Il PNRR e il rilancio del Piemonte tra opportunità e rischi

Marco Cantamessa[1]

Le statistiche economiche del Piemonte mostrano in questi giorni dati confortanti, che indicano una certa capacità di ripresa del tessuto regionale, in seguito al vero e proprio crollo avvenuto con la pandemia da COVID-19[2]. Tuttavia, pur non disconoscendo l’importanza di questi recenti dati congiunturali, ciò non deve portare a trascurare e a mettere in ombra un quadro di medio-lungo termine assai più preoccupante. Sotto diversi punti di vista, il Piemonte ha infatti visto un progressivo e importante declino, mediamente superiore a quello sperimentato dal Paese nel suo insieme.

Come conseguenza di ciò, e come già notato da diversi commentatori, il tradizionale triangolo industriale Genova-Milano-Torino ha ormai visto spostare due dei suoi tre vertici in direzione est, localizzandosi ora tra Milano, il Veneto e l’Emilia-Romagna. Il grafico riportato in Figura 1 mostra uno solo dei molti possibili indicatori di questo fenomeno, e rappresenta l’evoluzione del valore aggiunto regionale a partire dal 1995, evidenziando i territori di maggior interesse.

In questo contesto, l’attenzione dei media e dei decisori politici è oggi chiaramente calamitato dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, Piano che viene inteso come soluzione decisiva per far ripartire il Paese, ed è sovente accompagnato con un florilegio di analogie con il “piano Marshall” del Secondo Dopoguerra. Non inaspettatamente, del PNRR, che è composto in primis da un articolato pacchetto di riforme trasversali necessarie a ridare competitività al Paese, oltre che da un programma di spesa imponente, si tende a parlare soprattutto della seconda componente, ma assai poco della prima[3]. Ancora di più, colpisce come l’attenzione sulla seconda vada a concentrarsi più sulla capacità e sulla rapidità di spesa delle risorse disponibili, che sulla qualità degli investimenti finanziati e sul conseguente impatto sociale ed economico.

Ora, senza voler disconoscere l’importanza dell’essere in grado di “catturare e spendere” 236 miliardi di Euro in 6 anni, va ricordato che questa somma è per lo più costituita da debiti (i quali saranno sostenibili se e solo se verranno impiegati in modo da determinare un rendimento superiore al costo del capitale). Inoltre, si deve anche rammentare che questa somma, pur così importante, risulta comunque una frazione della spesa pubblica nel nostro Paese, che si aggira normalmente intorno agli 800 miliardi di Euro (e che, in quest’anno chiaramente eccezionale, pare possa raggiungere addirittura i 1000 miliardi[4]).

In Piemonte, diverse voci si sono inoltre levate per raccomandare ai decisori politici che si eviti una dispersione di queste risorse in mille progetti sparsi[5], ma che vengano identificate alcune priorità strategiche attraverso un coordinamento dei diversi attori in gioco. Proprio negli ultimi giorni, il Sindaco di Torino, anche in quanto Sindaco metropolitano e il Presidente della Regione Piemonte hanno in effetti dato il via libera a una “cabina di regia” con questo obiettivo. Questa attenzione alla focalizzazione e al coordinamento è indubbiamente benvenuta, ma è anche da guardare con una certa preoccupazione: se la scelta in linea di principio migliore è chiaramente quella di puntare tutte le fiches in poche direzioni promettenti, bisogna anche essere sicuri che queste direzioni siano effettivamente quelle giuste. Ora, quando si parla di allocazione di risorse nella politica industriale, è molto facile pensare che la “direzione” debba coincidere con la scelta di un determinato settore. Questo è vero solo in parte, perché l’allocazione di risorse può anche essere fatta in modo trasversale rispetto ai settori industriali, e pensando invece in termini di processi: quei processi che consentono a un territorio di promuovere innovazione e sviluppo partendo dalle competenze e dall’attrazione dei fattori produttivi. Da questo punto di vista, ci si può pertanto chiedere quanta parte delle risorse debbano essere impiegate per creare condizioni abilitanti, quante per determinare attrazione e quante, infine, per stimolare in modo focalizzato determinati settori industriali, o anche specifici attori.

Per quanto riguarda le condizioni abilitanti, è evidente che un seme non possa crescere se non viene piantato in un terreno fertile ed arato, e ci si può chiedere se il nostro Piemonte tale sia nei confronti dello sviluppo industriale che sarà rilevante per i decenni a venire, uno sviluppo industriale che sarà basato su grandi processi innovativi anche discontinui, dalla decarbonizzazione dei diversi settori industriali al progresso delle tecnologie dell’informazione. La letteratura sull’innovazione si è a lungo interrogata su quali siano queste condizioni abilitanti, e sarebbe impossibile fornire in questa sede una disamina completa del tema. Ritengo però fortemente rilevanti alcune considerazioni, espresse dal premio Nobel Edmund Phelps, nel suoMass Flourishing”[6], quando evidenzia i tre aspetti che, a suo modo di vedere, rendono le società capaci di fiorire grazie alla cosiddetta “innovazione indigena”: una società aperta al cambiamento e aperta alle novità, ma pronta a gestire le incertezze e le ambiguità che queste novità comportano[7]; istituzioni che valorizzino la libertà economica e la concorrenza, intese come un “processo di ricerca hayekiano”, ed evitando pertanto tentazioni dirigiste e corporativiste; e, infine, “competenze economiche” diffuse. Il punto delle “competenze economiche” è, a mio modo di vedere, quello di maggior interesse nel contesto del PNRR, ragionando sullo sviluppo di un territorio. Nello specifico, Phelps identifica le seguenti:

  • competenze tecniche, orientate a inventare e concepire “cose nuove”, competenze di cui il Piemonte è tradizionalmente ricco, ma che vanno costantemente alimentate con la ricerca e con la formazione a tutti i livelli, universitaria ma non solo;
  • competenze imprenditoriali e strategiche, orientate a percepire le opportunità e a saper costruire strategie per il loro sfruttamento industriale. In questo ambito, e con qualche differenza tra i diversi territori, la nostra regione mostra luci e ombre, essendo un’importante parte della nostra imprenditoria tradizionalmente orientata più alla “committenza di filiera” che allo sviluppo autonomo di proposte radicalmente innovative, di tipo “schumpeteriano”;
  • competenze industriali, orientate allo scaling up dei processi produttivi e delle imprese. Anche qui, la nostra regione mostra significative competenze di questo tipo nell’industria tradizionale, ma anche qualche debolezza, in particolare nelle industrie emergenti, come ad esempio nei servizi digitali,
  • competenze finanziarie, orientate alle decisioni di investimento. In questo ambito, il Piemonte mostra una base interessante, stante la significativa presenza di soggetti specializzati, dai Business Angel al venture capitali, ai diversi istituti di credito che hanno avviato attività di finanziamento dell’innovazione.

Per quanto riguarda le politiche di attrazione, queste sono indissolubilmente legate alla constatazione che lo sviluppo del Piemonte non potrà passare solamente per le mani degli attori economici che già oggi vi operano. Si tratterà pertanto di mobilitare capitali e “cervelli” già presenti sul territorio, così come di attirarne da fuori. Il Piemonte ha peraltro già vissuto momenti simili: in tutte le sue grandi trasformazioni economiche, dalla prima industrializzazione di inizio ‘800 al grande sviluppo industriale seguito al trasferimento della capitale da Torino a Firenze, nel 1865, un ruolo fondamentale è stato ricoperto da imprenditori stranieri, richiamati da politiche di attrazione degli investimenti particolarmente lungimiranti e moderne[8]. Si tratta pertanto di rinnovare questi principi, al contempo antichi e moderni, adattandoli ai tempi attuali. In particolare, occorrerà guardare al fattore competitivo oggi più importante, che è la velocità nel rispondere e nell’agire nei confronti degli attori che manifestano interesse all’investimento e all’insediamento[9]. Inoltre, sarà contemporaneamente necessario presentare agli interlocutori territori aventi una “massa critica” di opportunità sufficientemente robusta, e una identità sufficientemente definita. Quale sia la scala territoriale più adatta è ovviamente da definirsi, non potendosi questa limitare a un singolo Comune, per quanto grande, e non potendo sempre operare su un’area ampia e disomogenea come l’intera regione. Infine, non si può non notare come le politiche orientate a stimolare e attrarre nuove iniziative economiche implichino una conseguenza politicamente scomoda, perché richiedono di lavorare e dedicare risorse agli attori economici che ancora non ci sono, che non sono rappresentati dalle associazioni di categoria, e che non vengono invitati nelle cabine di regia, dove invece sono presenti gli attori economici che dai primi potrebbero venire spiazzati.

Per quanto riguarda la focalizzazione degli interventi, sono possibili diverse chiavi di lettura. Da un lato, le turbolenze che oggi riguardano le traiettorie tecnologiche di quasi tutti i settori dell’industria e dei servizi invitano a distinguere tra interventi settoriali e intersettoriali, questi ultimi tali da poter stimolare sviluppo in diversi comparti economici[10]. In secondo luogo, la focalizzazione richiede di identificare sia i settori, sia i singoli attori, sui quali è verosimile attendersi un maggior ritorno sull’investimento pubblico, tenendo conto sia della loro capacità di mobilitare ulteriori capitali, sia della loro capacità tecnica e organizzativa di generare ritorno sugli investimenti ricevuti. Focalizzazione delle risorse e scelta degli attori verso i quali dirigerle non implicano necessariamente l’adesione al vecchio (e per molti versi fallace) paradigma del “picking winners”. Semmai, si tratta di stimolare in modo “chirurgico” lo sviluppo di reti e sistemi di innovazione, di promuovere approcci innovativi, quali ad esempio il public technology procurement[11], e di imparare a far leva sugli attori economici potenzialmente più reattivi[12].

In conclusione, il PNRR è una straordinaria opportunità di investimento e di sviluppo sociale ed economico. Tuttavia, esso non potrà esprimere queste potenzialità se non si comprenderà che, soprattutto in una società e in un’economia in profonda e incerta trasformazione come quella attuale, la prosperità futura dipende dalla capacità delle istituzioni di mettere in condizione ciascun cittadino e ciascun attore economico di esprimere al meglio il proprio potenziale. Anche se può essere compito della politica individuare alcuni temi di maggiore rilevanza pubblica (un esempio tra tutti, quello della trasformazione energetica), rimane fondamentale evitare che un interventismo maldestro nella definizione dei tempi e nelle direzioni rischi di portare verso strade non sostenibili dal punto di vista tecnico ed economico, o di soffocare l’intraprendenza e l’intelligenza diffuse nel tessuto socioeconomico. Il rischio è infatti quello di selezionare attori capaci di operare come arbitraggiatori kirzneriani, abili a muoversi tra le pieghe di incentivi e programmi pubblici, ed escludendo gli imprenditori schumpeteriani, capaci invece di aprire strade nuove. Ritorna pertanto alla mente l’aforisma kantiano nel quale il sovrano si rivolge al mercante e, con atteggiamento benevolo, gli chiede: “Cosa posso fare per voi?”, ricevendo in risposta un semplice: “Maestà, dateci moneta buona e strade sicure, al resto pensiamo noi”.

  1. Dipartimento di Ingegneria Gestionale e della Produzione, Politecnico di Torino.
  2. Banca d’Italia, nell’aggiornamento congiunturale di novembre 2021, segnala una ripresa del PIL pari al 7,7%, con recuperi importanti su diversi fronti: nell’export, nell’utilizzazione degli impianti, degli investimenti, dell’occupazione e dei consumi delle famiglie.
  3. Questo punto dovrebbe essere particolarmente scrutinato, non solo perché è evidente che la “malattia italiana” debba essere curata operando sulle cause, che sono anche di tipo istituzionale. Oltre a ciò, la letteratura sullo sviluppo economico indica con chiarezza come i percorsi di sviluppo possano sì essere stimolati dagli investimenti, ma come solo il cambiamento istituzionale sia in grado di rendere tali percorsi sostenibili nel tempo (si veda ad esempio Rodrik D. (2014), The Past, Present and Future of Economic Growth, Challenge, 57 (5-39)).
  4. Ufficio Studi CGIA, 4 dicembre 2021.
  5. Tra le altre, Barbieri C.A., Boggero G., Piperno S., (2021) “Il Piemonte e il PNRR. Una nuova fase della programmazione regionale?”, Il Piemonte delle Autonomie, VIII, 2.
  6. Phelps E.S. (2013) “Mass Flourishing: How Grassroots Innovation Created Jobs, Challenge, and Change”, Princeton University Press.
  7. Questa prospettiva porta a sottolineare l’importanza che si operi in modo da mantenere una forte coesione sociale anche in presenza di discontinuità indotte dal progresso tecnologico, nella consapevolezza che quest’ultimo è sostenibile solo in presenza della prima.
  8. L’intervento del Sindaco di Torino Emanuele Luserna di Rorà del 23 maggio 1865, che delinea la sua strategia di marketing territoriale (https://www.museotorino.it/resources/pdf/magazine/rivista_mt_03.pdf), poi pubblicizzata in tutta Europa con appositi “appelli per manifestazione di interesse”, colpisce per la sua modernità, centrata come era su agevolazioni fiscali, infrastrutture di comunicazione, valorizzazione e sviluppo delle competenze tecniche, e qualità della vita, a sua volta legata alla promozione del decoro urbano e alla vivacità culturale.
  9. La storia recente sugli “ecosistemi di innovazione”, da Berlino a Londra, e da Parigi a diverse città “di provincia” negli USA, evidenzia dinamiche di sviluppo estremamente rapide (si veda ad esempio Autio E., Nambisan S., Thomas L.D.W., Wright M. (2017) “Digital affordances, spatial affordances, and the genesis of entrepreneurial ecosystems”, Strategic Entrepreneurship Journal, 12(1), 72-95). Dal punto di vista della politica industriale, ciò costituisce una novità molto promettente, perché indica la possibilità di ottenere risultati rapidamente. Allo stesso tempo, costituisce un rischio, qualora il territorio non riesca a rispondere con adeguata rapidità alle istanze di imprenditori e investitori estremamente “mobili”.
  10. Si veda a questo riguardo Andreoni A. (2020) “Technical Change, the Shifting ‘Terrain of the Industrial’, and Digital Industrial Policy”, in Oqubay A., Cramer C., Chang H-J e Kozul-Wright R (eds.), Oxford Handbook of Industrial Policy, Oxford University Press. Le tecnologie “digitali” sono un evidente esempio di tecnologie intersettoriali, ma non necessariamente le uniche. Ad esempio, nella emergente space economy, le tecnologie di osservazione terrestre costituiscono una piattaforma di grande interesse, che permette di abilitare una pluralità di filiere innovative nel segmento downstream, dall’agricoltura di precisione alla logistica.
  11. Si veda a questo riguardo Warwick K. (2013) “Beyond Industrial Policy – Emerging Issues and New Trends”, OECD STI Policy Papers, No. 2, OECD Publishing, Paris. E’ interessante osservare come questo approccio contemporaneo alla politica industriale possa essere messo in relazione al vecchio concetto di “crescita squilibrata” proposto da Hirschman in “The Strategy of Economic Development” (1958). Di fatto, si tratta di vedere l’azione economica pubblica non come una soluzione calata dall’alto, ma come un continuo processo di stimolo al contesto socioeconomico.
  12. Andreoni A., Cantamessa M. (2017) “Entrepreneurial drivers, intermediary institutions and policy in regional industrial ecosystems: A comparative study of Emilia Romagna and Piedmont, Italy”, Sitra Working Paper.