I controlli esterni sugli enti locali a vent’anni dalla revisione del Titolo V

Mauro Renna[1]

Sommario: 1. I controlli esterni: premesse introduttive e metodologiche. – 2. Le tradizionali classificazioni teorico-generali. – 3. Breve excursus diacronico: dall’Unità d’Italia alla riforma del Titolo V. – 4. Tassonomia e statuto costituzionale dei controlli esterni sugli enti locali nel vigente ordinamento giuridico italiano. – 5. Riflessioni conclusive: il necessario recupero di sistematicità nella materia ‘frammentata’ (ma irrinunciabile) dei controlli esterni sugli enti locali.

1. I controlli esterni: premesse introduttive e metodologiche.

Nel nostro ordinamento, i controlli c.d. esterni sugli enti locali sono attualmente caratterizzati da un assetto normativo ‘frammentato’ e privo di adeguato coordinamento sistematico. Cionondimeno, essi non difettano di una specifica giustificazione ‘logico-giuridica’ che li rende a tutt’oggi necessari; ciò che risulta sempre più evidente è, invece, il bisogno di una loro riduzione a ‘unità’ oltreché un recupero di organicità con riguardo alla disciplina normativa.

Al fine di meglio comprendere le specificità del tema, occorre innanzitutto premettere la seguente nozione giuridico-generale di ‘controllo’.

I controlli corrispondono – nel loro insieme – a una funzione giuridica ampia e multiforme, che si declina in operazioni di verifica ex ante o di riesame ex post di un atto, di un’attività o di un comportamento con successiva adozione di misure o sanzioni da parte dell’organo controllante. I controlli possono essere, a loro volta, interni o esterni a seconda dell’appartenenza dell’organo titolare della funzione di controllo al soggetto controllato.

Il presente studio avrà ad oggetto, in particolare, i controlli esterni sugli enti locali.

L’esposizione del tema principierà da una breve descrizione delle principali tipologie di controllo previste ‘in astratto’ ed esperite ‘in concreto’ nel contesto ordinamentale antecedente alla riforma costituzionale del c.d. Titolo V (realizzata con l. cost. 18 ottobre 2001, n. 3); l’attenzione sarà successivamente dedicata alla disciplina oggi vigente (i.e., post riforma del Titolo V), al fine di proporre alcune riflessioni conclusive circa la perdurante necessità di mantenere nel nostro ordinamento fattispecie di controllo esterno sugli enti locali.

La trattazione dell’argomento sarà condotta tenendo sempre in considerazione, anche nell’affrontare il breve excursus storico relativo alla disciplina normativa sui controlli esterni, i due principî (o, se si vuole, valori fondamentali) dell’unità dell’ordinamento giuridico e dell’autonomia degli enti locali.

2. Le tradizionali classificazioni teorico-generali.

Con riguardo al tema indagato, le classificazioni e le sistemazioni di teoria generale possono risultare utili a indirizzare le riflessioni degli interpreti e, soprattutto, agevolare la comparazione tra le esperienze dei singoli ordinamenti nazionali.

All’interno della variegata fenomenologia dei controlli, è possibile rassegnare una prima distinzione a seconda che l’oggetto del controllo si riferisca agli ‘atti’ ovvero all’‘attività’. Rispetto alla categoria dei controlli sugli atti si può prospettare, inoltre, un’ulteriore qualificazione in base alla tipologia del parametro utilizzato: i controlli di legittimità, realizzati mediante il ricorso a criteri di validità dell’atto controllato; e i controlli di merito, che si appuntano invece su criteri di opportunità.

Sempre in termini generali e per astrazione, la classificazione può anche essere basata sulla ‘collocazione procedimentale’ dell’attività di controllo, distinguendo così i controlli preventivi da quelli successivi; e, a seconda degli effetti del controllo, i controlli sostitutivi da quelli dichiarativi.

Un’ulteriore distinzione fondamentale è quella tra i controlli di tipo ‘police patrol’, consistenti in verifiche necessarie e ad ampio raggio attivabili d’ufficio o a istanza di parte (è questo il modello che informava i controlli previsti dall’art. 130 Cost. prima della riforma dell’anno 2001); e i controlli di tipo ‘fire alarm’, avviati su segnalazione o al verificarsi di specifici presupposti.

Un’ulteriore distinzione all’interno della tassonomia dei controlli amministrativi è quella tra controlli di conformazione e controlli di integrazione. I primi sono caratterizzati da una marcata incisività, che si traduce nella disposizione di effetti impeditivi, sotto forma di annullamento o di sostituzione di un atto, ovvero di effetti inibitori di una data attività, oltre a eventuali (e ulteriori) effetti sanzionatori.

I controlli d’integrazione, invece, rappresentano una forma di ‘affiancamento’ alla pubblica amministrazione, e in particolare agli enti locali. Si tratta, invero, di un’attività di sollecitazione all’adeguamento, sub specie di ‘promozione’ e di ‘stimolo’, non accompagnata da interventi sostitutivi o demolitori. Un classico esempio è quello dei controlli generali svolti dalla Corte dei Conti sulla gestione delle pubbliche amministrazioni.

Ciò premesso, è chiaro come il nostro ordinamento, al pari degli altri Paesi dell’Europa continentale, abbia storicamente in comune con l’ordinamento francese una forte tradizione di controlli conformativi strutturati secondo il descritto modello di c.d. ‘police patrol’; diversamente, gli ordinamenti di matrice anglosassone sono caratterizzati da modalità di controllo meno pregnanti, e segnatamente da controlli di tipo integrativo cui spesso si affiancano controlli non generalizzati, vale a dire incentrati su particolari attività ed esercitati esclusivamente al ricorrere di specifici presupposti.

Un esempio tipico di controllo accentrato e intenso, caratteristico del modello continentale, è quello dei controlli prefettizi sugli enti locali esistente in Francia; nei Paesi anglosassoni, dove invece è sempre prevalso il principio informante del c.d. self-government (principio di autonomia), non sono previsti controlli conformativi.

3. Breve excursus diacronico: dall’Unità d’Italia alla riforma del Titolo V.

Nel nostro ordinamento, il modello di controllo esterno sugli enti locali operante a seguito dell’unificazione era di tipo fortemente ‘accentrato’, e come tale composto da specifiche tipologie di controlli che sacrificavano l’autonomia degli enti locali innanzi all’esigenza di tutela della legalità amministrativa.

In particolare, sin dall’epoca risorgimentale erano previsti importanti poteri prefettizi, strutturati secondo il detto paradigma francese, che consentivano il controllo del potere centrale sulle periferie mediante l’esercizio di ampie funzioni di vigilanza e di sindacato di legittimità sugli atti amministrativi. I prefetti, infatti, apponevano il ‘visto’ su tutte le delibere degli enti locali, potendo anche annullarle qualora le avessero ritenute invalide[2].

Ai suddetti poteri prefettizi si affiancavano i controlli svolti dalle Giunte Provinciali Amministrative (G.P.A.), composte da tre funzionari del Governo regio e quattro membri eletti dal Consiglio provinciale, che consistevano in verifiche di legittimità e di merito sui più ‘importanti’ atti degli enti locali (quali bilanci, regolamenti, imposizione di tributi, alienazioni di immobili, etc.) attraverso il rilascio di ‘approvazioni’. Si trattava, in altri termini, di un controllo di tipo ‘successivo’ il cui buon esito era condizione di efficacia dell’atto amministrativo soggetto a controllo. Alle G.P.A. erano attribuiti, inoltre, poteri di sostituzione (in caso di inadempienza degli enti locali nell’adozione di atti doverosi ex lege) e funzioni giurisdizionali. Queste ultime furono oggetto di declaratoria di incostituzionalità nell’anno 1967[3], mentre le G.P.A. furono definitivamente soppresse nell’anno 1971 in conseguenza dell’istituzione delle regioni ordinarie e dei Tribunali Amministrativi Regionali (con la legge 6 dicembre 1971, n. 1034).

Ulteriori poteri di controllo erano originariamente attribuiti ai Consigli di Prefettura[4], i quali esercitavano funzioni consultive, rilasciando pareri su taluni atti degli enti locali (ad esempio, in materia di espropriazioni, lavori pubblici, etc.), funzioni giurisdizionali, in seguito abolite dalla l. 20 marzo 1865, n. 2248, all. E (c.d. ‘Legge abolitiva del contenzioso amministrativo’), e funzioni di controllo contabile sugli atti dei tesorieri comunali e provinciali, assimilabili a quelle oggi esercitate dalla Corte dei Conti (e dichiarate costituzionalmente illegittime nell’anno 1966[5]).

Da ultimo, nell’ordinamento pre-costituzionale italiano erano previsti anche controlli ministeriali di approvazione e omologazione successivi ai controlli esplicati in sede provinciale. Detti poteri erano attribuiti ai Ministri dell’Interno, dei lavori pubblici o delle finanze a seconda della materia oggetto dei regolamenti adottati dagli enti locali.

La situazione non mutò significativamente con l’adozione del ‘Testo Unico della legge comunale e provinciale’ (R.D. 4 febbraio 1915, n. 148): il legislatore, infatti, se da un lato pose una particolare enfasi sui temi dell’autarchia e della rappresentanza democratica degli enti locali (attraverso, ad esempio, l’istituzione di libere elezioni e del suffragio universale maschile), nondimeno confermò la centralità della figura del Prefetto, titolare della funzione di controllo sulla legittimità delle deliberazioni degli enti locali, e delle G.P.A. (di cui mutò solo parzialmente la composizione), che esercitavano controlli di merito sulle delibere più importanti. Anche i Consigli di Prefettura, in tale contesto normativo, rimanevano titolari del potere di adozione di pareri facoltativi e obbligatori in alcune materie. Sicché, l’autonomia degli enti locali risultava ancora fortemente limitata per effetto dei numerosi e penetranti poteri sostitutivi e di controllo attribuiti ai suddetti organi.

In epoca fascista, il sistema dei controlli fu ulteriormente ‘potenziato’, conducendo così l’ordinamento a una deriva ‘anti-autonomistica’ incentrata su un rapporto stringente tra i seguenti organi: Governo, prefetti e la neo-istituita figura del podestà, con correlata soppressione delle elezioni locali. Ai prefetti furono inoltre attribuiti importanti poteri di controllo di merito, in parallelo a un’accentuazione dei poteri amministrativi dello Stato centrale sotto forma di restrizioni nell’erogazione delle spese da parte degli enti locali e tramite l’istituzione di un rigido sistema di visti e approvazioni per (pressoché) tutti gli atti amministrativi degli enti locali.

In estrema sintesi, lo Stato – in tale contesto – esercitava un controllo penetrante e sistematico nei confronti di tutti gli enti locali.

L’avvento della Costituzione repubblicana del 1948 ha rappresentato un significativo momento di svolta per l’implementazione del principio democratico e del ‘modello pluralista’, pur risentendo ancora della concezione del c.d. ‘Stato unitario’[6].

L’art. 130 Cost. ha infatti previsto l’attribuzione a un organo regionale della funzione di controllo ‘esterno’ sugli atti degli enti locali, sebbene l’attuazione di detto modello abbia subito un significativo ritardo per via dell’istituzione delle Regioni ordinarie avvenuta (solamente) negli anni ’70 del secolo scorso.

Pur rappresentando un importante fattore di discontinuità rispetto al precedente modello ‘prefettizio’, e nonostante l’affermazione del principio pluralistico dello Stato repubblicano, la disciplina costituzionale giustificava ancora istituti di controllo fortemente incisivi sull’autonomia degli enti locali. Si trattava, in particolare, dei controlli realizzati mediante i Comitati Regionali di Controllo (Co.Re.Co). Questi ultimi, istituiti formalmente tramite la c.d. legge ‘Scelba’ (l. 10 febbraio 1953, n. 62), svolgevano un controllo generalizzato di legittimità e di merito sugli atti degli enti locali, che potrebbe essere ritenuto sintomatico di un graduale superamento del previgente legame di sottoposizione, secondo il modello francese, degli enti locali all’autorità governativa per il tramite delle Prefetture.

Successivamente, la l. 8 giugno 1990, n. 142, sulla scorta delle previsioni di cui alla Carta europea dell’autonomia locale del 1985 (ratificata dalla Repubblica Italiana con l. 30 dicembre 1989, n. 439) e valorizzando il principio autonomistico (espressamente e da tempo) sancito dalla Carta costituzionale, soppresse i controlli di merito sugli atti degli enti locali, mantenendo alcuni specifici controlli sugli atti: i controlli di legittimità – preventivi e necessari – sulle deliberazioni dei consigli comunali, e i controlli – eventuali – sulle deliberazioni delle giunte comunali (su richiesta dei consiglieri o delle giunte medesime).

Tramite la l. 15 maggio 1997, n. 127 (c.d. ‘Bassanini – bis’) si realizzò un ulteriore e progressivo superamento della logica dei controlli preventivi di legittimità, riservati soltanto a particolari categorie di atti tassativamente elencate (ad esempio, statuti, bilanci, regolamenti dei consigli comunali, etc.).

In questo periodo, iniziava a emergere sempre più una nuova impostazione in base alla quale i controlli non sarebbero più stati di stretta legalità, bensì diretti a verificare – in ottica ‘manageriale’ – il risultato complessivo dell’attività amministrativa, in adesione alle nuove impostazioni teoriche della c.d. amministrazione di risultato. In particolare, quasi a voler bilanciare la riduzione dei controlli preventivi ed esterni di legittimità, vennero istituiti appositi organi interni di controllo, attribuendo ai dirigenti le funzioni di rilascio di pareri di regolarità tecnico-contabile degli atti dei funzionari e valorizzando i compiti giuridico-amministrativi dei segretari.

La riforma costituzionale dell’anno 2001, che dispose l’abrogazione dell’art. 130 Cost., e la successiva eliminazione dei controlli sugli enti locali affidati ai Co.Re.Co, determinarono la fine del paradigma generalizzato dei controlli esterni e, con esso, il superamento della concezione ‘monolitica’ dello Stato, per lungo tempo retta proprio sul sistema dei controlli del ‘centro’ sulle ‘periferie’.

A seguito della riforma del Titolo V, gli interpreti si sono profondamente interrogati sulla perdurante ammissibilità di fattispecie di controllo esterno sugli atti degli enti locali nel nuovo modello costituzionale.

In proposito, sembrerebbe potersi sostenere che l’abrogazione dell’art. 130 Cost. ha sì eliminato il fondamento costituzionale delle disposizioni primarie che disciplinavano i controlli preventivi sugli atti degli enti locali, ma non ha – di per sé – vietato ‘tout court’ la possibilità di prevedere poteri di controllo affidati a organi in posizione di terzietà rispetto agli enti locali controllati. I controlli esterni, infatti, risultano (ancora oggi) conformi a Costituzione, a condizione che essi non intacchino la ‘sostanza’ dell’autonomia degli enti territoriali. E invero, non sarebbe metodologicamente corretto affermare che ‘dove c’è controllo non c’è autonomia’, bensì è opportuno ritenere che la legittimità costituzionale dei singoli controlli dipende dalla relativa connotazione strutturale nonché dalle relazioni giuridiche intercorrenti tra controllore e controllato.

Del resto, è la stessa Carta europea dell’autonomia locale ad ammettere la possibilità di controlli amministrativi sugli atti degli enti locali a condizione che sia assicurato il rispetto di alcune garanzie ‘minime’ ed essenziali, quali[7]: la riserva di legge, la limitazione del controllo alla sola legittimità (fatti salvi i controlli di merito relativi alle funzioni c.d. ‘delegate’), il rispetto del principio di proporzionalità, etc. Di talché, la questione controversa si sposta dall’an dei controlli esterni al loro quomodo, ossia alle forme e alle modalità attraverso cui detti controlli possano legittimamente esplicarsi.

Emerge così, molto chiaramente, un aspetto problematico derivante dalla mancanza di una disciplina generale della ‘funzione di controllo’, in presenza di molteplici tipologie di controllo esterno di diritto positivo (intendendosi, a questi fini, per controllo esterno unicamente le fattispecie in cui l’organo o l’ente controllore non fa parte dell’ente locale che subisce il controllo).

A un primo sguardo, il denominatore comune all’interno del quadro ‘frammentato’ dei controlli esterni è costituito dalla visione dello Stato quale custode dell’unità nazionale, di alcuni valori repubblicani condivisi oltreché dei diritti fondamentali, beninteso nella prospettiva in base alla quale lo Stato assume la veste di ‘organo repubblicano’ e non più di soggetto portatore di una posizione privilegiata in quanto ente superiore e a volizione generale.

Secondo questa chiave di lettura, i controlli esterni possono essere oggi ritenuti ammissibili dal punto di vista costituzionale unicamente se si pongano quali istituti di garanzia per il perseguimento o la protezione di determinati valori fondamentali, e tra questi in particolare l’unità dell’ordinamento giuridico, l’uguaglianza, il rispetto della libertà, la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali nonché il rispetto dei trattati internazionali.

4. Tassonomia e statuto costituzionale dei controlli esterni sugli enti locali nel vigente ordinamento giuridico italiano.

Una breve ricognizione o ‘tassonomia’ dei controlli esterni attualmente vigenti nell’ordinamento giuridico italiano può essere incentrata su otto ipotesi legalmente individuabili, rispetto alle quali occorre domandarsi se esse siano conformi a Costituzione secondo la lettura che si è più sopra suggerita.

a) Una prima ipotesi di controllo esterno sugli enti locali concerne le funzioni svolte dai revisori dei conti ai sensi degli artt. 234 e ss. T.U.E.L.

I revisori dei conti sono professionisti, iscritti in un apposito albo, che agiscono in collaborazione con l’organo consigliare rilasciando pareri in diverse materie, e in particolare in tema di vigilanza sulla regolarità contabile, finanziaria ed economica della gestione, oltre a esercitare le ulteriori e numerose funzioni elencate nell’art. 239 T.U.E.L.

La principale differenza che si può cogliere rispetto a precedenti organi di controllo, quali le G.P.A. e i Co.Re.Co., consiste nel fatto che laddove l’ente locale dovesse agire ignorando i pareri rilasciati dai revisori, i provvedimenti così adottati risulterebbero comunque efficaci ed esecutivi. Ovviamente, se i provvedimenti degli enti locali fossero affetti da illegittimità, potrebbero comunque essere impugnati nelle sedi competenti dai destinatari lesi dai rispettivi effetti, ma non dall’ente stesso, come invece avveniva nel previgente modello ove – a fronte di un annullamento disposto in sede di controllo esterno – era l’ente locale a dover assumere la posizione di ‘amministrazione ricorrente’.

b) In secondo luogo, è opportuno richiamare i controlli esercitati dalla Corte dei Conti, così come disciplinati dagli artt. 148 e 148-bis T.U.E.L.

A tale riguardo, la Corte dei Conti esercita un controllo che può essere definito come ‘collaborativo’, vale a dire non espressivo di un potere statale contrapposto all’autonomia degli enti locali.

Più nello specifico, la Corte dei Conti realizza una ‘verifica’ (che – non a caso – è un termine meno impegnativo rispetto a quello di ‘controllo’) di tipo successivo, nonché di legittimità e regolarità, svolta sulla base delle relazioni trasmesse dai revisori dei conti e della documentazione inviata dagli stessi enti locali. La Corte svolge, altresì, un controllo di gestione mediante l’esame dei bilanci degli enti locali al fine di verificare il rispetto del patto di stabilità e, così, assicurare la coerenza del nostro ordinamento con quello dell’Unione europea (anche relativamente ai vincoli in materia di indebitamento)[8].

Al riguardo, è importante richiamare la l. 14 gennaio 1994, n. 20, la quale, oltre ad aver limitato il controllo preventivo di legittimità della Corte dei Conti ai soli atti governativi, ha esteso i confini del controllo successivo, diretto a valutare l’operato dell’amministrazione (in particolare, nella veste di erogatrice di servizi) attraverso una verifica dei costi e del rendimento delle attività rispetto a criteri di economicità, efficienza ed efficacia.

Con la l. 5 giugno 2003, n. 131, di attuazione della riforma costituzionale del Titolo V, sono state poi introdotte ulteriori competenze della Corte dei Conti: il riferimento è ai controlli finalizzati a riscontrare il rispetto degli equilibri di bilancio nonché agli strumenti di controllo c.d. ausiliario, collaborativo o a esito di referto sulla ‘sana gestione’.

Detti controlli presentano alcune criticità. In particolare, si segnala la mancanza di ‘forza’ nell’impegnare i soggetti politici ad assumere le decisioni da cui dipende la correzione di situazioni critiche o devianti, eventualmente rilevate dal ‘controllore’. Invero, l’unica attività sanzionatoria per la cattiva gestione degli enti locali avrebbe dovuto essere (in funzione anche deterrente e, comunque, in chiave di ‘sussidiarietà’) la ‘minaccia’ del potere sostitutivo statuale nei confronti degli enti che non fossero stati in concreto capaci di rimediare alle difformità rilevate rispetto agli obiettivi di finanza pubblica.

Il sistema dei controlli di gestione si rivela, invece, poco efficace dal momento che la correzione delle problematiche è rimessa alla collaborazione e alla responsabilità politica degli enti (fatto salvo, ovviamente, il potere sostitutivo di intervento del Governo a garanzia dell’unità dell’ordinamento giuridico ex art. 120, comma II, Cost. – su cui v. infra).

La riforma non ha dunque raggiunto gli esiti sperati, rendendo nuovamente necessario l’intervento del legislatore. Con l. 23 dicembre 2005, n. 266 (‘Legge finanziaria per l’anno 2006’) sono stati introdotti, all’interno della categoria dei controlli successivi di gestione, ulteriori funzioni di controllo propriamente ‘finanziarie’, attribuite alla Corte dei Conti e caratterizzate da poteri di accertamento e di vigilanza ex post sulle misure correttive adottate dagli enti per il ripristino della regolarità contabile. Quest’ultima categoria di controlli è stata inquadrata, dalla giurisprudenza costituzionale, in termini di ‘riesame di legalità e regolarità’ al fine di distinguerla dalla differente categoria dei controlli sull’economicità complessiva della gestione[9].

E ancora, più di recente, il d.l. 10 ottobre 2012, n. 174 ha introdotto nuove forme di controllo della Corte dei Conti, assai più incisive siccome implicanti misure di tipo ‘imperativo’ o ‘cogente’ sull’utilizzo di risorse finanziarie da parte dell’ente controllato. Il che ha comportato la loro assimilazione – da parte della Corte costituzionale[10] – ai controlli preventivi di legittimità, non tanto per un effetto impeditivo rispetto all’efficacia degli atti soggetto a controllo, quanto perché consentono alla Corte di Conti di avvisare gli enti locali in merito alle irregolarità di bilancio riscontrate e di assumere, nel caso di inerzia dell’ente controllato, misure interdittive o inibitorie con riguardo a decisioni di spesa già assunte. Ed è per questa ragione che la Corte costituzionale ha qualificato queste forme di controllo in termini di ‘attività amministrativa’ in senso proprio, caratterizzata dall’adozione di provvedimenti amministrativi di carattere cogente, come tali soggetti al sindacato del giudice amministrativo.

In generale, quindi, è possibile osservare come i nuovi poteri affidati alla Corte dei Conti costituiscano una deviazione rispetto all’originario intento del legislatore di sviluppare modelli di controllo di tipo ‘ausiliario’ finalizzati ad attivare circuiti di responsabilità politica all’interno degli enti controllati. Nonostante ciò, i controlli finanziari sono progressivamente divenuti l’attività preponderante svolta dalla Corte dei Conti, a discapito dei controlli di gestione, caratterizzati invece da una finalità di affiancamento e di promozione dell’autonomia degli enti locali. Si tratta – come è evidente – di un fattore di discontinuità in ordine all’incisività dei controlli, che da un lato rimangono di affiancamento e, dall’altro, conducono alla ri-affermazione di un modello di controllo (sostanzialmente conformativo) che sembrava superato.

c) In terzo luogo, tra i controlli esterni sugli enti locali è necessario menzionare il potere sostitutivo dello Stato ex art. 120, comma II, Cost., che – com’è noto – corrisponde al controllo funzionale per ‘eccellenza’ dell’unità giuridica ed economica della Repubblica, nell’obiettivo di garantire i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, l’adempimento di norme e trattati internazionali ovvero della normativa europea, nonché per fronteggiare le manifestazioni di pericolo più gravi per l’incolumità e la sicurezza pubblica[11].

Questa tipologia di controllo svolge una funzione di ‘chiusura’ del sistema repubblicano, costituendo un potere a carattere straordinario riferito a emergenze istituzionali di particolare gravità. In più occasioni, la Corte costituzionale è intervenuta a giudicare della legittimità costituzionale del potere sostitutivo ex art. 120 Cost., imponendo che il relativo esercizio fosse sottoposto a talune limitazioni necessarie per garantirne la compatibilità con l’art. 5 Cost., e in particolare per la necessaria tutela dell’autonomia degli enti locali. E invero, un’eccessiva enfasi riposta sul presupposto dell’unità giuridica da parte del Governo potrebbe tradursi in un importante ‘vulnus’ del principio autonomistico.

Nello specifico, il potere sostitutivo straordinario è attivabile unicamente nei casi in cui l’esercizio dell’autonomia degli enti locali arrechi una lesione ad altri diritti di rilievo costituzionale di pari rango o, comunque, a interessi essenziali dell’ordinamento repubblicano. Ad avviso della Corte, il potere sostitutivo è un istituto che fa ‘sistema’ con le disposizioni costituzionali in tema di riparto delle competenze tra gli enti di cui all’art. 114 Cost., e di conseguenza con i relativi principî tra i quali assumono un ruolo di particolare rilevanza quelli di sussidiarietà e leale collaborazione[12].

Numerose sono le condizioni richieste per il legittimo esercizio del potere sostitutivo, e segnatamente: l’affidamento del potere sostitutivo statale a commissari straordinari ovvero a organi locali indicati dal Governo in funzione di commissari ‘ad acta’; il rispetto del principio di leale collaborazione; la ‘procedimentalizzazione’ del potere sostitutivo in contraddittorio con l’ente sostituito; il rispetto del principio di sussidiarietà; la cedevolezza e temporaneità delle misure adottate.

In più occasioni, la giurisprudenza costituzionale ha avuto inoltre cura di rimarcare come il potere sostitutivo non possa mai divenire un mezzo di ‘prevaricazione’ dello Stato sulle autonomie, dovendo viceversa risultare uno strumento di reazione e di supporto agli stati di ‘crisi dell’autonomia’, non altrimenti superabili per il tramite delle forze proprie dell’ente locale, con finalità di ‘affiancamento’ del potere statale. È da ritenersi, pertanto, non consentito l’utilizzo del potere ex art. 120 Cost. nelle ipotesi in cui « […] l’ordinamento costituzionale impone il conseguimento di una necessaria intesa fra organi statali e organi regionali per l’esercizio concreto di una funzione amministrativa attratta in sussidiarietà al livello statale in materie di competenza legislativa regionale »[13]. La necessaria ‘temporaneità’ e ‘cedevolezza’ del potere sostitutivo garantisce, infine, la ratio ultima dell’esercizio di detto potere, ossia l’obiettivo di risolvere « […] nel minor tempo possibile la crisi dissipativa di un determinato ente autonomo, sì da rimetterlo in condizione di tornare a garantire i beni da questo invece al momento compromessi ».

Se pure il potere sostitutivo è esercitato da un organo politico (i.e. il Governo), esso è – allo stesso tempo – circondato da così stringenti garanzie tali da renderlo annoverabile tra i controlli di ‘affiancamento’; ciò sembrerebbe giustificato dalle regole informanti della sussidiarietà, cedevolezza e temporaneità. Sicché, le caratteristiche del potere sostitutivo di titolarità governativa testimoniano come l’intenzione del legislatore sia quella di ‘accompagnare’ gli enti locali tramite forme di ‘subsidium’ attivabili in tutte quelle occasioni in cui il singolo ente non avrebbe le forze per adottare alcuni atti ovvero raggiungere determinati obiettivi.

d) Una quarta forma di controllo esterno sugli enti locali è quella esercitata dal Ministro degli Interni ex artt. 141 e ss. T.U.E.L. Si tratta, in particolare, dei poteri di scioglimento degli enti territoriali per infiltrazione mafiosa e di rimozione degli amministratori locali[14].

Questo potere di controllo, già previsto dal previgente art. 11 del d.lgs. 30 luglio 1999, n. 300, è espressione della funzione di coordinamento amministrativo sul territorio e costituisce una diversa estrinsecazione del potere governativo di sostituzione ex art. 120 Cost.

La Corte costituzionale si è espressa anche in merito alla compatibilità del controllo in esame rispetto al principio autonomistico, ritenendo costituzionalmente legittimo l’esercizio del potere sostitutivo di titolarità prefettizia in un’ipotesi di mancato perseguimento degli obiettivi di semplificazione e di riduzione delle spese da parte degli enti locali, in quanto « […] la previsione del potere sostitutivo fa dunque sistema con le norme costituzionali di allocazione delle competenze, assicurando comunque, nelle ipotesi patologiche, un intervento di organi centrali a tutela di interessi unitari […]. Una (eventuale) protratta inerzia degli enti sub-statali nel realizzare iniziative richieste dall’esigenza di tutelare l’unità giuridica o l’unità economica dello Stato giustifica la previsione di un potere sostitutivo, che consenta un intervento di organi centrali a salvaguardia di interessi generali ed unitari »[15].

Diversamente, non hanno superato il vaglio di costituzionalità i poteri prefettizi sugli enti locali introdotti dal d.l. 4 ottobre 2018, n. 113, per il contrasto alla criminalità organizzata di tipo mafioso; in questa ipotesi, infatti, il « […] potere prefettizio sostitutivo è stato considerato extra ordinem, ampiamente discrezionale, sulla base di presupposti generici e assai poco definiti, e per di più non mirati specificamente al contrasto della criminalità organizzata; ossia complessivamente in termini tali da non essere compatibili con l’autonomia costituzionalmente garantita degli enti locali territoriali»[16].

e) Un’ulteriore tipologia di controllo esterno è costituita dall’annullamento straordinario da parte del Governo degli atti degli enti locali ex art. 138 T.U.E.L. Non si tratta, a ben vedere, di un vero e proprio potere di controllo, giacché l’annullamento d’ufficio è inquadrabile nell’ambito della categoria della c.d. autotutela amministrativa. Cionondimeno, è possibile – ai nostri fini – ascrivere anche questa tipologia di annullamento governativo nel più generale ‘schema’ di cui all’art. 120 Cost., ossia quale strumento a presidio dell’unità dell’ordinamento giuridico.

Nello specifico, il potere di annullamento straordinario si sostanzia in un procedimento caratterizzato da una deliberazione del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro dell’Interno, previo parere del Consiglio di Stato; e nell’adozione del provvedimento finale tramite d.P.R. (detto procedimento è disciplinato dall’art. 2, comma 3, della l. 23 agosto 1988, n. 400). L’antecedente storico è costituito dall’art. 6 del ‘Testo Unico della legge comunale e provinciale’ (R.D. 3 marzo 1934, n. 383); anche se, ancor prima, già l’art. 114 del R.D. 30 dicembre 1923, n. 2839 (riproducendo, a sua volta, testualmente l’art. 164 del R.D. 12 febbraio 1911, n. 297) attribuiva al Governo del Re la facoltà ‘in qualunque tempo’ di dichiarare per decreto reale, sentito il Consiglio di Stato, la nullità degli atti o provvedimenti che contenessero « violazioni di leggi o di regolamenti generali o speciali ». Ci troviamo di fronte, pertanto, a un residuo delle prerogative monarchiche: il che ha posto molteplici problematiche nell’adattamento e nella ricerca di uno specifico fondamento costituzionale.

L’annullamento straordinario è un potere altamente discrezionale, sebbene presidiato da numerose cautele, in particolare procedimentali. Secondo parte della dottrina, proprio la richiamata ampiezza della discrezionalità spettante al Governo giustificherebbe una qualificazione del potere in commento in termini di funzione di c.d. ‘alta amministrazione’ piuttosto che di ‘controllo’ stricto sensu sugli enti locali.

Ad ogni modo, la Corte costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittime le disposizioni in materia di potere di annullamento governativo nella parte in cui consentivano l’annullamento (anche) degli atti delle Regioni e delle Province autonome[17].

Con parere del 7 aprile 2020, n. 735, il Consiglio di Stato si è da ultimo pronunciato in merito al noto provvedimento di annullamento governativo straordinario avente a oggetto l’ordinanza adottata dal Sindaco di Messina impositiva dell’obbligo di ottenere un previo nulla-osta rilasciato dall’amministrazione comunale per l’attraversamento dello stretto. La soluzione, di segno positivo, si è fondata sul principio di unitarietà dell’ordinamento giuridico, « […] a fronte di fenomeni di dimensione globale, quali l’attuale emergenza sanitaria da pandemia che affligge il Paese, dinanzi ai quali l’unitarietà dell’ordinamento giuridico, pur nel pluralismo autonomistico che caratterizza la Repubblica, costituisce la precondizione dell’ordine e della razionalità del sistema, in relazione ai fondamentali principi di solidarietà e di uguaglianza, formale e sostanziale, che ne rappresentano le basi fondative generali ». A tal fine, si è altresì rimarcato che il potere di annullamento straordinario del Governo è sì un controllo di legittimità, ma con alcuni profili che lo avvicinano all’amministrazione ‘attiva’: sia per la valutazione dell’interesse all’annullamento, sia per l’assenza di un termine per l’intervento straordinario[18].

f) Un’altra ipotesi riconducibile alla categoria dei controlli esterni sugli enti locali è rappresentata dai poteri di controllo esercitati dalle autorità amministrative indipendenti, e segnatamente dall’Autorità Garante per la Concorrenza e il Mercato (A.G.C.M.), dall’Autorità Nazionale Anticorruzione (A.N.AC.) e dall’Autorità di Regolazione dei Trasporti (A.R.T.).

In particolare, l’A.G.C.M. ha il potere di diffidare le amministrazioni a rimuovere – entro un termine stabilito – le violazioni riscontrate della disciplina in materia concorrenziale. Laddove le amministrazioni non ottemperino alla ‘diffida-parere’, l’Autorità potrà impugnare i relativi provvedimenti (art. 21-bis, comma 1, della l. 10 ottobre 1990, n. 287) avanti al giudice amministrativo. Questo potere è stato oggetto di un giudizio di costituzionalità[19], sollevato dalla Regione Veneto e risoltosi con declaratoria di inammissibilità, nell’ambito del quale l’amministrazione regionale ha sostenuto che si trattasse di una forma di reintroduzione dei controlli previsti dall’abrogato art. 125 Cost.[20].

I poteri di controllo dell’A.N.AC. sono invece disciplinati dall’art. 211, comma 1-bis, del vigente Codice dei Contratti Pubblici (d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50), ove si attribuisce a detta Autorità la possibilità di « […] agire in giudizio per l’impugnazione dei bandi, degli altri atti generali e dei provvedimenti relativi a contratti di rilevante impatto, emessi da qualsiasi stazione appaltante, qualora ritenga che essi violino le norme in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture »; il successivo comma 1-ter prevede un’analoga possibilità di impugnazione nel caso in cui la stazione appaltante non si sia conformata al previo parere dell’Autorità.

In argomento, la giurisprudenza amministrativa ritiene che la suddetta ipotesi di legittimazione ad agire sia stata conferita dalla legge all’A.N.AC. in vista degli « […] interessi e funzioni pubbliche che la legge affida alla sua cura; questi non hanno ad oggetto la mera tutela della concorrenza nel settore [concorrenza per il mercato], ma sono più in generale orientati – per scelta legislativa e configurazione generale di questa Autorità, come ricavabile dalle sue molte funzioni – a prevenire illegittimità nel settore dei contratti pubblici (tanto che la norma primaria dice solo che la ragione dell’azione sta nella violazione de «le norme in materia di contratti pubblici»), anche indipendentemente da iniziative o interessi dei singoli operatori economici o dei partecipanti alle procedure di gara (il cui interesse è piuttosto individuale, non generale come quello curato dall’Anac, ed è diretto al bene della vita connesso all’aggiudicazione, sicché esso – soprattutto nella fase della indizione della gara – non sempre coincide con gli interessi curati dall’Anac »[21].

Infine, sono meritevoli di approfondimento i poteri di controllo di cui dispone l’A.R.T. ai sensi dell’art. 36, comma 2, lett. n), del d.l. 24 gennaio 2012, n. 1 (conv., con modificazioni, in l. 24 marzo 2012, n. 27), che conferisce all’Authority di regolazione dei trasporti la legittimazione a impugnare, dinanzi al T.a.r. per il Lazio, gli atti amministrativi generali e puntuali adottati dagli enti locali in materia di servizio taxi.

In tutte queste fattispecie sembrerebbe che il legislatore abbia inteso trasformare il giudice amministrativo in una sorta di ‘controllore’, con conseguente alterazione del modello di giustizia amministrativa da giurisdizione in senso ‘soggettivo’ a giurisdizione ‘oggettiva’, con un ruolo delle autorità indipendenti simile a quello ordinariamente svolto nei sistemi giurisdizionali dal pubblico ministero.

g) Ancora, tra i controlli esterni sugli enti locali possono essere annoverati anche i poteri attualmente esercitati dal Ministro dell’Economia e delle Finanze ex art. 52, comma 4, del d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, e dal Ministro dell’Università e della Ricerca ex art. 6, commi 9 e 10, della l. 9 maggio 1989, n. 168.

Nel primo caso, il legislatore attribuisce al MEF la legittimazione a impugnare per qualsiasi vizio di legittimità i regolamenti comunali in materia di entrate tributarie; nella seconda ipotesi, invece, è conferita al M.U.R. la legittimazione a impugnare, dinanzi al giudice amministrativo e relativamente a vizi di legittimità, gli atti rettorali di emanazione degli statuti e dei regolamenti universitari difformi dai rilievi di legittimità rappresentati in sede di controllo preventivo.

h) Da ultimo, è utile ricordare le azioni popolari quali forme ‘diffuse’ di controllo esterno, della cui legittimazione è titolare sia il Prefetto, sia ciascun cittadino elettore ai sensi dell’art. 70 T.U.E.L.

Le azioni popolari sono funzionali a far valere, in sede giurisdizionale, la decadenza dalle cariche di sindaco, presidente della provincia, consigliere comunale, provinciale o circoscrizionale ovvero – nel caso dell’art. 9 T.U.E.L. – a esercitare in giudizio le azioni e i ricorsi spettanti al comune e alla provincia.

5. Riflessioni conclusive: il necessario recupero di sistematicità nella materia ‘frammentata’ (ma irrinunciabile) dei controlli esterni sugli enti locali.

Le diverse figure di controllo esterno, qui sommariamente analizzate, denotano una situazione di estrema e patologica frammentazione. Allo stesso tempo, tuttavia, la Costituzione non soltanto non impedisce i controlli esterni sugli enti locali, ma anzi li richiede siccome strumenti necessari alla tutela di valori fondanti quali l’unità dell’ordinamento giuridico, il principio di uguaglianza e la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali. In questa chiave, pare corretto ritenere che i suddetti controlli siano indispensabili dal momento che il principio autonomistico non può essere disgiunto dalla responsabilità degli enti locali.

Ciò premesso, la tassonomia proposta evidenzia l’assenza di un disegno ‘sistematico’ complessivo, stante il difetto di una disciplina generale sulla funzione amministrativa di controllo esterno diretta a definirne lo statuto giuridico da declinare – in concreto – nelle singole fattispecie di controllo in ragione delle rispettive peculiarità. Diversamente, le figure di controllo interno disciplinate dal T.U.E.L. dimostrano una maggiore omogeneità, che si traduce in una ‘visione d’insieme’ che – per quanto concerne i controlli esterni – era forse presente (sebbene con le criticità che si sono rassegnate) nella precedente esperienza dei Co.Re.Co.

La ‘frammentarietà’ della materia non è di per sé un male, ma è il riflesso dell’opera del legislatore che, a seguito della riforma del Titolo V, si è occupato dei controlli esterni in senso solamente contingente ed episodico. Il che è dipeso dalla necessità di far fronte a specifici obiettivi di tutela, volta a volta, di determinati valori o interessi, istituendo allo scopo enti o poteri di controllo ad hoc, laddove per riflettere sull’efficacia dei controlli esterni in termini di ‘macro-categoria’ o ‘funzione’ occorrerebbe considerarli in senso complessivo.

Uno strumento utile allo scopo potrebbe essere l’organizzazione di studi basati su censimenti empirici ed elaborazione di banche dati. In questo modo, si disporrebbe di parametri quantitativi e oggettivi per esprimere una valutazione circa l’effettività dei controlli e i rispettivi pro e contra, così da consentire alla dottrina e – più in generale – all’opinione pubblica di rassegnare un giudizio complessivo, altrimenti segmentato su singoli poteri a tutela di esigenze e valori specifici.

Un tema trasversale e attuale è, pertanto, quello della trasparenza sugli esiti dei controlli, al fine di evitare che questi si traducano in passaggi e adempimenti dalla valenza meramente burocratica (nell’accezione negativa del termine). È necessario dunque – anche ai fini della c.d. ‘accountability’ delle amministrazioni controllate – che si implementino sempre più forme di pubblicazione dei ‘referti’ o dei risultati dei controlli e che si attivino apposite sedi di discussione degli stessi, finalizzate altresì all’emersione delle correlate responsabilità.

In conclusione, dall’analisi svolta sembrerebbe possibile formulare la tesi dell’irrinunciabilità dei controlli esterni quale modello o funzione in senso lato, anche in contesti ordinamentali a forte autonomia, al fine di garantire le fondamentali esigenze rapportabili al principio di unità dell’ordinamento repubblicano. Il rischio, altrimenti, sarebbe quello per cui, anche in contesti caratterizzati da forti disuguaglianze economiche e sociali, si arrechi un grave ‘vulnus’ al principio di uguaglianza, sotto forma – ad esempio – di disuguale tutela in concreto dei diritti fondamentali nelle diverse aree geografiche del Paese. Il vero problema, dunque, è come conciliare, dal punto di vista del ragionevole equilibrio, le contrapposte esigenze del controllo affidato a soggetti esterni con quelle dell’autonomia degli enti locali.

Una possibile soluzione, anche in ottica c.d. de jure condendo, potrebbe essere quella di affidare i controlli esterni sempre più a organi ‘repubblicani’ (più che a corpi espressione del potere statale o regionale), aventi un’‘expertise’ altamente qualificata rispetto al parametro oggetto del controllo e una sufficiente indipendenza dal Governo, ferma restando l’extrema ratio del potere sostitutivo ex art. 120 Cost.

L’analisi qui condotta ha mostrato come la maggior parte dei vigenti poteri di controllo esterno possano essere ricondotti al modello del c.d. ‘controllo-affiancamento’, in quanto non interferenti con l’attuazione di uno specifico indirizzo politico-amministrativo dell’ente locale controllato, e in particolare non implicanti la sostituzione di una differente ‘linea politica’ elaborata dall’ente controllore. Si tratta, invero, di controlli esterni nell’ambito dei quali i controllanti agiscono in veste di ‘organi repubblicani’ (e non rappresentativi dello ‘Stato-persona’) al fine di garantire l’enforcement di fondamentali esigenze di unità ordinamentale o di particolari valori sensibili, e, così, evitare che un’autonomia intesa in senso ‘esasperato’ possa trasmodare in forme di disaggregazione e di isolamento.

Se quanto detto è vero, allora l’analisi della situazione attuale può dirsi soddisfacente, in quanto tutte le ipotesi di controllo esterno – fatta eccezione per quelle devolute a organi giurisdizionali – sono effettivamente attribuite a organi di rilevanza ‘repubblicana’ oppure al Governo, con la precisazione che, pur essendo quest’ultimo un organo politico, nell’esercizio dei poteri di controllo svolge una funzione ‘esponenziale’ a garanzia dell’unità dell’ordinamento giuridico circondata da un’importante ‘rete’ di limiti identificati ed elaborati dalla giurisprudenza costituzionale onde evitare ingiustificate compressioni del principio autonomistico.

Il tema dei controlli, come è evidente, impone la ricerca di punti di equilibrio. A tale riguardo, la prospettiva storica, qui presentata nelle sue ‘tappe’ essenziali, ha consentito di evidenziare l’evoluzione dei paradigmi che si sono succeduti nel nostro ordinamento: da un’enfatizzazione estrema del ‘centralismo’ nella fase immediatamente successiva all’Unità d’Italia, si è passati – per il tramite di un ‘moto di reazione’ – a un’implementazione del principio autonomistico (in particolare, per effetto della riforma del Titolo V). Si tratta ora di assestare il sistema in una posizione di ragionevole e proporzionato equilibrio tra gli artt. 5 e 114 Cost., intervenendo altresì sui controlli interni, onde garantirne l’effettività, ma al contempo mantenendo gli imprescindibili controlli esterni a presidio dei fondamentali interessi di unità nazionale nonché dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali.

  1. Professore ordinario di Diritto amministrativo presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.
  2. Cfr. l’art. 160 del R.D. 10 febbraio 1889, n. 5291, ove si disponeva che «l prefetto od il sottoprefetto esamina se la deliberazione: 1° sia stata presa in adunanza legale e con l’osservanza delle forme che la legge prescrive; 2° se con essa siansi violate disposizioni di legge ».
  3. Corte cost. 22 marzo 1967, n. 30.
  4. Questi organi – in conformità al ‘modello napoleonico’ – erano composti dal Prefetto, da due consiglieri di prefettura e da alcuni ragionieri.
  5. Corte cost. 3 giugno 1966, n. 55.
  6. Cfr. C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, Padova, 1991, 23 e ss., il quale definisce lo Stato come « […] l’ordinamento giuridico a fini generali esercitante il potere sovrano su un dato territorio, cui sono subordinati in modo necessario i soggetti ad esso appartenenti »; cfr., anche, Corte Cost. 26 gennaio 1957, n. 24, ove si affermava che « […] le persone giuridiche minori svolgono un’attività che interessa più o meno direttamente lo Stato o altre persone giuridiche pubbliche e i controlli servono appunto per vigilare ed intervenire, caso per caso, affinché l’ente si mantenga nei limiti della legge o perché vi ritorni o vi proceda se li abbia superati o trascurati. […] l’organo di controllo tutela in ogni singolo atto l’interesse dello Stato – o dell’ente che ha i poteri di controllo – alla legittimità e talora alla convenienza degli atti dell’ente controllato ».
  7. Cfr. l’art. 8 della Carta, ove è stabilito che « 1. Ogni controllo amministrativo sugli atti degli enti locali potrà essere effettuato solamente nelle forme e nei casi previsti dalla Costituzione o dalla legge. 2. Ogni controllo amministrativo sugli atti degli enti locali deve, di norma, avere come unico fine quello di assicurare il rispetto della legalità e dei principi costituzionali. Il controllo amministrativo può, tuttavia, comprendere un controllo di merito, esercitato da autorità gerarchicamente superiori, per quanto riguarda lo svolgimento di compiti, la cui esecuzione è delegata agli enti locali. 3. Il controllo amministrativo sugli atti degli enti locali deve essere esercitato nel rispetto di un equilibrio tra l’ampiezza dell’intervento dell’autorità di controllo e l’importanza degli interessi che essa intende salvaguardare ».
  8. In questo contesto, lo Stato può fissare i limiti generali di finanza pubblica, che costituiscono tetti di spesa complessiva per gli enti territoriali, a condizione che ciò non si traduca in vincoli tali da comprimere oltre misura l’autonomia degli enti locali con riferimento all’organizzazione interna e allo svolgimento delle funzioni loro attribuite.
  9. Cfr. Corte cost. 7 giugno 2007, n. 179.
  10. Cfr. Corte cost. 26 febbraio 2013, n. 60 e 6 marzo 2014, n. 39.
  11. Le modalità e i termini di esercizio del potere sostitutivo sono disciplinati in generale dall’art. 8 della l. 5 giugno 2003, n. 131. Per la specifica ipotesi di inadempienza agli obblighi di conformazione all’ordinamento europeo già acclarata con sentenza della Corte di Giustizia, l’art. 41, comma 2-bis, l. 24 dicembre 2012, n. 234, attribuisce al Governo un particolare potere sostitutivo laddove sia necessaria la tempestiva adozione di atti di competenza di più enti inadempienti. L’art. 117, comma V, Cost. attribuisce invece allo Stato il potere di ovviare alle omissioni delle Regioni nell’attuazione – con legge – degli obblighi comunitari.
  12. Cfr. Corte cost. 8 luglio 2004, n. 236 e 14 novembre 2008, n. 371.
  13. Cfr. Corte cost. 24 maggio 2005, n. 383.
  14. Sul tema cfr., nella giurisprudenza più recente, Cons. Stato, Sez. III, 3 luglio 2020, n. 4288, in relazione a un caso di mancata approvazione da parte di un Consiglio comunale del rendiconto annuale entro il termine normativamente imposto.
  15. Cfr. Corte cost. 13 marzo 2004, n. 44.
  16. Cfr. Corte cost. 24 luglio 2019, n. 195.
  17. Cfr. Corte cost. 21 aprile 1989, n. 229.
  18. Nel medesimo parere, il Consiglio di Stato ha avuto cura di rimarcare che « n presenza di emergenze di carattere nazionale, dunque, pur nel rispetto delle autonomie costituzionalmente tutelate, vi deve essere una gestione unitaria della crisi per evitare che interventi regionali o locali possano vanificare la strategia complessiva di gestione dell’emergenza, soprattutto in casi in cui non si tratta solo di erogare aiuti o effettuare interventi ma anche di limitare le libertà costituzionali ».
  19. Cfr. Corte cost. 14 febbraio 2013, n. 20.
  20. Di recente, T.a.r. Toscana, Sez. II, 8 marzo 2021, n. 363, ha accolto un ricorso presentato dall’A.G.C.M. ex art. 21-bis l. n. 287/1990 nei confronti della proroga di alcune concessioni demaniali marittime (il Comune di Piombino non aveva indetto la procedura selettiva per l’affidamento di una concessione per finalità turistico-ricreative con conseguente violazione dei principî europei in tema di concorrenza e della direttiva c.d. ‘Bolkenstein’).
  21. Cfr. Cons. Stato, Sez. V, 3 novembre 2020, n. 6787.