Brevi note sull’istituzione della giornata regionale del valore alpino

Gianni Oliva[1]

Va bene, istituiamo pure una giornata della memoria dedicata al sacrificio degli Alpini: lo meritano (anche se la nostra liturgia civile è ormai sovrabbondante di scadenze) per ciò che hanno rappresentato nella storia d’Italia e per i prezzi umani che hanno pagato nelle due guerre mondiali. Due dubbi, però, sull’iniziativa della Regione (l.r. 5 luglio 2022, n. 8, B.U. 7 luglio 2022, 1 suppl. al. N. 27). Il primo è legato alla sovrapposizione: nel momento in cui il Parlamento ha già istituito una data nazionale (26 gennaio), ha senso istituirne una regionale uguale e a ridosso (16 gennaio)? Il rischio del “doppione” è evidente: amministrazioni pubbliche, associazioni d’arma, mezzi di comunicazione, scuole a quale delle due dovranno fare riferimento?

Il secondo dubbio, più sostanziale, riguarda invece la data scelta. Il 16 gennaio, così come il 26, sono date che si riferiscono alla campagna di Russia del 1942-43, in particolare a momenti legati alla ritirata nella “sacca del Don” (dove il Corpo d’armata alpino lascia sul campo 43.580 uomini, tra morti, dispersi, congelati, feriti, oltre ad alcune migliaia di prigionieri, oltre il 60% degli effettivi). Pagine drammatiche, sofferte, tragiche, scritte con il sangue di una generazione di giovani cuneesi. Ma che cosa facevano gli Italiani in Russia nel gennaio 1943? Quale guerra combattevano? Di chi erano alleati? Ci siamo abituati a una narrazione del passato in cui la (giusta) commozione per le vittime ha fatto dimenticare la conoscenza della storia. Dal 10 giugno del 1940 all’8 settembre 1943 l’Italia fascista ha combattuto una guerra di aggressione contro la Francia, la Grecia, la Jugoslavia, la Russia, in Africa Settentrionale, in Africa Orientale; il Regio Esercito ha combattuto accanto alla Wehrmacht di Hitler per far trionfare un nuovo ordine europeo, nel quale non ci sarebbero più stati i confini tra le Nazioni ma le gerarchie tra i popoli (ebrei, rom, “asociali” destinati all’estinzione, slavi e mediterranei al lavoro, ariani al dominio); è una guerra che Mussolini ha dichiarato e che la folla di Piazza Venezia (e di tante piazze d’Italia collegate con gli altoparlanti dell’Eiar) ha salutato con grida di delirio quando il Duce ha detto “la dichiarazione è già stata presentata agli ambasciatori di Francia e di Gran Bretagna”; è una guerra che quegli stessi Italiani hanno pagato con i morti, i bombardamenti, la fame, il “pane nero”. Contro l’aggressione nazifascista gli Alleati hanno combattuto una guerra che, non a caso, è stata definita “guerra di civiltà” e che (almeno al mondo occidentale) ha regalato 80 anni di democrazia e di rispetto. Perché una data istituzionale, approvata in Consiglio regionale, deve riferirsi proprio a “quella” guerra fascista 1940-43? In quella guerra gli Alpini della sacca del Don sono state vittime del fascismo quanto i russi contro i quali combattevano.

Nel momento in cui si stabilisce una ricorrenza, non si può ignorare il contesto di riferimento. Amaramente, non penso neanche che da parte dei consiglieri regionali (o, per la data del 26 gennaio, da parte di deputati e senatori) ci sia stata malafede: c’è stata ignoranza della storia nazionale (e forse è ancora più grave). La memoria del sacrificio degli Alpini avrebbe avuto una data più naturale, equidistante da ogni equivoco: il 15 ottobre 1872 (esattamente 150 anni fa), quando il Re Vittorio Emanuele II firmò il decreto istitutivo delle prime quindici compagnie alpine. Stabilire la giornata della memoria del sacrificio e del valore degli Alpini esattamente nel giorno del 150^ anniversario della loro fondazione sarebbe stato gesto di rispetto per una storia complessiva e certamente avrebbe avuto carattere unitario. Fatta così, un’iniziativa lodevole rischia di trasformarsi in un’ulteriore occasione di polemiche sul passato. Non fa bene agli Alpini. Non fa bene a una coscienza storica nazionale (e regionale) sempre sospesa tra omissioni interessate, narrazioni sospette e appropriazioni ideologiche indebite.

  1. Prof. Gianni Oliva, storico, ex assessore alla cultura della Regione Piemonte, presidente del Conservatorio statale di Musica “Giuseppe Verdi”, Torino.