della biodiversità.

Allorquando in un Comune montano o collinare l’abbandono delle terre raggiunge livelli tanto rilevanti da compromettere la fruibilità del territorio comunale o sovra-comunale, il suo paesaggio, la qualità della vita dei residenti, gli stessi proprietari, consapevoli della situazione di degrado, possono decidere volontariamente di costituire un’Associazione fondiaria, onde conseguire non solo un interesse generale ma anche un obiettivo di maggior personale convenienza economica, con responsabile e positivo superamento del particolarismo e delle diseconomie di scala. In questa prospettiva, le pubbliche amministrazioni locali (regionali e comunali) dovrebbero riconoscere alle Associazioni fondiarie, in attuazione coerente del citato principio di sussidiarietà orizzontale, un ruolo prevalente sul territorio ai fini di una gestione valorizzativa dei terreni agricoli e forestali.

Sotto il profilo giuridico l’Associazione fondiaria è una libera associazione fra i proprietari dei terreni delle zone marginali interessate, eventualmente, ma non necessariamente patrocinata o sostenuta dal Comune. Le finalità, come già anticipato, sono il recupero funzionale delle superfici abbandonate, incolte e anche “silenti”, onde conseguire una più adeguata loro valorizzazione e produttività.

Come per ogni associazione, elementi costitutivi essenziali sono lo Statuto ed il Regolamento [76]. Il Regolamento dovrà prevedere prioritariamente la conservazione e difesa del diritto di proprietà individuale di tutti i conferenti e la non usucapibilità degli appezzamenti conferiti. Sostenendo e promuovendo l’utilizzazione collettiva delle superfici, l’Associazione fondiaria, intende riportare ai tempi pregressi la gestione dei terreni a bassa produttività unitaria, favorendone un possibile incremento di valore non solo produttivo ma anche posizionale in quanto proporzionato alla superficie e alle caratteristiche del terreno conferito, accertabile con idonee procedure tecniche di valutazione della copertura vegetale arborea o arbustiva esistente [77].

La costituzione dell’Associazione fondiaria può avvenire tramite la sottoscrizione dello Statuto da parte dei soci fondatori e con la firma di un verbale di altri soci aderenti [78]. Tale documentazione può essere regolarmente e registrata all’Ufficio del registro di zona, senza spese notarili. [79] La durata dell’Associazione è stabilita dallo Statuto e recepita nel Regolamento, tenendo conto dei tempi necessari per impostare un piano per la trasformazione e la valorizzazione adeguata del territorio interessato in funzione di una produttività sostenibile.

Il Comune o i Comuni interessati alla costituzione di un’Associazione fondiaria sono chiamati ad assumere un ruolo di promozione (anche e soprattutto di sensibilizzazione culturale) [80] volto a incentivare la costituzione della stessa anche tramite provvedimenti amministrativi di propria competenza, quali ad esempio le ordinanze a carico delle proprietà per la periodica falciatura dei terreni abbandonati ai fini di tutela paesaggistica e per la prevenzione da eventuali incendi. Tali provvedimenti devono essere chiaramente funzionali e serventi a favorire l’associazionismo fondiario e, tendenzialmente, non devono assumere valenze meramente sanzionatorie.

Il ruolo del Comune è destinato ad assumere una valenza particolarmente rilevante per i terreni abbandonati o incolti anche denominati “silenti” (oltre il 70% dell’attuale situazione italiana), di cui non si conosce più il proprietario e che ben possono essere assegnati dai Comuni alla Associazione fondiaria. Gli stessi Comuni, in tale prospettiva, si possono fare garanti verso i proprietari non rintracciati, per una corretta gestione ed il ritrovamento delle particelle assegnate.

Il richiamato principio di sussidiarietà non esclude, anzi, implica pur sempre la possibilità da parte del soggetto pubblico di sostituirsi al soggetto privato qualora esso risulti non esercitare adeguatamente o imparzialmente l’attività di interesse generale; a quest’ultimo proposito potranno essere particolarmente rilevanti i meccanismi di controllo e vigilanza che dovranno operare al fine di valutare se l’autonoma iniziativa dei privati sia in grado di soddisfare le particolari esigenze delle collettività emergenti nel contesto territoriale interessato. Senza che ciò implichi necessariamente alcuna forma di programmazione o controllo dirigistico dell’attività dei privati, che costituirebbe un’illegittima ingerenza [81].

Essenziale per avere un quadro conoscitivo delle varie e parcellizzate situazioni proprietarie immobiliari è la mappatura dei terreni non coltivati o abbandonati da parte del Comune anche al fine di dare una garanzia istituzionale ai proprietari dubbiosi sul conferimento degli appezzamenti all’Associazione fondiaria. Ruolo importante del Comune è, infatti, la divulgazione conoscitiva dei vantaggi indotti per i proprietari non utilizzatori dei vari fondi, non soltanto di utilità sociale, ma anche dei benefici economici a chi intende aderire all’Associazione fondiaria [82].

Il proprietario che non intende aderire all’Associazione fondiaria gode, ovviamente, del diritto di protezione civilistico del suo terreno rispetto all’utilizzazione di carattere collettivo-associativo e sarà libero di rifiutare l’adesione all’Associazione per i terreni di sua proprietà [83]. Ciascun aderente conserva comunque e sempre il diritto di recesso dalla stessa Associazione (art. 24 c.c.).

Gli organi direttivi dell’Associazione fondiaria, come per similari enti associativi, sono l’assemblea dei conferenti che elegge, al suo interno, un Presidente e quattro consiglieri onde assicurare la migliore funzionalità operativa e amministrativa. Il Consiglio direttivo potrà nominare un Segretario tecnico con il compito di avviare e seguire le varie procedure idonee alla valorizzazione e gestione dei terreni dell’Associazione. Per meglio conseguire tali finalità di proficua utilizzazione e valorizzazione delle superfici, appare oltremodo utile la redazione, da parte di un idoneo tecnico (agronomo o forestale), di un adeguato piano di gestione dei terreni conferiti onde individuare le migliori soluzioni tecniche ed economiche in funzione delle produttività agro-forestali, a breve e medio termine, nonché del paesaggio [84]. Per un’efficiente conduzione delle proprietà fondiarie conferite l’Associazione può altresì avvalersi di uno o più gestori. In tale ottica, si vuole inserire la gestione attiva e non museale di un immenso patrimonio forestale presente in queste aree, che consenta, con il dovuto equilibrio, sia il taglio colturale, ma che preveda, al contempo, un’adeguata riforestazione.

In linea di principio, l’Associazione fondiaria è un’Associazione senza fini di lucro, in quanto destina le proprie entrate al miglioramento funzionale dell’area accorpata e conferita, onde aumentare nel tempo considerevolmente il valore dell’insieme; eventuali utili, derivanti da canoni di affitto, possono essere distribuiti ai conferenti. In tale eventualità l’Associazione fondiaria si potrà trasformare in una società semplice, ove non diversamente disposto da disposizioni di legge quadro, da tempo sollecitate ed auspicate, per favorire il recupero funzionale e produttivo delle aree “svantaggiate” [85].

Aderendo a tali orientamenti, alcune regioni italiane hanno recentemente emanato leggi volte a favorire la costituzione di associazioni fondiarie denominate brevemente ASFO [86].

Attualmente secondo una recente indagine [87] le ASFO ufficialmente rilevate in Italia sono poco meno di una settantina. La regione con la maggiore concentrazione del numero di ASFO, associati particelle ed ettari di superficie, risulta il Piemonte, seguita da Lombardia e Friuli Venezia Giulia. Questi valori, nel loro complesso non sono irrilevanti se si pensa a ciò che rappresentano, nelle aree più marginali, in termini di potenzialità produttive e segnatamente di servizi eco-sistemici per le collettività locali. Dal quadro di rilevazione elaborato in detta indagine, se si guarda alla dimensione media delle particelle recuperate, soprattutto nelle regioni a maggior diffusione della presenza di ASFO, emerge l’estrema polverizzazione fondiaria, con particelle che, in media, raggiungono a stento un quarto di ettaro. La rilevazione ha messo altresì in evidenza la forte prevalenza della componente privata, nonché la presenza accanto agli associati conferenti, anche una quota di associati non conferenti ma impegnanti ad accettare lo statuto dell’ASFO ed ad operare per il conseguimento degli scopi e delle finalità associative.

Un ulteriore dato molto interessante registrato riguarda la tipologia delle ASFO in essere. Uno degli elementi fondamentali di differenziazione delle ASFO si è rivelato l’orientamento produttivo prevalente e/o privilegiato. Il Report ha avuto modo di rinvenire quattro tipi fondamentali di orientamento ordinamentale: quello forestale, con maggioranza di superfici con copertura forestale; quello misto zootecnico-forestale, con superfici con copertura forestale alternata da altre con presenza di allevamento bovino e/o ovi-caprino; quello zootecnico, con superfici prevalentemente dedicate al prato-pascolo; quello seminativo e/o arboreo di pregio, con superfici dedicate a seminativi e/o colture arboree che concorrono a valorizzare la produzione locale.

10. La prima legge regionale per la costituzione di associazioni fondiarie: L.R. n. 21/ 2016 della Regione Piemonte. Finalità, ambito di applicazione, istituzione, funzionamento, ruolo dei Comuni.

Le gravi compromissioni delle condizioni di esercizio dell’agricoltura, (già dianzi evidenziate), che dal secondo dopo guerra, in Piemonte, hanno subito un rapido declino segnatamente per una regione prevalentemente montuosa e collinare [88], hanno comportato un conseguente importante riduzione del numero delle aziende agricole e pastorali-zootecniche e della relativa produttività, in corrispondenza del fenomeno dell’abbandono delle terre marginali montane e collinari già registrate anche in altre regioni[89]. A fronte di tali negative ripercussioni, la Regione Piemonte, prima in Italia, ha cercato di fare tesoro delle positive esperienze dianzi evocate [90], per introdurre uno strumento normativo idoneo a contrastare l’abbandono, il frazionamento, la perdita di efficienza e opportunità produttive, elementi tutt’altro che trascurabili in una regione il cui territorio è in maggioranza costituito da aree montane e collinari.

A fronte della constatazione delle percepite negative conseguenze agro-forestali, ma anche paesaggistiche del fenomeno in questione, la Regione Piemonte ha approntato il disegno di legge regionale n. 21 del 23 giugno 2016 recante “Disposizioni per favorire la costituzione delle associazioni fondiarie e la valorizzazione dei terreni agricoli e forestali”, nel giro di pochi mesi dedicati al confronto istituzionale e al dibattito assembleare, il Consiglio regionale del Piemonte, all’unanimità, ha approvato tale disegno con una apposita legge di analogo titolo n. 21 del 2 novembre 2016.

Lo strumento che, proprio facendo riferimento alle pregresse sperimentazioni d’oltralpe, è stato ritenuto più funzionale e servente per assicurare autonomia e futuro ai sistemi produttivi agro-forestali collinari e montani, è stata la gestione associata dei proprietari, attraverso la messa in comune dei fonti inattivi, onde riuscire a costituire superfici di dimensioni tali da poter essere redditizie per una attività agricola. [91]

Si tratta di un testo normativo snello e di pochi ma fattivi articoli (13). La ratio legis emerge con tutta evidenza nell’art.1 (Finalità) che promuove il razionale utilizzo delle proprietà agro-silvo-pastorali, il recupero produttivo delle proprietà fondiarie frammentate e dei terreni agricoli abbandonati o incolti, riconoscendo nell’associazionismo fondiario uno strumento per il miglioramento dei fondi e la ricostituzione di unità di coltivazione produttive ed economicamente sostenibili, in grado di favorire l’occupazione, il consolidamento e la costituzione di nuove imprese agricole sul territorio.

In tal modo la Regione intende favorire la gestione associata di piccole proprietà terriere al fine di consentire la valorizzazione del patrimonio terriero dei rispettivi proprietari, rispondere all’esigenza di tutela ambientale e paesaggistica di tali territori, concorrere all’applicazione delle misure di lotta obbligatoria degli organismi nocivi ai vegetali e prevenire i rischi idrogeologici e di incendio (comma 3 art. 1).

L’art. 2 individua l’Ambito di applicazione che investe e riguarda “tutti i terreni di qualsiasi natura, con qualunque tipo di copertura vegetale presente, erbacea, arbustiva, arborea o mista, e riguarda gli appezzamenti di cui è noto il proprietario o di cui non è noto, fatti salvi i diritti di terzi” e quelli soggetti a servitù pubblica.

L’art. 3 affronta un tema che è stato sempre assai delicato e complesso (v. supra) che è quello delle Definizioni, secondo la L.R. 21/2016, si intendono: a) terreni incolti o abbandonati i terreni agricoli non destinati ad uso produttivo da almeno due annate agrarie, ai sensi dell’art. 2 comma 1 della citata legge 4 agosto 1978 n. 440 (Norme per l’utilizzazione delle terre incolte, abbandonate o insufficientemente coltivate), ad esclusione dei terreni sottoposti a vincoli di destinazione d’uso; b) terreni silenti: terreni agricoli di cui alla a) per i quali non è noto il proprietario.

L’art. 4 disciplina l’istituzione e il funzionamento delle associazioni fondiarie, alle quali, nel rispetto del principio di sussidiarietà, riconosce un ruolo prevalente sul territorio ai fini della gestione collettiva ed economica dei terreni agricoli e forestali. Prevede che le associazioni fondiarie siano costituite tra i proprietari dei terreni pubblici o privati al fine di raggruppare terreni agricoli e boschi, in attualità di gestione, incolti o abbandonati, o per consentirne un uso economicamente sostenibile produttivo.

Oltremodo importanti sono le altre disposizioni contenute in tale art. 4 relativamente alla condizione giuridica di tali associazioni, ove si precisa che “ogni associato conserva la proprietà dei propri beni che non sono usucapibili ed esercita il diritto di recesso dalla sua adesione nel rispetto dei vincoli contrattuali in essere tra l’associazione fondiaria e gli eventuali gestori di cui al comma, fatti salvi i vincoli di destinazione d’uso”. È altresì previsto che “presso ciascuna associazione fondiaria sia istituito un elenco delle proprietà associate nel quale sono registrati i titolari dei diritti reali di godimento e dei rapporti contrattuali” (comma 7 art. 4).

Il comma 9 stabilisce infine le modalità di riconoscimento regionale della personalità giuridica delle Associazioni fondiarie costituite.

Una particolare rilevanza sono destinate ad assumere le disposizioni dell’art. 8 (Attività di promozione delle associazioni fondiarie da parte dei Comuni), ove si dispone che “I Comuni promuovono ogni idonea iniziativa finalizzata alla diffusione tra i proprietari dei terreni di una cultura associativa, offrendo un adeguato supporto informativo e tecnico”. Tale disposizione è finalizzata a sollecitare un ruolo promozionale da parte delle Amministrazioni comunali locali per cercare di superare e vincere le diffidenze e le resistenze culturali verso il conferimento e l’associazionismo fondiario. Rimane comunque il principio di fondo che l’associazione fondiaria è una libera associazione fra i proprietari dei terreni delle zone interessate, eventualmente, ma non necessariamente, patrocinate e sorrette dal Comune.

In coerenza con tale ruolo promozionale dei Comuni, l’art. 9 (Conferimento di funzioni agli enti locali), ha stabilito che “Le funzioni di assegnazione delle terre incolte, abbandonate o insufficientemente coltivate …sono delegate alle unioni di Comuni o ai Comuni secondo le seguenti priorità: a) la ricomposizione fondiaria; b) il razionale sfruttamento del suolo; c) la maggiore estensione delle superfici oggetto di recupero produttivo; d), la conservazione dell’ambiente e del paesaggio”.

Molto significative, nell’ottica della promozione a favore dell’associazionismo fondiario, si rivelano le disposizioni contenute nell’art. 10 (Finanziamenti regionali) che prevedono aiuti alle associazioni fondiarie riconosciute dalla Regione, in particolare: a) 500,00 euro per ettaro di superficie lorda per la redazione del piano di gestione dei terreni conferiti dai soci o assegnati e per la realizzazione dei miglioramenti fondiari necessari; b) contributi fino all’80% per la copertura delle spese sostenute per la costituzione dell’associazione fondiaria. I finanziamenti di cui sopra sono concessi prioritariamente per gli interventi di recupero produttivo dei terreni situati nel territorio dei Comuni classificati come montani o collina depressa ai sensi della citata Deliberazione del Consiglio regionale del 12 maggio 1988 n. 826-6658. La Regione al fine di favorire la costituzione delle associazioni fondiarie e contrastare il fenomeno della parcellizzazione fondiaria del territorio classificato montano o di collina depressa, può erogare ai proprietari dei terreni privati che aderiscono ad un’associazione fondiaria riconosciuta un contributo una tantum nella misura massima di 500,00 per ogni ettaro conferito di superficie utilizzabile, a condizione che il conferimento sia di durata non inferiore ad anni quindici.

L’art. 11 ha introdotto le disposizioni di carattere finanziario pluriennali con stanziamenti annuali di 300,00 euro per ciascun anno.

In particolare, dal 2018 in poi la Regione, in applicazione di tale disposizione normativa, ha emanato tre specifici bandi (2018. 2019 e 2022) per un importo totale di euro 820,000 destinati prioritariamente a terreni in comuni montani o di collina depressa per: a) la costituzione di ASFO (contributi fino all’80% per la copertura delle spese sostenute); b) per la redazione di Piani di gestione (500 euro per ettaro di superficie lorda); c) per interventi per le prime opere di miglioramento fondiario; d) un contributo una tantum agli associati conferenti (500 euro per ogni ettaro conferito di superficie utilizzabile, a condizione che il conferimento sia di durata non inferiore ad anni quindici.

Fino ad oggi i Bandi regionali hanno finanziato la costituzione di 50 ASFO nel territorio regionale, prevalentemente nella Provincia di Cuneo (21), Torino (18), Alessandria (7), Asti (1), Verbania (2), Vercelli (1) per un totale di oltre 5000 ettari conferiti, più di 1500 associati privati e 40 pubblici. Sui terreni recuperati prevale l’attività pastorale (alpeggi), seguita dalla coltivazione di ortaggi, piccoli frutti, erbe officinali, grani antichi e colture arboree (mandorleti, noccioleti, vigneti, castagneti da frutto).[92]

Un obiettivo molto interessante da notare è, infine, per il 2025 la programmazione di un ulteriore bando per il recupero di terrazzamenti, a valere sul Fondo FOSMIT (circa tre milioni di euro). Si tratta di risorse non solo dedicate alle ASFO, finalizzate alla manutenzione straordinaria ed al ripristino di terrazzamenti in zone caratterizzate da fenomeni di dissesto o al recupero, ai fini culturali, di terrazzamenti precedentemente coltivati e colonizzati da boschi[93]. La Strategia Sostenibile delle Montagne supporta la costituzione delle ASFO (Missione 1,.1 per limitare l’elevato frazionamento delle proprietà boschive e Missione 3.2 per combattere il consumo di suolo e la frammentazione fondiaria). Infine, il ruolo delle ASFO è anche rilevante nel Piano regionale per la programmazione delle attività di previsione, prevenzione e lotta attiva agli incendi boschivi 2021-2025.

Da ultimo, l’art. 12 aveva previsto come Clausola valutativa l’obbligo della Giunta regionale di trasmettere annualmente al Consiglio regionale una relazione sullo stato di attuazione della legge. [94]

A distanza di quasi dieci anni dall’entrata in vigore della legge piemontese, anche sulla base dei dati censiti e rilevati, emerge un bilancio sostanzialmente positivo degli effetti e delle ricadute attuative, anche se molto rimane da fare per far crescere la sensibilità a favore del modello associativo. Ad un recente Convegno promosso sul tema dall’Accademia di Agricoltura a Torino il 18 febbraio 2025, è emersa l’opportunità di promuovere una legislazione statale ad ulteriore supporto per favorire la costituzione delle associazioni fondiarie su tutto il territorio nazionale, specie nelle regioni del centro sud particolarmente caratterizzate dalla diffusa presenza di terre incolte e abbandonate con conseguenti ricadute negative sulla economia locale agro-forestale. La legge nazionale dovrebbe poi prevedere la possibilità di adeguati ristori economici per i proprietari che intendono conferire i loro terreni onde favorire ed implementare la cultura associativa.

11. Brevi considerazioni conclusive: associazionismo fondiario e tutela del paesaggio agrario.

Obiettivo funzionale dell’Associazione fondiaria è dunque quello di contribuire a recuperare, tramite uno strumento giuridico agile e semplice, le numerose superfici montane e collinari destinate indefinitivamente all’abbandono e catalizzare l’auspicato processo di valorizzazione delle risorse territoriali in funzione della loro diversità, in alternativa all’omologazione dei processi produttivi, che tanto negativamente hanno influito sulla conservazione delle attività agro-forestali negli ambienti marginali.

L’adesione ad un’Associazione fondiaria vuole rappresentare un alto segno di civiltà, di lungimiranza e di appartenenza dei singoli proprietari alla propria terra (il c.d. paesaggio identitario [95]), soprattutto se e quando l’iniziativa nasce volontariamente “dal basso”, anche senza formali sostegni della politica amministrativa regionale o locale [96].

Tramite la riproposta di tradizionali soluzioni gestionali per i territori a bassa produttività unitaria, l’Associazione fondiaria, riunendo e accorpando fondi e superfici (anche minimali) disperse e abbandonate, intende costituire anche un efficace strumento di recupero e valorizzazione paesaggistico delle aree marginali montane e collinari in progressivo e crescente degrado sociale ed economico.

La componente antropica del paesaggio agrario è stata, infatti, da tempo, evidenziata fin dalla felice definizione di Emilio Sereni come “forma che l’uomo, nel corso e ai fini delle sue attività produttive agricole, coscientemente e sistematicamente imprime al paesaggio naturale[97] quale espressione di un binomio inscindibile i cui elementi si alimentano e si condizionano a vicenda. Come l’agricoltura trasforma e modella il territorio e questa trasformazione riflette le esigenze economiche e social e le tecniche produttive, così il territorio condiziona l’attività agricola, favorendo alcune produzioni e scoraggiandone delle altre, in virtù delle sue invarianti morfologiche, ma anche in relazione alla visione e percezione “identitaria” che del territorio hanno le popolazioni locali [98].

Sul piano giuridico le relazioni tra “paesaggio” e “agricoltura” hanno conosciuto nel tempo mutevoli connotazioni, da una fase iniziale di sostanziale indifferenza degli ambiti, si è passati ad una progressiva convergenza e integrazione e il paesaggio agrario è divenuto sintesi ed espressione di un’evoluzione concettuale prima che normativa. Se la tradizionale essenza del diritto agrario è stata intesa come il “diritto della produzione agro-vegetale”, la sua più attuale proiezione consiste nella capacità di aprirsi a nuove prospettive e oggetti di interventi corrispondenti all’evoluzione stessa delle scienze agro-forestali, nelle loro multifunzionalità, con un’attenzione crescente ad “una agricoltura protagonista di un modello di sviluppo sostenibile, con un ruolo attivo nella tutela del paesaggio e nella protezione dell’ambiente”. [99]

In tal senso, le Associazioni fondiarie intendono svolgere un ruolo di primo piano non solo per il recupero produttivo delle superfici abbandonate ma anche per la conservazione e la valorizzazione del paesaggio degli areali montani e collinari e del relativo patrimonio abitativo rurale[100].

La costituzione volontaria e spontanea del sodalizio associativo fondiario vuole essere segno e indice di una nuova e diversa consapevolezza di un ritrovato senso civico volto alla rivitalizzazione di ampie aree abbandonate e degradate con positive ricadute in termini di occupazione (anche giovanile), ambiente, fruizione turistica, ripopolamento demografico.

La diffusione di tali iniziative associative sul territorio potrà risultare banco di prova e punto di partenza per un rinnovato spirito di coesione sociale delle popolazioni locali[101]. Alcuni segnali incoraggianti provengono dai diversi versanti delle Alpi, indotti dalla più generale crisi economica globale, per un “ritorno” dei giovani all’agricoltura montana[102].

  1. Professore ordinario di Diritto amministrativo presso l’Università di Torino.
  2. Su tali difficoltà produttive già F. Gabotto, L’agricoltura nella regione saluzzese dal XI al XV secolo, in Miscellanea saluzzese, Torino, 1902, 1 ss; quindi C. Rotelli, Una campagna medievale. Storia agraria del Piemonte fra 1250 e 1450, Torino, Einaudi, 1973; G. G. Merlo, La campagna del Piemonte centro occidentale tra il XIII e il XV secolo, in Quaderni storici, vol. 9, n. 27, 1974, pp. 905-913; F. Panero, Lavori dei campi e rese ceralicole nei contratti agrari piemontesi dei secoli XII-XVI, in R. Comba-F. Panero (a cura di), Il seme, l’aratro e la messe. Le coltivazioni frumentarie in Piemonte dalla preistoria alla meccanizzazione agricola, Cuneo, Soc. Studi storici, archeologi ed artistici Provincia di Cuneo, 1996, pp. 207-221; Aziende agrarie nel medioevo. Forme della conduzione fondiaria nell’Italia nord-occidentale (secoli X-XV), a cura di R. Comba-F.Panero, Cuneo, Bollettino Soc. studi storici, archeologici ed artistici Provincia di Cuneo, n. 123, 2000; nonché A. Salvatico, Crisi reali e carestie indotte. La produzione cerealicola delle castellanie sabaude del Piemonte occidentale tra la metà del Duecento e il 1348, Alessandria, 2004.
  3. Per la seta: G. Chicco, La seta in Piemonte, 1650-1800: un sistema industriale d’ancien règime, Milano, F. Angeli, 1995; per la viticoltura R. Comba (a cura di), Vigne e vini nel Piemonte antico, Cuneo, Società per gli Studi storici archeologici ed artistici per la Provincia di Cuneo, 1991-1994, 2 voll.
  4. Per tali considerazioni il riferimento è allo scritto di P. Balbo, Discorso intorno alla fertlità del Piemonte letto all’Accademia il XVI di febbraio 1804…stampato l’anno 1819, in Memorie Accademia Scienze, Torino, 1819, vol. XXIV dove l’Autore ridimensiona il mito, sostenuto da autori settecenteschi, della grande fertilità naturale del Piemonte e relativa ricchezza produttiva dell’agricoltura, quanto piuttosto dovuta allo sviluppo della manifattura serica e della risicoltura.
  5. Come stanno a dimostrare studi importanti quali quello di G. Prato, La vita economica in Piemonte a mezzo il secolo XVIII, Torino, 1908 e quello, sia pure limitato alla zona del vercellese, di S. Pugliese, Due secoli di vita agricola. Produzione e valore dei terreni, contratti agrari, salari e prezzi nel Vercellese nei secoli XVIII e XIX, Milano-Torino-Roma, Fr. Bocca, 1908 e i dati raccolti nel volume di D. Niel, L’agricolture des Etats sardes, Torino, 1847; G. Heuzè, L’agriculture de l’Italie septentrionale, Paris, 1864; nonché P. Gribaudi, Sulla produzione agraria del Piemonte nella prima metà del secolo XVII, Torino, Annali Accademia Agricoltura, 1939; F. Bonelli, Mercato dei cereali e sviluppo agrario nella seconda metà del ‘700, in Rivista storica italiana, LXXX, 1968, pp. 785-829.
  6. Per un riscontro sull’insieme di tali interventi approntati dalla Regia Amministrazione sempre ancora utile F. A. Duboin, Raccolta per ordine di materie delle leggi, editti, manifesti, ecc. pubblicati dal principio dell’anno 1681 agli 8 dicembre 1798 sotto il felicissimo dominio della Real Casa di Savoia, Torino, 1826, Agricoltura, XI; v. anche la pregevole opera di F. Sirugo, L’economia degli Stati italiani prima dell’unificazione. Vol. I, Piemonte e Stati Sardi di terraferma, Milano, feltrinelli, 1963.
  7. L’istituto della mezzadria (per riscontri storici: F. Fagiani, Il modo agrario della grande e media proprietà nella pianura dell’alto Piemonte attorno al 1780, in Riv. storia dell’agricoltura, XXII, 1982, pp. 75-105; F. Farini, Della mezzeria. Monografia, Mondovì, Issoglio, 1885), ancora previsto nell’art. 2141 c.c. è stato un contratto diffusamente utilizzato, quale mezzo per la divisione a metà dei prodotti agricoli tra concedente proprietario del bene e il conducente mezzadro ed ha resistito fino alla L. n. 750 del 15 settembre 1964 che, in omaggio al principio costituzionale per conseguire più equi rapporti sociali nell’esercizio dell’agricoltura (art. 44 Cost.) ne ha vietato l’utilizzazione a pena di nullità.
  8. V. ad esempio per rimanere nel Piemonte sabaudo: M. A. Martinengo, Sulle cause del pauperismo in agricoltura, Torino, Stamperia sociale, 1848; G. Merenda, Mezzi pratici per migliorare le quattro raccolte principali del Piemonte ad uso degli agenti di campagna, Carmagnola, 1828; lo studio più rilevante è stato certamente quello di Costa de Beuregard, Essai sur l’amelioration de l’agricolture dans les pays montueux et particulierement dans la Savoie, Chambery, Garrin, 1773.
  9. Il fenomeno del pauperismo, è storicamente dovuto a fatti economici e sociali della più complessa natura, segnati da fatti e circostanze storiche ed endemiche più svariate. Il fenomeno si accentua in certe epoche per situazioni contingenti, quali gli eventi bellici, le crisi economiche con contrazioni di produttività. Sulle cause e relativi interventi per contrastare tale degrado fin dall’età antica, medievale e moderna e relativi strumenti normativi: a mero titolo indicativo: Pont (Abbè), Considerations sur le Pauperisme et l’Emeutè, prècedès d’un apercu sur l’etat poltique et religeuse de l’Europe, Paris-Geneve, 1842; L. M. Moreau-Cristophe, Du problème de la misère et de sa solution chez les peuples anciens et modernes, Parigi, 1851; S. Ronwntree, Poverty: a study of town lyfe, Londra, 1922; L. Galvani, Pauperismo, in Enc. it. Treccani, Roma, 1933, XXVI, 535 ss.
  10. Antonio Piola (Alessandria 31 dicembre 1794-Torino 13 novembre 1868), di antica famiglia alessandrina divenuto Avvocato fiscale ed insignito del titolo comitale con patenti del 3 febbraio 1826 dal Re Vittorio Emanuele I per ragguardevoli impegni sia civili che militari, contribuì alla stesura degli Statuti della Società Reale di Assicurazioni generali e mutua contro la grandine negli Stati di S.M. della quale divenne poi anche Presidente. Carlo Alberto lo nominò Consigliere di Stato e Segretario della Sezione finanze e in tale veste gli conferì l’incarico di studiare il problema delle terre incolte nel Piemonte. Entrò poi a far parte dell’Accademia di Agricoltura, tramite l’Associazione Agraria Subalpina, come socio corrispondente nel 1830 e divenne socio ordinario nel 1843. Il 15 dicembre 1848 Carlo Alberto lo fece inserire quale suo consigliere nella Commissione per ordinamenti relativi all’Agricoltura e Commercio. Per dati biografici T. Plebano, Recensione a Considerazioni sulle terre incolte…in Subalpino, Torino, 1837, I, pp. 88-91; G. Prato, Fatti e dottrine economiche alla viglilia del 1848. L’Associazione agraria Subalpina e Camillo Cavour, in Biblioteca di storia italiana recente (1800-1870), Torino, 1921, vol. IX; nonchè G. Donna D’oldenico, L’Accademia di Agricoltura di Torino dal 1785 ad oggi, Torino, 1978.
  11. Lo studio ebbe una prima edizione nel 1836, Torino, Tip. Eredi Botta ed una seconda, stante l’importanza dell’argomento, dagli Editori Pomba sempre a Torino nel 1841 nella collana Opere utili, cfr. A. Manno-V. Promis, Bibliografia storica degli Stati della Monarchia di Savoia, Torino, 1886, Vol. I, 2430.
  12. Nel Cap. II, il conte Piola forniva non solo un primo quadro dimostrativo della qualità delle terre incolte divise per provincia, ma anche un quadro dimostrativo della natura dei suoli e delle potenzialità dei suoli e relativa potenziale produttività.
  13. Stante l’ottica politica e sociale del tempo, volta al contrasto del pauperismo, lo studio del Piola privilegia soluzioni di intervento pubblico volte a creare idonee stutture di supporto e di accoglienza alla diffusa povertà (specie ma no solo contadina) con appositi granai, stalle per il bestiame, depositi, cantine, cucine.
  14. Dal 1870 al 1890, come noto, si verificò in Italia una grave crisi dell’agricoltura che colpì piccoli e grandi proprietari con rilevanti ripercussioni sull’economia e sulla politica del Paese. Anche se incerte e lacunose per questi tempi sono le statistiche, è un dato pacifico che tale crisi ha comportato una “fuga” dai “campi” con incremento di emigrazione dapprima stagionale e poi “permanente”. Su tale crisi e sulle sue ricadute, a mero titolo indicativo, soprattutto dopo gli esiti dell’Inchiesta agraria di S. Jacini, v. già C. Bertagnolli, L’economia dell’agricoltura in Italia e la sua trasformazione secondo i dati dell’inchiesta agraria, Roma, 1886; nonché Ministero d’Agricoltura, Industria e Commercio, Notizie intorno alle condizioni dell’Agricoltura negli anni 1878-1879, Voll. I-III, Roma, 1881-1882; quindi A. Caracciolo, L’inchiesta agraria Jacini, Torino, 1958; S. B. Clough, Storia dell’economia italiana dal 1861 ad oggi, Bologna, 1964; G. Luzzato, L’economia italiana dal 1861 al 1914, Milano, 1963; G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna, Milano, 1970, spec. Vol. IV.
  15. L’emigrazione stagionale è storicamente risalente nelle vallate alpine come ha esattamente rilevato già R. Blanchard, Les Alpes Occidentales. Le versant piemontais, Grenoble-Paris, 1952, Tome sixième, pp. 293 e 314; dati anche in G. Casalis, Dizionario geografico, storico, statistico, commerciale degli Stati di S.M. il Re di Sardegna, Torino, 1835-54; per indicazioni più risalenti il contributo di R. Comba, Metamorfosi di un paesaggio rurale. Uomini e luoghi del Piemonte sud-occidentale dal X al XVI secolo, Torino, 1983, quindi lo studio di G. Prato, Censimenti e popolazione in Piemonte nei secoli XVI, XVII e XVIII, in Riv. di Sociologia, X, 1906, 117 ss; della problematica sull’emigrazione italiana, oltre ai numerosi scritti economici e sociali, vi sono stati anche contributi giuridici risalenti: già V. Grossi, Emigrazione, in Trattato di diritto amministrativo, a cura di V. E. Orlando, Milano, 1904, vol. IV, parte II, pp. 121-213; L. Raggi, L’emigrazione italiana nei suoi rapporti con il diritto, Città di Castello, 1903; Id., La règlementation des migrations, Ginevra, 1928; G. De Michelis, L’emigrazione italiana: legislazione e statistiche, Palermo, 1927; L. Varlez, Les emigrations internationales et leur règlementation, pubblicazione dell’Academie de droit International, 1929; più recentemente F. Manzotti, L’Italia e gli emigranti, Milano, 1970, vol. I, 357 ss.
  16. Per ordine di importanza vanno anzitutto ricordati gli Atti della Giunta su l’Inchiesta agraria sulle condizioni della classe agricola (decretata con legge 15 marzo 1877), Roma, 1881-1890, dovuta all’intelligente opera di S. Jacini. L’inchiesta aveva avuto per oggetto le caratteristiche della proprietà fondiaria, le colture e i metodi di coltivazione ed aveva rivelato come, a vent’anni dall’unificazione, permanessero diverse realtà ambientali e produttive, legate a consuetudini, usi e colture diverse, ove esistevano ampie estensioni incolte o poco produttive, a causa i metodi arcaici di coltivazioni, accanto a vaste estensioni di latifondo. Sul rilevante apporto di tale inchiesta assai poco recepita v. A. Caracciolo, L’inchiesta agraria Jacini, Torino, 1973.
  17. V. in proposito le conclusioni dell’importante inchiesta del Comitato della geografia e dell’Istituto Nazionale di economia agraria: INEA, Lo spopolamento montano in Italia, 8 voll., Roma, 1932-38; nonchè M. Fulcheri, Lo spopolamento delle valli, Ufficio della Montagna, Cuneo, 1930; R. Toniolo, Per uno studio sistematico delle vallate italiane, in Atti del XI congresso geografico italiano, Napoli, 1930, vol. II; S. Jacini, Nuovi lineamenti di una politica dell’emigrazione, in Idea, 1945, I, n. 1, 6 sg; S. Sorgnoni, Ripercussioni demografiche e sociali della emigrazione italiana, in Prev. soc., 1956, 1273 sg; v. inoltre C. Barberis, L’esodo: conseguenze demografiche e sociali, in L’esodo rurale e lo spopolamento della montagna nella società contemporanea. Atti del convegno italo-svizzero, Roma, UNESCO, 24-25 maggio 1965, Milano, 1966, 25 sg; G. Tagliacarne, Spopolamento montano ed esodo rurale: misure e prospettive, ivi, 6 sg; tra i giuristi con particolare attenzione S. Cassese, Aspetti giuridici della legislazione sulla montagna, in L’esodo rurale e lo spopolamento della montagna nella società contemporanea, Milano, 1966; E. Martinengo, Montagna oggi e domani, Torino, 1968; nonché gli Atti del Convegno internazionale Cuneo 1-3 giugno 1984 su Migrazioni attraverso le Alpi occidentali, Regione Piemonte, 1988 con vari contributi. Un quadro statistico desolante dello spopolamento delle aree montane, ancorchè datato e riferito agli anni 1910-1961 si trova in M. Tofani, L’ambiente economico e sociale, nel volume L’Italia forestale nel centenario della fondazione della scuola di Vallombrosa, Accademia Italiana di Scienze forestali, Firenze, 1970.
  18. Su tale fenomeno v. già G. B. Allaria, Lo spopolamento alpino e il frazionamento e la dispersione della proprietà rurale, Torino, 1940, 72 ss; D. Tabet, Il problema della montagna, in Atti del Convegno nazionale della montagna e del bosco, Firenze, 1947 con riserva di ulteriori indicazioni. Oltremodo rilevante per l’analisi di questi problemi è stato il contributo di A. Serpieri, La montagna, i boschi e i pascoli, Roma, 1920.
  19. Sulle problematiche presenti nelle zone montane e sulle ricadute e relativi profili giuridici, già sin dalle previsioni contenute nell’art. 44 della Costituzione, a mero titolo indicativo: già C. Desideri, Montagna, in Enc. dir., Milano, 1970, XXVI, pp. 883 sg; E. Favara, Territori montani, in Nov. Dig. it., Torino, 1974, XIX, pp. 176 sg; quindi F. Merloni, Montagna, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1990, XX, ad vocem; M. Tamponi, Zone montane (proprietà delle), in Enc. giur. Treccani. Aggiorn., Roma, 1995, pp. 5 sg; più recentemente A. Crosetti, Il difficile governo dei territori montani in Italia: percorsi e sviluppi normativi, in Riv. giur. ed., 2017, 4, pp. 177-220; per i profili antropologici, a vario titolo: P.P. Viazzo, Comunità alpine. Ambiente, popolazione, struttura sociale nelle Alpi dal XVI secolo a oggi, Bologna, Il Mulino, 1990; C. Arnoldi, Tristi montagne. Guida ai malesseri alpini, Scarmagno, 2006.
  20. In questo dibattito si inseriscono i contributi ancorchè datati di V. Presutti, L’Amministrazione pubblica dell’agricoltura, in Trattato di diritto amministrativo di V. E. Orlando, Milano, 1902, I, pp.1-183; E. Marenghi, La funzione sociale della proprietà fondiaria ed il soverchio frazionamento della terra, Piacenza, 1906; C. Chaveau, Le rembrement de la propriètè rurale, Paris, 1918; A. Tassinari, Frammentazione e ricomposizione dei fondi rurali, Firenze, 1922 con riserva di ulteriori indicazioni.
  21. La storia politico-amministrativa dell’agricoltura in Italia è in gran parte da riscrivere, avendo avuto il fattore politico, nel governo e nella gestione amministrativa nel settore, un’importanza enorme. Tra i contributi generali il già citato, Presutti, L’amministrazione pubblica dell’agricoltura; G. Bolla, Agricoltura, in Nuovo Dig. it., Torino, 1938, I, 270 ss. Molto interessante, ancorchè datata, è l’esposizione economico-politica di M. Bandini, Cento anni di storia agraria italiana, Roma, 1937; F. Benvenuti, Gli aspetti giuridici degli interventi pubblici in agricoltura, Bologna, 1971; sulle vicende delle strutture amministrative una breve sintesi è in P. Calandra, L’amministrazione dell’agricoltura, INEA-ISAP. Bologna, 1972; ulteriori dati in L. Acrosso, Agricoltura (disciplina amministrativa), in Enc. dir., Milano, 1959, I, pp. 907 sg; E. Rotelli, Il Ministero dell’agricoltura e foreste, Milano, Archivio ISAP, 1962; E. Romagnoli, Agricoltura, in Nov. Dig. Appendice I, Torino, 1980, 165 ss; nonchè C. Desideri, L’amministrazione dell’agricoltura, Roma, 1981.
  22. Tali diverse opzioni sono da riconnettere al fitto dibattito che ha caratterizzato, già ad inizio del 900, sull’azione, sia legislativa che amministrativa, dei poteri pubblici nel campo dell’economia. La posizione dello Stato e dell’ordinamento giuridico nei confronti dell’economia aveva imposto una riflessione in ordine alle relazioni tra norma giuridica e fatti economici. Sul punto si erano registrate diverse impostazioni, a seconda che il presupposto teorico della neutralità o meno della norma giuridica rispetto al fatto economico. Si erano così contrapposte la concezione della neutralità della norma rispetto ai comportamenti anche economici dei privati, alla concezione più marcatamente funzionalistiche secondo la quale la norma è strumento di conformazione della realtà anche economica. Parallelamente si erano altresì diffuse, da un lato, la dottrina c.d. individualistica, dall’altro lato, quella del collettivismo economico. In realtà, entrambe le concezioni erano condizionate dalle scelte di politica legislativa che di volta in volta i fatti economici suggerivano e talora imponevano. Per un esame di tali diverse posizioni: M. S. Giannini, Diritto pubblico dell’economia, Bologna, Il Mulino, 1977, pp. 13 ss; B. Cavallo-G. Di Plinio, Manuale di diritto pubblico dell’economia, Milano, 1983, cap. I e II; G. Quadri, Diritto pubblico dell’economia, Napoli, 1980, spec. cap. I.
  23. Come messo in luce già fin degli Atti della II Assemblea dell’Istituto di dir. agrario internazionale e comparato, Milano, 1964; e nello studio di R. Perez, Aspetti giuridici della pianificazione in agricoltura, Milano, 1971; nonché Id., Vicende organizzative dell’amministrazione dell’agricoltura, in Riv. dir. agr., 1973, 191 ss e in La legislazione economica italiana dalla fine della guerra al primo programma economico, a cura di F. Merusi, Milano, 1974, 557 ss; N. Fabiani, L’Agricoltura in Italia tra sviluppo e crisi, Bologna, 1979, con più diretto riferimento alle aree montane v. E. Giorgi, Montagna (Politica della), in Enciclopedia agraria italiana, Roma, 1972, VII, 781 ss.
  24. Decreti 10 maggio 1917 n. 788; 14 febbraio 1918 n. 147; 2 settembre 1919 n. 1633; 22 aprile 1920 n. 515 e vari altri. Com’è stato evidenziato, tali molteplici provvedimenti risalgono alla legislazione di emergenza 1915-1922, diretta anzitutto a soddisfare le aspirazioni delle masse contadine alla proprietà del fondo e spesso, sostanzialmente, a legittimare le occupazioni abusive di latifondo estensivo ad opera della manodopera bracciantile disoccupata e affamata di terra (A. Carrozza, Terre incolte (Concessione di), in Enc. forense, Milano, 1962, VII, 622 ss; Id., L’assegnazione di terre, in Manuale di diritto agrario italiano, a cura di N. Irti, Milano, 1978, 375 ss).
  25. Tra le molte Cass. Sez. Un., 31 luglio 1950 n. 2258; Id., Sez. Un. 25 ottobre 1957 n. 4120, in Giur. agr. it. 1958, 636,
  26. La normativa aveva, infatti, previsto anche provvedimenti di carattere coattivo, su cui: M. Lessona, Le ordinanze prefettizie per la gestione delle terre incolte, in Riv. dir. agr., 1936, 30 ss; S. Pugliatti, L’occupazione e la gestione coattiva delle terre incolte, ivi, 175 ss; Id., Commentario al Codice civile, diretto da S. D’Amelio, Torino, vol. III, 1943 contadini, Milano, 1947; Id., Natura giuridica delle concessioni di terre incolte, in Giur. Cass. Civ., 1954, II, 210 ss.
  27. L’espropriazione poteva essere pronunciata contro il proprietario non soltanto quale sanzione, ma anche quale mezzo che avrebbe potuto permettere allo Stato, di ottenere, attraverso l’opera del successivo proprietario, quegli effetti produttivi di utilità generale che i beni stessi non avevo potuto ottenere con il precedente proprietario inattivo.
  28. Carenze messe in evidenza anche in successivi contributi: A. Moschella, Terreni incolti, in Nuovo Dig. It., Torino, 1940, XII; Id., Terre incolte (concessione di), in Nov. Dig. It., Torino, 1973, XIX, 152 ss; A. Latessa, Le terre incolte, Firenze, 1951.
  29. Il Ministero dell’agricoltura e delle foreste era stato creato con R.D. 12 settembre 1929 n. 1661 ad esse era stato affidato il compito di sovrintendere alla politica e amministrazione dell’economia nel campo dell’agricoltura, della bonifica, della conservazione ed incremento del patrimonio forestale. Sull’origine e sulle funzioni del Ministero dell’Agricoltura e delle foreste, con separazione dall’antico Ministero dell’agricoltura, industria e commercio di cui al R.D. 22 giugno 1916 n. 755: E. Rotelli, Il Ministero dell’agricoltura e delle foreste, Milano, Archivio ISAP, 1962, 250 ss; Acrosso, Agricoltura (disciplina amministrativa), cit., 909 ss; cui adde F. Adornato, Il Ministero dell’agricoltura e delle foreste, Roma, 1991.
  30. Come sempre con grande intuizione Giannini, Diritto pubblico dell’economia, cit., 241.
  31. Sulla cui nozione si deve rinviare a S. Pugliatti, Beni e cose in senso giuridico, Milano, 1962; Id. La proprietà nel nuovo diritto, Milano, 1954.
  32. Segnatamente in quello delle aree marginali e disagiate quale sostegno alle attività agro-forestali. In generale su tali strumenti di politica economica tra le trattazioni, in particolare, G. Pericu, Le sovvenzioni come strumento di azione amministrativa, Milano, 1967 e parte seconda Milano, 1971, per il settore agricolo v. il contributo di A. Brancasi, I finanziamenti pubblici in agricoltura tra programmazione e regioni, CIRIEC, 1974.
  33. Il contrasto al problema del latifondo (su cui per riferimenti generali v. già G. Valenti, Il latifondo e la sua possibile trasformazione, in Studi di politica agraria, 1914, 145 ss, 253 ss; F. Di Rudinì, Terre incolte e latifondo, in Giornale degli economisti, 1895, serie II, 170 ss; Z. Ziino, Latifondo e latifondismo, Palermo, 1911; R. Ciasca, Il problema della terra, con pref. di G. Prato, Milano, 1921) aveva trovato in A. Serpieri un tenace sostenitore che affermava il dovere da parte dello Stato, in antitesi alle teorie liberiste, di intervenire mediante le opere di trasformazione fondiaria in tre fasi: opere pubbliche a carico dello Stato; opere di bonifica agraria e di colonizzazione sui vari fondi tramite il concorso pubblico e privato; opere di esclusiva esecuzione privata. Il disegno riformistico aveva formato oggetto del R.D.L. 18 maggio 1924 n. 753 e della successiva citata legge sulla “bonifica integrale” del 7 dicembre 1928. Sulle finalità e gli obiettivi di tali interventi normativi a contrasto del latifondo: A. Serpieri, Osservazioni sul disegno di legge “Trasferimento del latifondo e colonizzazione interna”, Piacenza, 1922; Id., La politica agraria in Italia ed i recenti provvedimenti legislativi, Piacenza, 1925; A. Marescalchi, Note sull’agricoltura italiana dell’ultimo venticinquennio, Roma, 1927; F. Virgili, L’Italia agricola odierna, con pref. di G. Acerbo, Milano, 1930; E. Jandolo, Bonifica integrale e progresso della legislazione sulle opere pubbliche, Firenze, 1930; G. Acerbo, L’agricoltura italiana nei suoi problemi e nelle sue necessità, Roma, 1931; R. Ciasca, Latifondo, in Enc. it. Treccani, Roma, 1933, XX, 577 ss.
  34. Per “minifondo” si individuavano due situazioni diverse; una caratterizzata dalla frammentazione del fondo rustico in tante distanti porzioni tutte appartenenti allo stesso titolare e l’altra della polverizzazione dei fondi, derivante prevalentemente dalle norme sulla successione ereditaria, che si definiscono “fazzoletti di terra”. In tale direzione v. anche la L. 3 giugno 1940 n. 1078 recante norme per evitare il frazionamento delle unità poderali assegnate a coltivatori diretti. Sul problema A. Moschella, Il regime giuridico della ricomposizione delle proprietà frammentate, Milano, 1939: S. D’Amelio, La piccola unità colturale e indivisibile, in Riv. dir. agr., 1940 5 ss; Zappi-Recordati, Polverizzazione e ricomposizione della proprietà rurale con particolare riferimento alla minima unità colturale., in Riv. it. economia, demografia e statistica, 1956, 111 ss.
  35. Per le difficoltà attuative dell’istituto della minima unità colturale e sul riordinamento della proprietà rurale nella fitta letterature v. già F. Bassanelli, Il problema della tutela giuridica della minima unità fondiaria, in Riv. dir. agr., 1941, I, 245 ss; S. Pugliatti, Del riordinamento della proprietà rurale, in Commentario al Codice civile, diretto da M. D’Amelio, Firenze, 1942, vol. III, 180 ss; Id., La ricomposizione delle proprietà frammentate secondo le nuove norme della bonifica integrale, in La proprietà nel nuovo diritto, Milano, 1964; S. Crisci, Sulla minima unità colturale, in Archivio ricerche giuridiche, 1956, II, 294 ss; S. Menghi, La minima unità colturale, in Riv. dir.agr., 1957, I, 455 ss; A. Tabet, Proprietà rurale (Riordinamento della), in Nov. Dig. it., Torino, 1967, XIV, 5 ss; A. Grasso, Aspetti giuridici della ricomposizione fondiaria in Italia, Milano, 1974; Id., Proprietà rurale (riordinamento della), in Nov. Dig. it. Appendice, VI, Torino, 1986, 58 ss; G. Rossi, Appunti sulla ricomposizione fondiaria, Napoli, 1978; A. Moschella, Minima unità colturale, in Enc. dir. Milano, 1976, XXVI, 461 ss; A. Giuffrida, Il problema della minima unità colturale, in Riv. dir. agr., 1964, I, 542 ss; Id., La ricomposizione fondiaria e la conservazione delle strutture, in Diritto agrario e forestale italiano e comunitario, diretto da L. Costato, E. Casadei, G. Sgarbagnati, Padova, 1999, 125 ss; quindi G. Casarotto, La minima unità colturale, in Trattato breve di diritto agrario italiano e comunitario diretto da L. Costato, Padova, 2003, 535 ss.
  36. In ordine agli strumenti e agli esiti della c.d. “riforma fondiaria”: Puntuali riferimenti su tale processo normativo in E. Romagnoli, Aspetti dell’unità aziendale in agricoltura, Milano, 1957; Id., Riforma fondiaria e riforma agraria, in N. Irti (a cura di), Diritto agrario italiano, Torino, 1978, 553 ss; M. Barcellona, Dalla bonifica integrale alla riforma agraria, Per una riflessione su proprietà e Stato, in Nuovo dir. agr., 1983, 63 ss; A. Carrozza, Il riordinamento della proprietà rurale, in Trattato Dir. civ., a cura di Rescigno, Torino, 1982, 409 ss; E. Casadei, Contributo ai problemi della ristrutturazione fondiaria in agricoltura, Bologna, 1984; F. Prosperi, La tutela dell’unità fondiaria, Napoli, 1993; G. Casarotto, La riforma fondiaria e agraria, in Trattato breve di diritto agrario italiano e comunitario,diretto da L. Costato, cit., 521 ss; C. Ruperto, Brevi considerazioni di fine secolo sulla riforma fondiaria, in Scritti in onore di E. Romagnoli, Milano, 2000, 721 ss; N. Ferrucci, Riordinamento della proprietà rurale, in Dig. (Sez. civ. Aggiornamento), Torino, 2000, 656 ss ed ivi ampi riferimenti bibliografici.
  37. Come risulta dalle puntuali valutazioni anche dopo le riforme introdotte dall’ordinamento costituzionale del 6 agosto 1948 n. 1095 e del 18 aprile 1950 n. 199 cfr. G. Landi, La concessione di terre incolte ai contadini, Milano, 1947; Id., Natura giuridica delle concessioni di terre incolte, in Giur. Cass. Civ.,1954, II, 210 s; M. Lessona, Problemi ancora insoluti in materia di concessione di terre incolte, in Riv. dir. agr., 1950, 20 ss; C. Vitta, Principi fondamentali sulla concessione di terre incolte ai contadini, ivi, 1952, I, 8 ss A. Carozza, Terre incolte (Concessione di),in Enciclopedia forense, Milano, 1962, vol. VII; F. Adornato, Terre incolte, in Enc. dir., Milano, 1992, XLIV, 269 ss..
  38. Su questa dicotomia diffusamente analizzata in dottrina: V. Oppo, Materia agricola e forma commerciale, in Scritti per Carnelutti, Padova, 1950, II; M. Giorgianni, Il diritto agrario tra il passato e l’avvenire, in Riv. dir. agr., 1964, 40 ss; A. Carozza, Problemi generali e profili di qualificazione del diritto agrario, Milano, 1975.
  39. Ne costituisce un esempio sintomatico la costituzione ad opera di Camillo Cavour dell’Associazione Agraria Subalpina; il sodalizio, anche se di prevalente matrice scientifica, fu costituito nel 1842 e curò in tutto il Piemonte la nascita dei Comizi Agrari territoriali e le Commissioni Agrarie Comunali. Sul ruolo importante di tale Associazione v. per dati specifici il citato studio di Prato, Fatti e dottrine economiche alla vigilia del 1848. L’associazione agraria subalpina e Camillo Cavour, cit..
  40. Come già evidenziato da Giannini, Diritto pubblico dell’economia, cit., 244; sulla natura e figura dei consorzi amministrativi v. comunque G. Miele e G. Stancanelli, Consorzi amministrativi, in Enc. dir., Milano, 1961, IX, 408 ss.
  41. Per tale distinzione i contributi v. già F. Ferrrara, I consorzi per l’esercizio dell’agricoltura, in Atti del I Congresso naz. di dir. agr., Firenze, 1935; A. Callegari, I consorzi nel campo dell’agricoltura, Torino, 1940; quindi E. Milani, I consorzi reali in agricoltura, Milano, 1959-1961; G. Galloni, Il rapporto giuridico di bonifica, Milano, 1964; L. Acrosso, Consorzi in agricoltura, in Enc. dir., Milano, 1959, vol. IX, 389 ss; da ultimo C. E. Tavilla, Pubblico e privato nell’opera di bonifica: l’istituto consortile in Italia tra otto e novecento, in Forum Historiae juris, 2004. Non è mancato chi ha ritenuto la natura privatistica dei consorzi ex art. 863 c.c. relativo ai consorzi di miglioramento fondiario, cfr. F. Milani, Consorzi reali in agricoltura, Milano, 1959-61, 2 voll.; C. Lega, Natura giuridica dei consorzi di bonifica, in Diritto della bonifica, Milano, 1992, 119 ss.
  42. Sulla genesi ed evoluzione dei consorzi agrari: B. Carpino, Consorzi agrari, in Nov. Dig. it. Appendice II, Torino, 1981, 479 ss.
  43. La nozione ed il modello hanno radici già nello stato ottocentesco: E. Bareggi, Delle società cooperative, Milano, 1871; P. Manfredi, Le società anonime cooperative, Milano, 1885; U Rabbeno, La cooperazione in Italia, Milano, 1886; M. Pantaloni, Esame critico dei principi teorici della cooperazione, in Giornale degli economisti, 1898, 30 ss; ma hanno avuto ampia diffusione con il 900: tra i molti G. Valenti, L’associazione cooperativa e la distribuzione della ricchezza, Modena, 1902; G. Scherma, La storia economica della cooperazione, Palermo, 1903; E. Bassi, I problemi della cooperazione, Monza, 1905; U. Rabbeno, Le società cooperative di produzione, Milano, 1915; A. Vergnanini, I principi della cooperazione, Milano, 1920; A. Casalini, Cenni di storia del movimento cooperativo in Italia, Roma, 1922; R. Labadessa, La cooperazione e lo Stato, Roma, 1925; Id., Le varie concezioni dell’associazione cooperativa, Roma, 1929; F. Virgili, La cooperazione nella dottrina e nella legislazione, Milano, 1924; E. Lama, Cooperazione, Lanciano, 1930.
  44. Come ben evidenziato già da Cavallo-Di Plinio, Manuale di dir. pubbl. econ., cit. 218. Questi principi erano in parte già presenti nel codice civile del 1942 (artt. 2511-2545) e sono stati sviluppati nel d. l. c. p. dello Stato n. 1577 del 1947 ed in altri atti normativi successivi, per cui le imprese cooperative hanno fruito, da sempre, di agevolazioni finanziarie.
  45. Un’utile panoramica di tali tipologie cooperative nel settore agrario prima della Costituzione si trova in C. De Carolis, La cooperazione agraria in Italia, Roma, 1927; successivamente v. A. Scandura, Cooperazione agraria, in Nov. Dig. it., Torino, IV, 1959, 30 ss; A. Massart, Cooperative agricole, in Nov. Ig. It. Appendice II, Torino, 1981, 777 ss.
  46. Sulle varie incentivazioni alle cooperative: E. Cintolesi, Cooperative e loro consorzi (Dir. trib.),, in Nov. Dig. it. Appendice, Torino, 1980, II, 791 ss; M. Giustino, Agevolazioni fiscali per cooperative e loro consorzi, in La giustizia trib. e le imprese, 1977, 169 ss.
  47. Il fenomeno cooperativo ha, infatti, trovato nuova linfa e legittimazione proprio a seguito del dettato costituzionale, per la cui valenza e portata innovativa occorre fare rinvio a specifici contributi: A. Nigro, Commento all’art. 45, in Commentario alla Costituzione, a cura di G. Branca, Rapporti economici, Bologna-Roma, 1981, pp. 1 ss; P. F. Lotito, Commento art. 45, in Commentario alla Costituzione, a cura di R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti, Torino, 2006, I, pp. 919 ss; nella fitta letteratura sul tema: già G. Verrucoli, Cooperative (imprese), in Enc. dir., Milano, 1962, X, 552 ss; B. Carboni, Struttura operativa e funzione mutualistica, Teramo, 1979; F. Galgano, La cooperazione nel sistema costituzionale, in Nuovo dir. agr., 1977, 409 ss; G. Romboli, Problemi costituzionali della cooperazione, in Riv. trim. dir. pubbl., 1977, 105 ss; V. Buonocore, Cooperazione e impresa cooperativa, in Nov. Dig. It. Appendice, Torino, 1980, II, 808 ss.
  48. Tra cui L.R. Puglia 2 marzo 1974 n. 17; L.R. Marche 8 ottobre 1974 n. 210; L.R. Abruzzo 24 aprile 1975 n. 23.
  49. In tal senso M. Costantino, Commentario della legge 4 agosto 1978 n. 440, in Le nuove leggi civili commentate, Padova, 1979, 523 ss; v. pure G. Romano, Tendenze e prospettive della legislazione sulle terre incolte, in Giur. agr. it., 1977, 201 ss; L. Bortolotti, Profili pubblicistici della proprietà terriera, in Riv. dir. agr., 1977, I, 698 e spec. 712 ss; A. De Cupis, Lineamenti giuridici dell’assegnazione di terre incolte, abbandonate o insufficientemente coltivate, in Giur. it., 1985, IV, 72 ss.
  50. L.R. Piemonte 17 ottobre 1979 n. 61; L.R. Emilia Romagna 26 ottobre 1979 n. 37; L.R. Toscana 3 novembre 1979 n. 53; L.R. Marche 19 marzo 1980 n. 16; L.R. Veneto 11 aprile 1980 n. 30; L.R. Molise 8 maggio 1980 n. 11; L.R. Umbria 29 maggio 1980 n. 59; L.R. Puglia 9 giugno 1980 n. 64 e 17 luglio 1981 n. 41; L. prov. Trento 27 aprile 1981 n. 8; L.R. Lombardia 3 ottobre 1981 n. 61; L.R. Abruzzo 16 settembre 1982 n. 73.
  51. La giurisprudenza sul criterio del terreno abbandonato aveva ritenuto che “non vanno considerate “abbandonate” ai sensi dell’art. 2 L. 440/1978, le terre che il contadino, pur omettendo di coltivare intensivamente… abbia adibito a pascolo di bestiame bovino secondo la naturale vocazione”: Cons. Stato, Sez. VI, 5 dicembre 1985 n. 657, in Foro.it , 1986, III, 109 con nota di Bellantonio e che l’assegnazione postula un accertamento (non sempre facile) “fondato su precisi elementi di fatto, che, avuto riguardo alla natura, posizione e accessibilità delle medesime terre, dimostrino la idoneità di queste ad essere coltivate”: TAR Toscana, 29 agosto 1984 n. 700, in Giur. agr. it., 1986, 434 con nota di Salonia; TAR Puglia, Bari, Sez. I, 27 marzo 1990 n. 242, in Dir. e giur. agr., 1991, 318; sulle vocazioni colturali da verificare nel giudizio di raffronto di tali colture e produzioni con quelle del fondo da recuperare ai fini della utilizzazione agricola” TAR Lazio, Sez. I, 31 marzo 1982 n. 357, in Riv. dir. agr., 1982, 563.
  52. In tal senso A. Princigalli, Commentario della l. 4 agosto 1978 n. 440, cit., I, 555 ss; v. pure E. Rook Basile, Legislazione sulle terre incolte e cooperazione, in Riv. dir. agr., 1980, I, 560 ss.
  53. In tal senso E. Casadei, Il problema della produttività in agricoltura fra diritto interno e diritto comunitario, in Sviluppo sostenibile nel territorio: valutazione di scenari e di possibilità, Atti del XXI Incontro Ce-SET, Perugia, 1991, 210 ss; E. Cristiani, La legislazione sulle terre incolte, in L. Costato (a cura di), Trattato breve di diritto agrario italiano e comunitario, Padova, 2003, 565 ss; tra i manuali: A. Germanò, Manuale di diritto agrario, Torino, 2003,. 203.
  54. Per le valenze e le origini di tali istituti tra i molti contributi: G. Vignocchi, Le comunità montane nell’ordinamento amministrativo attuale, in Cons. Stato, 1971, II, 834 ss; C. Desideri, La nuova legge sulla montagna, in Riv. trim. dir. pubbl., 1972, 416 ss; G. Dell’Angelo, Le procedure per la programmazione per la montagna, ivi, 1972, 436 ss; U. Pototschnig, Profili giuridici della comunità montana nel quadro delle autonomie locali, in Montanaro d’Italia, 1973, 55 ss; A. Conzatti, Le comunità montane quali soggetti della programmazione, in Le Regioni 1973, n. 4-5, 929 ss; C. Beltrame, Un nuovo modello di governo: le comunità montane, in Esperienze amministrative, 1973, 2, 29 ss; S. Cassese, D. Serrani, Le comunità montane, Quaderni Formez, Napoli, 1974; F. Teresi, Profilo giuridico delle comunità montane, Palermo, 1975; F. D’Onofrio, Le comunità montane nel processo di riassetto dei poteri locali, in Riv. trim. dir. pubbl.,1976, 1577 ss; G. Santin, Problematica storica relativa alle comunità montane, in Riv. dir.agr., 1977, I, 562 ss; E. M. Marenghi, Pianificazione intermedia e comunità montane, in Riv.trim. dir. pubbl., 1979, 154 ss; G. C. De Martin, Comunità montane e riorganizzazione dei poteri locali: profili istituzionali, in Le Regioni, 1980, 1044 ss; E. Dalfino, Le comunità montane nel sistema dei poteri locali, Bari, 1983; A. Abrami, Comunità montane, in Nov.Dig. It. Appendice, Torino, 1984, III, 211 ss; G. C. De Martin, Comunità montana, in Dig. (Disc. pubbl.), Torino, 1989, III, 267 ss; A. Crosetti, Le comunità montane dalla legge 142/90 alla legge 9771994: analisi e prospettive, in Riv. dir. agr., 1994, n. 3, 416 ss.
  55. Proprio nel tentativo di trovare soluzioni più adeguate, a livello istituzionale, per cercare di favorire e promuovere lo sviluppo dei territori montani il D.P.R. 10 giugno 1955 n. 987, sul decentramento dei servizi del Ministero dell’agricoltura e foreste, venne a prevedere, per la prima volta, la facoltà di costituire tra i Comuni compresi nei territori montani consorzi a carattere permanente denominati Comunità montane o Consiglio di valle. Tali enti, “creati allo scopo di favorire il miglioramento tecnico ed economico dei territori montani” (art. 13 del D.P.R. 987/1955) erano inalizzati in particolare a promuovere consorzi di prevenzione e di bonifica montana, con la redazione di un piano unitario delle opere da eseguire, delle attività economiche da sviluppare, dei servizi pubblici da realizzare, in relazione alle risorse e ai bisogni delle popolazioni della valle. Sul ruolo e le funzioni, assai poco rilevante, dei vecchi Consigli di valle v. R. Lucifredi, I consigli di valle nell’ordinamento giuridico ed amministrativo dello Stato italiano, Torino, 1957; L. Bencetti, I consigli di valle, Roma, 1961; G. Piazzoni, Il Consiglio di valle, organo di pianificazione, in Il montanaro d’Italia, 1962, 11 s; G. Cervati, Consigli di valle, in Enc. dir., Milano, vol. IX, 348 ss; F. Merloni, Consigli di valle e comunità montane, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1988, 6 ss.
  56. La delimitazione dei terreni classificati montani- la c.d. “montagna legale”- era sancita dalla L. 991 del 1952 e ribadita dalla legge n. 1102 del 1971 e, provvisoriamente in attesa dei ridelimitazioni, confermata dall’art. 1 della L. 97/1994 (v. infra): erano montani “i Comuni censuari situati per almeno l’80% della loro superficie al di sopra di 600 metri di altitudine sul livello del mare e quelli nei quali il dislivello tra la quota altimetrica inferiore e superiore del territorio comunale non è minore di 600 metri , sempre che il reddito imponibile medio pere ettaro, censito, risultante dalla somma del reddito dominicale e del reddito agrario, non superi le lire 2.400”. L’art. 29.7 della L. 8 giugno 1990 n. 142 sulle autonomie locali, ha abrogato tale norma, senza sostituirne alcuna, prevedendo la necessità di una successiva ridelimitazione ad opera delle regioni.
  57. Per tale funzione A. Pizzorusso, Comunità montane e gestione delle foreste, in Riv. dir. agr., 1974, I, 662 ss; A. Crosetti, Amministrazioni locali e problemi di politica forestale, in Cellulosa e carta, 1985, n. 6, 27 ss.
  58. Sollecitate oggi anche da puntuali richiami ed inviti di carattere europeo. Sul punto: A. Gratani, L’azione comunitaria ambientale a salvaguardia delle foreste (nota a Corte giust. CE, 25 febbraio 1999 n. 184-165, Parlamento europeo e altro), in Riv. giur.amb., 1999, 493 ss; per tali nuove valenze v. altresì: M. Tamponi, Una proprietà speciale (lo statuto dei beni forestali), Padova, 1983, passim; Id., Profilo odierno della proprietà forestale, in Riv. dir. agr., 1984, 588 ss; Id., Patrimoni forestali e vincoli forestali, in Enc. dir., Aggiornamento, Milano, III, 1999, 833 ss; cui adde F. Adornato, La normativa forestale comunitaria, in Trattato breve di diritto agrario comunitario, a cura di L. Costato, Padova, 2003, 1167 ss.
  59. Va solo ricordato che il Comitato interministeriale per la programmazione economica (CIPE), aveva indicato, nella sua delibera sulla riclassificazione delle zone svantaggiate, avente effetto dal 1 gennaio 2000, come aree di montagna quelle relative a Comuni nei quali oltre il 50% della superficie totale fosse posta ad almeno 500 metri sul livello del mare ed avente un’acclività superiore ai 20 gradi, in cui il rapporto tra il reddito lordo standard ed unità di lavoro agricolo non superasse il 20% della media comunitaria o il rapporto tra il reddito lordo standard e superficie agricola utilizzata fosse pari o inferiore al 75% della media nazionale.
  60. Per valutazioni più ampie sulle politiche comunitarie nell’ambito dell’agricoltura v. G. Olmi, Agricoltura in diritto comunitario, in Dig. (Disc. pubbl.), Torino, 1987, I, 118 ss; M. Garbagnati, La politica agricola comunitaria, in U. Draetta, Elementi di diritto comunitario (parte speciale), Milano, 1995, 108 ss; cui adde F. Mantino, La politica di sviluppo rurale in Europa, Milano, 2008.
  61. Sui criteri di poliica legislativa di tale testo: A. Abrami, Nuove disposizioni per le zone montane, in Dir. e giur. agr. e amb., 1994, I, 473 ss. Per la nozione di zone montane e di zone depresse: E. Favara, Territori montani, in Nov. Dig. it., Torino, 1974, XIX, 176 ss; Id., Zone depresse. ivi, Torino, 1975, XX, 1126 ss.
  62. De Martinis, L’acquisto “coattivo” della proprietà previsto dalla L. n. 97 del 1994, in Riv. dir. agr., 1994, I, 401 ss.
  63. Per questa prospettiva di forme di autogestione di matrice cooperativa, con ricadute pressoché nulle, v. già il volume collettaneo L’autogestione in Italia, Bari, 1975; nonché Buonocore, Cooperazione, cit., 810 ss
  64. Come diffusamente documentato da vari contributi anche di taglio sociologico, tra i molti: G. A. Marselli, La civiltà contadina e la trasformazione delle campagne, Torino, 1973; M. Lacalamita, La civiltà contadina, Roma, 1959; C. Barberis, Sociologia rurale, Bologna, 1965, 173 ss; D. Acconci, Cadranno le case dei villaggi. Aspetti sociologici dell’esodo da una regione montana, Torino, 1976, 5 ss.
  65. I fenomeni della frammentazione e della polverizzazione dei fondi rustici sono stati causati soprattutto dalle regole dell’uguaglianza tra gli eredi e di divisione dei beni in natura che reggono, dal Codice Napoleone in poi, la disciplina della successione ereditaria. A fronte degli esiti perversi del regime successorio si sono verificate la frammentazione e la polverizzazione del fondo e gli strumenti per porvi rimedio sono stati, come già evidenziato, rispettivamente, la ricomposizione fondiaria o la ricostituzione coattiva delle unità colturali con gli esiti deludenti derivanti dagli artt. 849, 850 e 851 del c.c.
  66. È stato calcolato che le aree interne sotto-utilizzate o abbandonate siano valutabili dai 2/5 ai 3/5 del territorio nazionale, con un’incidenza sulla popolazione complessiva del Paese tra i 1/5 e ¼ (Fonte ISTAT).
  67. Per riferimenti e valutazioni di bilancio sugli interventi normativi nel settore dell’agricoltura in Italia: già Acrosso, Agricoltura, cit. I, 907 ss; G. Barbero, Tendenze nell’evoluzione delle strutture delle aziende agricole italiane, Roma, INEA, 1967; C. Daneo, Agricoltura e sviluppo capitalistico in Italia, Torino, 1969; G. Orlando, Lo sviluppo economico in Italia, Milano, 1969, III, 87 ss; tra i giuristi segnatamente: E. Romagnoli, Agricoltura, in Nov. Dig. it. Appendice, cit., 165 ss; A. Fioritto, Agricoltura (amministrazione della), in Dig. (Disc. pubbl.), Torino, 1987, I, 108 ss; Id., Agricoltura, in Dizionario di diritto pubblico, diretto da S. Cassese, Milano, 2006, I, 181 ss.
  68. Già utilmente sperimentate in passato, su tali esperienze v. G. Vecchi, La conduzione di terreni nel quadro dell’economia di gruppo, in Riv. dir. agr., 1975, I, 345 ss; G. Schiano Di Pepe, L’esercizio collettivo dell’impresa agricola. L’agricoltura di gruppo, in Manuele di diritto agrario italiano, Torino, 1978, 178 ss.
  69. Emblematiche in tal senso le considerazioni di W. Batzing, L’ambiente alpino. Trasformazione, distruzione e conservazione, Milano, 1987; Id., Le Alpi italiane. Un’analisi dei problemi attuali nella prospettiva di una Convenzione alpina, Milano, 1990.
  70. Loi n. 72-12 del 3 gennaio 1972 relativa alla valorizzazione pastorale ma anche l’art. D343-33 del Code rural che ha previsto la costituzione di raggruppamenti pastorali e di associazioni fondiarie pastorali che possono beneficiare di sostegni finanziari per la costituzione e gestione.
  71. Nella legislazione francese l’Associazione fondiaria può essere di due tipi: autorizzata (noi potremmo dire riconosciuta) da un decreto prefettizio ed, in questo caso, è un soggetto pubblico, sottoposto alle relative norme organizzative, oppure libera, mediante la libera adesione degli associati, non sottoposta a controllo e riconoscimento dell’amministrazione e quindi è un soggetto di diritto privato. Possono essere assimilate a delle associazioni di tipo sindacale. Per dati informativi sull’esperienza francese delle Association foncière J. B. Chablert, L’action foncière: une resource pour des mobilitations rivierenes, in Norois, 2016/1, n. 238-239 ; Id., Les associations face aux mutations du monde rural, in Pour, 2009/n. 2, 201 ss.
  72. Quale espressione della libertà di associazione spontanea, per i profili pubblicistici v. già V. Sica, Le associazioni nella Costituzione italiana, Napoli, 1957; quindi P. Barile, Associazione (diritto di), in Enc. dir., Milano, 1958, III, 837 ss; Id., Problemi costituzionali della libertà di associazione, Milano, 1970; A. Pace, Art. 18, in Commentario della Costituzione a cura di G. Branca, Bologna-Roma, 1977, 191 ss; U. De Siervo, Associazione (Libertà di), in Trattato di diritto amministrativo (diretto da G. Santaniello), Padova, 1980, vol. XII; P. Ridola, Associazione: Libertà di associazione, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1988, III, 1 ss; M. Ruotolo, Le libertà di riunione e di associazione, in I diritti costituzionali, (a cura di R. Nania, P. Ridola), Torino, 2002, vol. I, 696 ss; D. Piccioni, Associazione (libertà di), in Il diritto Enciclopedia giuridica del Sole 24 Ore, Milano, 2007, II, 92 ss.
  73. Sulla natura e configurazione di tale nuovo modello di impresa agricola collettiva v. E. Casadei, Commento all’art. 1 e 2 del d. lgs n. 228/2001, in Le nuove leggi civili commentate, Padova, 2001; M. Goldoni, L’art. 2135 del Codice civile, in Trattato breve di diritto agrario (diretto da L. Costato), cit.; P. Magno, Il concetto di agrarietà nell’ordinamento giuridico, Bari, 2002; A. Germanò-E. Rook Basile, Impresa agricola, in Dig. (disc. priv. Sez. civ. Agg.), Torino, 2009, I, 284 ss; AA. VV, Commento art 2135 cc., in Dell’impresa agricola, in Commentario al Codice civile, dir. E. Gabrielli, Torino, 2013, 3 ss.
  74. La norma nell’art. 10 comma 5 del T.U. forestale evidenzia l’importanza dell’associazionismo fondiario per garantire la tutela e la gestione attivita delle risorse agro-silvo-pastorali, il miglioramento dei fondi abbandonati e la ricostituzione di unità produttive economicamente sostenibili in grado di favorire l’occupazione, la costituzione ed il consolidamento di nuove attività imprenditoriali. Su tale disposizione N. Lucifero, L’attività di gestione forestale, i relativi divieti e la discioplina della viabilità forestale. Forme di promozione dell’associazionismo fondiario e della gestione associata, in Commentario al Testo Unico in materia di foreste e filiere forestali (d. lgs 3 aprile 2028 n. 34) a cura di N. Ferrucci, 2019, spec. 132. Tale previsione riflette la previsione della Strategia forestale europea, nonche le poltiche di sviluppo rurale (Regolamento (UE) n. 1305/2013 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 17 dicembre 2013 sul sostegno allo sviluppo rurale.
  75. Qui, infatti, la sussidiarietà acquista un duplice significato nell’ambito della collaborazione tra pubblico e privato in ordine all’esercizio di attività di interesse generale. È il privato (con la sua autonoma iniziativa che il pubblico è chiamato a “favorire”) a “sussidiare” i poteri pubblici nell’esercizio di attività di interesse generale. Ma è il soggetto pubblico che deve sempre intervenire e coprire con la sua azione ogni esigenza di carattere generale, laddove l’iniziativa autonoma dei privati non si concretizzi. Sul principio di sussidiarietà “orizzontale” nella letteratura più recente: G. Arena, Cittadini attivi, Bari, 2006; P. Duret, Sussidiarietà e auto amministrazione dei privati, Padova, 2004; A. Albanese, Il principio di sussidiarietà orizzontale: autonomia sociale e compiti pubblici, in Dir. pubbl., 2002, 51 ss; G. U. Rescigno, Principio di sussidiarietà orizzontale e diritti sociali, ivi, 2002, 5 ss.
  76. Sulla natura e la struttura civilistica associativa, tra i molti,: già C. Mortati, Associazioni (dir. civ.), in Nov. Dig. it., 1937, I, 1035 ss; quindi F. Ferrara jr., Le persone giuridiche, in Trattato di diritto civile, diretto da F.Vassalli, Torino, 1956, Vol. II, t. 2; A. Auricchio, Associazioni (in generale), in Enc. dir., Milano, 1958, III, 873 ss; quindi F. Galgano, Delle persone giuridiche, in Commentario al Cod. civ., Bologna-Roma, 1969; G. Ponzanelli, Gli enti collettivi senza scopo di lucro, Torino, 2001, II ediz.; M. Basile, Le persone giuridiche, in Trattato di diritto civile (a cura di G. Iudica-P.Zatti), Milano, 2003; A. Parisella, V. Tallini, Associazione (Dir. civ.), in Il Diritto. Enciclopedia giuridica del Sole 24 Ore, Milano, 2007, II, 67 ss.
  77. Le diverse superfici conferite devono essere classificate in funzione delle caratteristiche del suolo, del soprassuolo e dello stato delle opere di miglioramento fondiario presenti ovvero della redditività esistente, al momento dell’adesione all’Associazione fondiaria, per definire l’effettivo valore agronomico e forestale dei terreni conferiti.
  78. L’art. 16 del c.c. stabilisce, infatti, che “L’atto costitutivo e lo statuto devono contenere la denominazione dell’ente, l’indicazione dello scopo, del patrimonio e della sede, nonché le norme sull’ordinamento e sull’amministrazione. Devono anche determinare, quando trattasi di associazioni, i diritti e gli obblighi degli associati e le condizioni della loro ammissione”.
  79. Presso ciascuna Associazione fondiaria è conveniente sia costituito un elenco delle varie proprietà associate dove siano registrati i titolari di diritti reali di godimento e di rapporti contrattuali. Sul punto M.V. De Giorgi, La scelta degli enti: riconoscimento civilistico e/o registrazione speciale?, in M.V. De Giorgi, G. Ponzanelli, A. Zoppini, Il riconoscximento delle persone giuridiche, Milano, 2001, 23 ss.
  80. Infatti, nel richiamato principio di sussidiarietà orizzontale, codificato nell’art. 118 Cost., l’elemento centrale e caratterizzante i rapporti tra soggetti pubblici e soggetti privati è stigmatizzato nella locuzione favoriscono. Tale vero e proprio dovere costituzionale comporta che i soggetti pubblici, in relazione alle diverse esigenze, la predisposizione delle condizioni più idonee affinchè i cittadini (singoli o associati) siano favoriti e sostenuti nell’assunzione dell’esercizio di attività di interesse generale. Solo ed eventualmente, in una fase successiva al sorgere di iniziative dei cittadini, l’obbligo può estrinsecarsi mediante predisposizione di infrastrutture, erogazione di fondi, ausili, agevolazioni, disponibilità di personale ecc.
  81. È appena il caso di evidenziare che possono essere predisposti modelli differenti, rispettosi della libertà dei privati associati e strumentali esclusivamente ad un’eventuale e motivata sostituzione (sul punto v. R. Bifulco, Sostituzione e sussidiarietà nel nuovo Titolo V Cost.: note alla sentenza 43 del 2004, in Giur. cost., 2005, 5 ss; M. Bombardelli, La sostituzione amministrativa, Padova, 2004). Nel complesso delle relazioni tra enti territoriali e privati cittadini dovranno essere rispettati i principi di leale collaborazione anche attraverso meccanismi di consultazione e di intesa (su cui F. Merloni, La leale collaborazione nella repubblica delle autonomie, in Dir. pubbl., 2002, 827 ss).
  82. Tale ruolo promozionale era già stato evidenziato da G. Cervati, I Comuni e l’agricoltura, in Riv. dir. agr., 1961, 30 ss analogamentre A. La Rotonda, L’intervento dei Comuni nell’agricoltura, Ancona, 1968.
  83. Circa il rapporto in generale tra i gruppi e i singoli: Vincenzi Amato, Associazioni e tutela dei singoli, Napoli, 1984.
  84. Gli obiettivi gestionali possono essere molteplici in relazione alle caratteristiche dell’area interessata. Sono esempi proponibili: l’Azienda pastorale attrezzata stagionale; l’Azienda pastorale integrata con altre realtà pastorali alpine (alpeggio estivo), di pianura o collinare (pascolamento primaverile, autunnale e svernamento); l’Azienda foraggero pastorale stanziale; l’Azienda silvo-forestale per tagli e ripiantumazioni.
  85. Le Associazioni fondiarie, in analogia con il modello francese, possono acquisire la personalità giuridica mediante riconoscimento con atto deliberativo della Regione, che potrà verificare la conformità degli Statuti alla legislazione codicistica vigente ed assumere la natura giuridica di ente privato di interesse pubblico. Su cui già E. Tosato, Il riconoscimento degli enti morali, Padova, 1933; C. Maiorca, Il riconoscimento della personalità giuridica degli enti privati, Padova, 1934; per contributi più recenti: A. Auricchio, Associazioni riconosciute, in Enc. dir., Milano, 1958, III, 894 ss; M. V. De Giorgi, Associazioni II. Associazioni riconosciute, in Enc. giur., Bologna, 1988, II; Id., Le persone giuridiche riconosciute. Le associazioni e fondazioni, in Trattato di diritto privato (diretto da P. Rescigno), Torino, vol. II, 279 ss; e amplius M.V. De Giorgi, G. Ponzanelli, A. Zoppini, Il riconoscximento delle persone giuridiche, Milano, 2001 dianzi ciato.
  86. In ordine di tempo la Regione Piemonte con L.R. 2 novembre 2016 n. 21; la Regione Lombardia con L. R. n. 9 del 6 giugno 2019; la Regione Friuli Venezia Giulia con L. R. 21 luglio 2018 n. 28 e 15 giugno 2010 n. 10, e la Regione Campania con L. R. 26 aprile 2023 n. 10.
  87. V. i dati riportati in Le associazioni fondiarie in Italia: diffusione nel territorio nazionale e politiche di sostegno. Report 2024 del Crea (Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria), a cura di S. Baralla-F.Mantini, Roma, 2024, 5 ss ed ivi le relative tabelle riassuntive. Nell’indagine condotta dal Crea sono state rilevate informazioni da settanta ASFO di quelle distribuite prevalentemente nel Nord Italia (56) ed il resto tra Centro e Sud Italia (4).
  88. Il territorio della Regione Piemonte è prevalentemente montuoso, circa il 43,3%, (la Provincia del Verbano-Cusio-Ossola risulta essere una delle tre province italiane prevalentemente montane), ma esistono anche estese zone collinari (basi pensare alle Langhe ed al Monferrato) circa il 30,3 %. Cfr. Delibera del Consiglio Regionale 12 maggio 1988 n. 826-6658 “Classificazione e ripartizione del territorio regionale tra montagna, collina e pianura”.
  89. Per la situazione piemontese rimangono importanti i contributi nei volumi a cura di L. Bulferetti- R. Luraghi, Agricoltura, industria e commercio in Piemonte dal 1700 al 1861, Vol. I, Agricoltura, industria e commercio dal 1814 al 1848, Torino, Istituto per la Storia del Risorgimento, 1963; Vol. II, Agricoltura, industria e commercio dal 1848 al 1861,ivi, 1967. In questa sede poi non possono non essere richiamate le denunce e gli accorati appelli presenti nei libri inchiesta di N. Revelli, Il mondo dei vinti. Testimonianze di cultura contadina. La pianura, la collina, la montagna, le Langhe, Torino, Einaudi, 1977, 2 voll.; Id., L’anello forte. La donna: storia di vita contadina, Torino, Einaudi, 1985.
  90. Non ci è dato di sapere se e quale risonanza possano avere avuto a distanza di quasi due secoli le evocate Considerazioni del Conte Piola che affrontavano le stesse problematiche.
  91. Tale processo è suggerito dal fatto che negli ambienti collinari e montani non è né utile né conveniente né praticabile l’utilizzo dei processi produttivi e dei prodotti diffusi nei territori di pianura, e quindi l’esperienza ha dimostrato che occorre valorizzare le differenze e le peculiarità presenti nelle diverse situazioni ambientali e culturali, e questo è naturalmente possibile solo con aziende agricole di sufficiente ampiezza e autocondotte.
  92. Tutti questi dati sono rilevati nel già citato Report del Crea, spec. p. 8. Per favorire l’integrazione della gestione forestale attiva nelle ASFO, la Regione Piemonte ha altresì programmato un ulteriore bando dedicato alle ASFO a valere sul Fondo Nazionale per le Foreste (circa 420,000 euro).
  93. Nell’antica sapienza delle c.d. terre alte, il recupero e lo spietramento di un metro quadrato sottratto all’abbandono erano destinati a produrre un chilo di patate, notoriamente il primo e più diffuso componente alimentare in montagna.
  94. Tale previsione normativa che avrebbe permesso un monitoraggio periodico sullo stato di attuazione della legge regionale, ad un riscontro presso gli Uffici del Consiglio regionale piemontese, non ha dato esiti positivo e dunque gli unici dati che possediamo sono quelli rilevati nel citato Report del Crea del 2024 dianzi citato.
  95. Sul valore “identitario” del paesaggio per tutti E. Boscolo, La nozione giuridica di paesaggio identitario e il paesaggio “a strati”, in Riv. giur. urb., 2009, n. 1-2, 57 ss.
  96. Non a caso, a tale proposito, autorevolmente è stato sottolineato che” Lo Stato e ogni Autorità pubblica proteggono e realizzano lo sviluppo della società civile partendo dal basso, dal rispetto e dalla valorizzazione delle energie individuali, dal modo in cui coloro che ne fanno parte liberamente interpretano i bisogni collettivi emergenti dal sociale…” (Cons. Stato, Sez. Atti normativi n. 1354 del 2002 e n. 1794 del 2002). L’autonoma iniziativa dei privati è destinata ad acquistare un particolare rilievo in quanto attraverso di essa è possibile soddisfare i bisogni collettivi, realizzare cioè delle utilità generali “così da far assumere una posizione prioritaria del privato rispetto al pubblico, anche in settori fin’ora riservati alla competenza esclusiva degli apparati pubblici” (Cons. Stato n. 1354/2002 cit.).
  97. E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Roma-Bari, 1961.29 ss; nozione poi acutamente ripresa nella voce di A. Predieri, Paesaggio, in Enc. dir., Milano, 1981, XXXIII, 504 ss.
  98. Come esattamente messo in luce anche recentemente M. Brocca, Paesaggio e agricoltura. Riflessioni sulla categoria del “paesaggio agrario”,in Riv. giur. ed., 2016, 1-2, 3 ss; sulle importanti valenze del paesaggio agrario v. inoltre: P. Urbani, Governo del territorio e agricoltura. I rapporti, in Riv. giur. ed., 2006, 3, 122 ss; Id., Le aree agricole tra disciplina urbanistica e regolamentazione dell’attività economica, ivi, 2010, n. 1, 44 ss; N. Ferrucci, Riflessioni di una giurista sul tema del paesaggio agrario, in Dir. giur. agr e amb., 2007, n.7-8, 453 ss; E. Picozza, La tutela del paesaggio nelle zone agricole tradizionali, in G. Cugurra, E. Ferrari, G. Pagliari (a cura di), Urbanistica e paesaggio, Atti del VIII Convegno nazionale AIDU, Milano, 2005, 87 ss; N. Ferrucci, La tutela del paesaggio e il paesaggio agrario,in L. Costato, A. Germanò, E. Rook Basile (a cura di), Trattato di diritto agrario, Torino, 2011, II, 202 ss.
  99. In tal senso F. Adornato, Di cosa parliamo quando parliamo di agricoltura, in Agricoltura, Istituzioni, Mercati, 2004, n.1, 5 ss; come pure G. Galloni, Da una recente ricerca su agricoltura e ambiente, in Dir. giur. agr. e amb., 2001, n. 1, 5 ss; A. Jannarelli, Pluralismo definitorio dell’attività agricola e pluralismo degli scopi legislativi: verso un diritto postmoderno, in Riv. dir. agr., 2006, 2, 183 ss; N. Ferrucci, Agricoltura e ambiente, in Riv. giur. amb., 2014, n. 3-4, 327 ss.
  100. In adeguata coerenza con la legge 24 dicembre 2003 n. 378 recante Disposizioni per la tutela e la valorizzazione dell’architettura rurale volto (art 1 comma 1) a “…salvaguardare e valorizzare le tipologie di architettura rurale, quali insediamenti agricoli, edifici o fabbricati rurali, presenti sul territorio nazionale, realizzati tra il XIII e il XIX secolo e che costituiscono testimonianza dell’economia rurale tradizionale..”. Per tali esigenze di tutela v. M. Valletta, Valorizzazione del patrimonio abitativo rurale, in Dir. giur. agr. e amb, 2004, n. 5. 341 ss; E. Del Mastro, La tutela del paesaggio rurale: tendenze evolutive a livello nazionale e comunitario, in www.aedon.mulino.it, 2005, 2, 5; N. Ferrucci, Profili giuridici dell’architettura rurale, in Riv. giur. amb., 2014, n. 6, 694 ss.
  101. Nel corso del 2012, vale dire già prima dell’entrata in vigore della L. R. 21/2016, sono state costituite in Piemonte le prime due Associazioni fondiarie. La prima nel Comune di Briga Alta (Cuneo) frazione Carnino in Val Tanaro, in zona prettamente alpina nel Parco regionale del Marguareis; la seconda nel Tortonese nel Comune di Avolasca (Alessandria) in zona tipicamente collinare e alto collinare. Indipendentemente dall’areale e dalle condizioni, la proposta ha evidentemente convinto i proprietari dei suoli abbandonati ad associarsi e a promuovere l’utilizzazione e la conservazione del potenziale produttivo non meno del valore paesaggistico delle aree interessate. Da quella data come dianzi rilevato si sono venute moltiplicando le iniziative volte alla costituzione di Associazioni fondiarie in altre regioni con differenti risultati operativi in relazione alle varie situazioni ambientali.
  102. Il tema del recupero delle aree agricole abbandonate ed incolte, anche pubbliche, è stato ripreso dal legislatore statale che lo ha collegato anche a finalità di promozione dell’imprenditoria agricola, soprattutto giovanile. Secondo l’art. 66 della L. 24 marzo 2012 n. 27, di conversione del D. L. 24 gennaio 2012 n. 1 “Misure urgenti in materia di concorrenza, liberalizzazione e infrastrutture” è stata prevista la dismissione di terreni demaniali agricoli e a vocazione agricola di proprietà statale, con procedure di alienazione o locazione a cura dell’Agenzia del demanio, con diritto di prelazione ai giovani imprenditori. Su tali previsioni N. Ferrucci-M.Brocca, Paesaggio agrario: dal vincolo alla gestione negoziata, Milano. 2020, spec. 152. Sulla pregressa legislazione del 1978 a favore dell’occupazione giovanile nel settore agro-forestale a mero titolo indicativo: M. Morsillo, Occupazione giovanile, cooperazione e impresa agricola, in Riv. dir. agr., 1978, I, 741 ss; S. Mazzarese, La legge sull’occupazione giovanile nella parte relativa alle disposizioni in materia agraria, ivi, 1978, I, 721 ss; M. D’Addezio, Provvedimenti per l’occupazione giovanile in agricoltura e cooperative di giovani: il quadro normativo, in Riv. dir. agr., 1980, 60 ss.