Il PNRR è un’occasione da non sprecare. Anche per le Regioni e gli Enti locali

Enrico Grosso[1]

Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza sarà il fattore condizionante l’intera attività di indirizzo politico (non solo si badi bene, di politica economica, ma di politica tout court) che verrà sviluppata in Italia, a tutti i livelli di governo, nei prossimi anni.

Gli effetti condizionanti saranno enormi e coinvolgeranno nel profondo le funzioni decisorie di ogni amministrazione pubblica, sia essa centrale o periferica, statale, regionale o locale. Si sta in questo modo realizzando – lo stiamo già vivendo – una vera e propria trasformazione nel modo di assumere le decisioni politiche. Si sta presumibilmente sviluppando – lo si vedrà soltanto in fase di esecuzione e “messa a terra” – una corrispondente trasformazione nel modo di dar loro attuazione. Questa, almeno, è l’aspettativa che il disegno complessivo presuppone.

Si tratta di un modo di assumere le decisioni che investe in modo prepotente il principio di “leale collaborazione” tra i livelli di governo. È un’attività necessariamente concordata, condizionata e condizionante. Il rischio è che sia condizionante esclusivamente “a cascata”, prevalentemente dall’alto verso il basso, dall’Unione Europea allo Stato, e da questo alle Regioni e agli Enti locali, che rischiano di restare schiacciati tra obblighi cogenti di attuazione e scarsità di strumenti organizzativi.

Il condizionamento di cui parliamo si riflette su due binari principali. Il PNRR impone in primo luogo alcune grandi “riforme di struttura” (le c.d. “riforme orizzontali”), essenzialmente di competenza statale (anche se non solo). L’Italia si è impegnata, in tale contesto, a realizzare la riforma del processo civile e penale (con lo scopo di ridurre i tempi dei processi e – auspicabilmente – anche il loro numero), quella della c.d. “crisi di impresa” e dell’insolvenza, quella della giustizia tributaria. Si è inoltre impegnata a intervenire sull’organizzazione complessiva delle funzioni amministrative, sviluppando la digitalizzazione delle procedure, modificando le norme sul reclutamento dei pubblici funzionari, snellendo le procedure di selezione per renderle più efficaci, favorendo il ricambio generazionale, e così via. L’obiettivo è quello di accrescere le capacità amministrative complessive a livello centrale e locale. Allo stesso gruppo di “riforme di struttura” (quelle c.d. “abilitanti”) appartengono gli impegni verso la promozione della concorrenza (attraverso l’approvazione di una “legge annuale per il mercato e la concorrenza”), la semplificazione e la razionalizzazione della legislazione in materia ambientale, edilizia, urbanistica e di rigenerazione urbana, nonché la semplificazione del sistema dei finanziamenti al Mezzogiorno e del sistema della regolazione.

Dall’altro lato, si prevede l’attivazione di una serie di “azioni” finanziate, nei settori che costituiscono le sei missioni individuate nel PNRR (transizione digitale, rivoluzione verde e transizione ecologica, infrastrutture, istruzione e ricerca, inclusione e coesione sociale, salute).

È a questo secondo binario – sul quale è stato confezionato un imponente piano di spesa pubblica come non si vedeva dal 1948 – che è affidata la maggiore quota di responsabilità delle autonomie territoriali.

Sia ben chiaro: è indiscutibile che il primo binario, quello delle riforme orizzontali, è indissolubilmente legato al secondo, quello delle singole azioni nei sei settori interessati. Il buon funzionamento del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, e con esso la speranza di rilancio dell’economia italiana dopo la pesante frenata causata da due anni di pandemia, dipende infatti direttamente dal modo in cui i singoli soggetti “attuatori” saranno in grado di interpretarlo, ma tale obiettivo in tanto sarà raggiungibile in quanto – in primo luogo – quei soggetti attuatori possano agire in un quadro normativo di sistema che ne faciliti (o almeno – come purtroppo avviene nel contesto normativo attuale – non ne ostacoli proditoriamente) l’azione.

Ma di certo la riforma della giustizia, o quella della pubblica amministrazione, non basterà. Sarà necessario che gli investimenti programmati nei sei settori individuati come strategici non vadano sprecati. Ed è qui che si pone la questione dei rapporti tra potere centrale e sistema delle autonomie, che può davvero segnare la differenza tra il successo e il fallimento.

Sul piano giuridico-costituzionale, il processo d’attuazione delle singole azioni dirette a realizzare gli investimenti auspicati pone una serie di interrogativi che investono prepotentemente il funzionamento della forma di Stato (ossia del corretto rapporto tra livelli di governo, in particolare sul versante dei rapporti fra lo Stato, le Regioni e le altre autonomie territoriali), della forma di governo (ossia del corretto rapporto, nell’individuazione e nel perseguimento dell’indirizzo politico, tra le assemblee politico-rappresentative e gli organi esecutivi e di governo), del sistema delle fonti del diritto.

Con riferimento, in particolare, alla forma di Stato, il modo in cui si assesteranno i rapporti tra lo Stato e le autonomie nella gestione del Piano investe prepotentemente il principio di “leale collaborazione” tra i livelli di governo. Leale collaborazione che, mi permetto di osservare, andrebbe rispettata nei due sensi. Per ora, invece, mi pare che – ancora una volta, dopo l’esperienza della gestione della pandemia – lo Stato abbia interpretato un ruolo di accentramento delle decisioni, riducendo ogni possibile spazio di autonomia agli altri livelli di governo (sfruttando l’inevitabile posizione di primazia ad esso spettante nella fase della negoziazione con i vertici dell’Unione Europea). Il che rischia di relegare Regioni e autonomie locali (non si sa quanto acquiescenti …) alla funzione di meri soggetti attuatori delle scelte e delle decisioni assunte prima a livello europeo e poi a livello governativo. Non si può ovviamente sottovalutare, sotto tale profilo, il problema di un’effettiva verifica della “capacità progettuale” dei livelli di governo periferici, ma tutto ciò rischia di accentuare un processo di riaccentrazione delle funzioni politiche strategiche di programmazione dello sviluppo territoriale, in realtà in atto da anni.

In altre parole, il modo in cui il PNRR è stato concepito e sviluppato, e soprattutto le modalità con cui esso rischia di essere attuato, potrebbe costituire la spia e la definitiva conferma di un’evoluzione (qualcuno dirà “una deriva”) verso una strutturale “ri-amministrativizzazione” delle funzioni regionali. È un processo di cui da tempo si parla e che sembrerebbe oggi confermato proprio dallo stretto ancoraggio del PNRR a una serie di stringenti vincoli europei, i quali ascrivono inevitabilmente allo Stato centrale il ruolo di referente e responsabile diretto di ogni singola fase di attuazione, con inevitabile “regressione” di tutti gli altri livelli di governo a meri “enti amministrativi” di esecuzione.

Ecco perché soprattutto le Regioni (ma in certa misura gli stessi Enti locali), che avrebbero in verità potuto rivendicare, assumere e appropriarsi di un ruolo essenziale nella declinazione in concreto del piano e che comunque sono in prima linea nella sua attuazione, devono saper cogliere la straordinaria occasione che è loro offerta. È ovvio che le modalità attraverso cui tali Enti si attiveranno, condizioneranno in maniera incisiva la stessa realizzabilità delle finalità previste a livello centrale.

È dunque in primo luogo indispensabile che le risorse messe a disposizione non siano disperse, che vengano adeguatamente identificate le priorità strategiche e che sia approntato l’indispensabile coordinamento tra i singoli soggetti che insistono sui medesimi territori.

In secondo luogo, quegli attori dovranno essere messi nelle condizioni di disporre delle forze organizzative adeguate, magari evitando la prassi largamente sperimentata di fare ricorso all’uso (o meglio, all’abuso) di quei poteri sostitutivi e di nomina di commissari ad acta che raramente hanno dato buoni risultati in precedenti esperienze.

Il PNRR offre, potenzialmente, una grande occasione: l’occasione di ridare centralità alle autonomie territoriali, se esse saranno capaci di meritarselo, in termini di efficienza e di efficacia di azione. Le autonomie possono ritagliarsi – sempre che effettivamente lo vogliano – un ruolo da protagoniste nel processo, qualora siano interessate a perseguire e realizzare in concreto (non solo nei manifesti politici) quell’obiettivo di solidarietà – inteso nei termini tante volte enunciati nello stesso PNRR di “coesione sociale e territoriale” – che molto spesso viene auspicato, ma che fino ad oggi si è perseguito a intermittenza, con crescenti difficoltà legate proprio alla denunciata scarsità di risorse finanziarie. Quelle risorse finanziarie oggi ci sono, forse persino in eccesso. Sta agli attori del governo regionale e locale, cui è affidato il delicato compito di gestire le molteplici opportunità di investimento e di sviluppo sociale ed economico sul territorio di riferimento che il PNRR mette in campo, non sprecare l’occasione.

È dunque indispensabile una riflessione critica sulle opportunità e sui rischi di questa gigantesca operazione di politica economica, e sulle vie che possano ragionevolmente portare a cogliere appieno le prime, e a scongiurare i secondi. Occorre che tutti gli attori siano consapevoli del fatto che – su questo terreno – si giocherà, nei prossimi anni, non solo – come è ovvio – il futuro economico del nostro Paese, ma anche in qualche misura l’assetto dei poteri pubblici e il rapporto rappresentativo tra quei poteri pubblici e le comunità sociali insediate sui nostri territori, che si attendono di essere guidate e accompagnate da quei soggetti verso nuove prospettive di sviluppo, in un momento particolarmente difficile, forse uno dei più difficili, della storia della Repubblica.

  1. Professore ordinario di Diritto Costituzionale, Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Torino.